loading...

Un futuro per il festino

Umberto Santino

Un futuro per il festino

Le polemiche suscitate dall’ultima edizione del festino di Santa Rosalia potrebbero servire per aprire una discussione su un evento che ormai fa parte della storia della città ma ogni anno ripropone, con maggiore o minore dispendio di risorse, riti e spettacolarizzazioni fondate più su un immaginario dato per scontato e immodificabile, che sulla ricostruzione di eventi reali.
Le intemperanze del nuovo regista dello show, le sacrosante proteste dei senzacasa, la latitanza del sindaco, le omelie dell’arcivescovo, che ha richiamato le inadempienze delle autorità ma pure la necessità di un impegno della comunità, sono già archiviate, come pure i servizi, i commenti, le memorie di altre edizioni, più o meno mirabolanti e lontane nel tempo, ma rimangono volutamente ignorati dati di fondo, che pure sono stati opportunamente richiamati da quel tanto che c’è di letteratura affidabile sulla santuzza, sulla peste, sul senso della festa, sull’identità storica o inventata della città.
Si dovrebbe sapere, ma si finge di ignorarlo, che di documentato sulla santa c’è pochissimo, quasi niente. Probabilmente vissuta tra il 1130 e il 1170, probabilmente eremita nei pressi della grotta di Monte Pellegrino, improbabile il suo soggiorno alla Quisquina (falsa l’iscrizione ritrovata nella grotta nel XVI secolo), mai analizzate le reliquie trovate scavando in un sepolcreto probabilmente rimontante alla presenza punica, falsa l’attribuzione della fine della peste all’intercessione della santa, dimenticata per secoli e riscoperta a ridosso della peste del 1624. Il bando in cui si proclamò estinto il “perfido male” è del 10 giugno 1626, quasi due anni dopo il ritrovamento delle “reliquie” e 16 mesi dopo il loro riconoscimento.
Il canovaccio tessuto dai gesuiti si fonda perciò su una serie di falsi e sarebbe ora di prenderne atto, dopo il libro di monsignor Collura, edito nel 1977 e non ristampato, e dopo altre pubblicazioni non banalmente agiografiche. Il 12 luglio scorso, nella chiesa finalmente restaurata di san Giovanni decollato, ripresentando il mio I giorni della peste, ne abbiamo parlato con lo storico Francesco Michele Stabile e il teologo Cosimo Scordato, entrambi sacerdoti. Il primo ha detto che in ogni caso, vere o false che siano le leggende sulla santa, non si riconosce in quel modello di santità, fatto di presunte origini nobiliari e di aspirazioni popolari, ma comunque fondato sulla fuga dal mondo e sulla riappropriazione in tempi di crisi verticale della vita comunitaria. Il secondo ha affermato che anche se fossero autentiche le reliquie custodite nell’urna argentea, la peste non finì per intervento divino, e che se in passato si è creduto che ogni male fosse punizione divina oggi nessuno può dare credito a questa interpretazione della malattia individuale o collettiva.
Chi scrive ha ricordato che a tentare di far fronte alla peste già nel 1575 fu un personaggio quasi totalmente dimenticato, il medico epidemiologo Gian Filippo Ingrassia che capì che la peste si diffondeva per contagio, quindi bisognava evitare gli assembramenti, e fu tra i primi in Europa a istituire i lazzaretti per separare i malati dai sani. Un evento straordinario per quei tempi, se si tiene conto che lo stesso Ingrassia nell’individuare le origini delle epidemie, genericamente ricomprese sotto la voce “peste” (il bacillus pestis è stato individuato solo nel 1894 da uno scienziato giapponese e da un altro svizzero, prima si chiamava con quel nome qualsiasi infezione che causasse un numero rilevante di morti), poneva l’accento sulle condizioni igieniche della città, sepolta sotto l’immondizia (panorama urbano non molto dissimile da quello attuale) in dissenso con la convinzione corrente che il male venisse solo da fuori, in particolare dall’Oriente incivile e infedele. E in ogni caso, se proprio è necessario che la città abbia un santo patrono, dopo la defenestrazione delle sante dei quattro canti, dopo il tentato rilancio di San Benedetto il Moro, dopo la folla di “santi patroni principali” e “ordinari”(Palermo ne conta a decine), perché non si indica come esempio un personaggio come padre Puglisi, che meno si presta a un rapporto devoto-patrono che qualche studioso ha definito di tipo clientelare-mafioso, fondato com’è sullo scambio grazia-festeggiamento?
Che vuol dire tutto questo: che bisogna abolire il festino? Certamente no, dato che fa parte della storia della città, ma avviare una politica culturale diversa. Meno incline alle mitizzazioni e più alla rivisitazione storica. Intesa meno all’effimero e allo spreco e più al duraturo e all’arricchimento del patrimonio culturale. Per esempio creando il Museo della città, di cui tanto si parla ma a cui nessuno pone mano, un ampio contenitore al cui interno dare spazio alle pesti e a Ingrassia, al culto rosaliano, dando ricetto ai carri attualmente abbandonati e in rottamazione, e ospitando il Memoriale della lotta alla mafia finora vanamente proposto dal Centro Impastato. E la festa? La festa può avere una sua rielaborazione, sobria e partecipata dalla popolazione di fedeli e non, con la riesumazione del carro a suo tempo costruito dall’architetto Rodo Santoro (non si sa che fine abbia fatto) e con spettacolarizzazioni che rievochino quelle vicende. Sarebbe un modo per rilanciare il festino, liberandolo da orpelli discutibili, spesso pacchiani e costosi, e da vere e proprie carnevalate o esibizioni circensi come quelle che si sono viste in anni recenti.
Capisco che scelte del genere andrebbero fatte in un contesto in cui stia a cuore l’identità storica della città e in cui i problemi vecchi e nuovi di Palermo, dalla mafia alla disoccupazione, alla casa, all’inquinamento, ai rifiuti, vengano affrontati seriamente e avviati a soluzione.
Un’amministrazione come l’attuale è incapace di costruire nuove strategie culturali e politiche. Cambiarla è la conditio sine qua non. Ma questo non riguarda solo il futuro del festino, ma quello della città, e non solo.