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A Palermo, con i bambini di Ballarò

A Palermo, con i bambini di Ballarò

Augusto Cavadi intervista Adriana Saieva, insegnante nella scuola elementare statale “Cascino” presso il mercato “Ballarò” di Palermo.


Sei nata in un piccolo paese di montagna dell’Agrigentino: come mai ti ritrovi a insegnare a Palermo?

E’ stata una scelta di vita. Non avevo compiuto i dieci anni quando la televisione annunziò la morte di Peppino Impastato: e ricordo con chiarezza che la versione ufficiale – un suicidio, forse accidentale – mi suonò subito inautentica. Crescendo mi sono informata meglio sulla sua vicenda umana e politica e ho deciso, nei limiti delle mie competenze, di mettere la professionalità a servizio della lotta alla mafia. Così, sin dagli anni universitari, ho ritenuto strategico andare a lavorare nei quartieri cittadini più difficili da dove molti preferiscono, appena possibile, fuggire. Sono quei quartieri che, col diploma magistrale in tasca, ho cominciato a frequentare dieci anni fa da operatrice volontaria prima e da insegnante poi.


Suppongo che sei stata incoraggiata, sino ad ora, dai risultati della tua presenza?

La lettura di testi di psicologia infantile, l’esperienza che andava pian piano maturando e anche un po’ di intuito mi hanno fatto collezionare dei risultati che ai miei occhi sono importanti, ma contemporaneamente ho fallito decine di volte, lasciandomi sfuggire l’occasione di determinare cambiamenti significativi ed efficaci. È un continuo lavoro su se stessi questo, un continuo passarsi al setaccio per aggiustare il tiro delle proprie azioni.
Ogni giorno cerco di non perdere di vista dei punti fondamentali. Innanzitutto mi dico che devo essere coerente e questo significa non essere rigidi verso un’idea che può risultare in quel momento sbagliata, ma agire secondo un codice che vuole rispetto per il prossimo e atteggiamenti non violenti. Trovarsi sul campo e contrastare un codice mafioso è un’impresa difficile: l’unica arma che a lungo andare dà i suoi risultati è la coerenza verso un proprio codice comportamentale, ma proprio riuscire ad essere coerenti con se stessi è difficile. Se si crede che l’altro sia un soggetto da rispettare, che l’ira e l’aggressività non sono strumenti pedagogici, che l’educazione alla legalità passa prima di tutto dalle proprie azioni, già si può parlare di fare effettivamente antimafia. Gli ostacoli che si presentano anche ai più volenterosi sono molti: nel mio caso posso dire di aver fatto vincere la prepotenza in momenti di grande frustrazione, quando la stanchezza dilaga e mantenere il controllo diventa un lavoro titanico. Per fare questo lavoro forse bisognerebbe avere, tra requisiti precisi, calma e serenità: l’autocontrollo costante. Quando mi accorgo di sbagliare, per concedermi una possibilità ulteriore mi dico che devo saper tornare sui miei passi, analizzarmi, rivedere e correggere il tiro studiando modi più efficaci per affrontare situazioni simili a quelle che hanno provocato l'”esplosione”.


Alla luce di quali criteri avviene questo tuo processo autocritico?

Ogni giorno mi ripeto che i bambini vanno presi sul serio e che bisogna mantenere le promesse che si fanno: non prospettare punizioni o premi che poi risultino spropositati, inadeguati, eccessivi e soprattutto non realizzabili. Non lasciarsi scappare mai: “Se fai una cosa del genere, non ti faccio mangiare a merenda… Ti spedisco in direzione e lì vedrai che ti succede… Non ti faccio lavorare col pongo o non ti faccio suonare gli strumenti…”. Chi se la sentirebbe di eliminare l’unica gratificazione che un bambino trova a scuola in questo momento? Eppure, da alcune colleghe, ho ascoltato l’elenco minacce ancora peggiori. Mi ripeto che non devo imporre, ma mettere nelle condizioni di capire e crescere; non devo usare messaggi repressivi o direttivi, pretendendo che l’alunno li accetti senza fiatare. Ogni giorno mi ripeto che queste sono strategie di educazione mafiosa e non posso quindi essere io a metterle in atto. In questo proposito ho trovato un valido sostegno in Insegnanti efficaci di Thomas Gordon. Forse un giorno riuscirò a non commettere più degli sbagli e a diventare un’insegnante efficace anche dal punto di vista dell’antimafia; per il momento non posso far altro che consultare continuamente il libro come fosse un manuale di anatomia dei comportamenti, per cercare di capire dove si è inceppata la comunicazione. Posso andare a consultarlo per capire dove è l’errore e per cercare di non ripeterlo più. Difficile, ma ne vale la pena.


Abbiamo capito che si tratta di una situazione a rischio di errori. Ma poco fa hai accennato anche a qualche risultato positivo.

Potrei raccontarti il caso di Mirko. E’ uno di quei ragazzi che di solito si incontrano nei corridoi delle scuole, appena buttati fuori dall’aula per indisciplina e pronti a combinarne una che gli frutti una bella espulsione di un mese o giù di lì. E’ arrogante, sprezzante, volgare. Il suo obiettivo principale è rompere le scatole e far uscire dai gangheri professori e bidelli. Non ha più niente da perdere, il rendimento scolastico è ormai compromesso, gli impreparati non si contano più, le note abbondano…. Lo incontro durante un’esperienza di volontariato per un progetto di intercultura in una scuola media. La sua personalità mi incuriosisce e decido di dedicare le mie mattinate a lui. Il primo giorno succede di tutto, mi becco persino dei calci quando cerca di scappare (eravamo in una stanza dove avremmo dovuto lavorare al computer) ed io glielo impedisco. Mette in campo tutte le armi che conosce: mi insulta, cerca di scandalizzarmi con bestemmie di vario genere, cerca di spaventarmi con la minaccia di aggressioni fisiche. L’unica cosa che mi viene in mente è di resistere senza attaccarlo, in silenzio, almeno per il momento. In qualche modo questa scelta casuale fa centro, mi accorgo che lo disorienta, lo spiazza; non sapendo come interpretare il mio non attaccare, si lascia scappare una frase che per me risulterà rivelatrice: “Tanto lo so che pensi che sono antipatico”. Diventa chiaro che si aspetta che io pensi questo di lui; del resto ha fatto di tutto per dimostrarmelo. Mi torna in mente quello che avevo letto sull’etichettamento e lo stigma: un ragazzo etichettato come violento e aggressivo può essere costretto, a lungo andare, a riconoscersi nel ruolo sociale che gli viene imposto, come se ad un certo punto non avesse altra scelta, perché in questo modo – paradossalmente – ritrova una propria identità. In quel momento ho deciso di demolire questa sua convinzione e ho dato vita ad un braccio di ferro che ha duramente messo alla prova la sua pazienza. Ogni giorno mi combinava un guaio: scappava e rompeva oggetti o dava fuoco alla spazzatura attribuendomi poi la responsabilità di averlo lasciato scappare. Puntualmente tutte le volte sogghignando mi faceva la stessa domanda: “Dimmelo ora che sono antipatico” e puntualmente gli davo la stessa risposta: “Quando combini cazzate fai dei danni che provocano problemi e creano disagi a varie persone, ma non sei antipatico”. Dopo qualche episodio del genere ha deciso di combinarmi l’ultimo danno bruciandomi con un piccolo metallo incandescente un angolo del viso. Anche questa volta, guardandomi negli occhi, mi ha fatto la stessa richiesta: “Ora dimmelo che sono antipatico”. E anche questa volta ho deluso le sue aspettative: “Hai commesso un atto grave, mi hai provocato un danno molto doloroso, ma questo fa di te una persona che può commettere cose stupide, non un ‘antipatico’. Ricordo i suoi occhi sgranarsi, riempirsi di stupore; ricordo l’esplosione del suo pianto, le grida che ha lanciato: “Ma chi me l’ha mandata questa?”; le sue scuse e il cambiamento del suo atteggiamento nei miei confronti. Da quel momento ha smesso di compiere azioni stupide in mia presenza ed è diventato mio amico fino al punto da venirmi a trovare a casa ad ogni occasione.
Non è cambiato il suo rendimento a scuola, dove ha continuato a fare le cose di sempre; ho ottenuto solo che si mortificasse quando venivo a saperlo. Sulla sua esistenza questa esperienza non ha avuto la ricaduta positiva da me sperata, ma mi è servita per capire meglio i ragazzi e il problema dei comportamenti devianti. Mi è servito per capire la responsabilità degli educatori e delle strutture educative che dovrebbero proporre concretamente modelli di comportamento non violento per riuscire a determinare cambiamenti significativi negli alunni.


Il caso di Mirko lo hai vissuto da volontaria. Altri episodi significativi da quando insegni?

Potrei raccontarti il caso della partita di calcio. Prima del suono della campana del mattino, molti alunni delle quarte e quinte si ritrovavano fuori in cortile per una breve partita di pallone. Puntualmente scoppiava una lite che veniva più o meno bloccata dal suono della campana che segnava l’inizio delle lezioni. Il malcontento spesso però rimaneva e, in questi casi, i ragazzi confabulavano tra loro meditando vendette da consumare all’uscita. Una mattina la lite è stata più grave del solito perché un ragazzo è stato colpito al viso e l’occhio presto è diventato nero e gonfio. Riunione delle due classi. Predica improvvisata di noi insegnanti: “Non sapete giocare, siete dei violenti, da oggi in poi – visto che questo è il modo di risolvere i problemi – appena ce ne sarà uno agiremo allo stesso modo. Poiché di sicuro gli amici del ragazzo colpito meditano la vendetta, vi accompagniamo tutti fuori, organizziamo un incontro e facciamo una lotta all’ultimo sangue e non se ne parla più…” e altre cose del genere. Finalmente – dopo questo discutibile sfogo – ci decidiamo a dar loro la parola. Emerge che Alessandro, che voleva giocare con il pallone, aveva violentemente colpito un altro in pieno viso perché la sua richiesta non era stata accettata. Seguono altre prediche degli insegnanti. Un ragazzo chiede ancora la parola e spiega che non si poteva accettare Alessandro nella squadra perché ormai la partita stava finendo e la campana stava per suonare. Mi viene in mente di indagare sulla loro organizzazione e viene fuori che non avevano Né arbitri né regolamenti: semplicemente si incontravano e giocavano solo con l’aiuto di qualche regola di base. Provo a formulare a voce alta il pensiero: “Il calcio prevede delle regole di comportamento e di gioco, vero?”. A questo punto i ragazzi da soli cominciano ad elencare le regole e i casi del calcio nazionale in cui queste non sono state rispettate; parlano di cartellini rossi e gialli, di arbitri, di falli ecc. Raccontano il caso in cui un giocatore di una squadra famosa aveva colpito deliberatamente un altro giocatore e si era beccato un’espulsione. Parlano e parlano e arrivano alla conclusione che il calcio ha regole molto chiare e precise e chi non le rispetta va punito. Gli insegnanti non parliamo più. Stanno organizzandosi da soli: uno propone di nominare un arbitro, un altro suggerisce di sceglierlo di un’altra classe per assicurare la neutralità delle sue decisioni; arrivano a fare una specie di commissione col compito di stabilire le condizioni per entrare in squadra, le punizioni in caso di fallo e via discorrendo. Le bambine chiedono la parola e di poter giocare anche loro perché nessuna legge può escluderle senza una giusta motivazione…i ragazzi su questo vanno in k.o. e ottengono solo di poter terminare il torneo iniziato – seppur senza regole – con le squadre maschili di partenza. Senza saperlo hanno parlato di legalità e – tanto per cominciare – hanno parlato tra loro in modo civile e ordinato. Regalo loro un fischietto che mi trovo in borsa, lo affido ad un ragazzo col compito di darlo ogni giorno all’arbitro di turno. La vista del fischietto sembra decretare l’inizio di una nuova fase, lo accolgono con disarmante entusiasmo. Da quel giorno – con il rito del fischietto consegnato all’arbitro – ci furono solo partite ben giocate.


Questo della partita di calcio è l’unica storia a lieto fine?

Per fortuna no! Potrei raccontarti anche il caso dei cinque minuti. Quando non si conosce altro modello se non quello della violenza, basta uno spintone, una matita fatta cadere, una parola mal interpretata… per dar inizio a piccole guerre senza esclusione di colpi. Certi giorni sembra che in classe non si debba far altro che sedare liti e dividere lottatori che fanno il possibile per colpirsi forte, molto forte. La cosa incredibile è che dopo essersi fatti male con calci, pugni, graffi e colpi di sedia ritornano amici come se nulla fosse. Esiste una specie di assuefazione alla violenza, un’abitudine pari a quella che si può avere nei confronti di altri gesti quotidiani come il mangiare o andare a scuola. E’ normale. Ne ho avuto la conferma un giorno in cui, all’uscita dalla scuola, in mezzo alla piazza, un tipo ha cercato di accoltellare un altro. Il primo istinto è stato di proteggere gli alunni accanto a me e di tranquillizzarli portandoli via, ma con stupore ho notato che non erano per nulla spaventati o stupiti. Ho riflettuto: ciò che distingueva il loro modo di reagire ad un’offesa da quello messo in pratica dai due tipi della strada era solo il coltello. Per il resto, stessa foga nei gesti, stesso viso rabbioso, stesse parole d’offesa. Molto probabilmente anche i due tipi dopo un po’ avranno bevuto un bicchiere insieme per concludere il piccolo incidente. Nelle liti in classe quello che mi disorientava era il fatto che il mio intervento per indurli a ragionare aveva l’unico effetto di allungare la lite ancora di più oppure di sedarla per il tempo in cui ero presente in modo da riprenderla all’uscita lontano dal mio intervento invasivo… Mi sono chiesta perché e sono arrivata alla conclusione che, intervenendo, cercavo solo di imporre ai ragazzi un modello di comportamento mio, che non li riguardava, che non conoscevano e soprattutto non condividevano perché non dava ragione alla loro sete di vendetta (che per loro è sete di giustizia: se tu hai fatto questo, io non posso lasciar passare e devo farti del male per ottenere la mia giustizia). Il mio era vissuto come un intervento dall’alto e quindi estraneo a loro. Decido di fare un esperimento. Al manifestarsi dell’ennesima lite ho dato loro cinque minuti da trascorrere in uno spazio diverso dalla classe, per comodità fuori dalla porta. Ho ritenuto importante la creazione di uno spazio fisico di confronto, dove ciascuno dei litiganti poteva dire le sue ragioni e ascoltare quelle dell’altro; uno spazio dove abituarsi a parlare, a mettere in discussione il proprio punto di vista e ad ascoltare quello altrui. Ho previsto la presenza di un mediatore che si assicurasse del corretto impiego di questo tempo ( e del fatto che non continuassero a colpirsi). Il tempo a disposizione è breve per evitare che si perda di vista l’obiettivo principale e che si approfitti dell’occasione per assentarsi dalla classe. La limitatezza temporale aiuta molto a non disperdersi e a puntare dritto al cuore del problema. L’esperimento è riuscito. I ragazzi stessi – quando è necessario – scelgono il mediatore e si tratta sempre del compagno più mite e buono della classe. A volte sbrigano la faccenda in meno di cinque minuti, altre volte entrano per chiedermi altri cinque minuti e la possibilità che un altro compagno intervenga nel chiarimento. La cosa che ritengo straordinaria è che a volte sono rientrati senza aver fatto pace, ma serenamente -con le armi deposte-, convinti che ciascuno ha le sue ragioni e che non si può essere amici a tutti i costi. Ancora una volta ho avuto la dimostrazione che i bambini, messi nelle condizioni di parlare e raccontarsi, sanno trovare le giuste soluzioni. Quel che conta è non levar loro il diritto di parlare, di essere arrabbiati, di manifestare il malessere per aver subito un’ingiustizia da qualcuno. Parlare e essere ascoltati: questi sono tra i nemici dell’educazione mafiosa. Essa esige l’obbedienza incondizionata verso un codice che cade dall’alto. E non c’è possibilità di dissentire. L’unica possibilità di reagire è ottenere giustizia con il sostegno di tutta la famiglia che, se condivide l’offesa ricevuta, interviene per punire chi ha ‘sgarrato’. Anche a scuola è capitato che genitori siano intervenuti con zii e altro parentame per ‘ottenere soddisfazione’ per un comportamento da parte di un altro bambino o di un insegnante che ha fatto qualcosa che d’ingiusto per u picciriddu. In altri casi la famiglia condivide l’uso della violenza fisica da parte del proprio figlio: “Se il bambino doveva difendersi non aveva altra scelta…non poteva certo dimostrare di essere un fesso…”. Di fronte a tutto questo, come opporsi se non in base al principio – affermato da Rogers, ripreso poi da Gordon – che l’educazione è un processo autogestito, che bisogna fare in modo che sia l’individuo a far venir fuori se stesso? Da qualche parte ho letto che “le persone non si limitano a reagire all’ambiente; esse sono attive, creative e dinamiche, hanno la capacità di trascendersi e di rispondere in modo ‘intenzionale’ e significativo ai condizionamenti genetici, biologici, psicologici e sociologici”. E’ così? A me piace credere che sia proprio così. D’altronde, se così non fosse, nessun progetto di pedagogia antimafia avrebbe senso.

Intervista pubblicata su “Una città”, febbraio 2003, n° 110, pag. 21, con il titolo: Lo so che pensi che sono antipatico.