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Antimafia sociale e antimafia mediatica

Antimafia sociale e antimafia mediatica

Intervista di Giovanni Russo Spena a Umberto Santino per la rivista “Su la testa”

Ritengo molto importante, proseguendo il ragionamento del numero scorso della rivista su l'”economia criminale”, confrontarsi con Umberto Santino, che ritengo lo studioso più rigoroso e coerente, anche sul piano comportamentale. Ha elaborato, tra l’altro, il concetto di “borghesia mafiosa”, che, per me, impegnato sul terreno dell’antimafia sociale, è un paradigma interpretativo ineludibile. Il suo ultimo, importante, lavoro Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile (Editori Riuniti University Press) promuove mille riflessioni, utilissime per il radicamento del movimento contro l’economia criminale. Partendo dal testo, ho posto a Santino tre domande:

1) Sono, come te, indignato ed addolorato per le affermazioni di Saviano che, scrivendo del delitto politico/mafioso del “nostro” Peppino Impastato, disconosce il lavoro straordinario (e spesso isolato) del fratello Giovanni, di mamma Felicia, del Centro fondato da te e da Anna Puglisi e di non molti compagni perché si accertasse la verità, occultata dal depistaggio di Stato. La mistificazione dell’icona Saviano ci parla della emarginazione dell’antimafia scientifica e sociale rispetto a quella mediatica e plebiscitaria? Vi è anche qui , come nel sistema politico, una voluta emarginazione delle idee e dei progetti più radicali, spesso perpetrata da giornalisti liberaldemocratici?

Mi pare che le cose parlino da sé. Il silenzio della stampa, con pochissime eccezioni, della radio, tolte alcune radio libere, e della televisione sulla nostra richiesta che venga rispettata la verità storica sull’assassinio di Peppino e sul lavoro quotidiano che abbiamo svolto, spesso in pieno isolamento, per salvarne la memoria e per ottenere giustizia, indica che non c’è spazio per chi si permette di criticare il mito che si è creato intorno al personaggio Saviano. Non dimentico che Saviano ha ricevuto minacce, e gli abbiamo espresso la nostra solidarietà, ma questo non vuol dire che tutto quello che dice e scrive debba essere preso come oro colato e che se si fanno delle critiche si è complici di chi lo vorrebbe morto. Tu parli dei giornalisti “liberaldemocratici”, ma Gomorra e il personaggio che si è creato dopo il successo sono piaciuti anche, o soprattutto, “a sinistra” e agli opinionisti “democratici” che si sono levati contro la profanazione operata dalla critica, per tanti versi condivisibile, di Dal Lago. Ora si tace sulla nostra iniziativa e in prima linea, nella strategia del silenzio, ci sono “la Repubblica” che vorrebbe Saviano a Palazzo Chigi, possibilmente in tandem con Vendola, “l’Unità”, “il manifesto”, “Il fatto quotidiano”. E ovviamente la Rai, compresa Rai 3. L’Italia è un Paese in cui il conformismo è pane quotidiano e questo vale pure per l’opposizione. Continueremo la nostra battaglia ma la considero persa in partenza perché, nonostante le manifestazioni di solidarietà, si è fatto di tutto per ignorarla e isolarla. L’isolamento c’è stato anche prima, sia nella lotta per avere giustizia per Peppino, sia nel lavoro del Centro. E in buona parte è venuto da “sinistra”. “Il manifesto” (ricordo un trafiletto sulla morte di Peppino, firmato da un certo Gianni Riotta) è stato una porta chiusa, tolto qualche piccolo spiraglio. Ma ricordo che anche “Liberazione” dedicò un servizio sui 30 anni del Centro in cui c’erano molte inesattezze, a cominciare dalla sede del Centro (che è stata sempre a Palermo mentre si dava a Cinisi). Ho chiesto invano un’errata corrige e ho dovuto fare un inserto pubblicitario a pagamento. Ho collaborato con le riviste, da “Marx 101” a “Alternative”, ma a un certo punto nessuno si è fatto più vivo. Con i processi e le condanne dei mandanti dell’assassinio di Peppino, con la relazione sul depistaggio delle indagini del Comitato sul “caso Impastato” costituitosi presso la Commissione parlamentare antimafia e da te presieduto, anche con il film, che pure dà di Peppino un’immagine riduttiva, giovanilistica e con inclinazioni a piazzate notturne improbabili come la scena dei cento passi che ormai, anche con la canzone dei Modena City Ramblers è diventata icona e colonna sonora di un Peppino più immaginario che reale, sembrava si fossero aperti dei varchi. Dopo il successo del film si sono creati associazioni e comitati intitolati a Peppino ma pochissimi hanno un rapporto con il Centro. Poi è venuto il riconoscimento, da parte di qualche magistrato, penso in particolare al procuratore nazionale Piero Grasso, che la mia analisi sulla borghesia mafiosa, per anni e da tanti considerata veteromarxista e scambiata per una criminalizzazione generalizzata, coglieva nel segno, per l’emergere sempre più evidente del coinvolgimento dei soggetti (professionisti, imprenditori, rappresentanti della pubblica amministrazione, della politica e delle istituzioni) che formano il soggetto dominante del sistema relazionale senza di cui Cosa nostra sarebbe soltanto uno sparuto mucchio selvaggio incapace di avere un ruolo effettivo nel contesto sociale. Ma in realtà il nostro lavoro non ha trovato né collaborazioni per le nostre ricerche né alleati nella nostra battaglia per ottenere una regolazione dell’erogazione dei fondi pubblici con criteri oggettivi. Gli altri Centri hanno continuato a fruire dei soldi pubblici con leggine-fotografie ottenute con metodi personalistici e clientelari. E anche la mia “avventura” nella Commissione parlamentare antimafia è stata disastrosa. Dopo la collaborazione con il Comitato sul “caso Impastato”, sono stato nominato consulente della Commissione ma senza un ruolo effettivo e a un certo punto ho dato le dimissioni. Non c’è stato nessun rapporto con il Centro neppure quando presidente della Commissione era Forgione.
Abbiamo continuato il nostro lavoro ma è stato ed è in salita. La letteratura sulla mafia è fatta soprattutto di testi che rispondono a esigenze commerciali (come le biografie dei padrini), i titoli scientifici sono pochi e in gran parte circolano su circuiti editoriali secondari e non suscitano l’attenzione della stampa, tolta qualche testata. È il caso dei nostri libri sull’omicidio (La violenza programmata), sulle attività economiche (L’impresa mafiosa), anche della Storia del movimento antimafia, di cui ora è uscita una nuova edizione, in cui ho cercato di coniugare scientificità e leggibilità. Anche un libro con intenti divulgativi, come la mia Breve storia della mafia e dell’antimafia, circola in poche copie. Anche l’Agenda dell’antimafia, che avevamo proposto a Libera e facciamo dal 2007, non ha una diffusione adeguata. C’è una sorta di monopolio, nel caso di Saviano, o di oligopolio, se ci si mettono dentro altri nomi, noti grazie alle loro appartenenze accademiche o mediatiche. Al di fuori di questo bacino chiuso si naviga con barchette. È mancato, da parte degli istituti universitari e dei Centri che godono di finanziamenti pubblici, un vero e proprio progetto di ricerca, se qualcosa si è fatto è frutto di impegni individuali. Il Centro ci ha provato con il progetto “Mafia e società”, in buona parte realizzato, ma con risorse adeguate avremmo potuto fare molto di più.

2) Le analisi del tuo ultimo libro, la Storia del movimento antimafia, individuano tre fasi dell’antimafia: la prima fase va dai Fasci Siciliani (1891/1894) al secondo dopoguerra. La seconda abbraccia gli anni sessanta e settanta: fu animata soprattutto dai gruppi della nuova sinistra; tu scrivi (e sono d’accordo, per averli vissuti) che può essere definito un periodo di transizione, per i mutamenti sia nella composizione di classe che nella stessa mafia, “con il recupero di una dimensione classista, operato da minoranze che dimostrano una notevole lucidità di analisi sugli sviluppi del fenomeno mafioso” (basti pensare alla militanza di Peppino Impastato,sessantottino e comunista). La terza fase, crivi, è aclassista, esalta l’impegno “civile”. Ci parli di questa “ambiguità”: si difende lo Stato ed il sistema, ponendo, però, la questione dell’espulsione del potere criminale dallo Stato?

Ho voluto ricostruire la storia delle lotte sociali contro la mafia per reagire allo stereotipo secondo cui la lotta contro la mafia era cominciata solo negli ultimi anni. La smemoratezza delle lotte passate era il segno più evidente della crisi di identità delle forze politiche che le avevano organizzate, con un Partito socialista, che aveva dato il maggiore contributo di sangue, ormai diventato una macchina clientelare, fino all’uso sistematico della corruzione non solo a Milano, e un Partito comunista sempre più dedito ai cedimenti e ai compromessi. Fino ad oggi le lotte contadine, che sono state uno dei movimenti di massa più grandi d’Europa, sono l’esempio più significativo di antimafia sociale, perché univano la lotta contro la mafia e i proprietari terrieri a un progetto di soddisfacimento dei bisogni e di partecipazione democratica. Dopo la fase intermedia, degli anni ’60 e ’70 (in cui la lotta è affidata a minoranze, che pure ha dato frutti significativi come le attività di Danilo Dolci, le analisi del Manifesto siciliano sulla borghesia capitalistico-mafiosa e la proposta di espropriare la proprietà mafiosa, più di dieci anni prima della legge antimafia del 1982, l’esperienza di Peppino Impastato), si è sviluppata la fase contemporanea, in cui al cento c’è l’associazionismo “civile”, con iniziative in gran parte precarie e solo alcune (scuola, antiracket, uso sociale dei beni confiscati) continuative. Il limite dell’antimafia attuale è il limite dei movimenti del nostro tempo, che hanno come caratteristiche la precarietà e la monotematicità, come hanno evidenziato i teorici dell’azione sociale.
Il problema che dobbiamo porci è che le forme tradizionali della politica e della mobilitazione sociale (partiti e sindacati), nate nel XIX secolo e sviluppatesi nella prima metà del XX secolo, sono in crisi perchè le loro basi sociali sono sparite (i contadini) o in via di sparizione o di assottigliamento (gli operai delle grandi fabbriche). Oggi le figure dominanti sono i disoccupati, i precari, le figure sparse e frammentarie di un mercato del lavoro soggetto al ricatto delle delocalizzazioni nei Paesi in cui la forza lavoro costa poco e non ha diritti (ed è significativo che questi sono i Paesi del cosiddetto socialismo reale, i cui esiti, dopo un avvio nutrito di attese e di speranze, ma anche con qualche risultato concreto, sono stati fallimentari da ogni punto di vista). Nel movimento antimafia attuale sono presenti insegnanti, studenti, commercianti, alcuni imprenditori, i giovani disoccupati delle cooperative che lavorano sulle terre confiscate. Sono minoranze. La strada dell’antimafia sociale è più un’aspirazione che una realtà. Per imboccarla e per coinvolgere gli strati popolari bisogna legare l’antimafia alla lotta per l’occupazione, per l’uso razionale delle risorse sottraendole ai reticoli clientelari, per la partecipazione non intesa soltanto come liturgia delle elezioni e delle primarie. Tutto questo richiede un progetto che dovrebbe essere al centro di una ridefinizione dell’identità della sinistra che francamente non vedo neppure embrionalmente. Si è sinistra non perché si agitano le bandiere rosse e si è fedeli ai simboli tradizionali ma perché si rappresentano interessi diffusi e si costruiscono progetti di reale alternativa.
Parli di ambiguità; il movimento antimafia attuale cerca di coniugare la difesa delle istituzioni, almeno di una parte di esse (la Costituzione, i magistrati impegnati, la legislazione antimafia) con la decriminalizzazione del potere, ma questa è la sfida non solo dell’antimafia ma di ogni movimento democratico e anche dei partiti di sinistra, una volta accettato il metodo democratico e abbandonata la prospettiva di un rovesciamento rivoluzionario. Ed è la sfida dei nostri giorni, soprattutto in Italia, con un berlusconismo che è al di fuori della Costituzione, con l’uso delle leggi ad personam che violano principi costituzionali fondamentali come l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. In ogni caso, anche se si nutrono propositi antisistemici, la difesa di questi principi è un terreno irrinunciabile e diventa sempre più difficile, tenendo conto della fragilità della cultura democratica nel nostro Paese. Berlusconi con le sue pulsioni autoritarie gode di un largo consenso elettorale, poiché buona parte degli italiani si riconosce nell’uomo di successo, non importa come conseguito, e nel trasgressore impunito. E ha imposto anche le modalità dell’agire politico, con la spettacolarizzazione del gesto e del messaggio e la personalizzazione. Anche Vendola scrive il suo nome sulle bandiere e sul simbolo di partito. La decriminalizzazione non è una battaglia di retroguardia. Dopo i grandi delitti e le stragi sono venuti gli arresti, i processi e le condanne, ma il modello mafioso di accumulazione e di potere, che usa l’illegalità come risorsa, è ampiamente penetrato nel corpo dello Stato, dando vita a interazioni sistemiche che non sarà facile interrompere ed estirpare.

3)Tu combatti giustamente e con vigore gli stereotipi più diffusi:la “mafia come emergenza” e la “mafia come antistato”. La mafia non è un gruppo di terroristi; non è solo una fabbrica di omicidi. La mafia non è “antistato”: il suo rapporto con le istituzioni è complesso. La mafia “contratta” con le istituzioni; è “soggetto politico”. La mafia è fuori e contro lo Stato distinguendosi da esso perché ha un suo autonomo codice di giustizia; ma è anche dentro e con lo Stato. L’intreccio tra soggetti illegali e legali compone la “borghesia mafiosa”. Bisogna sconfiggere anche lo stereotipo che tende a dilatare i fenomeni mafiosi trasformando la mafia in una “piovra globale”:se tutto è mafia nulla è mafia.
Non vi è mafia se non vi è processo di accumulazione, di valorizzazione dei capitali attraverso l’interazione tra comando militare, politica, amministrazione, finanza. È mia convinzione,di conseguenza, che stiamo vivendo un paradosso e una colossale mistificazione propagandistica: il governo Berlusconi millanta che sta sconfiggendo la mafia perché magistratura e polizie arrestano un po’ di latitanti (già sostituiti nella gerarchia del potere mafioso). Nello stesso tempo, attraverso condoni, scudi fiscali, leggi che rendono più difficili le indagini giudiziarie, alimenta la crescita e i capitali della “borghesia mafiosa”. Non ritieni che la tua “storia del movimento antimafia” sia anche, in questo contesto, una attualissima “storia contro gli stereotipi”?

Lo è e vuole esserlo, ma gli stereotipi sono facili da smontare sulla carta ma è difficile sradicarli dalla testa della “gente”, dai media e dalle opzioni dello stesso “legislatore”. Tutta la legislazione antimafia del nostro Paese è legata allo stereotipo dell’emergenza. Se non ci fosse stato il delitto Dalla Chiesa non ci sarebbero stati la legge antimafia e il maxiprocesso, se non ci fosse stato l’assassinio di Libero Grassi non ci sarebbero le norme antiracket, se non ci fossero state le uccisioni di Falcone e Borsellino non ci sarebbe stata la legislazione successiva.
Emergenza, antistato, la mafia prima d’onore e poi disonorevole, la piovra: questo è linguaggio quotidiano imposto dai media, dai libri alla televisione, al cinema, con cui combattiamo ad armi impari. Come raggiungere i milioni di spettatori del film “Il padrino” o dello sceneggiato “La Piovra” e convincerli che la mafia tradizionale che aveva il senso dell’onore non è mai esistita e che non esiste una mafia planetaria ma vari gruppi mafiosi e che la lotta contro di essi non può essere affidata a un singolo eroe?
Dai primi anni ’80 lavoriamo nelle scuole e ci accorgiamo che il nostro discorso cozza contro un immaginario collettivo condiviso dagli insegnanti e dagli studenti, anche quando sembra che accolgano le nostre analisi e le nostre proposte. In uno degli istituti più impegnati in iniziative antimafia è bastato vedere lo sceneggiato televisivo “Il capo dei capi” perché tutti i ragazzi nei loro giochi volessero fare il capo e nessuno lo “sbirro”. L’agenda dell’antimafia 2011 è dedicata alle scuole e raccoglie disegni e testi di scolari, ma poi le insegnanti che ci hanno aiutato a farla avallano, consapevolmente o meno, pubblicazioni che sono l’antitesi di quello che è detto nell’agenda.
Vorrei approfondire alcuni dei punti che richiami. La mafia come soggetto politico è l’ipotesi a cui ho lavorato per superare l’impasse in cui si trova il problema del rapporti mafia-politica. Se ne parla come di una relazione di qualcuno (un mafioso) con qualcuno (un uomo politico, un rappresentante delle istituzioni). Tutto qui. Basta mettere in carcere il mafioso e sostituire quel politico e il problema è risolto. La politicità del fenomeno mafioso è qualcos’altro. E per definirla ho utilizzato gli strumenti dell’analisi marxista e quella di altri autori, a cominciare da Weber (è mia profonda convinzione che il pensiero critico se vuole attualizzarsi deve passare dal sistema tolemaico a quello copernicano e tener conto delle acquisizioni più recenti).
La mafia è soggetto politico in proprio, in quanto ha un’organizzazione, un insieme di regole che fa valere su un territorio applicando sanzioni a chi le trasgredisce. Per un altro verso interagisce con le istituzioni, controllando il voto per la formazione delle rappresentanze, intervenendo nel processo decisionale, accaparrandosi quote di denaro pubblico. È un rapporto duale, con un piede fuori (poiché ha una sua giustizia e non riconosce il monopolio statale della forza) e un piede dentro per tutto il resto. Anche lo Stato è duale, colpendo i crimini mafiosi più eclatanti, ma legittimando la violenza mafiosa attraverso l’impunità quando essa è funzionale agli assetti di potere. E questo vale dalla repressione delle lotte contadine fino ai delitti politico-mafiosi più recenti e alle “trattative”, per cui restano oscuri i mandanti e non si riesce a ricostruire la verità. A ogni passo sulla strada della verità vengono fuori i servizi segreti che più che “deviati” sono programmati a tutela di interessi e centri di potere. Ricorderai che nel mio intervento introduttivo al volume Anatomia di un depistaggio, in cui è stata pubblicata la relazione presentata da te sul “caso Impastato”, proponevo che quel lavoro continuasse per le stragi, a partire da Portella della Ginestra, e non è un caso che quella proposta sia caduta nel vuoto. L’Italia è un Paese senza memoria e senza verità. E una verità che si vuole sotterrare è che il rapporto mafia-politica non è episodico o marginale ma è parte significativa di una morfologia del potere così come si è concretamente configurato nella storia del nostro Paese.
Un altro tema su cui fare chiarezza è il rapporto tra mafia e capitalismo. Sono contrario alle criminalizzazioni in blocco. Nella mia analisi ho individuato tre fasi: nella transizione dal feudalesimo al capitalismo si formano organizzazioni di tipo mafioso dove non riesce ad affermarsi il monopolio statale della forza e vige un duopolio o un oligopolio della violenza; nel capitalismo maturo si formano mafie in presenza di determinate condizioni, come i proibizionismi (dell’alcol, delle droghe, dell’immigrazione) che generano mercati neri gestiti da soggetti illegali; nella globalizzazione proliferano le organizzazioni mafiose per gli effetti criminogeni derivanti dall’aumento degli squilibri territoriali e dei divari sociali e dai processi di finanziarizzazione dell’economia che rendono difficile la distinzione tra capitali legali e illegali. Ma bisogna dire che anche il “socialismo reale” ha funzionato da incubatore di mafie come nel caso della Russia, dove attualmente l’unica borghesia consistente è quella mafiosa e lo Stato introietta modelli mafiosi, a cominciare dall’eliminazione fisica delle voci fuori dal coro. La consonanza tra Putin e Berlusconi si nutre di interessi ma pure di affinità culturali.
Berlusconi e Maroni si appropriano di meriti, come gli arresti e le condanne di capi e gregari, che sono opera delle forze dell’ordine, a cui lesinano i mezzi, e della magistratura, attaccata quando condanna Dell’Utri e indaga sul capo del governo. Rispetto alla Democrazia cristiana che era il partito della mediazione con tutti i poteri reali, compresa la mafia, il berlusconismo fa proprio il modello mafioso dell’accumulazione e del potere, con pratiche sistemiche di legalizzazione dell’illegalità. Ma, lo ripeto, il problema è il consenso di cui gode, frutto dell’identificazione di gran parte degli italiani con quel modello (l’Italia ha un tasso di evasione fiscale tra i più alti del pianeta) e dell’incapacità dell’opposizione di costruire un’alternativa credibile. Se non saremo in grado di costruirla l’Italia sarà sempre di più preda delle borghesie più o meno mafiose. Una volta si diceva: socialismo o barbarie, la barbarie c’è, il socialismo non si vede.
Vorrei dire qualche parola sulle prospettive del Centro. Da anni proponiamo la costituzione a Palermo di un Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia, che sia insieme percorso museale, biblioteca, videoteca, istituto di ricerca, luogo di incontro e socializzazione. Vorremmo non solo affidare i materiali del Centro ma prefigurare una continuità del lavoro. Non so se riusciremo a realizzarlo. Un’altra sfida dal risultato incerto…