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I turisti dal figlio di Provenzano

Umberto Santino

In Sicilia alla ricerca del Padrino

La notizia che Angelo Provenzano riceve regolarmente un gruppo di turisti americani che ascoltano la sua storia di figlio del capomafia che ha battuto tutti i record di latitanza, ha suscitato le comprensibili reazioni dei familiari di vittime della mafia, ma sarebbe bene porsi qualche domanda. Per esempio: cosa spinge gli organizzatori del viaggio a inserire nel programma tale incontro? Perché ci sono coppie che vanno a sposarsi a Corleone? Che idea hanno turisti e sposini della mafia, della Sicilia?

Non  credo che ci voglia molto a  capire che  l’idea di mafia più diffusa sia soprattutto, se non esclusivamente, frutto di libri e di film di successo come Il Padrino, o del bestseller con la storia di vita del boss di origine castellammarese Joe Bonanno o della serie televisiva dei Sopranos, ed è un’idea accattivante e positiva: la mafia come custode di valori antichi, come l’onore, la fedeltà alla parola data, la famiglia, rispettosa della Tradition, in un  mondo senza punti di riferimento, che guarda a quei personaggi come a degli eroi, esempi di coraggio e di coerenza, uomini tutti d’un pezzo, capaci di resistere e di sopravvivere alle “persecuzioni” della giustizia.  Per decenni negli Stati Uniti si è creduto, anche a livelli istituzionali e accademici, che la mafia, le mafie, dato che nel melting pot americano si incrociavano tutte le criminalità, più o meno organizzate, provenienti da varie parti del mondo, fossero prerogativa di stranieri che ordivano complotti contro la democrazia più bella del pianeta. Era la tesi dell’alien conspiracy, che ispirava le relazioni delle Commissioni presidenziali e le pubblicazioni degli studiosi più noti. A cui invano si contrapponeva una tesi più rispondente alla realtà e perciò meno gradita: che il crimine fosse l’American way of life, cioè una caratteristica della società americana, in cui le attività illegali fungevano da accumulazione originaria per gli ultimi arrivati, che consentiva di scalare i gradini della mobilità sociale e inserirsi a pieno titolo nel mondo di quelli che contano. Con il proibizionismo, sperimentato negli anni Venti e nei primi anni Trenta con gli alcolici, che offriva grandi occasioni di arricchimento.

Era molto più facile, e più gradevole, pensare che il crimine fosse un corpo estraneo, da estrarre con operazioni chirurgiche. Eppure dagli studiosi più seri degli Stati Uniti sono venute le anticipazioni più acute e convincenti, come le riflessioni controcorrente di Sutherland che parlava dei crimini dei colletti bianchi,  e non per caso per molti anni il suo libro più noto venne censurato, con la cancellazione delle principali imprese coinvolte in quel tipo di reati, dalla corruzione alla concorrenza con mezzi illeciti, alla contraffazione dei prodotti,  alle violazioni delle norme sul lavoro, alla pubblicità menzognera, destinati a un sicuro avvenire.

Dubito che i turisti che vanno in pellegrinaggio dal figlio di Provenzano abbiano queste frequentazioni, abbiano letto i libri degli Schneider e di altri studiosi contemporanei che sulla mafia hanno scritto pagine illuminanti, analizzando un fenomeno sociale che è insieme sistema di potere e modello di accumulazione, con l’uso della violenza per abbattere gli ostacoli ai loro affari e al loro potere. Meglio attenersi allo stereotipo folclorico e apologetico e andare a Corleone o dal figlio di Provenzano a rafforzare un’immagine già sedimentata.

Con queste idee, diffuse e radicate, bisogna fare i conti, sapendo che i tour alternativi, organizzati dalle associazioni antimafia, che vanno da Portella della Ginestra all’albero Falcone e a Casa Impastato di Cinisi, raccolgono  minoranze, anche se corpose e crescenti, soprattutto di giovani che hanno preso coscienza della realtà della mafia e delle sue connessioni con il potere.

Angelo Provenzano ha dichiarato che per lui questa è un’occasione di lavoro e che vuole vivere una vita normale. E ha ricordato il fratello a cui è stata tolta una borsa di studio che gli permetteva di vivere in Germania. Si chiede ai figli dei capimafia di seguire l’esempio di Peppino Impastato, che finora rimane un caso unico, che si spiega con la personalità di Peppino e anche con il clima del tempo in cui è vissuto, prima, durante e dopo il ’68. Angelo e Francesco Paolo Provenzano non sono Peppino Impastato, non so se prenderanno mai le distanze dalla mafia, riconosciuta per quella che è: un’organizzazione criminale fondata sulla prepotenza, non una sorta di Iliade casereccia, capace di trapiantarsi al di là dell’Oceano, ma negare loro la possibilità di farsi una vita vuol dire rinchiuderli nel mondo da cui provengono. Quel che è certo è che non li aiutano le curiosità dei turisti che vengono in Sicilia per girare un’altra scena del Padrino.

Pubblicato su Repubblica Palermo del 31 marzo 2015, con il titolo: La mafia per turisti nuoce a Provenzano jr.