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Sciascia, ovvero: la religione del garantismo

Umberto Santino

Sciascia, ovvero: la religione del garantismo

A vent’anni dall’articolo di Sciascia, pubblicato con l’infelicissimo titolo redazionale “I professionisti dell’antimafia”, dopo un servizio su “Repubblica” con un’intervista ai familiari dello scrittore, il “Corriere della sera” ha voluto riprendere il discorso, con un altro titolo, altrettanto infelice nella sua perentorietà: “Le scuse dovute a Sciascia”. Ricordiamo brevemente il testo di Sciascia: lo scrittore, prendendo spunto da un libro dello storico inglese Christopher Duggan sul fascismo e la mafia (che pur essendo fondato su una notevole base documentaria approdava a una tesi non condivisibile, cioè che il fascismo avesse inventato la mafia), polemizzava con coloro che fanno dell’antimafia uno “strumento di potere”, un mezzo per acquistare prestigio e far carriera e portava due esempi: uno era il sindaco in carica che non veniva nominato (ma era chiaro il riferimento a Orlando), che più che ad amministrare la città avrebbe pensato ad andare in giro per convegni e conferenze; l’altro era il giudice Borsellino, nominato esplicitamente, diventato procuratore a Marsala grazie alle sue inchieste antimafia, scavalcando un collega più anziano. Come si ricorderà l’articolo suscitò un vespaio di polemiche, dal comunicato dell’allora “Coordinamento antimafia” agli articoli di Pansa, e il “Corriere” le richiama e invita alla ritrattazione.
Sulle pagine dell'”Unità” è arrivata la risposta di Nando Dalla Chiesa, con un titolo che non si presta ad equivoci: “Sciascia, perché non mi pento”, e sulle pagine nazionali di “Repubblica” l’autore del comunicato del Coordinamento antimafia, notissimo a chi scrive, si rivela e dichiara che anche lui non è per niente pentito. Nella replica di Dalla Chiesa si ricordano le parole di Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci: “Tutto cominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”, amarissima constatazione del ruolo che l’articolo aveva avuto nel contribuire a isolare i magistrati più impegnati, fatta durante un dibattito pubblico, poco prima della sua morte nella strage del 19 luglio. Evidentemente l’incontro in qualche modo chiarificatore del magistrato con Sciascia (che riconobbe di non essere bene informato) non era servito a smorzare l’amarezza e ad attutire l’impatto. E se il “Corriere” parla di uno Sciascia attaccato da tutte le parti, Dalla Chiesa ricorda l’esiguità dello schieramento in polemica con lo scrittore e a proposito del Coordinamento scrive che esso era fatto di studenti “stanchi di terrori e di lapidi”, di donne “mai prima impegnate in politica”, da qualche poliziotto “voglioso di giustizia”.
Sarà bene ripercorrere, sinteticamente, alcuni tratti di quel periodo. Era appena iniziato il maxiprocesso e si giocava una sfida decisiva nella lotta giudiziaria contro la mafia. Sciascia poneva problemi reali, come la strumentalizzazione dell’antimafia e la certezza delle regole, ma la sua polemica – scrivevo molti anni fa 1 – “era sbagliata nel tono, nella scelta degli esempi e del tempo”. Non per caso essa fu usata da quelli che si possono definire i “professionisti della mafia”, a cominciare dagli uomini politici più o meno collusi, per autoassolversi facendosi scudo del prestigio dello scrittore e per contrattaccare nel momento in cui erano in difficoltà: il maxiprocesso veniva percepito come un inizio e più d’uno pensava che prima o poi sarebbe toccato a lui. Le reazioni all’interno dello schieramento antimafia innescarono l’ira di Sciascia, che a proposito del Coordinamento scrisse che esso coordinava “interessi politici e stupidità”. In quei giorni il “Giornale di Sicilia” pubblicava i nomi dei suoi componenti, qualcosa che somigliava a una schedatura e a una gogna.
Ho vissuto da vicino l’esperienza della prima fase del Coordinamento, nato nel 1984 sulla base di una mia proposta, e il mio giudizio su di esso è ancora più duro di quello di Sciascia (bisogna aggiungere una massiccia dose di scorrettezza) ma un conto è un giudizio culturale e politico, un altro la criminalizzazione e la gogna.
Come forse si ricorderà, il Coordinamento aveva definito Sciascia un quaquaraquà (cioè una nullità, riprendendo la galleria antropologica tracciata dallo scrittore nel romanzo Il giorno della civetta: uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà) e lo relegava “ai margini della società civile”. Non si poteva essere più rozzi e maldestri. Il sindaco Orlando allora definiva i membri del Coordinamento “i bambini di Palermo” e ora Dalla Chiesa – che a suo tempo gli fu molto vicino e parecchie iniziative furono concertate tra il Coordinamento di Palermo e il circolo Società civile di Milano – ne ricorda la composizione. In realtà, anche se parecchi del Coordinamento erano in giovane età, non erano per niente infantili e nel loro giudizio su Sciascia pesava tanto l’estremismo verbale quanto il fideismo politico. Dopo una fase abbastanza travagliata di convivenza, in cui il Coordinamento antimafia aveva tentato di collegare il variegato mondo dell’antimafia cittadina (associazioni, centri, comitati, alcuni esistenti solo sulla carta, sezioni di partito, frange di sindacato), nel 1986 si era formata una singola associazione che aveva mantenuto quella denominazione ma in realtà coordinava solo se stessa e si configurerà sempre più come tifoseria del sindaco. Con l’aiuto di stampa e televisione si poneva come l’unico verbo antimafia, ignorando tutto ciò che si muoveva al di fuori di essa e non era pronto a intrupparsi nelle sue file. Alla sua testa e suoi ispiratori erano personaggi che dopo sono passati nel centrodestra, in piena bufera di berlusconismo, come dire il picco dell’immoralità pubblica nella storia dell’Italia repubblicana, portando a compimento un percorso segnato dal trasversalismo e dall’antipolitica. Sbocco non nuovo di tanti “estremisti” nostrani.
Se riflettere su quella stagione significa dire le cose come stavano, può essere utile. Non lo è se ci si limita a disseppellire rancori, replicando mezze verità o verità di comodo. Non si tratta di ritrattare o di pentirsi, ma di ricostruire una pagina di storia reale che può darci qualche indicazione anche per l’oggi. Forse l’unico modo per onorare l’intelligenza di Sciascia e raccogliere l’eredità che ci ha lasciato, è registrare quell’episodio per quello che è, uno spiacevole e dannoso infortunio, e riprendere i temi di fondo che lo scrittore anche in quell’occasione voleva sottolineare: il rispetto delle regole, la certezza del diritto, in una parola il garantismo. Sciascia ne aveva un’idea che sapeva molto di religioso, come se si trattasse di una sorta di depositum fidei da trasmettere immutato ai posteri. Aveva per molti anni esercitato una sorta di magistero civile, cominciando con l’intuire, già nel 1957, la capacità della mafia di adattarsi ai mutamenti sociali; aveva indicato, nei primi anni ’60, le banche come il terreno su cui sondare l’accumulazione mafiosa; aveva successivamente dato alle stampe i suoi apologhi su una società mafiosizzata nei suoi centri di potere, nei suoi codici culturali, nella sua pratica quotidiana, e questo è un patrimonio ormai consegnato alla storia della letteratura e alla cultura, non solo italiana. Partendo da alcuni esempi concreti aveva temuto una infrazione al garantismo, che riteneva inderogabile. Per molti anni quel garantismo più che la certezza del diritto aveva assicurato la certezza dell’impunità.
I limiti di quella stagione erano molteplici: una legislazione ritagliata sull’emergenza delittuosa e non orientata a un progetto organico, capace di cogliere la complessità del fenomeno mafioso; la delega dell’azione antimafia a un pugno di magistrati, isolati e votati al sacrificio; una classe dirigente vogliosa di perpetuarsi a ogni costo e che solo Tangentopoli avrebbe squassato; una società civile minoritaria, più somigliante a una claque che a un soggetto sociale e politico maturo e autonomo. E quello che è avvenuto dopo è andato più nella direzione dell’illegalità come forma di potere, modo di accumulazione e comportamento quotidiano, che in quella del trionfo della legalità.
Anche oggi, con una mafia sommersa, una ‘ndrangheta in ascesa e una camorra in guerra permanente, un quadro politico incerto e rissoso, un contesto mondiale dominato da guerre e terrorismi, qualcuno riprende la bandiera del garantismo, come un vessillo sacro e inviolabile. Questa concezione mitico-religiosa della legalità e del sistema di garanzie non è stata solo di Sciascia, è stata ed è condivisa da molti, tra cui i giudici di Magistratura democratica che dal convegno del 1980 a quello del 2001 hanno lasciato passare più di vent’anni senza parlare di mafia, preoccupati che si estendesse alla criminalità il “teorema Calogero” applicato al terrorismo. Se non vogliamo condannarci all’impotenza dovremmo aver chiaro che le regole sono indispensabili, ma non sono stelle fisse ma pianeti in movimento e debbono accordarsi ai mutamenti in atto. La pervasività dei fenomeni di criminalità organizzata nella società contemporanea, le innumerevoli articolazioni dell’illegalità sul piano nazionale e internazionale richiedono norme adeguate e sanzioni efficaci, ma soprattutto una grande capacità di prevenire e operare sulle radici. E questo va chiesto all’intero corpo sociale. Nella pagine di Sciascia, lette con attenzione ma senza devozione, possono trovarsi ancora metafore utili, anche se il mondo è andato ben oltre le sue anche più pessimistiche previsioni.

1Si veda: U. Santino, L’alleanza e il compromesso: Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997, p. 77. In un comunicato del Centro Impastato, del 26 gennaio 1987 ho tentato, vanamente, di riportare la discussione sui problemi reali. Il testo del comunicato è riprodotto in Appendice a questo scritto. Sul Coordinamento antimafia rimando alla mia Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 252 ss.
Pubblicato parzialmente su “Repubblica Palermo” del 9 gennaio 2007.

Comunicato stampa del Centro Impastato del 26 gennaio 1987

Abbiamo preferito non prendere la parola nel corso delle recenti polemiche perché il tono di esse ci è sembrato il meno adatto per una riflessione seria su alcuni problemi particolarmente gravi, che rischiano di aggravarsi ulteriormente.
Ci limitiamo adesso ad alcune considerazioni molto sommarie su qualcuno di essi.
1) Valutazione dell’operato del sindaco Orlando e della giunta pentapartito. Il sindaco Orlando ha compiuto alcuni gesti (quali, per esempio, la costituzione di parte civile del Comune al maxiprocesso, le dichiarazioni fatte nel corso di esso, il tentativo di portare un minimo di trasparenza nella procedura di aggiudicazione degli appalti di opere pubbliche) che non possono non essere apprezzati, ma tutti i problemi di Palermo (la disoccupazione, il risanamento del centro storico, il funzionamento delle aziende municipalizzate etc. etc.) restano irrisolti per ragioni che non è difficile individuare: la Democrazia Cristiana rimane legata ai peggiori interessi, sotto la tutela di uomini come Lima, e il pentapartito è un pantano che non consente nessuna politica rinnovatrice. Ci sembra arrivato il momento di fare un bilancio di questa amministrazione comunale e di vedere se è possibile sbloccare una situazione di immobilismo, avvelenata da polemiche personalistiche.
2) Conformismo e anticonformismo. In una città in cui straripa l’assuefazione alla violenza, la stragrande maggioranza degli abitanti non si scuote neppure per l’assassinio di un bambino, si svolgono manifestazioni in cui s’inneggia alla mafia, dominano il conformismo filomafioso e l’indifferenza, parlare di “conformismo antimafioso” ci sembra un po’ troppo.
3) Antimafia: seria o da vetrina. È vero, c’è un’antimafia “da vetrina”, come qualcuno l’ha definita, ma vogliamo fare qualche esempio? Ci sembrano “antimafia da vetrina”: l’azione, abbastanza incolore, dei vari Alti Commissari contro la mafia; l’altrettanto incolore operato delle Commissioni antimafia, nazionale e regionale; le prediche con il morto davanti; le scoperte di grandi e piccoli inviati che hanno dovuto attendere l’uccisione di Dalla Chiesa per parlare di mafia come “questione nazionale” e lo hanno dimenticato il giorno dopo; i fumetti televisivi e cinematografici e le pubblicazioni di mafiologi improvvisati regolarmente prefate da firme “prestigiose”; buona parte delle attività svolte nelle scuole per utilizzare in qualche modo i finanziamenti regionali; i centri inesistenti che hanno finanziamenti pubblici per centinaia di milioni; le sigle fabbricate sulle ceneri di ipotesi più consistenti che si è fatto di tutto per non far maturare. Si collocano su un altro versante i pochissimi magistrati che, rischiando la vita, hanno svolto le inchieste più impegnative contro la mafia.
4) Problema della “giustizia giusta”. È il problema più grosso, e non è di facile soluzione. La mafia e la criminalità organizzata non sono una novità, ma le dimensioni e la complessità attuali lo sono, e gli attuali ordinamenti giuridici sono inadeguati per fronteggiare fenomeni che non sono un'”emergenza” ma un dato strutturale.
Ci chiediamo: ci può essere “giustizia giusta” con gli assassinii regolarmente impuniti? Si ritiene che, passata l’onda alta delle uccisioni, tutto si risolva con l'”uscita dall’emergenza” e il ristabilimento delle regole del “garantismo classico”? Non occorre piuttosto elaborare una riforma del processo penale e della normativa vigente che tenga conto di questi fatti nuovi? Come intervenire sui canali di accumulazione illegale? Come troncare il meccanismo di simbiosi tra capitale illegale e legale garantito dal segreto bancario? Non si tratta di decretare “stati d’assedio”, o di avallare “teoremi Buscetta”, ma di trovare soluzioni adeguate a problemi che non possono essere minimizzati o considerati con ottiche tradizionali.
Per affrontare seriamente questi temi non ci pare che siano utili le polemiche, soprattutto quando si risolvono in ingiurie e scomuniche. Occorrono: coraggio, studio, serenità.

Umberto Santino
Presidente del Centro Impastato

Pubblicato, con il titolo Troppa antimafia? ma dai, dal giornale “L’Ora” del 3 febbraio 1987 e in appendice al mio L’alleanza e il compromesso, cit., pp. 269 s.