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Per Claudio Pavone

Umberto Santino

Per Claudio Pavone

Ho conosciuto Claudio Pavone nel 1977, in occasione del convegno “Portella della Ginestra: una strage per il centrismo” con cui il Centro siciliano di documentazione iniziava la sua attività. Al convegno parteciparono, tra gli altri, Vittorio Foa, Lisa Foa, Nicola Gallerano, Anna Rossi Doria, compagna di Claudio. Pavone svolse una relazione sul tema.: “Stato e regioni: la ricomposizione a livello istituzionale”. La sua tesi era che c’era una sostanziale continuità tra il fascismo e il nuovo Stato repubblicano, per la ricomposizione del blocco dominante e per il permanere degli stessi funzionari nell’apparato burocratico. L’amnistia concessa dal ministro della Giustizia, il segretario del Partito comunista Palmiro Togliatti, in nome della riconciliazione nazionale, che doveva fare da base a una nuova convivenza, dopo le lacerazioni successive alla caduta del fascismo, in realtà preparava un futuro in cui sarebbe prevalso il vecchio impedendo sul nascere il nuovo.

Questi temi erano al centro delle analisi di uno storico che ha avuto un ruolo rilevante nella rifondazione degli studi sulla Resistenza. Nel suo libro “Resistenza e storia d’Italia” del 1976, Guido Quazza analizzava il rapporto tra continuità e rottura, collegandosi con un movimento che dagli ultimi anni ’60e poi negli anni successivi proponeva una lettura della Resistenza come lotta di liberazione da riprendere e attualizzare. La Resistenza veniva collocata all’interno di una prospettiva di lungo periodo, segnato dal passaggio dall’età liberale al fascismo e dal fascismo alla democrazia repubblicana. Modificazioni sociali, politiche e istituzionali convivevano con elementi di continuità come l’immutabilità dei gruppi di potere economico-finanziari e della pubblica amministrazione. Era cambiata la forma ma per molti versi rimaneva intatta la sostanza.

Claudio Pavone, già in un suo intervento nel corso di un convegno su “Passato e presente della Resistenza”, i cui atti sono stati pubblicati nel 1995, poneva le basi per la sua opera maggiore, che apparirà con titolo riduttivo voluto dall’editore: “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza”, pubblicato nel 1991 e successivamente ripubblicato. L’accento posto sullo scontro tra antifascisti e fascisti, che assumeva il carattere appunto di una “guerra civile” destava molte perplessità a sinistra, dato che quella denominazione era appannaggio della destra. Ma il discorso di Pavone era molto più complesso e si basava su una monumentale documentazione, raccolta nella sua esperienza di organizzatore degli archivi storici e nell’attività svolta all’interno dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, voluto da Ferruccio Parri. Nell’analisi di Pavone si coniugavano tre aspetti: la guerra civile, la guerra patriottica e di liberazione, la guerra di classe. La Resistenza così veniva ricostruita nella sua complessità e il suo lavoro diventava il riferimento obbligatorio per i successivi approfondimenti. Alle critiche che suscitarono le analisi di Pavone, e che si rifacevano all’equiparazione delle parti in conflitto operata dalla destra, l’autore rispondeva che mai come nelle guerre civili le parti sono “irrimediabilmente diverse e divise. I fascisti volevano un’Italia opposta a quello che volevano i resistenti. La posta in gioco era dunque il senso stesso dell’Italia e della identità nazionale (altro che obnubilamento di questa!) e la guerra di liberazione fu combattuta non solo contro il tedesco invasore… ma proprio per concorrere a liberare l’Italia dalla prospettiva di un perpetuarsi del regime fascista”. Quanto di questo progetto si sia realizzato può trarsi dalle analisi dello stesso Pavone su una continuità che convive e ridimensiona la rottura.

Claudio Pavone, che ha partecipato alla lotta partigiana, può considerasi sul terreno storiografico il pioniere di una lettura della Resistenza che rimane la più complessa e articolata. Oggi si parla di una Resistenza plurale e questo pluralismo è stato al centro dell’elaborazione della Costituzione nei suoi principi fondamentali, frutto del patto tra le storiche culture politiche del nostro Paese: la liberale, la cattolica, l’azionista, la marxista. Un patto che fu rotto nel maggio del 1947, con l’archiviazione della coalizione antifascista al governo dal 1944, quando la vittoria delle sinistre alle elezioni regionali siciliane del 20 aprile allarmò i gruppi di potere a livello locale, nazionale e internazionale. E si rispose con la strage di Portella, il cui messaggio era chiarissimo: le sinistre si battono con tutti mezzi e quando non sono sufficienti quelli legali si ricorre alla violenza mafiosa, progettata e avallata da un blocco di potere che mira a perpetuarsi. Questo era il significato del convegno del 1977, che diceva una parola nuovo su un evento considerato soltanto come un fatto locale e frutto del disorientamento delle classi conservatrici, mentre era un laboratorio del futuro, l’embrione di un progetto che sarà attuato ogni volta che il dominio del blocco di potere verrà messo in forse. Questo filo rosso che comincia a dipanarsi da Portella arriverà a Piazza Fontana, a Piazza della Loggia e alla stazione di Bologna. Su questo che è stato definito “l’eterno fascismo italiano” Claudio Pavone, con le sue analisi e il suo impegno civile, ci ha consegnato un lascito fondamentale per capire la storia del nostro Paese e progettare possibili alternative.