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Processi per associazione di malfattori

Processi per associazione di malfattori: Stuppagghieri, Fratuzzi, Amoroso, Fratellanza Favara…
Primi pentiti, familiari di vittime che accusano i responsabili dei delitti… Minì, ovvero l’infortunio di Sciascia

 

Nel marzo del 1876 al governo del Paese la Sinistra succede alla Destra storica e si è parlato di una mafia che sarebbe passata dall’opposizione all’integrazione, ma in realtà la mafia fin dalla fondazione dello Stato unitario giocava su entrambi i tavoli. Nel primo governo della Sinistra, presieduto da Agostino Depretis, il ministro dell’Interno è l’ex garibaldino Giovanni Nicotera, che invia a Palermo il prefetto Antonio Malusardi che conduce una campagna contro il banditismo e va alla ricerca di sette di tipo mafioso, di cui fanno parte manutengoli dei banditi, possidenti, notabili e professionisti, anche sacerdoti, stando a una lista di mafiosi di Termini e Cefalù del 1877.

Nel corso degli anni ’70 e ’80 si svolgono alcuni processi a soggetti che fanno parte di gruppi mafiosi, imputati per associazione di malfattori. L’associazione di malfattori era stata introdotta nel codice napoleonico del 1810 ed era stata recepita dal codice sardo del 1859 che diventa il codice penale del nuovo Stato. L’art 426 prescriveva che “ogni associazione di malfattori in numero non inferiore a cinque, all’oggetto di delinquere contro le persone e le proprietà, costituisce per se stessa un reato contro la pubblica tranquillità”. La pena prevista era da uno a cinque anni. Il codice Zanardelli, introdotto nel 1890, all’art. 248 punisce l’associazione per commettere delitti di varia natura e sarà in vigore fino al 1930 quando sarà varato il codice fascista che all’art. 416 regolerà l’associazione per delinquere. Per il reato di associazione di tipo mafioso bisognerà attendere l’art. 416 bis della legge antimafia del 13 settembre 1982, approvata dieci giorni dopo il delitto Dalla Chiesa, con più di un secolo di ritardo sulla realtà.

Dal 25 aprile all’8 maggio del 1878 si svolge a Palermo il processo agli Stuppagghieri (da stuppagghiu: tappo, turacciolo) di Monreale, indicati come una “nuova mafia” che si contrappone alla mafia dei “giardinieri” e al centro della contesa è il controllo dell’acqua, con una serie di assassinii, si può dire la prima guerra di mafia di cui si abbia notizia. Il processo nasce dalle ricostruzioni del delegato di pubblica sicurezza, il torinese Emilio Bernabò, e dalle dichiarazioni del protopentito Salvatore D’Amico, assassinato poco prima del processo. Si parla di una setta nata nel 1872 ad opera di un Giuseppe Palmeri, fratello del delegato di pubblica sicurezza, che raccoglierebbe 300 persone legate da un rituale di affiliazione, con la puntura di un dito e il sangue che scorre su un’immagine sacra bruciata mentre si pronuncia il giuramento.

Nel processo tra i testimoni a favore ci sono ex sindaci, un conte, l’arciprete e pure l’ex reggente della questura di Palermo, Pietro Biundi, ora questore a Venezia. Il processo si conclude con la condanna per associazione per 12 imputati, ma la sentenza viene annullata per un vizio nella composizione della giuria e il secondo processo, a Catanzaro, si concluderà con l’assoluzione. Degli Stuppagghieri si sono occupati il delegato Antonino Cutrera che sostiene la tesi dell’accusa, cioè che esisteva l’associazione strutturata, e di recente Amelia Crisantino, che preferisce parlare di “comunanza di interessi”.

Si concludono invece con condanne i processi ai Fratuzzi di Bagheria, ai fratelli Amoroso e alla Fratellanza di Favara. A Bagheria nel corso degli anni ’70 si erano verificati, assieme ad altri delitti, 14 omicidi. Era stato ucciso il caporale delle guardie campestri Giuseppe Aguglia e in un attentato al cancelliere della pretura Gaspare Attardi cadeva il figlio undicenne Emanuele. La guardia e il cancelliere denunciavano le attività di alcuni personaggi che facevano parte di un’associazione di malavitosi e godevano della protezione del sindaco e di assessori comunali. Sono rinviate a giudizio 31 persone e il processo si conclude nell’aprile del 1879 con la condanna di 29 imputati, riconosciuti membri di un’associazione strutturata per gruppi di dieci persone, con un’organizzazione gerarchica e un capo, avente lo scopo di “padroneggiare il paese e trarre lucri nei pubblici e privati negozi”.

Dal 29 agosto al 18 ottobre del 1883 si svolge a Palermo, nell’aula della Corte d’assise in via Parlamento, il processo ai fratelli Amoroso accusati come componenti di un’associazione e di nove omicidi. Gli Amoroso erano in guerra con i Badalamenti e per anni si succedono in città omicidi e attentati. Tra le vittime, il giovane Gaspare Amoroso, che aveva svolto il servizio di leva come carabiniere: una violazione del codice mafioso che i suoi congiunti puniscono con un’esecuzione collettiva a coltellate, e una ragazza, Anna Nocera, che andava a servizio dagli Amoroso, è stata sedotta da uno di essi ed è scomparsa.

Il processo, in base anche a dichiarazioni di alcuni mafiosi, vede una grande partecipazione di pubblico e riscuote l’interesse della stampa, anche estera. Parti civili alcuni familiari di Gaspare Amoroso e Vincenza Cuticchia, vedova e madre della ragazza scomparsa, che rivolta agli imputati grida: “Scellerati, infami, vi succhiaste il sangue di mia figlia!”. A difesa degli imputati intervengono due deputati, Valentino Caminneci e Raffaele Palizzolo, che ritroveremo protagonista del processo per l’omicidio Notarbartolo, e alcuni nobili. Il processo si conclude con nove condanne a morte e altre condanne a pene detentive. Tra i condannati a morte un Vincenzo Minì, imputato assieme ai figli Antonio e Giacomo. I Minì sono mafiosi in carne e ossa, ma sulla base di un’imprecisione del sociologo Henner Hess (autore di un libro in cui nega l’esistenza della mafia come organizzazione e la considera una subcultura condivisa dagli abitanti della Sicilia occidentale), che attribuisce al Minì una dichiarazione di un altro imputato, incorre in una sorta di infortunio Leonardo Sciascia che ritiene Minì non il cognome di alcuni imputati ma un nome fittizio, qualcosa come Tizio, per indicare un mafioso immaginario.

Nel 1885 si svolge ad Agrigento il processo alla Fratellanza di Favara, con 168 imputati, sulla base delle dichiarazioni di mafiosi e di altri cittadini. L’associazione contava circa 500 affiliati, con un capo e uno statuto che prevedeva riti di iniziazione, un giuramento e segni di riconoscimento di origine massonica (si faceva riferimento a una “repubblica universale”). L’associazione si sarebbe formata nel carcere di Ustica e riuniva vari gruppi, con la dichiarata finalità del mutuo soccorso. Le pene inflitte variarono da 2 a 4 anni di carcere.

Contrariamente a quello che si dice, i mafiosi che parlano non sono una novità degli ultimi anni; già in questi processi decisive sono le dichiarazioni di mafiosi, anche se spesso ritrattano, e di altri che collaborano con la giustizia; alcuni familiari di vittime si costituiscono parti civili, smentendo la tesi di un’omertà generalmente condivisa, accusano pubblicamente i responsabili dei delitti e riescono ad avere giustizia.

 

Pubblicato su Repubblica – Palermo il 3 luglio 2015, con il titolo Le associazioni e i primi pentiti nella guerra ai clan dell’800