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Il Mezzogiorno tra dominio criminale e progetto di liberazione

Umberto Santino

Il Mezzogiorno tra dominio criminale e progetto di liberazione

Premessa

Premetto che la mia conoscenza di don Milani è molto limitata. Ho letto a suo tempo La lettera a una professoressa e il libro con le lettere edito da Mondadori; il ricordo più vivo che ho della sua opera è legato alla campagna per l’obiezione di coscienza che gli valse il processo penale. Per quei tempi un atto rivoluzionario e scandaloso che ha contribuito a farne un personaggio dirompente in un paesaggio in cui gli atti di ribellione non erano isolati ma neppure consueti.
La relazione che mi è stata chiesta è un po’ troppo ampia, quasi smisurata se si tiene conto dell’abbondanza della letteratura che si è andata accumulando sull’argomento. Qui mi limiterò ad alcune riflessioni su alcuni temi che ritengo fondamentali, soprattutto per stimolare un dibattito. Mi soffermerò sui seguenti punti: comincerò con un breve promemoria sulla questione meridionale, seguiranno alcune osservazioni sulle recenti riflessioni sul cosiddetto “pensiero meridiano”, quindi traccerò un quadro dei fenomeni di criminalità organizzata e concluderò con alcune indicazioni per un possibile progetto alternativo ricavate da esperienze recenti.

Dalla “questione meridionale” alla “liberazione dal meridionalismo”

Com’è noto la nascita di una questione meridionale si fa rimontare alla formazione dello Stato unitario. Nel contesto nazionale il Mezzogiorno viene rappresentato come altro dal resto d’Italia: se il Nord è europeo il Sud è greco e mediterraneo, se il Nord è sabaudo il Sud è borbonico, se il Nord è urbanizzato e industriale il Sud è contadino…
L’immaginario collettivo che si forma nei primi decenni di Stato unitario è dominato dalle immagini che arrivavano dal Sud dove era in atto la guerra contro il brigantaggio: briganti e brigantesse posavano per i fotografi che decidevano pose e abbigliamenti in modo da farli passare per dei primitivi assetati di sangue. E Lombroso avrebbe dimostrato che dalla misurazione dei crani dei briganti meridionali risultava una predisposizione al delitto che marcava una diversità di razza. Si sarebbe così formata e affermata l’immagine del Sud “inferno terrestre” o “paradiso naturale abitato da diavoli”. Un marchio di natura antropologica.
Benedetto Croce, in una conferenza alla Società napoletana di Storia patria, del giugno del 1923, ripercorreva il cammino dell’espressione secondo cui il meridione è un “paradiso abitato da diavoli”, forse d’origine trecentesca e più recentemente usata da uno studioso tedesco, Andrea Bühel, in una conferenza all’università di Altdorf dell’11 novembre 1707. E nel cercarne le motivazioni indicava l’anarchia feudale del regno di Napoli, le carenze della vita civile e politica come connotazioni negative rispetto all’Italia centrale e settentrionale1. Da allora l’inferno meridionale ha fatto strada, fino ad arrivare ai nostri  giorni2.
Più che di un’idea nata da un’analisi, si tratta di una rappresentazione (ma la ricerca di Croce di elementi su cui essa si è fondata non era infruttuosa) e non per caso negli ultimi anni si è parlato di decostruire la questione meridionale, cioè di svelarne la sua natura di costruzione ideologica tendente a rappresentare il Sud come un coacervo di negatività. Il Mezzogiorno è stato, di volta in volta, arretrato strutturalmente, semifeudale e privo di una borghesia moderna e di uno spirito d’impresa, amoralmente familista, individualista, clientelare, mafioso e criminale3.
Non sono mancate rappresentazioni diverse. Si portano gli esempi di Gramsci e Dorso che riportavano i problemi del Meridione al quadro complessivo dei rapporti di dominio e di classe, alla vicenda risorgimentale vista come conquista regia, o di Sturzo che ne dava una valutazione positiva come depositario di valori familiari, culturali e religiosi in antitesi al socialismo internazionalista.
Ma l’idea più diffusa e radicata è rimasta quella dell’inferno meridionale o comunque dell’altro rispetto al resto del Paese.
Gli studi più recenti hanno cercato di “liberare il Sud dal meridionalismo”, facendo emergere al posto di un Sud omogeneo un Sud a macchia di leopardo, cioè una realtà differenziata al suo interno. Questi studi si sono sviluppati in un contesto in cui la chiusura della Cassa per il Mezzogiorno (1950-1992) determinava la fine dell’intervento straordinario, che aveva visto il succedersi di fasi diverse (dalle politiche miranti alla costruzione di infrastrutture a quelle sulla creazione dei “poli di sviluppo”, alla programmazione e ai “progetti speciali”) e si era concretato in un enorme impiego di risorse che aveva cementato il dominio sul territorio del partito di maggioranza relativo, fondato sull’estensione e articolazione delle reti clientelari. Un cinquantennio di dominio democristiano che aveva avuto nel Sud uno dei pilastri portanti.
Negli ultimi anni le spiegazioni che possono considerarsi paradigmatiche non sono molte. Si è parlato di “sviluppo senza autonomia” (Trigilia), di “Mezzo giorno e mezzo no” (la rivista “Meridiana”), di un Mezzogiorno afflitto da mancanza di civicness (un filo lungo che va da Banfield a Putnam) e rappresentabile come Gemeinshaft rurale contrapposta a una Gesellshaft urbana.
Il sociologo Carlo Trigilia ha studiato gli “effetti perversi” delle politiche per il Mezzogiorno che hanno prodotto una realtà caratterizzata da un’eccessiva dipendenza dalla politica, dall’intervento pubblico, e ha considerato il meridionalismo come un’ideologia rivendicativa, fondata sul dato economico, con la sottovalutazione dei fattori socio-culturali e politici.
Negli anni ’90 ci sarebbe stata un’occasione storica, con la formazione di una nuova classe politica, grazie all’adozione del sistema elettorale maggioritario e all’elezione diretta dei presidenti regionali e dei sindaci. E si sarebbe profilata un’alternativa, attraverso lo sviluppo fondato sulle risorse locali, sulle business communities, sul ruolo della società civile, sul decentramento, sulla riqualificazione dei servizi pubblici, a cominciare dalla scuola4. Resta da vedere quanto di queste potenzialità siano state spazzate via dall’ondata di berlusconismo che ha travolto anche le amministrazioni di sinistra più storiche e radicate.
Il gruppo redazionale della rivista Meridiana ha evidenziato un Mezzo giorno ricco di dati positivi. Qualche esempio: nel Sud è localizzato il 60% dell’industria automobilistica nazionale, la concentrazione più elevata d’Europa (dovuta al basso costo del lavoro), e si sarebbe formato un tessuto produttivo in crescita e autonomo. L’altra faccia della medaglia è un Mezzo no, e l’esempio più significativo di questa negatività è dato dal tasso di disoccupazione elevato. Alcuni dati relativi al 1995: al Centro-Nord i disoccupati erano l’8,3%, nel Mezzogiorno il 21,7%. In testa era la Campania con il 26,2, seguivano la Calabria con il 23,6, la Sicilia con il 23,0, la Sardegna con il 22,2, la Basilicata con il 18,8, la Puglia con il 17,5, il Molise con il 17,2, l’Abruzzo con il 10,1. Per le città avevamo il 30 a Napoli, il 32,5 a Enna.
Anche il tasso di attività della popolazione meridionale registrava uno scarto rispetto al resto del Paese: al Sud era il 35%, nel Centro-Nord il 43,1. Molti residenti nell’area meridionale non cercavano occupazione e quindi il tasso di disoccupazione reale nel Sud era ancora più elevato: 33%. Un terzo del lavoro era in nero5.
Una pesante ipoteca caratterizza la vicenda dell’industrializzazione della Sicilia e del Mezzogiorno. Dall'”industrializzazione senza sviluppo” dei poli chimici di Gela, di Augusta, di Milazzo, che hanno ridotto la Sicilia a pattumiera d’Europa e indotto malattie professionali e malformazioni alla nascita, al “modello Melfi”, con la “fabbrica integrata” che richiede prestazioni logoranti e relazioni sociali alienanti6.
Da alcuni anni è in atto un processo di deindustrializzazione, il cui caso più noto è Bagnoli, e che minaccia di estendersi anche ad altri insediamenti come la Fiat di Termini Imerese, mentre il polo operaio più consistente di Palermo, il Cantiere navale, attraversa una crisi permanente.
I dati pubblicati nel rapporto SVIMEZ del 2006, registrano, a fronte di un ristagno in tutta l’Italia, una recessione nel Mezzogiorno7. L’occupazione tra il 1997 e il 2002 era cresciuta di 450 mila unità, ma negli ultimi anni è diminuita di 69 mila unità. I dati 2004-2005 sugli occupati sono i seguenti: in Campania -34,4, in Calabria -16,7, in Puglia -13, ci sono stati incrementi solo in Abruzzo e in Sicilia.
In termini di crescita economica, essa è più accentuata nei Paesi dell’Unione europea, soprattutto in quelli entrati da poco (Europa a 25) che nelle regioni meridionali. I nuovi Paesi esercitano una forte pressione competitiva (sul costo del lavoro in particolare) e le politiche comunitarie dovranno tenere conto sempre di più delle aree sottosviluppate dei nuovi Paesi. La vecchia “questione meridionale” nelle sue componenti strutturali (disoccupazione, lavoro nero e precario, deficit di servizi) è già diventata la questione dei Sud del mondo all’interno dei processi di globalizzazione.
Il rapporto ISTAT del maggio 2007 è venuto a confermare che il divario Nord-Sud permane e si aggrava: su vari terreni (occupazione, produttività, reddito) le situazioni migliori del Sud sono inferiori a quelle peggiori del Nord. Le famiglie lombarde hanno il reddito medio più alto (32 mila euro), quelle siciliane il più basso (21 mila euro); 7 su 10 dei 2,5 milioni di famiglie sotto la soglia di povertà sono nel Sud; la disoccupazione è all’11 % nel Nordest, al 34,3% nel Sud8.

Accanto alle ipotesi decostruttive di un immaginario sedimentato convivono visioni che rappresentano il Mezzogiorno come una riserva di modelli culturali datati ma ancora vitali. Penso in particolare a una linea analitica che dagli anni ’50 arriva fino ai nostri giorni: è quella improntata al “familismo amorale” di Banfield, aggiornata nella versione di Putnam della “mancanza di senso civico”9. Il Mezzogiorno sarebbe affetto da una sorta di malattia morale: non esisterebbe una morale pubblica, una cultura dell’associazionismo e della convivenza civile; comportamenti e mentalità sarebbero improntati al culto della famiglia, per di più ristretta, e al più gretto individualismo. La storia dei grandi movimenti di massa che hanno caratterizzato in particolare la Sicilia, totalmente ignorata da ricercatori dommaticamente fedeli al verbo americano, è una netta smentita di questi stereotipi che continuano a circolare non solo nelle elaborazioni degli studiosi ma pure nell’immaginario dei media10.
Dentro questa linea si collocano anche i riferimenti alle categorie di Tönnies che distingueva tra Gemeinshaft (comunità) e Gesellshaft (società), intendendo con la prima una forma di “vita reale e organica”, e con la seconda una “formazione ideale e meccanica”11: il Mezzogiorno sarebbe ancor’oggi abbarbicato a una sorta di stato di natura e sarebbe lontano dalle forme societarie evolute.

Il “pensiero meridiano”

Com’è noto il sociologo Franco Cassano ha proposto un rovesciamento dell’immaginario consueto che vuole il Sud come oggetto passivo e ha analizzato un Sud soggetto del pensiero12. Bisogna uscire dalla dicotomia paradiso turistico e incubo mafioso, faccia legale e illegale della subalternità. Dobbiamo recuperare in positivo il Sud: la sua storia, la sua collocazione geografica, la sua cultura, i suoi modi di vivere e di essere, la lentezza ecc.
Su questa falsariga si muove anche il filosofo Mario Alcaro che nel ricostruire l’identità meridionale, tramuta le tradizionali “piaghe del Sud” nelle sue virtù: la pratica del dono, il senso della famiglia, della parentela, del vicinato, della comunità sono considerati radice ed espressione di uno spirito civico, cultura e prassi della democrazia13.
Un ex leader della sinistra extraparlamentare degli anni ’60 e ’70, Franco Piperno, ha tessuto un “elogio dello spirito pubblico meridionale”, partendo da una premessa: l’esodo semantico, cioè la fuga dai luoghi comuni. Il Sud vivrebbe una condizione analoga a quella dei paesi dell’Est dopo il crollo del socialismo. Viene portato l’esempio della produzione criminale intesa come “cooperazione lavorativa gestita e controllata attraverso l’uso della violenza” e si sostiene che la fase dell’accumulazione originaria, presente in tutte le società, nel Sud italiano viene penalizzata dalla legislazione nazionale in una misura sconosciuta negli altri Paesi in corsa verso il capitalismo, in cui il passaggio degli imprenditori criminali alla borghesia sarebbe avvenuto nell’arco di una generazione. Altrove non si è impedito il riciclaggio del denaro sporco, nel Mezzogiorno invece si pagherebbe il costo aggiuntivo di una borghesia allo stato nascente in perenne stato di illegalità. Una lettura frettolosamente ideologica che ignora che il passaggio dall’illegalità alla legalità è potuto avvenire in società come quella americana in cui il mercato legale offre notevoli convenienze e che la mafia siciliana e le altre mafie italiane hanno saputo inserirsi nel mercato capitalistico utilizzando le ingenti risorse dell’accumulazione criminale, ben oltre la fase dell’accumulazione originaria, fino all’attuale fase di globalizzazione del mercato e dei capitali. Le proposte si racchiudono in una sorta di manifesto del “potere alle città e della potenza ai cittadini” che dà per scontata e auspicabile la dissoluzione dello Stato nazionale14.
L’economista e organizzatore sociale Tonino Perna ha parlato di un Sud non schiacciato dalla dicotomia sviluppo-sottosviluppo, oltre la visione economicistica che vede lo sviluppo come crescita del prodotto interno lordo, ma aperto e plurale, ricco di valori storici e attuali, e di un “bisogno di Sud” vivo nel resto del Paese, mortificato da una religione del successo sempre più deludente15.
Questi approcci costituiscono uno dei tentativi più rilevanti di uscire dalle secche tradizionali del meridionalismo piagnone e depresso o pateticamente rievocativo di un passato di glorie monumentali. In Sicilia abbiamo versioni sedimentate, sotto forma di un sicilianismo patriottico, spesso coinvolto nell’apologia o nella negazione dello stesso fenomeno mafioso, assunto a panoplia di valori tradizionali (l’onore, la famiglia, l’ipertrofia dell’io), o nella variante letteraria della sicilitudine (il modo siciliano di vivere e di sentire), da cui spesso è originata quella che ho chiamato sicilianite, una sorta di sindrome depressiva diffusa che porta a considerare tutto ciò che si inscena nell’isola come negativo in radice e destinato inguaribilmente alla disfatta, mentre al di là dello Stretto tutto sarebbe normale e positivo16.
Non senza ragione si è osservato che in questo neomeridionalismo si avverte la presenza di un certo “antimodernismo post-modernista”, all’insegna del recupero di valori dimenticati17. Personalmente ritengo che ci sia il rischio di varare un altro stereotipo, quello della meridionalità e della mediterraneità sempre e comunque intese come positività. Bisogna chiedersi: cos’è stato e cos’è in realtà il Mediterraneo? Una sorta di condominio abitato da condomini eguali e rispettosi l’uno dell’altro, un mare di dialogo e di pace, un ponte tra culture diverse o al contrario un’area di conflitti, storici e attuali, più frontiera che ponte, con Paesi rivieraschi diversissimi per economia, cultura, religione? Propendo più per la seconda ipotesi che per la prima18.

Fenomenologia del dominio criminale

Alcuni dati sulla consistenza delle principali organizzazioni criminali: Cosa nostra conta 5.500 affiliati su una popolazione della Sicilia (al 2005) di 5.021.000 abitanti: c’è un mafioso ogni 903 abitanti, il giro d’affari del crimine mafioso sarebbe di 30 miliardi di euro. La ‘ndrangheta ha 6.000 affiliati su una popolazione della Calabria di 2.077.000: c’è un affiliato ogni 345 abitanti, il giro d’affari sarebbe di 35 miliardi. Gli affiliati alla camorra sono 6.700, su una popolazione della Campania di 5.788.000 abitanti: un camorrista ogni 840 abitanti, il giro d’affari di 28 miliardi. La Sacra corona unita conta 2.000 affiliati, la popolazione della Puglia è di 4.077.000 abitanti: c’è un affiliato ogni 2.000 abitanti.
Il problema è se questi fenomeni di criminalità organizzata si limitino ai dati sopra richiamati. Il modello mafioso siciliano, che è il più storico e complesso, vede i criminali di professione agire dentro un sistema di relazioni, un blocco sociale transclassista, che va dagli strati più bassi agli strati più alti, in cui la funzione dominante è svolta da rappresentanti del mondo delle professioni, dell’imprenditoria, della pubblica amministrazione, della politica e delle istituzioni, definibili come “borghesia mafiosa”. Questo modello è in qualche modo utilizzabile anche per altri gruppi che presentano aspetti specifici, storici e attuali.
È indubbio che i fenomeni di criminalità organizzata, prima presenti in aree limitate, negli ultimi decenni si sono estesi a quasi tutto il Mezzogiorno. In essi convivono sopravvivenze arcaiche e modernizzazione reale.
Perché il Mezzogiorno è la fabbrica delle mafie? Nei miei studi ho parlato di “società mafiogena”, indicandone le caratteristiche principali19. Li riassumo: buona parte della popolazione considera violenza e illegalità come mezzi di sopravvivenza e canali per l’acquisizione di un ruolo sociale, inaccessibile per altre vie; l’economia legale non offre opportunità adeguate; le istituzioni sono viste come mondi lontani e chiusi, abbordabili soltanto attraverso la mediazione delle organizzazioni criminali e dei loro amici; nel sentire comune prevale l’idea dell’inutilità delle lotte e domina la cultura della sfiducia e del fatalismo; il tessuto di società civile è fragile e precario e nei comportamenti quotidiani l’aggressività è la norma e vige la solidarietà nell’illegalità.
Queste caratteri propri del villaggio originario negli ultimi decenni si sono estesi al villaggio globale, come prodotto di alcuni aspetti fondamentali della globalizzazione capitalistica. Nel contesto della globalizzazione gli squilibri territoriali e i divari sociali tendono ad aggravarsi (il 23 per cento della popolazione mondiale consuma l’80 per cento delle risorse), e per molte aree del pianeta (l’Africa, l’America latina, gli ex paesi socialisti ecc.) l’unica risorsa disponibile è il ricorso all’accumulazione illegale; l’economia produttiva si è drasticamente ridotta e si è espansa l’economia finanziaria, con miliardi di dollari in circuitazione permanente alla ricerca di sbocchi speculativi. Il sistema finanziario è sempre più opaco, con l’introduzione di nuove forme di raccolta e impiego dei capitali (le innovazioni finanziarie), ed è diventato sempre più difficile distinguere flussi di capitale illegali e legali. In questo quadro l’unico “valore”, radicato e diffuso, è il successo a ogni costo e con tutti i mezzi, a cominciare da quelli illegali con la conseguente ricerca dell’impunità come forma di legittimazione e status symbol. Queste caratteristiche determinano la forte criminogenicità dei processi di globalizzazione, sia nei centri, trasformati in supermercati dell’iperconsumo, che nelle periferie, dove si accalcano le masse degli esclusi e degli emarginati, pronti a imboccare le vie di fuga dell’emigrazione clandestina, offerte da gruppi criminali emergenti.
Le mafie proliferano all’interno di questi processi, in cui si incontrano le nuove forme dello sviluppo e del sottosviluppo, con un’accumulazione illegale cresciuta a dismisura e con un associazionismo criminale capace di assicurare ruoli e potere, fino a coincidere in molti casi con le formazioni statali, vere e proprie criminocrazie o Stati-mafia. Tutto ciò non vuol dire che si sia formata una sorta di Supermafia o Piovra universale; ci sono vari gruppi, storici e nuovi, che convivono dividendosi il lavoro e nonostante la forte conflittualità interna di parecchi gruppi finora è prevalsa la convivenza pacifica.
A fronte di questa realtà il vecchio paradigma eziologico che riportava la formazione della mafia e di altri gruppi criminali alla “deprivazione relativa” non può non tenere conto dell’ipertrofia delle opportunità che offrono le attività criminali e illegali, capaci di sfruttare tanto le occasioni offerte dalle distorsioni dello sviluppo che quelle dell’emarginazione e della periferizzazione.
Se vogliamo riportare il discorso a due regioni-chiave del Mezzogiorno, la Sicilia e la Campania, vengono a galla sintonie e distonie. Nelle due regioni operano organizzazioni criminali storiche che presentano notevoli differenze. Cosa nostra siciliana è strutturata in forme rigidamente gerarchiche, anche se la dittatura imposta dai cosiddetti corleonesi negli ultimi anni si è andata attenuando e si è tornati a forme collegiali collaudate storicamente.
La camorra, anzi le camorre, sono gruppi pulviscolari, in guerra permanente tra loro. Di recente Isaia Sales ha operato un raffronto tra la mafia, così com’è definita nel mio “paradigma della complessità”20,, e la camorra, pervenendo al seguente risultato: la mafia siciliana è organizzata, ha una regia unitaria e una strategia condivisa, la camorra non ha gerarchie, non ha regia né strategia unitaria; anch’essa agisce all’interno di un contesto relazionale radicato nei vicoli, nei quartieri, nelle periferie di Napoli e attorno alla città; anch’essa ha come finalità l’accumulazione e la gestione del potere, ha un codice culturale e gode di un certo consenso sociale, ma non c’è un’estesa borghesia camorristica “in quanto l’integrazione tra camorristi e l’insieme della società circostante è meno agevole e trova più barriere che in Sicilia”. La “signoria territoriale” della camorra è totale ma si diluisce al di fuori del territorio in cui è insediata e “l’intreccio con le istituzioni è meno forte e duraturo nel tempo”. Essa “resiste e prospera anche senza un rapporto organico con la politica. Ha bisogno di godere della tolleranza delle istituzioni dello Stato per dominare sui mercati illegali, ma non può vantarne un intreccio stabile. Fanno eccezioni a questo schema alcune bande di camorra della provincia di Napoli, Salerno e Caserta, le cui somiglianze con la mafia sono maggiori”21.
Non c’è una saldatura tra camorra cittadina e provinciale e la violenza, invece che configurarsi come omicidio-progetto ed essere regolata da un governo centrale, è espressione di un’anarchia criminale e dà luogo a una guerra permanente. Nella metropoli partenopea, la camorra sarebbe “uno dei risultati del mancato riassorbimento nella modernizzazione urbana dei ceti sottoproletari di massa”22.
C’è da chiedersi se la pervasività della camorra nel mondo degli affari, per esempio nella ricostruzione dopo il terremoto dell’Irpinia, non sia il frutto di una forte interazione tra camorra e soggetti imprenditoriali e quanto pesi questa interazione sul quadro amministrativo e istituzionale23. Per quanto riguarda il sottoproletariato urbano l’inserimento nei gruppi camorristici è una forma di modernizzazione, l’unica possibile, o la più conveniente, in un contesto sociale che non offre grandi possibilità, soprattutto dopo lo smantellamento dell’apparato industriale. E questo non vale solo per Napoli, vale pure per Palermo e per la Sicilia.
Sul piano politico, mentre in Sicilia dopo il grande flusso migratorio degli anni ’50 e ’70, in seguito alla sconfitta delle lotte contadine, si è imposta una sorta di regime prima democristiano e ora del centrodestra, in Campania le forze del centrosinistra governano regione, province e grandi città come Napoli, ma non riescono a far fronte ai problemi del territorio, dall’esplosione della violenza criminale alla pervasività della camorra, dallo smantellamento del tessuto produttivo (esemplare il destino dell’Italsider di Bagnoli) all’emergenza permanente dei rifiuti.
Questo quadro non vuole avallare l’immagine dell’inferno irredimibile24 e va completato con quel tanto che si è riusciti e si riesce fare, per esempio sul piano dell’impegno dei gruppi organizzati di società civile. Su vari terreni: da quello culturale all’antiracket.

Esperienze e proposte per un progetto di liberazione

Nella mia Storia del movimento antimafia indicavo tra le principali iniziative degli ultimi anni, sviluppatesi con una certa continuità, il lavoro nelle scuole, l’associazionismo antiracket, l’uso sociale dei beni confiscati. Ne indicavo anche i limiti: le attività scolastiche di “educazione alla legalità” hanno alla base un’idea emergenziale delle mafie, legata all’escalation nell’uso della violenza e soprattutto ai grandi delitti e alle stragi che hanno scosso l’opinione pubblica, sono caratterizzate da una concezione formalistica della legalità (il rispetto delle leggi, a prescindere dal loro contenuto) e rimangono separate dai programmi curricolari. L’associazionismo antiracket è stato finora limitato territorialmente e numericamente, mentre estorsioni e usura si sono estese a tutto il territorio nazionale. L’uso dei beni confiscati è alle prime esperienze, con un numero ridotto di cooperative e di beni da usare, con tempi lunghissimi per l’assegnazione, mentre rimane inesplorato l’immenso patrimonio finanziario.
In ogni caso un progetto che miri alla liberazione dalle mafie non può che essere parte di un progetto più generale di rinnovamento sociale che abbia come basi una conoscenza adeguata, un programma di sviluppo delle comunità fondato sull’uso razionale delle risorse, sul controllo delle istituzioni e la partecipazione democratica in forme capillari e permanenti. Le tematiche sull’antimafia integrata, l’antimafia sociale, la cittadinanza attiva rimandano a un nuovo modo di concepire e di vivere la cittadinanza che vada oltre i rituali elettorali e si ponga come alternativa concreta alle sempre più diffuse tentazioni di rilasciare deleghe in bianco a presunti liberatori. Ho racchiuso queste considerazioni nelle pagine finali del mio Oltre la legalità, destinato soprattutto agli insegnanti e agli operatori sociali, in cui parlo di Stato diffuso, di economia sociale, di ridefinizione della quotidianità, di etica comune.25
Provo a enuclearne i contenuti specifici. Per “Stato diffuso” intendo “una struttura del potere articolata e non concentrata, basata su un nuovo concetto di cittadinanza, fondato non sulla delega ma sull’impegno e la partecipazione diretta e sostanziato da una continua tensione per l’affermazione dei diritti sociali”. Democratizzare il potere vuol dire in primo luogo legalizzarlo, cioè decriminalizzarlo e visibilizzarlo, espellendo qualsiasi fenomeno di criminalizzazione delle istituzioni, tagliando qualsiasi rapporto tra politica e mafia, operando in modo che non abbiano a riprodursi né l’interazione con il crimine né l’opacità di settori istituzionali, come i servizi segreti, che sono all’origine di stragi e di delitti che hanno condizionato la vita democratica del nostro Paese, non solo del Mezzogiorno, e ne hanno cagionato l’impunità. In questa prospettiva bisognerà coniugare democrazia rappresentativa e democrazia diretta, risanando la prima da vizi ormai inveterati, come le spese per campagne elettorali sempre più dominate dalle forme più deteriori della pubblicità ingannevole, istituendo forme di verifica e di controllo da parte dei cittadini; organizzando la società civile e costruendo strutture stabili e dotate di poteri reali, per fare uscire la seconda dalla precarietà e dal velleitarismo delle buone intenzioni. Facevo l’esempio del controllo democratico del territorio, in alternativa a forme di giustizialismo espresso da iniziative come le ronde di quartiere dettate da concezioni più o meno razzistiche e xenofobiche. In territori come i nostri dominati dalle presenze di criminalità organizzate con il loro indotto socio-economico, si tratta di elaborare e praticare una strategia di appropriazione del territorio che passa attraverso la costruzione di un tessuto di presenze attive, con la gestione di servizi e di spazi di socializzazione. La scuola può avere un ruolo se si apre al territorio e se è cogestita da alunni e genitori. A Palermo in alcuni quartieri popolari le scuole sono regolarmente assaltate e distrutte, perché sono sentite come corpi estranei e perchè, a fronte di una illegalità condivisa come identità e praticata come risorsa, l’insegnamento e la predicazione della legalità sono vissuti come presenza e verbo del nemico.
Il concetto di sviluppo troppo spesso è legato alla visione economicistica della crescita del Pil, a prescindere dall’utilità o meno delle merci che si producono e sempre più viene contestato anche nelle versioni che lo coniugano al rispetto dell’ambiente (l’aggettivo più usato è “sostenibile”). Si parla di “decrescita”, un sostantivo che come la “nonviolenza” vuole essere alternativo ma si limita a esprimere una negazione. Quel che è certo è che a un’economia unicamente preoccupata del profitto e della crescita, che troppo spesso si coniuga con l’economia criminale e illegale, bisogna contrapporre un’economia che si ponga il problema fondamentale di soddisfare i bisogni essenziali di tutti e questo non è possibile se non si socializza l’economia, cioè se non si organizzano i soggetti produttori e fruitori, oggi ridotti a forza lavoro da pagare al più basso prezzo e a consumatori di prodotti inutili se non dannosi, imposti attraverso l’ossessionante messaggio pubblicitario. Nel Mezzogiorno in particolare bisogna organizzare disoccupati, precari ed emarginati, indigeni e immigrati con forme apposite (il sindacato è nato soprattutto per gli occupati raggruppati all’interno della fabbrica), in grado di conferire peso contrattuale nella conduzione di vertenze per l’attuazione di piani per l’occupazione e per “lavori socialmente utili” (formula usata abitualmente per l’impiego precario in attività di dubbia utilità). L’uso sociale dei beni confiscati se si estende può essere una delle forme più significative di questa socializzazione dell’economia, riconvertendo in utilità sociale i prodotti dell’accumulazione illegale. Nel vuoto di alternative praticabili l’accumulazione criminale resterà l’unica chance, o la più conveniente, per ampi strati della popolazione.
La quotidianità è il terreno su cui si misura la civiltà di una comunità e la sua cultura, e la sua ridefinizione passa attraverso vari canali: la conoscenza, l’etica, la politica, l’economia, la pedagogia, intese non come materie per specialisti e occasioni eccezionali ma come pratiche concrete e gesti abituali, dal rifiuto della raccomandazione al boicottaggio dell’economia mafiosa, al consumo critico, dalla convivenza pacifica alla sobrietà, alla partecipazione26..
Siamo i giganti della tecnica e i nani dell’etica, dicono filosofi e “profeti del nostro tempo” (da Günther Anders a Ernesto Balducci, ad Hans Jonas ) che sottolineano lo scarto tra l’altissimo livello delle capacità operative e il vuoto di coscienza rispetto agli scopi del vivere. Ma un’etica comune non può nascere da credi religiosi o politici, più atti a dividere che ad unire. Può nascere da una grammatica condivisa, fondata sulla valorizzazione del pluralismo e della diversità, il contrario delle pulsioni identitarie, sulla concretezza, sul fare, sul sentirsi membri di una comunità, sulla radicalità e sul conflitto, sul qui e ora.
In quest’ottica anche alcune indicazioni del “pensiero meridiano” possono tornare utili, se non si limitano a registrare una diversità più mitizzata che reale. E l’esempio di Lorenzo Milani, con i suoi piccoli alunni in un Sud apparentemente desolato come Barbiana, fatto di emarginati e di immigrati, la sua etica della disobbedienza verso saperi e poteri costituiti, possono accompagnarci su un percorso che sappiamo difficile ma non impossibile.

NOTE

1 Cf P. PEZZINO, Il Paradiso abitato dai diavoli. Società, élites, istituzioni nel Mezzogiorno contemporaneo, F. Angeli, Milano 1992.
2 Cf G. BOCCA, L’inferno. Profondo Sud, male oscuro, Mondadori, Milano 1992.
3 Cf M. PETRUSEWICZ, Come il Meridione divenne una Questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli 1998.
4 Cf C. TRIGILIA, Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi delle politiche nel Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1994.
5 Cf in particolare il numero 26-27, maggio-settembre 1996, sul tema Mezzogiorno oggi.
6 Cf E. HITTEN – M. MARCHIONI, Industrializzazione senza sviluppo. Gela: una storia meridionale, F. Angeli, Milano 1970; G. COMMISSO, Il conflitto invisibile. Forma del potere, relazioni sociali e soggettività operaia alla Fiat di Melfi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999.
7 Cf SVIMEZ, Rapporto 2006 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2006.
8 I dati sono tratti dai quotidiani del 24 maggio 2007.
9 Cf E.C. BANFIELD, The Moral Basis of a Backward Society, The Free Press, Glencoe, Ill: 1958; traduzioni italiane: Una comunità del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1961, Le basi morali di una società arretrata, il Mulino, Bologna 1976; R.D. PUTNAM, Making Democracy Work. Civic Traditions in Modern Italy, Pricenton University Press, Princeton 1993, trad. it.: La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993.
10 Si veda la mia Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Riuniti, Roma 2000.
11 Cf F. TÖNNIES, Comunità e società, Edizioni di Comunità, Milano 1979.
12 F. CASSANO, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1999.
13 M. ALCARO, Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
14 Cf. F. PIPERNO, Elogio dello spirito pubblico meridionale, manifestolibri, Roma 1997.
15 T. PERNA, Cari amici del Nord. C’era una volta il Sud… e c’è ancora, Carta – Intra moenia, Roma 2006.
16 Rimando al mio Dalla mafia alle mafie. Scienze sociali e crimine organizzato, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, 281 s.
17 M. PETRUSEWICZ, Come il Meridione divenne una Questione, cit., 13.
18 Rimando al mio “Mafie e Mediterraneo”, in Mafie e globalizzazione, Di Girolamo, Trapani 2007, 231-239.
19 Cf il mio Dalla mafia alle mafie, cit., 287 ss.
20 Cf i miei La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995 e Dalla mafia alle mafie, cit.
21 I. SALES, Le strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli, l’ancora del Mediterraneo, Napoli 2006, 31 s.
22 ID., op. cit., 10.
23 Scrive Roberto Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondadori, Milano 2006, 57 s.: “I clan di camorra non hanno bisogno dei politici come i gruppi mafiosi siciliani, ma sono i politici che hanno necessità estrema del Sistema. Si è innescata in Campania una strategia che lascia le strutture politiche più visibili e mediaticamente più esposte immuni formalmente da connivenze e attiguità, ma in provincia, nei paesi dove i clan hanno bisogno di sostegni militari, di coperture alla latitanza, di manovre economiche più esposte, le alleanze tra politici e famiglie camorristiche sono più strette”. Come si vede l’affermazione iniziale è stemperata, anzi contraddetta, dal periodo successivo.
24 La lettura di un libro di successo come quello di Roberto Saviano, cit., può indurre una visione secondo cui il “Sistema” camorristico è talmente onnipresente e pervasivo (“Ogni angolo del globo era stato raggiunto dalle aziende, dagli uomini, dai prodotti del Sistema”: cit., 48) da non lasciare spazio a una possibile alternativa.
25 Cf U. Santino, Oltre la legalità. Appunti per un programma di lavoro in terra di mafie, Centro Impastato, Palermo 2002.
26 Significativa la campagna antiracket e per il consumo critico avviata negli ultimi anni a Palermo dal comitato Addiopizzo, che ha raccolto migliaia di adesioni di consumatori e qualche centinaio tra commercianti e imprenditori.

Relazione al convegno “Lorenzo Milani (1923-1967). Memoria e risorsa per una nuova cittadinanza a partire dal Meridione d’Italia”, Napoli, Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia meridionale, 22 marzo 2007.