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Per Giuseppe Francese

Umberto Santino

Per Giuseppe Francese

Un giorno compare al Centro Impastato un giovane che non ricordavo di avere incontrato prima. Ha un volto bellissimo, pensoso, intelligente Si presenta: “Sono Giuseppe Francese, figlio di Mario”. Di suo padre ricordavo perfettamente gli articoli e i servizi da pioniere del giornalismo investigativo: le inchieste sulla diga Garcia, sui corleonesi, sui prodromi di quella che da lì a qualche anno sarebbe stata la guerra di mafia più sanguinosa della storia. Ricordavo l’intervista a Felicia, la madre di Peppino Impastato che si era presentata assieme alla sorella Fara e al figlio Giovani al Palazzo di giustizia per costituirsi parte civile. “Mio figlio – diceva Felicia – non si è suicidato e non era un terrorista, è stato ucciso”. E Francese, che di personaggi e fatti di mafia era un archivio vivente, le aveva chiesto di Cesare Manzella, il capomafia ucciso nel 1963, marito della sorella di Luigi, il padre d Peppino. E Felicia gli aveva risposto confermando quella parentela e con un “non capisco dove vuole arrivare”. I familiari di Peppino dicono a Francese che non hanno fatto alcun nome, ma qualche giorno prima, presentando un esposto alla Procura contro ignoti, avevano parlato dei Badalamenti. Felicia è ai primi passi su un percorso che la porterà ad essere più che una madre coraggio, un riferimento obbligato, accanto al figlio ucciso e al figlio vivo, nell’antimafia degli ultimi decenni.
Cominciamo a parlare e Giuseppe mi dice che le indagini sull’assassinio del padre sono ferme e non sa cosa fare per farle riprendere. Gli do qualche consiglio: un avvocato che non sia soltanto un buon professionista ma che ci metta testa e cuore, perché condivide le scelte di Francese. E tenere viva l’attenzione, raccogliendo materiali, tempestando quotidianamente il Palazzo di giustizia. In Italia la giustizia si conquista, e ha i suoi prezzi. In costanza, determinazione, rischio. E qualche volta delusione. Gli dico: “È quello che abbiamo fatto per Peppino, ma per tuo padre il compito dovrebbe essere più facile, perché nessuno nega che sia stato un delitto di mafia”.
Giuseppe è tornato altre volte e ha mostrato l’intenzione di calcare le orme del padre. Vuole scrivere, vuole essere giornalista, non fare il giornalista, tirocinante presso qualche redazione. Giornalista per passione, prima che per professione, la passione-missione per sottrarre al silenzio le persone dimenticate, dissotterrare i casi non chiusi o mai aperti. Gli parlo di Cosimo Cristina, il giornalista trovato morto a Termini Imerese il 5 maggio del 1960, e gli do qualche informazione.
Così Giuseppe comincia a lavorare, instancabilmente, su due fronti: giustizia per il padre, memoria per ridare vita alle vittime dimenticate. Per suo padre otterrà, oltre che la verità storica che era già acclarata, la verità giudiziaria: sono stati i boss di quella che dopo le rivelazioni di Buscetta si chiamerà “cupola” a volere la morte di Francese, perché portava alla luce il volto coperto di quella che ora si chiamava “Cosa nostra”. Come giornalista Giuseppe pubblica degli articoli che via via mostrano una maturità raggiunta, camminando con le sue gambe: su Cosimo Cristina, “suicidato dalla mafia?”, su Ugo Triolo, l’avvocato vicepretore onorario di Corleone, assassinato il 26 gennaio 1978 e totalmente dimenticato, su Leonardo Vitale, sottolineando che lo Stato le aveva sottovalutate ma Mario Francese aveva capito l’importanza delle sue dichiarazioni.
Ho tra le mani la documentazione che mi ha portato: il dossier del padre in fotocopia, e i suoi articoli, i suoi racconti. Il giornalista maturava lo scrittore. Ma a un certo punto ha deciso di andarsene. Come se avesse adempiuto il suo compito. Scriveva: “Nella mia vita non ho soltanto cazzeggiato, qualcosa di serio l’ho fatta anch’io. Ho scritto e ho scritto di mafia. Mio padre è stato un grande giornalista investigativo. Scriveva soprattutto di mafia. Per questo lo hanno ucciso: ventidue anni fa. Che fosse il migliore lo dice un’inchiesta giudiziaria, sfociata poi in un processo. Sette le condanne. Anch’io ho scritto qualcosa, perché lo faccio? Dato che nella vita il mio lavoro è un altro? Boh! Forse soltanto sete di verità. Così qualche inchiesta l’ho fatta anch’io. In periodici poco conosciuti ma in cui ero libero di scrivere quello che volevo e l’ho fatto, credo di averlo fatto, bene”. Un bilancio che sembrava provvisorio, ma è stato definitivo.