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Documenti e scritti vari – Appunti sulla ricerca su ‘Donne e mafia’

Anna Puglisi – Umberto Santino

Appunti sulla ricerca del Centro Impastato su “Donne e mafia”

Nell’ambito del Progetto di ricerca “Mafia e società” del Centro Impastato (sono già state svolte le ricerche sull’omicidio a Palermo, pubblicata nel volume: G. Chinnici – U. Santino, La violenza programmata ; sui processi per omicidio, pubblicata nel volume: AA.VV., Gabbie vuote ; sulle imprese mafiose, pubblicata nel volume: U. Santino – G. La Fiura , L’impresa mafiosa), è in corso una ricerca su “Donne e mafia”, di cui sono stati pubblicati il dossier di rassegna stampa Con e contro e i volumi: F. Bartolotta Impastato, La mafia in casa mia e A. Puglisi, Sole contro la mafia con storie di vita.
La ricerca su “Donne e mafia” mira ad analizzare il ruolo delle donne nell’organizzazione e nelle attività mafiose e nella lotta contro la mafia, ma prima ancora nella società siciliana e meridionale, e prevede l’esame della letteratura, la raccolta della documentazione (attraverso atti giudiziari e la rassegna stampa) e di storie di vita. Il quadro generale in cui si inserisce risulta dall’esame critico della letteratura e delle idee correnti sulla mafia e dalla formulazione di quello che abbiamo definito “paradigma della complessità” (si veda: Santino, 1995a).


La donna nella società siciliana e meridionale

Preliminare a una ricerca sul ruolo delle donne nella mafia e contro la mafia è una ricostruzione, anche sintetica e schematica, del ruolo della donna nella società siciliana e meridionale. Limitandoci a un cenno brevissimo, la letteratura esistente, da quella folklorica alla più recente, è in larga parte concorde nel definire il ruolo della donna nella società meridionale come subalterno e passivo, ritagliato esclusivamente nello spazio domestico e interpretabile soprattutto, se non esclusivamente, attraverso lo schema antropologico del codice onorifico. La realtà è più complessa, basti pensare al ruolo delle donne nelle lotte sociali in Sicilia, a cominciare dai Fasci siciliani.
Nell’economia della ricerca, sarà delineato un quadro della letteratura esistente e della condizione della donna, ricostruita attraverso dati sulla presenza nel mercato del lavoro, nelle professioni, l’esame del ruolo nei processi di socializzazione etc.


La mafia come fenomeno complesso

Nel tentativo di andare oltre gli stereotipi (mafia come emergenza, antistato etc.) che sono decisamente fuorvianti e dei paradigmi più affermati (mafia come associazione a delinquere tipica e come impresa) che a nostro avviso danno una rappresentazione parziale, abbiamo considerato la mafia come un fenomeno complesso e polimorfico, adottando la seguente ipotesi definitoria:

Mafia è un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l’unica è Cosa nostra, che agiscono all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale.

Ci troviamo di fronte a un fenomeno che non può essere analizzato con la categoria criminologica della devianza, utilizzabile per la criminalità comune, ma in cui l’uso della violenza privata è funzionale alle dinamiche di formazione del dominio di classe: all’interno di un sistema relazionale interclassista la funzione dominante è esercitata da strati illegali-legali che abbiamo definito “borghesia mafiosa”: una chiave interpretativa che richiama e attualizza i “facinorosi della classe media” di cui parlava Franchetti.
Com’è noto, il dilemma mafia come organizzazione o modello comportamentale percorre tutta la letteratura antropologica e sociologica dall’ultimo trentennio del secolo XIX a oggi. Mentre fino a pochi anni fa l’idea dominante era quella della mafia come subcultura, comportamento, mentalità diffusa e si negava l’esistenza di una struttura organizzativa, confinandola tra le “idee errate”, dagli anni ’80, sull’onda delle acquisizioni in sede giudiziaria e delle rivelazioni dei cosiddetti “pentiti”, c’è stata una conversione alla tesi organizzativista, per cui oggi si parla di Cosa nostra, con la sua struttura unitaria, gerarchica, piramidale, come unico oggetto di studio. In tal modo si è finiti con l’accodarsi all’attività giudiziaria e i “pentiti” sono diventati la fonte privilegiata di conoscenza del fenomeno mafioso.
Ora, un conto è utilizzare le fonti giudiziarie un altro dipendere totalmente, o quasi, da esse. Il compito dello scienziato sociale è diverso da quello del magistrato e dell’investigatore. Dovrebbe essere scontato, ma a quanto pare non lo è, per cui è bene ribadirlo: il magistrato

deve ricercare elementi di prova tali da poter individuare e colpire i responsabili di comportamenti definiti delittuosi dalle leggi vigenti, mentre lo studioso ha un compito diverso, che si può riassumere nella ricerca delle specificità di un fenomeno e delle sue relazioni con il contesto, per cui fatti irrilevanti penalmente assumono una rilevanza che non possono avere nel quadro di un’inchiesta giudiziaria. Sono diversi gli scopi, gli strumenti, i metodi. È un’altra lingua e un altro sapere (Santino, 1995a, pp. 76 s.).


Continuità e innovazione

Anche per quanto riguarda l’evoluzione storica del fenomeno mafioso, ci sembra scorretta la rappresentazione che fa riferimento a una generica “vecchia mafia”, soppiantata da un’altrettanto generica “nuova mafia”, riproposta nella distinzione tra “mafia tradizionale” e “mafia imprenditrice”. In realtà l’evoluzione del fenomeno mafioso è un intreccio di continuità e innovazione e la sua persistenza si spiega con l’elasticità e la capacità di adattamento a diversi contesti spazio-temporali. Per cui aspetti arcaici, come la “signoria territoriale”, vengono rifunzionalizzati a opportunità e risorse della società contemporanea, come i traffici internazionali di droghe e di armi e i sistemi di riciclaggio.
L’intreccio di continuità e innovazione non toglie la possibilità di distinguere delle fasi nello sviluppo della mafia, sulla base dell’individuazione di un aspetto prevalente rispetto ad altri e con riferimento ai mutamenti del quadro sociale e agli adeguamenti ad essi da parte dei gruppi mafiosi. Abbiamo individuato quattro fasi: 1) una lunga fase di incubazione, dal XVI secolo ai primi decenni del XIX secolo, in cui più che di mafia vera e propria si può parlare di “fenomeni premafiosi” (attività delittuose regolarmente impunite di gruppi armati al servizio dei baroni; finalità accumulative di alcune forme delittuose, come i sequestri di persona, gli abigeati, le estorsioni); 2) una fase agraria, dalla formazione dello Stato unitario agli anni ’50 del XX secolo, con delle subfasi al suo interno; 3) una fase urbano-imprenditoriale, negli anni ’60; 4) una fase finanziaria, dagli anni ’70 a oggi.
Non possiamo dilungarci a illustrare tale ipotesi di periodizzazione. Ci limitiamo a dire che ci è sembrata, finora, la più rispondente al tipo di analisi che abbiamo condotto in questi anni, nel tentativo di cogliere l’interazione tra aspetti permanenti e innovativi, che ha consentito a un fenomeno sorto dentro un orizzonte locale abbastanza limitato – le quattro province della Sicilia occidentale – di estendersi territorialmente e di assumere la rilevanza attuale.


Monosessualità formale e bisessualità di fatto

Anche sotto il profilo di genere, il fenomeno mafioso lungi dal coincidere con le rappresentazioni basate sulla chiusura e rigidità, dimostra una grande capacità di adattamento. La mafia formalmente è un’organizzazione maschile, ma il maschilismo mafioso non è altro che il rispecchiamento del maschilismo del contesto sociale e, poiché la mafia non ha ideologia e le sue prassi sono caratterizzate da un grande opportunismo, non c’è da sorprendersi se essa vada adattandosi a un contesto in cui il ruolo delle donne è cresciuto, a prescindere da valutazioni di carattere etico su contenuti e modalità di esercizio dei ruoli.
Anche se i mafiosi collaboratori di giustizia continuano a sostenere che l’organizzazione mafiosa è monosessuale, che ammessi ai riti di affiliazione sono solo i maschi, le notizie sempre più numerose su compiti di comando assunti da donne in gruppi mafiosi, in seguito all’arresto dei capi, possono benissimo rispondere a verità, se si considera la natura elastica della mafia. La Chiesa cattolica avrà problemi ad ammettere al sacerdozio le donne, come le istituzioni pubbliche hanno avuto e continuano ad avere remore nel praticare le pari opportunità, mentre per la mafia non si pone il problema di attenersi a regole rigide, perché anche quando ci sono, o si dice che ci siano, è ben lontana dal rispettarle nei fatti e perché la sua storia è un continuo processo di mimesi e di adattamento.
Per dare un’idea del ruolo delle donne nel mondo mafioso riportiamo alcuni casi che ci sembrano particolarmente significativi.
Troviamo donne accusate di attività mafiose già nel processo alla mafia delle Madonie del 1927-1928. Tra i 153 imputati (mafiosi e loro fiancheggiatori) c’erano 7 donne, con imputazioni come l’assistenza ai latitanti, la riscossione dei pizzi e la custodia del denaro; mentre nel maxiprocesso di Palermo del 1986, su 460 imputati le donne erano solo 4: due incriminate per traffico di stupefacenti, una per favoreggiamento e un’altra per falsa testimonianza.
Tra le imputate del processo alla mafia delle Madonie c’erano quattro appartenenti alla famiglia mafiosa degli Andaloro e Giuseppa Salvo, definita dai giornali “la regina di Gangi” per il suo ruolo di spicco, che nel corso del processo mantenne un perfetto atteggiamento omertoso (Siragusa-Seminara, 1996, p. 110).

Nello stesso periodo comincia la sua carriera di ricercata dalla giustizia Maria Grazia Genova, detta “Maragè”, una donna di Delia, in provincia di Caltanissetta, nata nel 1909 e morta in ospedale, in miseria, il 15 dicembre 1990, dopo aver collezionato una cinquantina di denunce e ventidue arresti.
Sorella di Diego, “uomo di rispetto” del paese, già nel 1927 viene arrestata per furto. Nel 1949 riuscì ad evadere dal carcere dove doveva scontare una pena in seguito alle indagini sulla faida in cui era coinvolta la sua famiglia e che finì quando non ci fu più nessuno da ammazzare (Cascio – Puglisi (a cura di), 1986, p. 16). Si sospetta che quando qualcuno della sua famiglia aveva problemi con la giustizia ed era necessario pagare gli avvocati, lei si presentasse da professionisti e commercianti di Delia e chiedesse il “contributo” (“L’Ora”, 17 dicembre 1990).
Mandata al confino agli inizi degli anni sessanta, nel ’79, quasi ottantenne, venne proposta di nuovo per il soggiorno obbligato.

Più recente è l’attività di Angela Russo che viene arrestata, assieme ad altre 27 persone tra cui i figli e le nuore, il 13 febbraio del 1982, all’età di 74 anni, perché sospettata di essere stata corriera di droga tra Palermo, le Puglie e il Nord Italia. Ma subito si scopre che la Russo, che viene soprannominata “nonna eroina”, era più che corriera: lei era stata l’organizzatrice del traffico di droga fatto dalla sua famiglia e all’atto dell’arresto, e poi durante il processo e nei confronti del figlio pentito, si comporta da perfetta mafiosa (Cascio – Puglisi (a cura di), 1986, pp. 83 s., 86 s., 96 s.). Chiama il figlio “vigliacco e infame” e in un’intervista dice: “Salvatore io l’ho perdonato, ma non so se Dio potrà mai perdonarlo. … Dicono che fra un anno esce. Lui lo sa che è condannato, lo sa che esce e lo ammazzano. Quelli non perdonano. … Lui prima spera di avere il tempo di vendicare suo fratello Mario, morto ammazzato per causa sua. Ma che pensa di poter fare? Prima ci doveva pensare a Mario. Ora non gli daranno il tempo. Ora, Salvino, quando esce muore” (Pino, 1988, p. 89).
E ancora, non riconoscendosi nel ruolo subalterno che le viene attribuito: “Quindi secondo loro io me ne andavo su e giù per l’Italia a portare pacchi e pacchetti per conto d’altri. … Dunque io che in vita mia ho sempre comandato gli altri, avrei fatto questo servizio di trasporto per comando e conto d’altri? Cose che solo questi giudici che non capiscono niente di legge e di vita possono sostenere”.
Ed espone una sua precisa idea di mafia, fatta di “veri uomini”, come suo padre, di leggi severe che colpivano inesorabilmente chi “sbagliava” e risparmiavano i “figli di mamma”, mentre adesso…: “E vanno a dire mafioso a questo, mafioso a quello. Ma che scherzano? Siamo arrivati a un punto che un pinco pallino qualsiasi che ruba subito è “mafioso”. Io in quel processo di mafiosi proprio non ne ho visti. Ma che scherzano, è modo di parlare di cose serie? Ma dove è più questa mafia, chi parla di mafia, cosa sanno loro di mafia? Certo, sissignora, io ne so parlare perché c’era nei tempi antichi a Palermo e c’era la legge. E questa legge non faceva ammazzare i figli di mamma innocenti. La mafia non ammazzava uno se prima non era sicurissima del fatto, sicurissima che così si doveva fare, sicurissima della giusta legge. Certo, chi peccava “avia a chianciri”, chi sbaglia la paga, ma prima c’era la regola dell’avvertimento… Allora in Palermo c’era questa legge e questa mafia. C’erano veri uomini. Mio padre, don Peppino, era un vero uomo e davanti a lui tremava di rispetto tutta Torrelunga e Brancaccio e fino a Bagheria…” (Pino, 1988, pp. 79 s.).

Un esempio degli ultimi anni è quello di Maria Filippa Messina, giovane moglie di Nino Cinturino, boss di Calatabiano, paese in provincia di Catania, in carcere dal 1992. Il suo è un esempio di donna “supplente”, in assenza del marito capomafia, ma una supplente che dimostra di potere assumere essa stessa il ruolo di capomafia.
Viene arrestata il 4 febbraio 1995 nella sua abitazione a Calatabiano, appunto perché sospettata di essere alla guida della famiglia del paese dopo l’arresto del marito e viene accusata di avere assoldato killer per vendicare l’omicidio di un mafioso della cosca, ucciso assieme alla madre. In alcune conversazioni, intercettate dalla polizia, la Messina dice che era venuto il momento “di pulire il paese”, per ottenere il controllo del territorio occupato dalla cosca rivale dei “Laudani”.
Con lei sono state arrestate altri sette mafiosi, tra cui autori di alcuni delitti commissionati dalla donna (“Giornale di Sicilia” (da ora “GdS”), 5, 6 e 7 febbraio 1995).
In carcere le viene notificato un altro ordine di custodia cautelare, assieme al marito e ad altri presunti mafiosi, per i delitti avvenuti durante una guerra di mafia tra la cosca catanese di Turi Cappello e il suo alleato Nino Cinturino e quella dei Laudani avvenuta tra il 1990 e il 1995. Tra gli arrestati altre due donne, Vincenza Barbagallo e Domenica Blancato, e tra le persone a cui il provvedimento è stato notificato in carcere un’altra donna, Sebastiana Trovato.
Con una lettera al quotidiano “La Sicilia”, pubblicata il 19 dicembre 1996, la Messina lamenta di essere stata sottoposta al carcere duro, cioè all’isolamento secondo l’articolo 41 bis. Sarebbe la prima donna soggetta a questo trattamento (“GdS”, 11 gennaio e 19 dicembre 1996).


Tipologia delle donne di mafia: fedeli compagne, madrine, supplenti…

Nell’esame della documentazione raccolta, per tratteggiare una tipologia delle “donne di mafia” abbiamo tenuto conto di vari fattori, come: la provenienza familiare, i comportamenti quotidiani, le azioni delittuose accertate e perseguite, le cointeressenze economiche, le reazioni di fronte agli arresti o alla notizia della collaborazione con la giustizia dei congiunti.
Tra le donne di famiglie mafiose, abbiamo riscontrato una varietà di comportamenti derivante dalla personalità delle donne, che non si discosta molto dalla tipologia riscontrabile in altre famiglie, anche se la specificità della provenienza mafiosa non può non esercitare un forte condizionamento, ma non fino al punto da tradursi in standard uniformi.
Così abbiamo donne nate in famiglie mafiose e sposate a mafiosi che obbediscono allo stereotipo delle “fedeli compagne”, discrete e premurose, come Rosaria Castellana, moglie di Michele Greco soprannominato “il papa”. Quando il marito, latitante, viene accusato della strage Chinnici, dichiara che è tutta una “assurda macchinazione”: “Il papa? Ho letto questo appellativo sui giornali… Lui è un uomo così tranquillo, sapeste! Adora me e suo figlio. Il tempo lo trascorreva tutto in campagna a curare i suoi agrumeti. E poi è così religioso” (Madeo, 1992, p. 76).
La famiglia Castellana era una famiglia di grossi proprietari terrieri della zona di Ciaculli. L’educazione della signora Rosaria era stata quella che si dava alle ragazze destinate a fare un “buon matrimonio”. Ha studiato musica e lingue straniere. Scrive poesie. Si interessa d’arte. “La mia vita trascorre tra casa e chiesa”, dice. Una donna religiosa, come il marito.

E religiose dichiarano di essere numerose altre donne di famiglie mafiose che coniugano cristianesimo e convivenza con l’assassinio. Per fare qualche esempio recente, ricordiamo Antonietta Brusca, che dopo l’arresto dei figli dichiara di averli educati nel timor di Dio e che la sua vita è tutta casa e chiesa (“La Repubblica”, 24 maggio 1996). Cosa che non le impedisce di essere l’intestataria dei conti bancari dove i suoi figli, educati cristianamente, depositavano il denaro acquisito con il traffico di droga ed altri traffici illeciti.

Religiosissima è Filippa Inzerillo autrice di un appello rivolto alle donne di mafia pubblicato dal “Giornale di Sicilia” il 2 novembre del 1996.
La Inzerillo è vedova di Salvatore, il capo di una delle più importanti famiglie mafiose ucciso nel maggio del 1981, due settimane dopo l’omicidio di Stefano Bontate, all’inizio della guerra di mafia che causò centinaia di morti e portò al predominio dei cosiddetti “corleonesi”. Della famiglia Inzerillo furono uccisi anche due fratelli di Salvatore, due zii, un cugino e il figlio di sedici anni, Giuseppe, che aveva dichiarato di volere vendicare la morte dei congiunti.
La signora Inzerillo, che ora fa parte di un cenacolo di carismatici scrive: “Donne di mafia, ribellatevi. Rompete le catene, tornate alla vita. Sangue chiama sangue, vendetta chiama vendetta. Basta con questa spirale senza fine. Lasciate che Palermo rifiorisca sotto una nuova luce, nel segno dell’amore di Dio. Lasciate che i vostri figli crescano secondo principi sani, capaci di esaltare quanto di bello c’è nel mondo”.
La villa dove abita la Inzerillo, nella borgata Passo di Rigano, è diventata luogo di preghiera. Ma malgrado la sua religiosità, che non abbiamo nessuna ragione di pensare che non sia sincera, la mentalità mafiosa fa capolino nella risposta alla domanda se ha perdonato anche Totò Riina: “È solo un figlio (di Dio) che ha sbagliato. Ha lo spirito malato e dovrebbe pentirsi, non dico davanti ai magistrati (il corsivo è nostro), ma davanti al Signore, prima che sia troppo tardi”. Come dire: l’unica giustizia è quella divina, quella umana non conta nulla. Uno dei principi fondamentali del codice mafioso.
Altre donne invece hanno un ruolo attivo, evidenziato con prese di posizione, in quelle che potremmo chiamare le “relazioni pubbliche” della mafia: donne che svolgono compiti criminali in prima persona (per esempio il traffico e lo spaccio di droghe) e che si possono definire “madrine” a pieno titolo, anche in presenza di uomini, o “supplenti” in seguito all’arresto o alla latitanza degli uomini. Di queste abbiamo già dato qualche esempio, ma l’elenco è nutrito.
Numerose sono le donne che si limitano a favorire le attività delittuose dei congiunti, risultando prestanome, proprietarie di quote o addirittura intestatarie di società e imprese per lo più usate per il riciclaggio del denaro sporco, proprietarie di immobili acquistati con denaro illecito, proprietarie di esercizi commerciali al posto dei mafiosi che non possono comparire (Santino – La Fiura, 1990). Ci si trova di fronte a situazioni notevolmente diverse. Ci sono le donne appartenenti a famiglie storiche della mafia, cioè nate e cresciute in quell’ambiente e, come le ragazze dell’aristocrazia e dell’alta borghesia i cui matrimoni avvenivano e continuano ad avvenire prevalentemente nel loro ambiente, sposate con mafiosi di rango, per le quali è ragionevole pensare che siano coscientemente partecipi delle attività dei congiunti; e ci sono le mogli di piccoli mafiosi, provenienti da ambienti non mafiosi e trovatisi a fare da prestanome probabilmente senza avere piena coscienza dell’origine del denaro impiegato.
Un esempio interessante è quello di Francesca Citarda, non tanto per il caso in sé, quanto per l’atteggiamento del collegio che doveva giudicarla, frutto di una mentalità retriva – questa sì, rigidamente maschilista – e di giudizi stereotipi sulle donne meridionali ancora non del tutto scomparsi negli ambienti giudiziari.
Francesca Citarda, moglie di Giovanni Bontate e figlia di Matteo Citarda, entrambi appartenenti a famiglie mafiose storiche, viene proposta per il soggiorno obbligato nel marzo del 1983, in applicazione della disposizione della legge La Torre che estende ai familiari e ai prestanome dei mafiosi le indagini patrimoniali, finalizzate alla confisca dei beni di cui non venga provata la legittima provenienza. Con lo stesso provvedimento viene richiesto il soggiorno obbligato per altre donne di famiglie mafiose: Rosa Bontate, sorella di Giovanni e Stefano e moglie di Giacomo Vitale, coinvolto nel falso sequestro Sindona; Epifania Letizia Lo Presti e Francesca Battaglia, rispettivamente sorella e moglie di Francesco Lo Presti, mafioso di Bagheria; Anna Maria Di Bartolo, moglie del mafioso Domenico Federico; Anna Vitale, cognata di Gerlando Alberti, proprietaria di una villa a Trabia trasformata in una raffineria di eroina e latitante da quando il laboratorio era stato scoperto.
Queste donne sarebbero, secondo gli inquirenti, “organicamente collegate alla mafia ed inserite in quella fitta rete di legamenti col tessuto sociale e con l’apparato della cosa pubblica” rivelata dalle indagini patrimoniali (Cascio – Puglisi (a cura di), 1986, pp. 32 s.).
Il matrimonio tra Francesca Citarda e Giovanni Bontate viene richiamato nel rapporto della questura come un evidente patto tra famiglie mafiose. Non vi è dubbio che molti matrimoni tra appartenenti a famiglie mafiose sono fatti per consolidarne il potere, ma anche questo, come dicevamo, non è uno specifico della mafia: la storia è piena di matrimoni di convenienza fatti per ragioni di potere o per accumulare ricchezze, rare volte con il consenso, più spesso contro la volontà delle donne. Per il pubblico ministero che fa la richiesta di soggiorno obbligato per Giovanni Bontate e per la moglie, il patrimonio dei due sarebbe in larga parte di origine illecita, costituito con il denaro del traffico di droga e il successivo riciclaggio (ibidem, p. 35).
Il Tribunale di Palermo, presieduto dal giudice Michele Mezzatesta, accoglie la richiesta soltanto per Giovanni Bontate e respinge la richiesta di soggiorno obbligato e la confisca dei beni per Francesca Citarda, con una sentenza che provoca le proteste da parte delle associazioni femminili, come l’Associazione delle donne contro la mafia e l’UDI. Si legge nella sentenza (facciamo notare il confronto fatto con le terroriste, donne del Nord e quindi “emancipate” al contrario dalle donne meridionali):

… pur nel mutevole evolversi dei costumi sociali, non ritiene il Collegio di poter con tutta tranquillità affermare che la donna appartenente ad una famiglia di mafiosi abbia assunto ai giorni nostri una tale emancipazione ed autorevolezza da svincolarsi dal ruolo subalterno e passivo che in passato aveva sempre svolto nei riguardi del proprio “uomo”, sì da partecipare alla pari o comunque con una propria autonoma determinazione e scelta alle vicende che coinvolgono il “clan” familiare maschile.
Troppo lontane per ideologia, mentalità e costumanza sono le cosiddette “donne di mafia” dalle “terroriste” che purtroppo hanno avuto un ruolo di attiva partecipazione alle bande armate che tuttora attentano alla sicurezza dello Stato e all’ordine democratico (Tribunale di Palermo, 1983).

Con analoghe motivazioni sono state prosciolte le altre imputate. In tal modo le donne di famiglie mafiose, secondo questi magistrati, non sono soggetti di diritto penale, sono solo delle eterne minorenni che consumano la loro esistenza all’ombra degli uomini, unici soggetti capaci di autodeterminazione nel clan familiare e quindi pienamente responsabili delle loro azioni.

A nostro avviso l’unico modo per uscire dagli stereotipi correnti è analizzare, senza preconcetti, la realtà e prendere atto della sua multiformità, mentre normalmente accade il contrario: si parte da idee correnti fuorvianti o inadeguate e si cercano conferme nei fatti, gridando alla “novità” e alla “rottura” ogniqualvolta lo stereotipo risulta smentito dalla realtà. Un esempio recente: la lettera di Ninetta Bagarella, pubblicata su “La Repubblica” del 23 giugno 1996, che è parsa a più d’uno la rottura del tabù del silenzio e, sulla base dell’identificazione tra mafia e codice dell’omertà, intesa come silenzio impenetrabile, si è salutata la presa di posizione della Bagarella come un’infrazione dell’omertà e di per sé un atto al di fuori del codice comportamentale mafioso. Senza tenere conto che la Bagarella già più di 20 anni fa rilasciava interviste, faceva dichiarazioni e scriveva memoriali, ovviamente negando tutto, a cominciare dall’esistenza della mafia (nell’agosto del 1971 dice ai giornalisti che le chiedevano cos’è la mafia: “la mafia è un fenomeno creato dalla stampa per vendere più giornali”), protestava l’innocenza sua e dei suoi parenti, come continua a fare con la lettera recente, che non è una presa di distanza ma una vera e propria apologia della mafia, di sé, del marito, di quelle che chiama “le vere istituzioni”, che inequivocabilmente sono quelle mafiose (si veda: Puglisi, 1996).


Le donne e il pentitismo

Il comportamento delle donne di fronte ai congiunti pentiti ha dato luogo a letture del ruolo delle donne che in buona parte ricalcano l’immaginario consueto. Molte hanno accettato di condividere la vita blindata dei loro congiunti diventati collaboratori di giustizia, ma tante al contrario hanno preso le distanze, anche in modo eclatante, pubblicizzandolo attraverso l’uso dei media. Di fronte ad un tale atteggiamento molti hanno parlato di paura di ritorsioni ma soprattutto di donne-vittime, incapaci di sottrarsi a un destino già segnato.
Abbiamo ricostruito vari casi e ipotizzato una chiave di lettura complessa: c’è la paura ma c’è, o almeno ci può essere, una volontà di persistenza nel ruolo, di cui si conoscono opportunità e vantaggi, di fronte a un mondo che sembra crollare, travolgendo con sé opportunità e vantaggi. Ed è interessante notare come da molte espressioni si possa cogliere la netta prevalenza della famiglia mafiosa su quella naturale, nonostante tutto quello che si è scritto sul familismo meridionale e mediterraneo, quando la collaborazione con la giustizia spezza o mette in crisi quella coincidenza o quel collegamento (si veda: Puglisi – Santino, 1995). E in questa apologia della mafia-famiglia ritroviamo solidali vecchie donne di mafia, come la cosiddetta “Nonna eroina”, di cui abbiamo già parlato, e giovanissime, come le congiunte di Emanuele e Pasquale Di Filippo, i pentiti che hanno permesso l’arresto di Leoluca Bagarella.

La moglie di Pasquale Di Filippo, Giuseppina Spadaro, 29 anni, figlia del boss della Kalsa Tommaso, e quella di Emanuele, Angela Marino, 28 anni, appena sanno quanto è accaduto – la notizia è ancora riservata e i nomi dei due nuovi collaboratori non sono ancora apparsi sulla stampa – telefonano all’Ansa di Roma: “Sono venuti quelli della Dia, ci hanno offerto protezione, abbiamo rifiutato. Scrivetelo, fatelo sapere. Noi non abbiamo fatto nulla di male, siamo brave persone, non abbiamo niente di cui pentirci…”.
In una riunione di famiglia in casa sua, Giuseppina Spadaro dice ai giornalisti (ma più tardi deciderà di vivere con il marito in una località segreta): “Meglio morti, meglio se li avessero ammazzati. Invece sono due infami pentiti. Ai miei figli l’ho già detto: “Non avete più un padre, rinnegatelo, dimenticatevi di lui”. … Quando ho sentito bussare la polizia, ho pensato: “Ora mi dicono che mio marito è stato ucciso”. Invece no, invece è stato peggio. se lui fosse morto avrei avuto più onore. Meglio morto che pentito, non ho dubbi” (“GdS” 28 giugno 1995).
La moglie di Emanuele Di Filippo, Angela Marino, fa un quadro idilliaco della vita familiare prima del pentimento del marito: “La nostra era una vita normalissima. Vivevamo tranquilli e beati, gestivamo un distributore di benzina, non ci mancava niente, credetemi. Non capisco perché hanno fatto questa scelta, cosa li abbia spinti a dire quello che hanno detto. Quando non sapevo che “quello” si era pentito dicevo ai miei figli che il padre sarebbe tornato presto, ma adesso lo devono dimenticare, anzi, l’hanno già dimenticato. Per loro è morto, come se un padre non l’avessero mai avuto” (ibidem).
Agata Di Filippo, 27 anni, sorella dei pentiti e moglie di Nino Marchese, fratello del pentito Giuseppe e della moglie di Bagarella, Vincenzina, non è meno dura con i suoi fratelli: “Voglio che si sappia che io, mia madre e mio padre, ci dissociamo totalmente dalla decisione presa dai miei fratelli, anzi dai miei ex fratelli. Sono infami e tragediatori. Lo ripeto: infami e tragediatori. Capiteci, per la nostra famiglia è una tragedia” (ibidem).
Il pentimento dei due Di Filippo ha compromesso ancora di più un quadro già complicato per i corleonesi e i loro alleati. E le donne che hanno fatto da filo per la tessitura dei rapporti di parentela tra le varie famiglie mafiose, ora che è sopravvenuto un nuovo scossone, con l’arresto di Bagarella e il pentimento dei Di Filippo, si ergono con le loro parole e con i loro gesti a presidio di un mondo che rischia di sgretolarsi.
Come è noto, Vincenzina Marchese, moglie di Bagarella e sorella del pentito Giuseppe, si sarebbe suicidata travolta da una situazione diventata insostenibile per lei e per il marito che continua a far parte degli “irriducibili” di Cosa nostra.

In anni precedenti le donne della famiglia Buffa erano state protagoniste di una clamorosa manifestazione nell’aula bunker di Palermo in cui si svolgeva il primo maxiprocesso.
Caterina La Mantia, Maria, Rosa, Carmela, Silvana ed Elvira Buffa provengono da famiglia mafiosa e sono inserite in famiglie mafiose. Caterina La Mantia è figlia di Gaspare La Mantia e sorella di Matteo, imputati nel maxiprocesso, e moglie di Vincenzo Buffa, costruttore, anche lui imputato assieme al fratello Francesco. Maria Buffa è sorella di Vincenzo e Francesco e moglie di Stefano Pace, imputato sempre nel maxiprocesso. La sorella Rosa è moglie del capomafia latitante Carmelo Zanca; la sorella Carmela è moglie di Giovanni Lombardo, imputato anche lui. La sorella Aurora, moglie di Ignazio Pullarà, è dovuta rimanere a casa perché incinta ma ci tiene a far sapere di essere accanto a loro. A provocare la manifestazione delle donne della famiglia Buffa è la notizia del pentimento di Vincenzo Buffa, che ha fatto delle dichiarazioni al giudice istruttore Falcone, rivelando decine di nomi di mafiosi. In seguito alle voci sul suo pentimento Buffa viene trasferito dall’Ucciardone al carcere di Termini Imerese e non è nelle gabbie assieme agli altri imputati. L’avvocato Tommaso Farina chiede al presidente notizie del suo cliente e il presidente risponde che non ha niente da dire. A quel punto esplodono le donne: “Non è un pentito – urlano dalle tribune del pubblico -. Riportatelo nella sua cella all’Ucciardone. Nessuno lo ammazzerà, non gli torceranno un capello”.
Le donne vengono allontanate dall’aula. “C’è un commercio degli innocenti”, dichiarano ai giornalisti, “scrivetelo, noi ci rimettiamo alla giustizia divina perché a quella degli uomini non crediamo più” (“GdS”, 18 marzo 1987).
Una replica si ha nell’udienza del 28 aprile 1987. Vincenzo Buffa chiede al presidente di essere rimesso in gabbia con gli altri imputati e di tornare nel carcere dell’Ucciardone. È una marcia indietro e certamente nella sua decisione di interrompere la collaborazione un peso rilevante hanno avuto i familiari, in testa la moglie e le sorelle. Il Presidente Giordano dice che per il momento “le cose restano come stanno” e dalle tribune scatta un’altra volta la reazione della moglie Caterina La Mantia che viene ancora una volta espulsa dall’aula, dove però i familiari imputati tengono scena.

Di fronte alla fedeltà, o alla sudditanza, alla mafia può cedere anche l’amore della madre verso il figlio. L’abbiamo già visto nel caso di Angela Russo, che non molto velatamente minaccia di morte il figlio pentito. Lo ritroviamo in Giovanna Cannova, che per dissuadere la figlia Rita Atria ha fatto di tutto, arrivando anche lei a minacciarla di morte, dicendo che le avrebbe fatto fare la fine del fratello Nicola.
Dopo il suicidio di Rita, qualche giorno dopo la morte del giudice Borsellino, la Cannova non partecipa al funerale; poi il 2 novembre 1992, giorno dei morti, rompe a martellate la fotografia della figlia sulla tomba degli Aiello dove è stata seppellita; alla fine riesce a portare nella tomba della famiglia Atria il corpo della figlia.
A chi l’ha denunciata per aver profanato la tomba di Rita, frantumando il suo ritratto, Giovanna Cannova risponde: “Non è vero che ho profanato la tomba di mia figlia. Volevo solo far sparire dalla sua tomba quella fotografia. La figlia era mia e alla foto devo pensarci io e non quella lì”: si riferisce alla nuora Piera Aiello (“GdS”, 23 novembre 1992).
È la rivendicazione di un diritto di proprietà materna che la figlia, a suo dire per istigazione della nuora, i magistrati, la polizia, le donne delle associazioni antimafia che hanno portato a spalla la bara di Rita, hanno violato.

Altre madri non si sono limitate a minacciare ma sono arrivate a collaborare con i sicari. Nel caso di Luigina Maggi, madre del pentito Enrico Incognito, il sicario è l’altro figlio, Marcello, accompagnato dal padre. Enrico, che era agli arresti domiciliari e che sapeva di essere stato condannato a morte dalla mafia locale, aveva deciso di collaborare con la giustizia, in un modo originale. Aiutato da un amico, uno dei pochi di cui si fidava, aveva cominciato a raccontare davanti a una telecamera tutto quello che sapeva.
I suoi familiari ricevono un messaggio dagli uomini della mafia: “Pensateci voi a farlo tacere o saremo costretti a intervenire noi”. Pensano che la minaccia riguardi tutta la famiglia e decidono di ucciderlo. La famiglia in questo caso si sostituisce all’organizzazione mafiosa, s’identifica con essa e s’incarica di eseguire la condanna a morte.
La videocamera ha registrato la prima fase del delitto: il suono del campanello della porta; la madre, che era arrivata poco prima, che scoppia a piangere; Enrico che va alla porta; il fratello minore, Marcello, che esplode il primo colpo di pistola; poi il cameraman è fuggito. Dopo vengono esplosi altri due colpi. Presenzia al delitto, oltre alla madre e al vicino, il padre di Enrico, Salvatore.
Vengono accusati dell’omicidio il padre e il fratello di Incognito, mentre la madre, dapprima arrestata, viene scarcerata perché nel video appare piangente accanto al figlio che sta per essere ucciso. Il padre e il fratello si nascondono e in un primo tempo si pensa che siano stati uccisi mentre la madre, dopo la scarcerazione, ricompare in pubblico e torna in ospedale per il suo lavoro di infermiera (“GdS”, 27 marzo, 3 aprile 1994). Si potrebbe dire che nessuno più di lei è adatta per l’assistenza ai moribondi.

Secondo il racconto dei pentiti catanesi Gaetano Disca e Paolo Balsamo, Gaetana Conti, madre di Sebastiano Mazzeo, di 21 anni, un giovane malavitoso scomparso nel 1990, con un tranello avrebbe consegnato personalmente ai suoi sicari il figlio che si accingeva a collaborare con la giustizia.
Iano Mazzeo era chiamato baby killer perché già a 12 anni aveva sparato ad una persona, sostituendo il padre Francesco, paralitico. Il giovane, finito in carcere nel maggio del 1989, avrebbe deciso di collaborare per vendicare il padre, ucciso il 25 maggio 1987, e perché temeva di essere ucciso in carcere. Era a Roma, sotto sorveglianza, ma era scappato e tornato a Catania. La famiglia e la madre avevano deciso di consegnarlo ai suoi nemici per “poter continuare a vivere in mezzo alla gente del quartiere senza dover sostenere il marchio infamante di “parente di pentiti”” (“GdS”, 27 marzo 1994).


Donne collaboratrici di giustizia

Un altro fenomeno molto interessante da analizzare è quello delle donne collaboratrici di giustizia. Ormai la casistica è abbastanza nutrita e annosa, cominciando negli anni ’60 con personaggi come Serafina Battaglia e arrivando fino ai tantissimi casi del nostri giorni.
Soltanto alcune di loro si possono chiamare “pentite”, secondo l’accezione impropria usata per i mafiosi maschi, nel senso che la loro collaborazione riguarda anche le loro attività illecite. La maggior parte delle donne collaboratrici di giustizia sono vedove, orfane, madri a cui hanno ucciso i figli, che solo dopo un avvenimento traumatico come la morte violenta di un loro congiunto, passano dal lutto privato alla testimonianza pubblica; donne, quindi, per le quali il lutto è stato il passaggio necessario che le ha portate a ribellarsi, almeno parzialmente, alla mafia di cui prima avevano accettato regole, potere e ricchezza.
Ma ce ne sono alcune che hanno trovato il coraggio di rompere con i loro parenti mafiosi non necessariamente in conseguenza di un lutto o di un provvedimento giudiziario. E se qualcuna, sopraffatta dai condizionamenti dell’ambiente o dalla paura di ritorsioni ha ritrattato, come è capitato a Patrizia Beltrame, una ragazza diciannovenne di Poggioreale che aveva accusato i suoi fratelli e la madre di essere responsabili di traffico di armi e di un omicidio; altre sono andate fino in fondo, malgrado il trauma che una tale decisione comporta, come Antonella Cangemi che ha fatto arrestare il fratello colpevole di omicidio; Pasqua Burgio che ha accusato di assassinio il marito mafioso di Ravanusa; Concetta Zaccardo, anche lei moglie di un mafioso; Rosalba Triolo, donna di uno dei killer che uccisero Nicola Atria, che dichiara: “In tal modo sento di liberare la mia coscienza dal peso di tutti questi crimini di cui ero venuta a conoscenza per il mio rapporto con lui” (“GdS”, 3 febbraio 1993).
Le donne collaborano con motivazioni diverse (come vedremo, anche per vendicarsi) che non sempre si possono riportare a un calcolo opportunistico. Collaborando, molte donne non reagiscono a un pericolo, ma innescano pericoli e ne sono ben consapevoli, anche se le ritorsioni alla collaborazione degli uomini di mafia sono state certamente più sanguinose. E più d’una è stata capace di fare una scelta autonoma, non condizionata dall’evento delittuoso. Altre, pur non riuscendoci, almeno sono state tentate di farlo, o perché, provenienti da ambienti non mafiosi, sono entrate nel mondo mafioso soltanto per un legame affettivo ma non ne hanno accettato le regole, o comunque perché stanche di una vita permeata di violenza.
Le collaborazioni, qualunque sia l’intento, sono certamente la spia di una crisi dell’universo mafioso ma anche su questo punto bisogna essere molto cauti: possono essere un modo per ottenere l’impunità e un lasciapassare per la ripresa delle attività. Un’ulteriore dimostrazione dell’opportunismo mafioso, in omaggio al vecchio “calati juncu…”.

Come dicevamo, alcune delle collaboratrici hanno parlato anche o soltanto per spirito di vendetta.
Nel Rapporto sul fenomeno della criminalità organizzata per l’anno 1995, del Ministro dell’Interno, si dice: “Si evidenzia allora che proprio quei sentimenti ritenuti caratteristici della cultura mafiosa (odio, vendetta, desiderio di rivalsa e/o di sicurezza), se indirizzati in senso positivo, costituiscono in molti casi la motivazione del ricorso all’Autorità dello Stato, per offrire il proprio contributo ed ottenere giustizia, interrompendo e spezzando quei vincoli di ordine culturale e sociale, legati alla propria ed altrui incolumità personale, che sono risultati “ostativi” in precedenza” (Ministro dell’Interno, 1996, p. 293).
Se questo è vero, è anche vero che qualcuna prima di rivolgersi alla giustizia ha cercato la vendetta privata, e, non essendoci riuscita, ha cercato un altro modo per vendicarsi. Risulta chiaramente in almeno due casi: per Serafina Battaglia e, per sua stessa ammissione, per Giacoma Filippello.

Serafina Battaglia, per vent’anni convivente di Stefano Leale, un mafioso palermitano che venne ucciso il 9 aprile del ’60, si decise a collaborare con il giudice istruttore Cesare Terranova soltanto dopo l’assassinio del figlio, che lei aveva spinto a vendicare la morte del padre, senza riuscirci.

Giacoma Filippello dice, ricordando l’uccisione di L’Ala, avvenuta il 7 maggio del 1990: “Ed io aspettai che lo vendicassero. Ma non accadde nulla. Anzi uno di loro osò fermarmi per la strada. Voleva farmi le condoglianze, figurarsi… e nell’occasione mi fa: “‘Za Giacomina siete stata fortunata perché a voi vi hanno lasciata in vita”. Io persi la testa. Gli urlai: “La mia fortuna sarà la loro sfortuna. Diteglielo. Perché finché avrò un filo di vita e coraggio, io farò di tutto per spaccare il petto e per mangiare il cuore degli assassini di Natale”. Volevo vendetta. Chiesi soddisfazione a chi potevo” (Mazzocchi, 1993).
La vendetta da parte degli ex amici della cosca non arriva e Giacoma Filippello si decide a parlare con il giudice Paolo Borsellino. Lei ha più volte ribadito di non considerarsi “pentita”, ma una donna che tenta di vendicare con i propri mezzi l’uccisione del “compagno della sua vita”.

Abbiamo amato e amiamo Rita Atria. Ci siamo commossi per il suo suicidio, ma anche per il fatto che una ragazza giovane come lei – quando si è uccisa aveva solo 18 anni – fosse stata costretta ad una vita di solitudine, lontana dai luoghi dove era cresciuta, dove erano i suoi amici, lontanissima dalla madre che l’aveva ripudiata. Eppure anche Rita, che ha cominciato a collaborare, seguendo l’esempio della cognata, dopo l’uccisione del fratello che era molto legato a lei, sembra che sia stata spinta in qualche modo dal desiderio di vendicare così i suoi cari, come dice Alessandra Camassa, che come sostituto procuratore a Marsala ha raccolto le sue testimonianze: “Ciò che spinge Rita Atria a diventare una collaboratrice della giustizia è il desiderio di trovare un’altra strada rispetto a quella del fratello Nicola. La stessa rabbia cieca che, dopo l’uccisione di Vito Atria, aveva spinto il figlio maschio ad infiltrarsi tra le cosche per farsi giustizia da solo, vendicando l’assassinio del padre e riabilitando l’onore della famiglia” (Rizza, 1993, p. 76).

Alcune collaboratrici si possono considerare vere e proprie “pentite”, non nel senso etico, anche se in alcuni casi c’è stato un vero pentimento, ma perché sono donne che hanno partecipato in qualche misura alle attività della mafia e, dopo l’arresto, o perché hanno temuto per la propria vita, hanno deciso di parlare.
Esempi molto interessanti sono quelli di Tiziana Augello, una ragazza della borghesia di Caltanissetta arrivata a far parte della cosca di Leonardo Messina, o quello di Daniela Scalzo, appartenente ad una banda del Nisseno e implicata anche nel tentato omicidio del marito che aveva lasciato per mettersi con un appartenente alla banda avversaria.

Uno dei luoghi comuni sulla mafia, quello secondo cui i mafiosi non si confiderebbero con le loro donne perché queste sarebbero incapaci di tacere, è contraddetto dalle dichiarazioni di tutte le collaboratrici che dimostrano, e qualcuna l’ha detto espressamente, che le donne di mafia sanno tutto e spesso condividono tutto.
Da Serafina Battaglia che afferma: “Mio marito era un mafioso e nel suo negozio si radunavano spesso i mafiosi di Alcamo e di Baucina. Parlavano, discutevano e io perciò li conoscevo uno ad uno. So quello che valgono, quanto pesano, che cosa hanno fatto. Mio marito poi mi confidava tutto e perciò io so tutto. Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo” (De Mauro, 1964).
A Giacoma Filippello che dice: “Lo Stato neanche se l’immagina quante cose conosce una donna di mafia. Certo ognuna ha la sua storia. E la mia è quella di una che ha cominciato a capire prima di saltare il fosso” (Mazzocchi, 1993).
A Piera Aiello: “Le mogli… sentono tutto, si fanno carico di tutto. Io ero una spugna. Se ai mariti mafiosi gli fai le domande non ti rispondono, ma se te ne stai buona e zitta quelli… si confidano, perché così si sentono importanti” (Zanuttini, 1994).

Ed è interessante esaminare il ventaglio di giudizi espressi dalle collaboratrici sui mafiosi.
Se Margherita Petralia afferma: “Sono tutti delinquenti, assassini feroci” (“GdS”, 31 ottobre 1989); se Serafina Battaglia, quando decide di rivolgersi alla giustizia dice, baciando il crocifisso: “I mafiosi sono pupi, fanno gli spavaldi solo con chi ha paura di loro, ma se si ha il coraggio di attaccarli e demolirli diventano vigliacchi. Non sono uomini d’onore ma pezze da piedi” (Ministro dell’Interno, 1996, p. 293); e la signora Impastato di Badalamenti dice: “Era un vaccaro che non sapeva neanche pulirsi il naso. Poi si mise con mio cognato Cesare Manzella e lo portò avanti, ma rimase sempre caporale. Quando Manzella morì, Badalamenti si fece i soldi, e siccome si fece i soldi gli avvocati li ha a portata di mano, perché lui non sa neanche parlare” (Bartolotta Impastato, 1986, p. 36); se Tiziana Augello, parlando di Leonardo Messina, dice che era: “abbastanza arrogante e presuntuoso. Si sentiva più grande di quello che era. Poi su di lui sono state dette tante cretinate. Sul suo pentimento, per esempio. Messina non si è pentito vedendo in televisione la vedova Schifani piangere, non è un santo. Lui si è pentito perché qualcuno lo ha convinto a pentirsi, perché ormai era incastrato” (Transirico, 1994, p. 49); altre, almeno per i mafiosi loro congiunti, hanno giudizi non completamente negativi.
A cominciare da Rita Atria, che ci tiene a descrivere il padre come una persona “rispettata”, un mafioso di “vecchio stampo”, che, secondo lo stereotipo del “padrino”, si era opposto al traffico di droga: “Mio padre a Partanna ricopriva un ruolo di “paciere” e a lui si rivolgevano persone di ogni tipo per la risoluzione di problemi, …senza ricavarne vantaggi economici ma soprattutto per questione di prestigio negli ambienti che contano a Partanna, e aveva conoscenze importanti anche a Menfi, Sambuca…” (“GdS”, 23 marzo 1992). E alcuni mesi prima del suo suicidio aveva scritto nel suo diario, descrivendo come avrebbe voluto il suo funerale: “Sarei felice se potessi vivere insieme a Nicola e mio padre – è toccante l’uso del verbo vivere nel momento in cui sta parlando invece di morte -. Spero che Vita Maria un giorno impari ad amare suo padre anche se non lo ricorderà tantissimo. Mi manca tanto il mio Nicola” (Rizza, 1993, p. 128). Sentimenti e giudizi condivisi dalla cognata.
Giacoma Filippello, che descrive la vita con L’Ala come un’avventura, si giustifica usando anche lei l’argomento della differenza tra la mafia di una volta e quella di adesso che non avrebbe più regole: “Pensavo che non era una cosa sbagliata. Adesso lo so che non era così. Ma all’epoca… E del resto la mafia era tutta un’altra cosa. Uccideva, ma non senza preavviso. E le donne e i bambini non si toccavano per nessuna ragione al mondo” (Mazzocchi, 1993). Uno stereotipo usato non solo dalle collaboratrici per giustificare i loro uomini e se stesse, ma da quasi tutti i mafiosi pentiti, i quali però, almeno per quanto ci risulta, di questo asserito cambiamento della mafia sembra che si siano accorti soltanto dopo il loro arresto.


Donne contro

Nella nostra ricerca uno spazio importante ha l’analisi del ruolo delle donne nel movimento antimafia.
Anche qui bisogna misurarsi con gli stereotipi. Secondo l’immaginario collettivo, prima tutti i siciliani, o quasi, erano complici o sudditi della mafia, nella maggior parte dei casi indifferenti, passivi e rassegnati; mentre da qualche anno, a far data dal delitto Dalla Chiesa (1982) o dalle stragi del ’92 e del ’93, tutti i siciliani, o quasi, sono contro la mafia etc. etc. La realtà è ben diversa (si veda: Santino, 1995b). Il grande movimento antimafia è alle nostre spalle ed ha avuto nel movimento contadino il suo principale protagonista, dai Fasci siciliani (1892-94) alle lotte degli anni ’40 e ’50. In questo movimento le donne hanno avuto un ruolo di primo piano. In parecchi paesi siciliani all’interno dei Fasci c’era una presenza massiccia di donne (nel Fascio di Piana dei Greci, su una popolazione di circa 9.000 abitanti, c’erano 2.500 uomini e circa 1.000 donne; nel Fascio di Campofiorito c’erano 214 donne, 80 in quello di San Giuseppe Jato (Ganci, 1977, pp. 362 s.)) e ciò suscitò la meraviglia di cronisti e analisti contemporanei, e anche nelle successive ondate di lotte le donne fecero la loro parte: una presenza significativa ma ignorata, se si toglie qualche caso, come quello della madre di Salvatore Carnevale, accusatrice degli assassini del figlio, al centro di un libro di Carlo Levi (Levi, 1955). In quelle fasi la lotta contro la mafia era lo specifico dello scontro di classe e si legava a un progetto complessivo di riforma sociale e di conquista del potere, a partire dalle amministrazioni locali.
L’attuale movimento antimafia, che raggiunge dimensioni di massa in alcune manifestazioni ma poggia sull’attività continuativa di alcune centinaia di militanti impegnati nell’associazionismo e nel volontariato, nasce soprattutto dall’emozione suscitata da alcuni delitti e, nonostante qualche tentativo, non riesce a darsi un progetto, riflettendo la crisi delle grandi “narrazioni” di fine millennio.
La componente femminile è presente in questo movimento fin dai primi anni ’80, con la nascita dell’Associazione donne siciliane per la lotta contro la mafia, promossa da donne che hanno voluto continuare in modo diverso una militanza iniziata in partiti e movimenti politici e da vedove di magistrati e di altri funzionari dello Stato uccisi dalla mafia: frutto di una presa di coscienza e di una rielaborazione pubblica del lutto (si vedano: Siebert, 1994, 1995) che ha come causa scatenante l’escalation della violenza mafiosa che, all’interno di una gara egemonica suscitata dall’incremento esponenziale dell’accumulazione illegale, colpisce esponenti delle istituzioni che si oppongono all’espansione del potere e degli interessi mafiosi.
Abbiamo avviato un’esplorazione all’interno dell’antimafia al femminile, raccogliendo alcune storie di vita, a cominciare da quella di Felicia Bartolotta Impastato, madre di Peppino, pubblicata nel volume La mafia in casa mia. Le altre storie di vita raccolte sono quelle di Pietra Lo Verso e Michela Buscemi, donne del popolo palermitano costituitesi parti civili in processi di mafia, pubblicate nel volume Sole contro la mafia; di Giovanna Terranova, vedova del magistrato e presidente dell’Associazione delle donne contro la mafia; di Maria Benigno, una donna, anche lei di estrazione popolare, che ha avuto il coraggio di accusare dell’assassinio del fratello e del marito i killer della famiglia Marchese, tra cui Leoluca Bagarella.
Abbiamo riflettuto sul ruolo delle storie di vita nella nostra ricerca (si veda l’Introduzione a Sole contro la mafia) e cercato di ricostruire non solo un brano (il trauma dell’uccisione di un congiunto e la reazione ad esso) ma un’intera vicenda esistenziale e il suo contesto ambientale.

Donne di estrazione borghese e popolare si sono ritrovate all’interno dell’Associazione donne contro la mafia e più in generale del movimento antimafia, ma non sono mancati problemi, come quello dell’isolamento di Michela Buscemi e Vita Rugnetta, le uniche donne del popolo palermitano costituitesi parte civile nel primo maxiprocesso; di Piera Lo Verso, che ha accusato quello che riteneva fosse il mandante dell’uccisione del marito, ucciso con altre sette persone: lei è stata l’unica tra i parenti delle otto persone uccise a fare la scelta di costituirsi parte civile.
Per tutte la scelta di costituirsi parti civili è stata causa di isolamento nella famiglia, nella parentela, nel vicinato. Michela Buscemi, Piera Lo Verso, Vita Rugnetta hanno visto scomparire i clienti dei loro esercizi commerciali e sono state costrette a chiuderli andando incontro ad una grave situazione economica. Ma questo tipo di isolamento possiamo dire che fosse nel conto, in una Palermo che mentre diserta la macelleria di Piera Lo Verso, rea di essersi rivolta alla giustizia, ha continuato a servirsi della macelleria di Domenico Ganci, in pieno centro cittadino e a due passi dalla casa di Giovanni Falcone, anche dopo il suo arresto e la sua incriminazione per la partecipazione a tanti delitti, tra i quali la strage di Capaci.
Ma se questo isolamento era prevedibile, quello che non era nel conto era l’isolamento di gran parte del movimento antimafia, derivante in primo luogo dallo stereotipo secondo cui la mafia è solo un’associazione criminale contro cui lottano giudici e uomini delle forze dell’ordine etichettati come “servitori dello Stato”, una guerra tra guardie e ladri. Ad aiutare queste donne nel momento di maggiore esposizione sono stati soltanto il Centro Impastato e l’Associazione donne contro la mafia, e, per quanto riguarda la seconda, con qualche lacerazione al suo interno. Abbiamo aiutato queste donne non solo perché le abbiamo sentite vicine umanamente ma anche perché abbiamo una concezione diversa della mafia e dell’antimafia.


Riferimenti bibliografici

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Relazione di A. Puglisi – U. Santino, Università degli studi Di Pisa, Dipartimento di Scienze sociali, Seminario del 10 dicembre 1996. Pubblicata in: Anna Puglisi, Donne, mafia, antimafia, Di Girolamo, Trapani 2005, 2012.