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Palermo: il futuro di una città rimasta sconosciuta

Amelia Crisantino

Palermo: il futuro di una città rimasta sconosciuta

Andando da via Mongitore verso la Cattedrale si ha uno spaccato della città di sicuro non inedito, ma certo istruttivo. Edifici pericolanti ormai da molti anni puntellati con tubature metalliche, le persiane aperte su stanze piccole coi televisori accesi e padre Pio sempre benedicente, un eccesso di ragazzi coi capelli scolpiti dal gel che su motori smarmittati vanno avanti e indietro anche in orario scolastico; troppo aggressivi e per niente rassicuranti, chissà dove vanno e chissà in cosa trafficano. Sotto palazzo Sclafani – un tempo superba dimora che in grandiosità e bellezza voleva gareggiare con lo Steri – c’è un posteggio. Di fronte resistono le mura perimetrali di una chiesa scoperchiata, che s’affacciano anche su uno spiazzo battezzato “piazza della vittoria”, e sembra un feroce sarcasmo.
Un angolo è occupato da una piccola discarica, soprattutto laterizi ma anche elettrodomestici. Siamo in quello che potremmo chiamare il centro direzionale della città, a meno di duecento metri dalla questura, dalla Cattedrale, dal Palazzo reale sede della Regione, dal Comune. Qualche turista vaga con in mano una guida ai monumenti, è imbarazzante incontrarne lo sguardo perplesso. Da qui, da questo spicchio di centro storico dove i colori si mescolano ma gli immigrati sono ancora una minoranza, si ha la percezione che questa città non la conosciamo se non per analisi che restano in superficie, per interpretazioni che fanno colore e scivolano via senza che resti traccia. L’economia di questi vicoli non è più quella della tradizione, ma cosa è diventata? Ogni tanto un rigurgito di emergenza sociale mostra in un lampo preoccupanti scenari, poi in qualche modo ci si accomoda.
Non c’è più la miseria di quando Danilo Dolci andava a cortile Cascino e documentava il degrado prodotto dalla disoccupazione, qualche rivolo residuo del flusso di risorse che tiene a galla la Sicilia arriva anche qua. Ma prima il cosiddetto industriarsi, il fare molteplici lavori non qualificati, rispondeva a una richiesta del mercato del lavoro. Oggi si sono ristretti i campi, la globalizzazione è arrivata nei vicoli del centro storico con prodotti industriali a basso costo, che hanno reso superflua ogni competenza non specialistica. C’erano sarti e falegnami a iosa ma anche l’artigianato, che era l’aristocrazia del lavoro, è quasi del tutto evaporato: spazzato via dal mercato, ed è rimasto un vuoto perché nel frattempo non si sono sviluppate altre ipotetiche potenzialità. Fra l’essere competitivi e l’essere assistiti, ormai da molto nemmeno si pone la questione. Gli interventi della politica hanno sempre privilegiato e rafforzato l’ipotesi assistenziale, come quella che sul breve periodo sembra la più produttiva: nel senso che produce consenso, con un meccanismo sempre uguale a se stesso e che necessita del sottosviluppo come suo habitat naturale. Va a finire che il famoso mercato, che oggi più che mai regola la ricchezza e la povertà delle nazioni, viene soltanto subito: ma con la furbizia che deriva dal vivere un sottosviluppo da privilegiati, senza mai porsi nell’ottica d’essere competitivi.
Lo stesso però, oltre le considerazioni che per forza restano generali, sarebbe buona cosa capire verso quale futuro la città sta andando. Su queste colonne Salvatore Butera ha scritto che a Palermo c’è un’esigenza di storia, purtroppo si tratta di un bisogno che non sono in molti a sentire. L’Università, che a Palermo è una delle più importanti produttrici di reddito, non ha elaborato un’indagine conoscitiva della realtà in cui opera: ognuno porta avanti il suo piccolo compito, non risulta che siano all’opera, o ci siano state, ambizioni che andassero oltre il tran tran quotidiano.
Nell’ormai lontano 1990 è stato il Centro Impastato ad avviare un progetto di ricerca, che non poté essere concluso per il completo disinteresse delle istituzioni: sia quelle politiche sia quelle culturali. Ci fu però un primo risultato, un volume che voleva essere di preparazione alla ricerca sul campo ed era un’analisi di quanto era stato prodotto su Palermo nella ricerca sociologica. In quel libro è rimasta la sola traccia di uno studio che a tutt’oggi è l’unico lavoro teorico sulla città: mai pubblicato e quindi, suo malgrado, un esempio dello spreco di risorse e delle dinamiche negative che nelle sue pagine denunciava. Si tratta dello Studio socio-economico sull’area metropolitana di Palermo, elaborato nell’ambito di uno dei Progetti Speciali pensati per le due maggiori aree urbane del Mezzogiorno, Napoli e Palermo.
Lo studio sulla nostra città venne realizzato nel 1980, e affidato dalla Cassa per il Mezzogiorno alla coordinazione di Ada Becchi Collidà. Nelle conclusioni, Palermo veniva paragonata alle città dell’Europa meno sviluppata per i redditi e i consumi, alle metropoli dei paesi sottosviluppati per il modo in cui assolveva le sue funzioni. L’area metropolitana si configurava come un’area di consumo dipendente dal flusso della spesa pubblica, quindi sempre esposta a rischi di instabilità economica e politico-sociale. In assenza di un graduale processo di ampliamento e riqualificazione della base produttiva, la città appariva destinata ad accrescere la sua dipendenza dai trasferimenti di spesa da parte della pubblica amministrazione. Da allora è passato un quarto di secolo, quelle scoraggianti previsioni si sono puntualmente avverate. Ma poiché c’è sempre un margine, in cui si può agire per provare a cambiare il futuro che sembra già scritto, riprendere quell’unico studio teorico diventa oggi un modo semplice di trovare uno strumento che ci aiuti a conoscere per cambiare.

La Repubblica – Palermo, 11 novembre 2006