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Peppino 37 anni dopo…

 

Umberto Santino / Centro Impastato

Peppino, il Centro Impastato, la storia e la contro storia, l’icona e la realtà

 

Ormai Peppino Impastato è diventato una delle figure più rappresentative della lotta contro la mafia e di ciò non possiamo non essere lieti. Solo che troppo spesso si parla più di un Peppino Impastato ridotto a icona mediatica che del Peppino reale. Sarà bene perciò ripercorrere le vicende degli anni successivi al suo assassinio, segnati da una storia ufficiale che lo voleva terrorista e suicida e da una controstoria che ha ribaltato quell’immagine, salvato la memoria di Peppino e ottenuto giustizia e ha avuto come protagonisti i familiari, alcuni compagni di militanza e il Centro siciliano di documentazione, operante dal 1977 e successivamente dedicato a Impastato.

 

Una sentenza prima del processo: “Attentato alla sicurezza dei trasporti”. La storia di due storie

La storia ufficiale ha come incipit il fonogramma del procuratore capo Gaetano Martorana, poche ore dopo la scoperta dei resti di Peppino. Scriveva il procuratore: “Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda. […] Verso le ore 0,30-1 del 9.05 1978, persona allo stato ignota, ma presumibilmente identificata in tale IMPASTATO Giuseppe […] si recava a bordo della propria autovettura FIAT 850 all’altezza del km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore”. Come si vede, una sentenza prima del processo. Sembra di leggere il libro di Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, invece questo lo scriveva il magistrato più autorevole del palazzo di giustizia di Palermo.
Com’è noto, la mattina dello stesso giorno a Roma viene trovato il corpo di Aldo Moro, ucciso dalla Brigate rosse. Il clima è pesantissimo e tutti sono impegnati nella “caccia ai terroristi”. Si spiega con questo clima quel che avviene in terra di Sicilia, ma probabilmente c’è dell’altro. Le briciole del corpo di Peppino vengono frettolosamente raccolte. Il tratto di binario è subito ripristinato. I compagni del “terrorista” vengono interrogati per trarre conferma a una tesi già confezionata. Nella sede di Radio Aut (che vuol dire Autonomia, non Out come qualcuno, che non sa di cosa parla, ha scritto) gli investigatori entrano con una chiave che non si capisce come sia finita nelle loro tasche. A casa della zia di Peppino, Fara, dove Peppino abitava, e a casa della madre, vengono sequestrati sacchi di materiali. “Sequestro informale”, viene scritto nei verbali, cioè illegale. Tra i materiali sequestrati una lettera di Peppino in cui esprimeva le sue delusioni e diceva di voler “‘abbandonare’ la politica e la vita”. Stralci della lettera vengono pubblicati dal “Giornale di Sicilia”. Così il cerchio si chiude: l’attentatore era un suicida. La macchina dell’informazione si mette subito in moto, con variazioni sul tema dell’atto terroristico. Con poche eccezioni.
Contemporaneamente comincia a declinarsi un’altra storia: sui muri di Cinisi un piccolo manifesto dice: “Peppino Impastato è stato assassinato. Il lungo passato di militante rivoluzionario è stato strumentalizzato dagli assassini e dalle “forze dell’ordine” per partorire l’assurda ipotesi di un attentato terroristico. Non è così! L’omicidio ha un nome chiaro: MAFIA. Mentre ci stringiamo al corpo straziato di Peppino, formuliamo una sola promessa: continuare la battaglia contro i suoi assassini. Democrazia Proletaria”. A Palermo un altro manifesto con una grande scritta: “Peppino Impastato è stato assassinato dalla mafia”. Seguiva un testo in cui si ricordavano le lotte contadine e alla fine: “Con le idee e con il coraggio di Peppino noi continuiamo. I compagni di Peppino”. Ma non ci sono solo i manifesti. Inizia un’altra inchiesta, parallela e contraria a quella ufficiale. Alcuni compagni di Peppino raccolgono resti del suo corpo sparsi nelle vicinanze e trovano in un casolare nei pressi del binario delle pietre macchiate di sangue. Il necroforo comunale Giuseppe (Liborio) Briguglio, in un’intervista raccolta su indicazione del Centro Impastato da Felicia, moglie di Giovanni, fratello di Peppino, dirà che la prima pietra l’aveva trovata lui e l’aveva consegnata agli investigatori. Sparita. Alcuni resti di Peppino vengono consegnati al professore di Medicina legale in pensione Ideale Del Carpio che all’invito di alcuni allievi ha risposto offrendo la sua collaborazione. Giorno 10 si svolgono i funerali, con un migliaio di persone, ma pochi sono di Cinisi e Terrasini. Accanto alla bara la madre Felicia, il fratello Giovanni che saluta con il pugno chiuso. Lo stesso giorno il maggiore dei carabinieri Subranni presenta un rapporto in cui dice che Impastato sarebbe morto compiendo un attentato “perpetrato in maniera tale da legare il ricordo della sua morte ad un fatto eclatante”.
Giorno 11 viene presentato un esposto alla Procura da alcune persone, ben presto sparite, dal Centro siciliano di documentazione, operante già dal 1977, e da altri, un cui si dice: Peppino Impastato è stato vittima di un assassinio. In mattinata si svolge un’assemblea a Palermo, con Del Carpio che descrive la dinamica del delitto: l’esplosivo era sotto il torace di Peppino, non nelle sue mani. Nel pomeriggio a Cinisi c’è il comizio di chiusura della campagna per le elezioni comunali che doveva fare Peppino con il dirigente di Democrazia proletaria, il milanese Franco Calamida, di cui in seguito si perderanno le tracce. Su richiesta di una compagna di Avanguardia Operaia, Maria Cuomo anch’essa milanese ma da qualche anno in Sicilia, il comizio lo faccio io e, su indicazione di alcuni compagni di Peppino, dico che i mafiosi di Cinisi, con in testa Badalamenti, sono i responsabili del delitto. Le imposte delle case lungo il corso sono sbarrate. Mi rivolgo alle persone che immagino dietro le imposte: “Voi sapete chi era e cos’ha fatto Peppino Impastato. Se queste finestre non si apriranno la sua attività è stata inutile”. Il 14 maggio ci sono le elezioni comunali, la madre si reca a votare, violando il lutto che la vuole reclusa in casa. Peppino viene eletto con 260 voti, ma la Democrazia cristiana, oggetto dei suoi attacchi, ha 2.098 voti, passando dal 36,2 per cento del 1972 al 49 per cento. Al posto di Peppino al consiglio comunale andrà un giovane architetto, che non farà nulla e avrà un futuro assicurato: finirà a Forza Italia. Giorno 16 la madre e il fratello presentano un loro esposto. Li hanno convinti due avvocati, che dopo qualche tempo spariranno.
Voleva essere un delitto perfetto, camuffato da atto terroristico. Ma accade qualcosa di imprevedibile: la scelta dei familiari di rompere con la parentela mafiosa e rifiutare la vendetta, la tenuta di alcuni compagni, l’impegno di noi di Palermo che prima a Cinisi non avevamo messo piede. A luglio il comitato di controinformazione, formatosi presso il Centro, pubblica il bollettino 10 anni di lotta contro la mafia, documentando l’attività di Peppino, la sua azione quotidiana di informazione e denuncia, il suo impegno culturale e politico. A livello nazionale due quotidiani: “Lotta continua” e “Il quotidiano dei lavoratori” sostengono la nostra azione, ma presto chiuderanno. I militanti di Lotta continua, che avevano conosciuto Peppino e mi convinsero a occuparmi di lui (non l’ho frequentato da vivo; i gruppi a sinistra del PCI erano in competizione tra loro e dirigenti e militanti avevano pessimi rapporti con i “concorrenti”), ben presto si defilarono o scomparvero nella piena del “riflusso”. All’interno del Centro qualcuno non condivise la mia scelta e abbandonò il Centro. I rapporti tra Peppino e Lc negli ultimi anni non erano stati molto teneri: una lettera al giornale in cui Lc locale e Radio Aut si dissociavano dalle iniziative di un tale che organizzava la “trasgressione a chiappe selvagge” non era stata pubblicata (è in 10 anni di lotta contro la mafia e in Lunga è la notte, pp. 109-111 della edizione 2014). Peppino considerava “menate sul ‘personale’” le teorizzazioni e le pratiche della rinuncia all’impegno politico e del rifugio nel privato. E avversava la scelta della lotta armata, che considerava un’espropriazione della politica. Dei dirigenti nazionali di Lc non venne nessuno. Non venne Deaglio, direttore del giornale; non venne Sofri, che nel 1988, dieci anni dopo, sarà accusato per l’omicidio Calabresi e in seguito sarà condannato; è comparso il 9 maggio dell’anno scorso perché era stato a Trapani per seguire il processo agli imputati per l’assassinio di Rostagno, in cui sono stato sentito come persona informata dei fatti. “Il manifesto”, il giorno dopo l’assassinio, dedicò solo un trafiletto, a firma g.r. (Gianni Riotta), in cui si leggeva: “…i compagni dicono che è stata la mafia”. Niente nei giorni successivi. Il giornale “comunista”, e il gruppo politico di cui per anni ho fatto parte, non capivano molto del Mezzogiorno, meno ancora della mafia. E il Circolo Lenin di Palermo, di cui ero un dirigente, era stato all’interno del gruppo come un corpo estraneo.
L’inchiesta, che era stata chiusa, viene riaperta e nel novembre del ’78 Radio Aut presenta un “Promemoria all’attenzione del giudice Chinnici” con indicazioni che saranno preziose per il seguito dell’inchiesta. Il 9 maggio 1979, primo anniversario dell’assassinio, il comitato di controinformazione formatosi per iniziativa del Centro e Democrazia proletaria organizzano una Manifestazione nazionale contro la mafia. La prima nella storia d’Italia. È stata lanciata con il bollettino del Centro Accumulazione e cultura mafiose, che doveva essere distribuito a livello nazionale, ma molte copie sono tornate indietro. Andando in giro per l’Italia si toccava con mano l’incredulità: “C’è ancora la mafia? In ogni caso è una cosa vostra, siciliana”. Eppure vennero in duemila, in un paese assediato dalle forze dell’ordine. I controllati eravamo noi.
Nel 1980 Radio Aut chiude, dopo l’impegno dei primi anni (qualcuno ha rischiato) molti compagni scompaiono. Restano i familiari e il Centro siciliano di documentazione di Palermo che nell’80 viene intitolato a Peppino, andando incontro all’isolamento: Peppino per moltissimi è uno sconosciuto, per quasi tutto il palazzo di giustizia di Palermo, con poche eccezioni, è un terrorista. Tra le poche eccezioni c’è il consigliere istruttore Rocco Chinnici.
Il Centro tiene viva la memoria, ogni anno dà l’appuntamento per il 9 maggio, anche se i partecipanti sono sempre meno, redige documenti e comunicati, raccoglie materiali, l’avvocato della famiglia e del Centro, Vincenzo Gervasi, redige gli esposti (da un certo punto in poi firmati solo dai familiari e dal Centro, prima c’erano anche un rappresentate dei compagni e di Democrazia proletaria) e li presenta alla Procura. Nel 1984 la sentenza, preparata da Chinnici, assassinato nel luglio del 1983, e completata da Antonino Caponnetto: è un omicidio di mafia, ad opera di ignoti. E si parla di depistaggio delle indagini, ma c’era una giustificazione: la lettera di Peppino in cui diceva di voler abbandonare la politica e la vita. C’era un’altra stesura, in cui scriveva di voler “‘abbandonare’ la politica”. È stata pubblicata in 10 anni di lotta contro la mafia e in Lunga è la notte, 2014, pp. 133-135; era ricopiata in un taccuino che per molti anni è stato conservato al Centro, ora è a Casa Memoria. La sentenza è un primo passo che cerca di far coincidere le due storie, ma il divario è ancora grande.
Il Centro risponde con il dossier Notissimi ignoti, con il volto di Badalamenti in copertina, curato da Felicia, la moglie di Giovanni, e da Salvo Vitale, accanto a Peppino a Radio Aut, e con il libro La mafia in casa mia, in cui Anna Puglisi e chi scrive pubblicano la storia di vita della madre di Peppino. Emerge un dettaglio, che avrà un peso decisivo: dopo un volantino in cui Badalamenti era definito “esperto di lupara e di eroina”, il padre di Peppino, Luigi, è stato convocato dal capomafia, che gli avrà comunicato la condanna a morte del figlio. Luigi fa in casa una scenata, parte per destinazione ignota. Si saprà che è andato negli Stati Uniti, ha incontrato parenti mafiosi e non mafiosi e a una parente ha riferito quel colloquio: “Io gli ho detto: prima di ammazzare mio figlio, dovete ammazzare me”. Luigi morirà nel settembre del 1977, in un incidente automobilistico che potrebbe essere un omicidio camuffato (nessuno ha pensato ad aprire un’inchiesta, a fare l’autopsia). La strada per colpire Peppino è spianata. Ascoltando le parole di Felicia, Anna e io saltiamo sulla sedia. Consegniamo il libretto alla Procura ancora in bozze. Felicia, interrogata da Caponnetto, dirà che non aveva rivelato prima quell’episodio perché aveva paura per i figli, ora si sente più sicura. Sa di non essere sola, anche se accanto a lei non siamo in tanti.
L’inchiesta, che si era arenata, riparte: Giovanni Falcone va in America a interrogare Badalamenti, che non collabora. Altra chiusura. Ora la pista si volge verso i corleonesi. Buscetta ha detto che Badalamenti era stato “posato”, cioè espulso, dalla mafia (un “provvedimento” più unico che raro) e si teme che una smagliatura possa far crollare il teorema che per altri versi regge e sarà alla base del maxiprocesso, apertosi nel febbraio del 1986. Noi insistiamo su Badalamenti. E sarà l’interrogatorio di un collaboratore di giustizia del clan Badalamenti, Salvatore Palazzolo, interrogato su nostra indicazione sul delitto Impastato, a confermare le nostre accuse. Si faranno due processi, il primo a Vito Palazzolo, vice di Badalamenti, con rito abbreviato; il secondo al capomafia in un carcere americano, per la condanna al processo per la Pizza Connection, in videoconferenza, e arrivano le condanne. Resta fuori il depistaggio e ci rivolgiamo alla Commissione parlamentare antimafia che nel 1998 costituisce un comitato e nel 2000 approva una relazione in cui si dice che rappresentanti della magistratura e delle forze dell’ordine hanno depistato le indagini e coperto i mafiosi. Facciamo pubblicare la relazione nel volume Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio. Come si spiega il depistaggio? L’abbiamo già detto: si spiega con il clima di quegli anni, dominato dalla caccia al terrorista, ma pure perché tra mafiosi considerati “uomini d’ordine” e disposti a dare qualche dritta, seguendo un vecchio costume che contraddice la regola dell’omertà, e un “estremista” come Peppino, la scelta non poteva che essere a favore dei primi. Ora c’è una sola storia, frutto del prevalere di quella alternativa su quella ufficiale che cercava di andare per altre vie. Una sorta di miracolo civile. Ma non è finita…


I cento passi, ovvero: l’icona e la realtà

Nel 2000 arriva il film I cento passi. Il film ha avuto il merito di far conoscere Peppino a un pubblico molto più ampio di quello che abbiamo potuto raggiungere noi; il Centro è stato ed è autofinanziato, e questa è una battaglia perduta, perché la regione siciliana non ha voluto accogliere la nostra richiesta di una legge che fissi dei criteri oggettivi per l’erogazione dei fondi pubblici, e perché altri centri, fondazioni, associazioni ci hanno isolato, preferendo ricorrere ai soliti mezzi per pescare nel pentolone del denaro pubblico. Ma bisogna vedere quale Peppino ha mostrato il film e quale storia ha raccontato. È il Peppino della piazzata notturna, che grida: “La mafia è una montagna di merda” (l’articolo con quel titolo non è stato trovato, a quanto pare quel numero de “L’idea socialista” non è stato stampato, cioè ciclostilato) e “Mio padre è un leccaculo” e conta i passi da casa Impastato a Casa Badalamenti. Una scena assolutamente inverosimile, ma, rinforzata dalla canzone dei Modena City Ramblers, è diventata l’icona di Peppino ormai consolidata, come le magliette con Che Guevara. È l’icona della contiguità e del vicinato, che vale per milioni di persone, ma non vale per Peppino che la mafia l’aveva in casa, e proprio per questo è una figura unica nella storia delle lotte contro la mafia. E la sua rottura con il padre e la parentela (di cui abbiamo saputo solo dopo il suo assassinio) è la ragione per cui gli abbiamo intitolato il Centro.
Dopo il successo del film sono cominciati i pellegrinaggi a Cinisi, più alla conferma dell’icona che alla ricerca del Peppino reale. Sono nati associazioni, centri, comitati, a lui intitolati, e molti di essi hanno rapporti con i familiari, con il fratello Giovanni, pochissimi con il Centro. Sappiamo di iniziative in cui Peppino viene presentato come un chierichetto della legalità, un giullare contro la mafia e in altre fogge che cancellano quello che era e voleva essere: un comunista rivoluzionario. I compagni di Peppino, di cui nessuno fa parte del Centro, dopo il film hanno formato una loro associazione.
Peppino è diventato un personaggio che dà visibilità e a Cinisi si sono precipitati giovani che si sono subito distinti per la loro scorrettezza, ignorando tutto quello che era stato fatto prima. Uno di loro, con l’aria di capetto, nel corso di un’assemblea con Haidi Giuliani, la mamma di Carlo, rivolgendosi a chi scrive grida: “Professore Santino, la lotta alla mafia non si fa con i libri, domani vedrà che evento!”. Il “professore Santino” ha scritto qualche libro ma per Peppino ha fatto anche dell’altro. Interviene la mamma di Giuliani, che ho conosciuto poco prima: “Mio figlio i libri li leggeva”. L’indomani, 9 maggio 2002, c’è stato un corteo che doveva coinvolgere gli operai di un’area industriale in crisi, ma è rimasto abbastanza sparuto e ha attraversato campagne deserte. È nato un Forum che ha svolto varie iniziative e ognuno si è ritagliato un proprio spazio, i credenti hanno voluto fare la veglia di preghiera (chissà cosa avrebbe detto Peppino, ateo, trasgressivo, irriverente). Sono nate lacerazioni tra i familiari, i compagni, il Centro, i nuovi arrivati. Un compagno, Guido Orlando, che cercava di ricucire, ci ha lasciato, stroncato da un tumore. A Casa Badalamenti, confiscata, convivono l’associazione dei compagni di Peppino e l’associazione Casa Memoria, da separati in casa. È pure la sede di Radio Cento passi; hanno deciso di chiamarsi così dopo un sondaggio: Radio Aut è stata scartata, Cento passi suona meglio.


Ultime notizie e disavventure

C’è stata poi la nostra disavventura con Saviano. Era venuto a presentare il libro Resistere a Mafiopoli, di Giovanni Impastato con il giornalista Franco Vassia, con la mia prefazione e con un radicale editing di Anna e mio. Non ero presente a quell’iniziativa per motivi di salute. Il libro è dedicato per la prima metà a Peppino, per la seconda metà a quello che abbiamo fatto dal giorno dell’assassinio in poi. Evidentemente Saviano non l’aveva neppure sfogliato e già in quell’occasione aveva detto che il film aveva fatto riaprire l’inchiesta. Il giornalista Francesco La Licata ha replicato che non era così. Poi Saviano, ormai coronato da un successo planetario e aureolato come martire vivente per le minacce ricevute (gli avevamo espresso la nostra solidarietà), lo ha ribadito in un libro, in cui esaltava il potere taumaturgico della Parola e l’esempio più rilevante era proprio il film su Peppino. Abbiamo chiesto una rettifica, ricordando le date dei processi e della costituzione del comitato sul depistaggio presso la Commissione antimafia, tutte precedenti l’uscita del film, e la casa editrice Einaudi ha risposto con una lettera in cui annunciava che “ulteriori iniziative diffamatorie nei confronti della nostra casa Editrice saranno perseguite nei termini di legge con Vostro aggravio di oneri e di spese”: chiedere il rispetto della verità vuol dire diffamare. Per fortuna la querela di Saviano a un giornalista di “Liberazione” è stata archiviata. In ogni caso è una battaglia persa: la rettifica non è stata fatta e il libro ha continuato a circolare.
L’anno scorso è circolato uno spot che utilizzava parole tratte dalla sceneggiatura del film per reclamizzare degli occhiali. È il cosiddetto “apologo della bellezza”. Peppino guarda dall’alto un paesaggio butterato da case e villette abusive e dice: “E allora più che la politica, la lotta di classe, la coscienza e tutte queste fesserie… bisognerebbe ricordare alla gente che cos’è la bellezza. Insegnargli a riconoscerla, a difenderla”. In un nostro comunicato scrivevamo che era proprio il contrario di quello che faceva e diceva Peppino. Che coniugava perfettamente la politica e la lotta di classe, che non considerava per nulla “fesserie”, con il rispetto del territorio, il diritto al lavoro dei disoccupati con il diritto a un ambiente non saccheggiato dalla speculazione. Lo spot è stato ritirato, ma continua a circolare la sostituzione della storia reale con la fiction, più suggestiva e più digeribile.
Nel 2011 la procura di Palermo ha voluto riaprire l’inchiesta sul depistaggio. In una mia lettera scrivevo che non si poteva cominciare da zero, c’erano due punti fermi: le condanne di Palazzolo e Badalamenti e la relazione della Commissione antimafia, ribadendo che le responsabilità del procuratore Martorana, nel frattempo defunto, e dell’allora maggiore Subranni, erano già state indicate. Successivamente la Procura ha chiesto l’archiviazione per prescrizione ma il giudice per le indagini preliminari lo scorso 22 dicembre ha respinto la richiesta e deciso di prorogare di altri sei mesi l’inchiesta. Abbiamo chiesto a un legale, Fabio Lanfranca, di rappresentare il Centro.
Nel 2012 abbiano fatto ripubblicare il libro Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio, con la relazione della Commissione antimafia. È un fatto unico nella storia dell’Italia repubblicana, poiché per la prima volta un soggetto istituzionale dice chiaramente che rappresentanti delle istituzioni hanno depistato le indagini di un omicidio di mafia. Abbiamo chiesto a quel che rimane di Rifondazione comunista (la relazione dell’Antimafia era stata presentata da Giovanni Russo Spena) di organizzare una presentazione a Roma, attendiamo ancora la risposta. Abbiamo chiesto a sindaci, venuti a Cinisi per iniziativa di Avviso pubblico, a centri, associazioni, comitati intitolati a Peppino, di presentare il libro. Nessuno lo ha fatto. Questo è il quadro attuale: lacerazioni, sgomitamenti, tensioni, documentari, servizi giornalistici e televisivi in cui viene ignorato il Centro, o compare marginalmente, e quel che è ancora più grave: una sinistra inesistente.
Ma il problema non è tanto un mucchietto di partitini affastellati in una lista improvvisata, con una bandiera più o meno rossa, come si è fatto e si vorrebbe replicare, ma una sinistra sociale, cioè capace di organizzare e rappresentare il conflitto sociale così come si presenta oggi, nel contesto della globalizzazione e del neoliberismo, con una massa crescente di disoccupati, precari, emarginati, che nessuno organizza e nessuno rappresenta e si rifugia nell’astensionismo o si affida all’urlatore di turno. Con la Fiom che parla di “coalizione sociale” e poi, invece di organizzare disoccupati e precari, fa manifestazioni con organizzazioni che non hanno nulla a che fare con il mondo del lavoro che non c’è. Ogni giorno va in scena lo spettacolo della crisi della democrazia, sempre più mortificata da scelte autoritarie volute da una sorta di ducetto che non ha nulla da spartire neppure con la più sbiadita idea di “sinistra”. Un Berluschino spocchioso con una corte di reggicoda in carriera. E sul piano internazionale un Mediterraneo diventato il cimitero di migranti a cui l’Europa dei banchieri nega percorsi legali che assicurino la libertà di circolazione e politiche che aggravano sempre di più esclusioni e disuguaglianze. E se si guarda all’antimafia, pare di essere in un circo in cui vari personaggi giocano al ruolo di leader carismatico. Tra di essi c’è qualcuno che dice di avere le stimmate, di avere avuto dalla Madonna la mission di lottare la mafia, anticristo del nostro tempo, e di essere un esperto di ufo. Alle sue iniziative accorrono i magistrati più noti e impegnati.
Siamo stati tra i fondatori di “Narcomafie” e per anni abbiamo fatto parte di Libera, poi quando sono accaduti fatti abbastanza gravi (la “sparizione” di vice presidenti, il “dimissionamento” dei referenti nazionali per il lavoro nelle scuole e per l’uso sociale dei beni confiscati) ho scritto proponendo una discussione, don Ciotti mi ha “sospeso” dal comitato scientifico della rivista, come uno scolaretto discolo e come se si trattasse di fatti e di attacchi personali, e ho preferito dimettermi (chi vuol saperne di più può leggere il documento “Il Centro Impastato e Libera” sul sito del Centro).
In tale contesto quale futuro può avere questa storia? A Cinisi c’è Casa Memoria intitolata a Felicia e a Peppino, diventato un santuario per pellegrinaggi e da lì comincia la breve via crucis che porta a casa Badalamenti, sulla cui facciata c’è un pannello con una mia poesia del 2005, che dovrebbe, quanto meno, problematizzare l’icona. La trascrivo:


Neppure un passo

I cento passi
che non hai mai percorso
perché non occorreva
neppure un passo
per ritrovare dentro di te
il sangue dei padri
la voce antica
che raccontava
guerre familiari
atrocità palesi
e complicità segrete
che bisognava chiudere gli occhi
per non vederle.
Ora vogliono importi
un’icona che non ti appartiene
e consolare il tuo isolamento
con parole che nascondono
distanze incolmabili
tra storie diverse.
L’amore che non hai avuto
ci obbliga a risponderti:
le guerre non sono finite
e il silenzio dei vili
continua a inquinare il pianeta
ma la tua figura distrutta
si ricompone lungo un binario
che corre per il mondo,
misura del desiderio
orizzonte del sogno.

Non so se qualcuno la legga. In ogni caso l’icona è ormai troppo forte e ha contribuito ad avallarla e rafforzarla chi avrebbe dovuto aver caro il Peppino reale.
A Palermo stiamo cercando di realizzare un progetto ambizioso: creare un Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia, che sia insieme: percorso museale sulla mafia e sull’antimafia, itinerario didattico curato dalle scuole, biblioteca, archivio, cineteca, istituto di ricerca, spazio di incontro e progettazione. Per fortuna, di fronte a difficoltà vecchie e nuove, possiamo contare su una buona dose di ironia e di autoironia, ma anche queste strade sono difficili e non prive di rischi1 .


1
Rimando a un mio articolo su un incontro al Centro con i redattori di Charlie Hebdo, Val (Philippe Val) e Riss (Laurent Sourrisseau ), che dopo si recarono a Cinisi e pubblicarono un bel servizio sul numero del 20 maggio 1996. Riss è stato ferito nella strage del 7 febbraio. L’articolo è stato pubblicato su “Repubblica Palermo” del 9 gennaio 2015, con il titolo: Quando Charlie Hebdo prese in giro la mafia, i suoi segreti e gli uomini d’onore e si può trovare su questo sito.


Riferimenti bibliografici (in ordine cronologico)

10 anni di lotta contro la mafia, bollettino del Centro siciliano di documentazione, Palermo 1978.
Accumulazione e cultura mafiose, bollettino del Centro siciliano di documentazione, Palermo 1979.
Notissimi ignoti. Atti relativi all’assassinio di Peppino Impastato, a cura di Felicia Vitale Impastato e Salvo Vitale, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1986.
Felicia Bartolotta, La mafia in casa mia, a cura di Anna Puglisi e Umberto Santino, La Luna, Palermo 1986-2003 e successive ristampe.
Umberto Santino (a cura di), L’assassinio e il depistaggio. Atti relativi all’omicidio di Giuseppe Impastato, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1998.
Umberto Santino, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Riuniti, Roma 2000; Editori Riuniti University Press, Roma 2009.
Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio, Editori Riuniti, Roma 2001, 2006; Editori Riuniti University Press, Roma 2012.
Giuseppe Impastato, Lunga è la notte. Poesie, scritti, documenti, a cura di Umberto Santino, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 2002-2014.
Anna Puglisi e Umberto Santino (a cura di), Cara Felicia. A Felicia Bartolotta Impastato, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 2005, 2007.
Umberto Santino (a cura di), Chi ha ucciso Peppino Impastato. Le sentenze di condanna di Vito Palazzolo e Gaetano Badalamenti, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 2008.
Giovanni Impastato con Franco Vassia, Resistere a Mafiopoli. La storia di mio fratello Peppino Impastato, Stampa Alternativa, Viterbo 2009.
Umberto Santino, Don Vito a Gomorra, Mafia e antimafia tra papelli, pizzini e bestseller, Editori Riuniti University Press, Roma 2011.

Maggio 2015