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Dialogo con Falcone

Su iniziativa del Centro studi giuridici e sociali “Cesare Terranova”, il 21 febbraio 1992, nell’Aula Magna della facoltà di Giurisprudenza di Palermo, è stato presentato il libro Gabbie vuote. Processi per omicidio a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, frutto di una ricerca svolta dal Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”, condotta da Giorgio Chinnici e Umberto Santino, con la collaborazione di Ugo Adragna e Giovanni La Fiura.
Relatori: Giovanni Falcone, direttore generale Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, Alfonso Giordano, presidente di sezione della Corte d’Appello di Palermo, giudice del maxiprocesso, Aldo Rizzo, presidente del Centro “Cesare Terranova”, Libertino Russo, consigliere della Corte d’Appello di Palermo e Giovanni Tranchina, ordinario di Procedura penale all’Università di Palermo.
Qui pubblichiamo gli interventi di Giovanni Falcone e Umberto Santino.

 

Giovanni Falcone

Tutte le volte che si presenta, o si partecipa alla presentazione di un libro, in materia come quella di cui ci stiamo occupando, si corre il rischio, anziché di parlare del libro, di parlare di diversi problemi, che poi hanno ben poco a che vedere con l’impianto complessivo del libro, la valutazione delle tesi che emergono dal libro, la discussione sui vari problemi sollevati dal libro stesso. Come al solito, anche stasera, si parla delle polemiche più o meno contingenti a livello nazionale e la materia trattata dal libro è passata praticamente, non dico in secondo ordine, ma comunque è stata un po’ messa da parte.

Io vorrei anzitutto rimediare a questa omissione e vorrei ricordare un detto di un autorevole collega: «Quando i problemi sono caldi, la mente deve essere particolarmente fredda.»

Una materia incandescente come quella trattata dal libro presuppone un atteggiamento mentale di particolare calma, di particolare tranquillità.

Bisogna sfuggire alla tentazione di lasciarsi prendere dalla passionalità, dall’emozione, nonostante il fatto che quasi tutti quelli che siamo seduti dietro questo tavolo abbiamo partecipato in prima persona a queste vicende. Io in particolare ho visto morire nel corso dell’istruttoria di questo processo alcuni fra i miei amici più cari.

Se così è, vorrei partire da quanto annotato nel saggio, e cioè i dati statistici, importantissimi, che danno esatta la dimensione della crisi della giustizia.

E inutile nasconderci dietro un dito, sono questi i dati con cui ci dobbiamo confrontare e che impongono rimedi adeguati ed immediati. I dati sono che di fronte a una criminalità violenta che indubbiamente è scesa e di molto – dai 19,2 omicidi per centomila abitanti del 1880 si è passati ai circa tre omicidi del periodo attuale, quindi a livello nazionale abbiamo una media del tre per centomila che è abbastanza in linea con la media degli altri paesi europei, e di molto inferiore, per esempio, agli Stati Uniti d’America –; nonostante questo nelle regioni ad alta densità mafiosa il tasso di criminalità, quindi di omicidi, è praticamente allo stesso livello di prima, è sceso di molto poco. Abbiamo in Calabria un quoziente di undici omicidi per centomila abitanti, quindi quattro volte superiore alla media nazionale. La Sicilia ha otto omicidi per centomila abitanti, la Campania sette omicidi. Di fronte a questo dato impressionante l’efficienza del sistema è veramente miserevole. Noi abbiamo – e sono i dati, se non sbaglio, che riguardano il periodo dal ’52 all’83 – di fronte a quasi 34 milioni di delitti, poco più di due milioni e seicentomila condannati, cioè abbiamo una media di 7,81 condannati per ogni cento delitti.

Per gli omicidi il tasso di impunità supera l’ottanta per cento dei casi, e inoltre, una buona metà di coloro che sono condannati in primo grado, alla fine ottengono una sentenza liberatoria. Recentemente al Ministero abbiamo compiuto, nelle principali città italiane, un monitoraggio sull’attività delle procure circondariali e abbiamo accertato che nei processi contro noti – attenzione, contro noti, sbaglio a dire processi, negli affari contro noti, non contro ignoti – il sessantacinque per cento dei casi si conclude con una richiesta di archiviazione. Il che significa che per due terzi il lavoro investigativo gira a vuoto.

Questi sono i dati. In questo panorama abbiamo una vicenda come quella del maxiprocesso palermitano che a mio avviso ha un grave torto, quello di essere stato abbondantemente al di fuori del cliché ordinario per i processi alla mafia. Così come di fronte ai toni trionfalistici all’inizio del maxiprocesso ammonivamo: attenzione, questo è soltanto l’inizio di una seria attività di contrasto, per carità non parliamo di lotta contro la mafia; allo stesso modo adesso dico: attenzione, non sottovalutiamo il risultato di questo maxiprocesso, perché altrimenti si continuerà a percorrere altre strade che hanno dato esito totalmente fallimentare.

È la prima volta – come si fa a dimenticare questo dato? – sia pure in un processo con centinaia di imputati, che l’organizzazione mafiosa denominata «Cosa Nostra» viene processata in quanto tale. I suoi membri, i suoi aderenti, vengono processati in quanto appartenenti a questa organizzazione. Ed è un processo che non si è concluso con la solita litania, con la solita sequela di assoluzioni per insufficienza di prove – adesso sarebbero tutte con formula piena – ma è un processo che si è concluso con ben dodici ergastoli e gli annullamenti in Cassazione sicuramente porteranno ad altri ergastoli. È una sentenza che ormai ha fissato dei punti fermi, dei punti cardine, che sicuramente si riverbereranno su tante altre vicende processuali, come già l’esperienza di questi giorni dimostrerà. È stata confermata soprattutto, nella maniera più autorevole, la bontà di una ipotesi investigativa, che ha trovato riscontri molto importanti.

Ecco quindi che non mi sentirei di dire che il processo ha fatto un buco nell’acqua, ma Umberto Santino non diceva questo, diceva che il processo ha fatto un buco nell’acqua nella parte riguardante gli omicidi.

Io, è una opinione mia personale, dissento anche da questo punto di vista. In ogni caso un dato è certo: questo processo rappresenta il punto più alto dell’impegno dello Stato. Il punto più alto di un momento in cui vi è stata una felice sintesi – adesso si direbbe una felice sinergia – di tutte le forze istituzionalmente preposte alla repressione dei fenomeni mafiosi. Ci sono stati impegno dei singoli, lavoro di gruppo, sostegno da parte dei competenti organismi statuali per quanto riguarda le strutture e per quanto riguarda i mezzi materiali.

Ancora una volta sento parlare di scelte: ma un principio come l’obbligatorietà dell’azione penale è un punto di forza per tutti, assolutamente intangibile. Se ne deve parlare solo quando fa comodo e non parlarne quando non fa comodo. Di fronte a principi come l’obbligatorietà dell’azione penale, la connessione dei reati associativi, la conseguenza del maxiprocesso era assolutamente inevitabile. Qui non è per difendere né posizioni mie né posizioni di altri, però bisogna riconoscere almeno che sarebbe stato un arbitrio frazionare il processo, di fronte a una realtà che era mostruosa e che è stata riconosciuta come tale, unica ed unitaria, proprio dalla Suprema Corte di Cassazione e da quella Ia Sezione Penale, che non si può dire sia stata tenera nei confronti degli errori dei magistrati.

Questo è un dato di fatto che non si può disconoscere. Quando un pentito, fra virgolette – parola che non mi piace affatto insieme a tutto ciò che viene preceduto da «super» –, parla di tante persone, che si fa? Si chiude di fronte a quella famosa obbligatorietà dell’azione penale, gli si impone di stare zitto, superato un certo numero di imputati o di accuse?

Scusatemi, e quando gli omicidi sono centinaia l’autorità giudiziaria che cerca di scoprirli fa supplenza, o no? Oppure l’omicidio diventa un fatto politico quando supera un certo numero di vittime?

In realtà, anche su questo punto credo che Umberto Santino sia stato frainteso. Ha voluto parlare, se ho capito bene, di supplenza giudiziaria non nel senso che la magistratura si è assunta compiti non propri – non credo che sia compito estraneo all’attività del pubblico ministero il perseguimento dei delitti, soprattutto di crimini così gravi – ma nel senso che ad un certo impegno, ad un impegno straordinario da parte della magistratura in un determinato periodo, non vi è stato un pari impegno da parte di altri organi statuali.

Questa è una tesi che meriterebbe approfondimento e che sicuramente ha un fondamento di verità. Io ricordo ancora quella volta in cui un ministro dell’Interno, proprio qui a Palermo, ebbe a dirci che la mafia non era il problema prioritario dell’ordine pubblico in Italia.

In realtà è questo il punto che credo finalmente stia entrando in circuito, come suol dirsi: la comprensione, la consapevolezza che problemi come la mafia, come le altre organizzazioni mafiose, non sono questioni emergenziali, ma questioni purtroppo endemiche, questioni con cui ci si dovrà confrontare per lungo tempo nel futuro, e quindi questioni con cui bisognerà fare i conti, attrezzandoci in maniera che non sia episodica ed occasionale.

Insomma, e concludo, il maxiprocesso è stato il frutto di una felice coincidenza di una stagione d’oro palermitana degli organismi giudiziari e di polizia. Tutto questo non deve essere lasciato al caso, tutto questo non deve essere il frutto della presenza di un soggetto anziché di un altro. Occorre che vi siano delle strutture che siano in grado di assicurare, indipendentemente dalle persone che rivestono quei posti, un’efficace azione di contrasto.

È questo, credo, il messaggio che viene fuori da questo libro: il grido di allarme nei confronti di una situazione dell’ordine pubblico, che è largamente deficitaria e che merita di essere quindi affrontata in termini di urgenza e di efficienza.

 

Umberto Santino

Brevissimamente: sono contento di questo dibattito. Il libro – e il titolo da questo punto di vista ha una sua enfasi giornalistica – che voleva essere una provocazione ma una provocazione documentata, credo sia servito per generare un dibattito non formale, un dibattito in cui ci sono stati anche dei toni polemici, soltanto che a volte questi toni polemici hanno riguardato equivoci che credo l’intervento di Giovanni Falcone ha chiarito.

Supplenza: io ho usato questo termine non per dire che la magistratura è andata oltre, si è arrogata compiti non suoi, ma ho usato questo termine per dire che la magistratura ha fatto per intero, per quello che poteva, il suo dovere. Il libro lo abbiamo dedicato a Terranova, Chinnici, Ciaccio Montalto e a tutti gli altri magistrati che nel compimento del loro dovere si sono scontrati a tal punto da averci rimesso la vita.

Quindi non è una magistratura che va oltre, una magistratura che non fa quello che dovrebbe, o lo fa in modo non corretto. E una magistratura che ha operato in quel periodo, anche per le sinergie di cui parlava prima Giovanni Falcone. Poi è iniziata l’operazione che ha portato allo sgretolamento, cioè l’operazione che ha portato alla distruzione di quel soggetto che ha generato tutta quella mole, enorme e importantissima, di lavoro che a mio avviso permette di non tornare più indietro. Però bisogna andare avanti e bisogna vedere come e perché è stato sgretolato il pool antimafia, perché al palazzo di giustizia di Palermo, e non solo al palazzo di giustizia di Palermo, sono successe una serie di cose che hanno portato proprio alla distruzione di quel soggetto che invece doveva essere considerato come un soggetto benemerito, perché aveva realizzato, appunto, quella mole di lavoro che permetteva finalmente di considerare «Cosa Nostra» nella sua complessità.

Quindi la supplenza a mio avviso c’è stata. Nel senso che i magistrati sono stati mandati a volte allo sbaraglio, comunque in avanscoperta e le altre istituzioni dello Stato, che già avevano mandato in avanscoperta e allo sbaraglio Dalla Chiesa, via via si tiravano indietro, per operare in modo da distruggere quel soggetto che aveva generato il maxiprocesso. Il secondo punto riguarda il buco nell’acqua. Anche questo credo che Giovanni Falcone abbia chiarito: qui bisogna riflettere sulla obbligatorietà dell’azione penale, perché gli omicidi in Italia erano impuniti e in grandissima parte continuano a rimanere tali. Soprattutto per quanto riguarda i mandanti e poi, in particolare, all’interno del fenomeno, per quanto riguarda gli omicidi che hanno una particolare importanza nella strategia mafiosa, cioè quelli politico-mafiosi, che mirano a portare a compimento il programma di espansione delle organizzazioni mafiose. Lo consideriamo un dato di natura oppure dobbiamo porci questo problema seriamente?

Questo è il punto di riflessione che questo dibattito a mio avviso deve lasciare. Non è un interrogativo a cui si risponde facilmente, però non credo neppure che sia un problema secondario perché su questa impunità si gioca la democrazia in un paese come il nostro. Perché se uccidere è lecito – e l’impunità significa questo, perché hai la forza non soltanto di eseguire il delitto ma poi di operare tutte le «connessioni» per restare impunito –, tutto questo vuol dire che democrazia, nei posti in cui si commettono omicidi politico-mafiosi che restano quasi certamente impuniti, o non ce n’è o ce n’è molto poca.

Da: M. Bartoccelli, C. Mirto, A. Pomar (a cura di), Magistrati in Sicilia, Ila Palma, Palermo 1992.