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Il governo e la lotta alle mafie

Umberto Santino

Il governo e la lotta alle mafie

Silvio Berlusconi si è autodefinito “il migliore presidente del Consiglio della storia dell’Italia unita” e il suo governo non passa giorno che non sbandieri il suo impegno nella lotta alle mafie, a cominciare dagli arresti dei latitanti. Poi, in seguito all’arresto di Domenico Raccuglia, l’imperdonabile carceriere del piccolo Giuseppe Di Matteo, si viene a sapere che la squadra catturandi della Mobile di Palermo è costretta ad anticipare di tasca propria le spese per potere svolgere la sua azione, che non ci sono i soldi per riparare i servizi igienici della palazzina che ospita la Mobile, per pagare missioni e straordinari, e ora arriva un emendamento alla finanziaria che prevede la vendita all’asta dei beni confiscati. Si aggiungano le quotidiane esternazioni contro le “toghe rosse”, che sarebbero quelle stesse che coordinano le indagini contro i boss, le vicende di Dell’Utri e ora di Cosentino, che a Porta a porta si è autodefinito “uomo di Berlusconi”, le limitazioni alle intercettazioni, lo scudo fiscale fondato sull’anonimato che non può non favorire un ulteriore aggravamento dell’evasione, la più alta d’Europa, e il riciclaggio del denaro di provenienza illecita, e si avrà un quadro tutt’altro che esaltante.
I sequestri e le confische dei beni dei mafiosi sono uno di punti più qualificanti della legge antimafia che costò la vita a Pio La Torre e della legge di iniziativa popolare n. 109 del ’96 che ha previsto l’uso sociale dei beni, consentendo lo sviluppo di un’economia legale ancora embrionale ma che potrebbe avere un impatto crescente in aree dominate dall’illegalità, non solo di matrice mafiosa. Spezzare questo circuito virtuoso e dare ai boss la possibilità di ritornare in possesso dei beni, poiché è fin troppo ovvio prevedere che questo succederebbe con la vendita all’asta, è un atto che si spiega perfettamente con una prassi ormai consolidata. Se in nome degli interessi del capo, che – va detto chiaramente – si è messo in politica per risolvere i suoi problemi economici e giudiziari, che contrariamente a quanto si dice erano cominciati ben prima della sua “discesa in campo”, la Costituzione viene archiviata e violentata, tanto è figlia dei soviet e dei vituperati “comunisti”, se l’illegalità viene legalizzata attraverso la catena delle leggi ad personam, se il capomafia Vittorio Mangano diventa un eroe, perchè ha taciuto sul suo ruolo ben diverso da quello di stalliere presso la villa di Arcore, non ci si può sorprendere ora di questo ultimo atto, com’è ormai costume inveterato introdotto surrettiziamente attraverso un emendamento. Metodo che va a braccetto con le continue richieste del voto di fiducia, riproposto per la privatizzazione dell’acqua.
La giustificazione che viene data è che in questo modo si impinguerebbero le scarsissime risorse previste per la giustizia. Ricordo che con la legge 6 agosto 2008, n. 133, si è costituito il Fondo unico giustizia, la cui gestione è stata affidata alla società Equitalia Giustizia; il Fondo dovrebbe gestire anche i beni mobili confiscati. Ora per finanziare la giustizia si vendono anche gli immobili confiscati e si decreta la morte del loro uso sociale. Le reazioni non sono mancate ma mi sembrano inadeguate. E ci sono i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili che da tempo ritengono che l’unico modo per ottenere i risarcimenti sia proprio la vendita dei beni, dato che lo Stato è in bolletta.
Un problema come questo dovrebbe essere l’occasione per ripensare la lotta alle mafie, ma non so se ci sono le condizioni per farlo. Le forze politiche di centrosinistra annaspano alla ricerca di un’identità perduta, la società civile è frammentata, l’associazione Libera continua a svolgere un ruolo significativo ma lacerazioni e contrasti che si potevano risolvere con prassi che dovrebbero essere normali nell’associazionismo democratico sono incancreniti, l’antiracket segna qualche punto a suo favore ma è ancora minoritario, nelle scuole, disastrate dalla Gelmini, si parla di una legalità più predicata che praticata. L’imbarbarimento della vita civile rischia di diventare irreversibile e fa da contesto ospitale del berlusconismo-leghismo, la secessione è già avvenuta, con un Nord sempre più lontano da un Sud sempre più inchiodato al sottosviluppo e al clientelismo, la Sicilia assiste impotente a schermaglie indecorose, mentre qualcuno pensa a una riedizione del milazzismo. In questo quadro, nonostante gli arresti e le condanne di capi e gregari, le mafie proliferano perché sono la faccia criminale di uno Stato e di una società che considera l’illegalità una risorsa e l’impunità uno status symbol.
Berlusconi fa il suo mestiere ed è perfettamente inutile rivolgere appelli perché receda da propositi fervidamente e impunemente perseguiti. Il consenso nei suoi confronti invece di diminuire cresce o si mantiene abbastanza alto. Se il fascismo, come diceva Piero Gobetti, era l’autobiografia della nazione, il berlusconismo lo è dell’Italia contemporanea, almeno di buona parte di essa. Molti italiani vorrebbero essere come lui: ricco, potente, tombeur de femmes, guascone, barzellettiere sui palcoscenici nazionali e internazionali. Fini sta cercando di slegarsi da un abbraccio mortifero ma non è certo l’alternativa. La lotta alla mafia non può non essere un tema nodale per una strategia di salvaguardia e consolidamento della democrazia nel nostro Paese ma tutto questo richiede una capacità di legare insieme valori che rischiano di svuotarsi sempre di più e bisogni crescenti ma senza adeguata rappresentanza. E se si perde anche questa occasione per creare una mobilitazione vincente che ottenga l’incremento dei beni confiscati e una rapida assegnazione per il loro uso sociale, il futuro diventerà una fotocopia di quel che stiamo vivendo.

Pubblicato su “Repubblica Palermo”, 20 novembre 2009, con il titolo: “All’asta i beni confiscati: un altro colpo all’antimafia”