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La sentenza di condanna all’ergastolo per Gaetano Badalamenti

Proc. n. 41/99 R.G.C. Assise Sent. n. 10/02

TRIBUNALE DI PALERMO
CORTE DI ASSISE
SEZIONE TERZA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

L’anno duemiladue, il giorno undici del mese di Aprile, la Corte di Assise così composta:
1. Dott. Claudio Dall’Acqua, Presidente
2. Dott. Roberto Binenti , Giudice a latere
3. Sig. Rosanna Giorni, Giudice Popolare
4. Sig. Giovanni Traina , Giudice Popolare
5. Sig. Giovanna Cinà, Giudice Popolare
6. Sig. Domenico Biundo, Giudice Popolare
7. Sig. Giovanna Pollina, Giudice Popolare
8. Sig. Antonio Davì, Giudice Popolare
con l’intervento del Pubblico Ministero rappresentato del Sostituto Procuratore della Repubblica Dott.ssa Franca Imbergamo e l’assistenza del Cancelliere Dott.ssa Annamaria Giunta, ha pronunziato la seguente

SENTENZA
nel procedimento penale
CONTRO
Badalamenti Gaetano, nato a Cinisi il 14.09.1923, difeso di fiducia dagli Avv.ti Paolo Gullo e Girolamo D’Azzò del Foro di Palermo; detenuto per altro c/o il Carcere Federale di Fairton – New

Jersey USA

 presente nell’aula in collegamento audiovisivo con quella di udienza (non comparso all’atto della lettura del dispositivo a seguito di rinunzia)

IMPUTATO
a) del delitto di cui agli artt. 110, 575, 577 n. 3 c.p. per avere, quali ideatori e mandanti, in concorso tra loro e con ignoti esecutori materiali, cagionato, con premeditazione, la morte di Giuseppe Impastato con l’uso di materiale esplosivo del tipo dinitrotoluene la cui deflagrazione dilaniava la vittima, provocandone l’immediato decesso;
In Cinisi il 09.05.1978

b) del delitto di cui agli artt. 81 cpv., 110 c.p., 2 e 4 legge 2 ottobre 1967 n. 895 e succ. modif., 61 n. 2 c.p., per avere in concorso tra loro e con ignoti, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, al fine di commettere il delitto di cui al capo che precede, illegalmente detenuto e portato il luogo pubblico materiale esplosivo del tipo dinitrotoluene.
In Cinisi il 09.05.1978

PARTI CIVILI COSTITUITE
Bartolotta Felicia, nata a Cinisi il 24.5.1916, e Impastato Giovanni, nato a Cinisi il 26.6.1953, rispettivamente madre e fratello di Impastato Giuseppe, rappresentati e difesi dall’Avv. Vincenzo Gervasi del Foro di Palermo;
Comune di Cinisi, in persona del Sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Leonardo Palazzolo;
Regione Siciliana, in persona del Presidente pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Palermo.

CONCLUSIONI DELLE PARTI
all’udienza del 15.1.2002:
il Pubblico Ministero ha chiesto affermarsi la penale responsabilità dell’imputato e, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, la condanna dello stesso alla pena dell’ergastolo e alle pene accessorie, nonché al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili;
l’Avv. Giangiacomo Palazzolo, in sostituzione dell’Avv. Leonardo Palazzolo, ha chiesto affermarsi la penale responsabilità dell’imputato e la condanna dello stesso anche al risarcimento del danno cagionato al Comune di Cinisi, come da conclusioni scritte depositate;
l’Avv. Vincenzo Gervasi ha chiesto affermarsi la penale responsabilità dell’imputato e la condanna dello stesso anche al risarcimento del danno cagionato al Bertorotta Felicia ed Impastato Giovanni, come da conclusioni scritte depositate;
all’udienza del 9.4.2002
l’Avv. Fabio Caserta, per l’Avvocatura Distrettuale dello Stato, ha chiesto affermarsi la penale responsabilità dell’imputato e la condanna dello stesso anche al risarcimento del danno cagionato alla Regione Siciliana, come da conclusioni scritte depositate;
l’Avv. Girolamo D’Azzò ha chiesto l’assoluzione dell’imputato per non avere commesso il fatto;
all’udienza del 10.4.2002
l’Avv. Paolo Gullo ha chiesto l’assoluzione dell’imputato ai sensi del comma I dell’art. 530 c.p.p.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In data 25.5.1997 il Procuratore della Repubblica presso questo Tribunale chiedeva il rinvio a giudizio di Badalamenti Gaetano e Palazzolo Vito, affinché rispondessero dei reati indicati in epigrafe loro contestati in concorso.
Con riguardo alla posizione del primo, detenuto negli Stati Uniti in espiazione di pena inflitta in quel paese, non si dava corso all’udienza preliminare, poiché, dopo la sua fissazione, perveniva richiesta di giudizio immediato avanzata dal difensore dell’imputato, munito di procura speciale ed il G.U.P. presso questo Tribunale provvedeva in conformità, con decreto emesso il 23.11.1999.
All’udienza del 26.1.2000, fissata per la celebrazione del dibattimento davanti alla III Sezione della Corte di Assise di questo Tribunale, in composizione diversa da quella sopra indicata, si prendeva atto che il Badalamenti aveva fatto presente di voler “partecipare personalmente” al dibattimento e però non era comparso per il legittimo impedimento dovuto alla detenzione negli U.S.A. Il processo veniva, pertanto, rinviato all’udienza del 27.4.2000, riservandosi la Corte di valutare la possibilità prospettata dall’accusa di assicurare la comparizione dell’imputato all’udienza con le modalità della “partecipazione al dibattimento a distanza” previste dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p.
A seguito dell’astensione dei giudici che originariamente componevano la Corte e che, al contempo, trattavano il giudizio abbreviato instaurato per gli stessi fatti a carico di Palazzolo Vito, conformemente a quanto disposto dal Presidente del Tribunale, era chiamata a celebrare il presente giudizio, all’udienza del 27.4.2000 e fino alla pronunzia della sentenza, la Corte costituita dai giudici sopra indicati.
Alla predetta udienza del 27.4.2000, presosi preliminarmente atto della persistenza del legittimo impedimento a comparire dell’imputato a causa del suo stato di detenzione all’estero, era nuovamente ordinato il rinvio della trattazione.
Contestualmente, la Corte disponeva, però, la “partecipazione al dibattimento” del Badalamenti “a distanza” ai sensi dell’art. 146 bis c.p.p. disp. att. c.p.p., in forza delle articolate argomentazioni riportate nell’ordinanza allegata al verbale di udienza, che inducevano a ravvisare la sussistenza delle seguenti condizioni: si procedeva nei confronti di imputato detenuto; per un reato contemplato dall’art. 51 comma III bis c.p.p.; erano state evidenziate ragioni di sicurezza che sconsigliavano la consegna anche solo temporanea del Badalamenti per consentirne la presenza in aula.
Inoltrando la conseguente “richiesta di assistenza giudiziaria internazionale in materia penale” ai sensi dell’art. 727 c.p.p., il Presidente della Corte, con nota del 9.5.2000, chiedeva alle competenti autorità italiane ed americane che fosse assicurata l’attivazione del collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza ed il luogo di custodia del Badalamenti e che fossero, altresì, garantite le seguenti condizioni:
a) la continua e reciproca visibilità dell’imputato in USA, da parte della Corte procedente in Palermo e di questa da parte dell’imputato, per tutta la durata delle udienze, con facoltà assicurata a quest’ultimo di intervenire in qualsiasi momento, per rendere dichiarazioni spontanee;
b) collegamento telefonico continuativo, mediante linea riservata, per tutta la durata di ogni udienza, tra l’imputato presente nella postazione in USA e il suo difensore che fosse presente nell’aula della Corte di Assise;
c) possibilità per detto difensore di accedere nella postazione videocollegata ove si fosse trovato il Badalamenti e di colloquiare con lui, durante la celebrazione dell’udienza;
d) disponibilità di un ufficiale di polizia giudiziaria italiano (da individuarsi tramite accordi con il Ministero di Giustizia e altri uffici competenti anche aventi sede in USA), che potesse accedere in occasione dell’udienza presso la postazione viedocollegata ove si fosse trovato l’imputato, onde procedere alle operazioni di verbalizzazione previste dalla legge (art. 146 bis comma VI disp. att. c.p.p.).
L’assenso a tali condizioni veniva prestato anche dalle Autorità USA, potendosi ravvisare una di quelle forme di assistenza “compatibili con la legislazione dello Stato richiesto” menzionate dall’ultima parte del comma II dell’art. 1 del “Trattato di mutua assistenza in materia penale tra il Governo della Repubblica Italiana ed il Governo degli Stati Uniti d’America”, sottoscritto a Roma il 9.11.1982.
Come la Corte aveva modo di precisare, in diverse ordinanze rese nel corso delle successive udienze in cui veniva assicurata la “partecipazione a distanza” dell’imputato con l’osservanza delle modalità di cui sopra, trattandosi di attività processuale svolta direttamente davanti al giudice italiano e secondo le norme proprie del processo celebrato in Italia, senza alcuna interferenza da parte delle autorità degli Stati Uniti chiamate solamente a garantire la chiesta assistenza ai fini dell’espletamento dell’attività giurisdizionale in Italia davanti al giudice italiano, il Badalamenti avrebbe potuto essere difeso, nei modi indicati dall’art. 146 bis c.p.p., esclusivamente dai suoi legali abilitati ad assisterlo, secondo la legge italiana, davanti all’autorità italiana.
Così come non si mancava di osservare, a seguito di specifiche doglianze, che l’imputato avrebbe potuto esercitare pienamente il suo diritto di difesa nel corso del dibattimento, rendendo direttamente davanti al giudice italiano dichiarazioni spontanee (come è avvenuto) e l’esame (ove avesse voluto sottoporsi a tale atto), previa assicurazione delle particolari condizioni prescritte dal menzionato articolo 146 bis (presenza di un ausiliario abilitato ad assistere il giudice in udienza).
Sicché, si faceva notare che, trattandosi di attività giurisdizionale espletata nell’aula di udienza italiana, con la collaborazione degli Stati Uniti ai soli fini dell’attivazione del video-collegamento nei modi richiesti, alcun pregiudizio sarebbe potuto derivare – in applicazione della legge di quel paese – dal libero esercizio del diritto di difesa.
Ciò nonostante, tali questioni venivano riproposte dalla difesa all’udienza del 28.6.2001, eccependosi, sotto altro aspetto, la nullità degli atti fino a quel momento espletati, in quanto il presente processo a carico del Badalamenti sarebbe stato instaurato in Italia in violazione del principio di specialità dettato in materia di estradizione dagli artt. 699, 721 c.p.p., 14 e 15 della “Convenzione europea di estradizione”, resa esecutiva in Italia con la legge 30 gennaio 1960, n. 300.
Ma, la Corte, con ordinanza resa nel corso della medesima udienza, al cui contenuto in questa sede va fatto riferimento, disattendeva anche tale ulteriore eccezione, evidenziando come fosse, comunque, improprio il richiamo agli obblighi previsti dalle norme di cui sopra, essendo essi operanti, quale particolare limite all’esercizio della giurisdizione, solo in caso di concessione di estradizione e cioè della consegna dell’imputato allo Stato italiano (nella specie non avvenuta).
In seguito, la difesa reiterava le sue doglianze, lamentando anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p., senza però considerare che la Corte Costituzionale era stata già chiamata ad esprimersi su detta norma, dichiarando infondate analoghe questioni.
Peraltro, questa Corte, nella motivazione dell’ordinanza resa all’udienza del 4.12.2001 con la quale era dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, evidenziava che nel frattempo la materia era stata espressamente regolata dall’art. 16 della Legge 5 ottobre 2001, n. 367, che, introducendo nelle disp. att. del c.p.p. l’art. 205 ter, prevedeva espressamente la “partecipazione al processo a distanza per l’imputato detenuto all’estero”, proprio nelle ipotesi di cui all’art. 146 bis disp. att. c.p.p. e con le modalità richieste, assentite e concretamente assicurate nel presente giudizio, coerentemente agli accordi internazionali di cui al Trattato con gli Stati Uniti del 1960 ed alla normativa interna italiana e degli Stati Uniti.
E si noti che, anzi, l’art. 205 ter disp. att. c.p.p. prescriveva tassativamente che “La detenzione dell’imputato all’estero non può comportare la sospensione o il differimento dell’udienza quando è possibile la partecipazione all’udienza in collegamento audiovisivo…”.
Né va omesso di considerare, a riprova che si tratta di attività giurisdizionale che si svolge esclusivamente davanti all’autorità giudiziaria italiana, che, alla stregua di quanto ora previsto dall’art. 384 bis c.p. introdotto dall’art. 17 della Legge 5.10.2001, n. 367, i delitti di cui agli artt. 366, 367, 368, 369, 371 bis, 372 e 373 c.p., consumati in occasione di collegamenti audiovisivi come quello di cui al citato art. 205 bis disp. att. c.p.p., vanno considerati, a tutti gli effetti, commessi nel territorio dello Stato e puniti secondo la legge italiana.
Altre questioni attinenti alla corretta instaurazione del rapporto processuale, sotto il profilo della regolarità delle notifiche all’imputato, erano poste dalla difesa all’udienza del 21.9.2000 e disattese dalla Corte con ordinanza resa nel corso di tale udienza cui può farsi rinvio.
Indi, nella medesima udienza, erano ammesse le costituzioni di parte civile suindicate e dichiarate invece inammissibili (e dunque escluse) quelle proposte dall’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, dal Centro Siciliano di Documentazione e dal Partito di Rifondazione Comunista.
Con la stessa ordinanza, la Corte provvedeva anche in ordine alle questioni attinenti alla formazione del fascicolo del dibattimento.
Dopo l’ammissione dei mezzi di prova richiesti dalle parti, aveva inizio l’istruzione dibattimentale, con l’audizione all’udienza del 21.10.2000 di alcuni dei testi indicati dall’accusa; istruzione che si svolgeva nel corso di numerose udienze ove erano escussi altri testi ed imputati in procedimento connesso già ammessi e che dava luogo anche all’acquisizione di numerosi documenti, di atti irripetibili e di altri atti di indagini (in quest’ultimo caso previo consenso delle parti), nonché all’ammissione ed all’espletamento dell’esame di testimoni ed imputati in procedimenti connesso non inizialmente indicati dalle parti.
Con ordinanza resa all’udienza del 24.7.2001, la Corte, avvalendosi tuttavia dei poteri di cui all’ultima parte del comma IV dell’art. 495 c.p.p., revocava l’ammissione di alcune prove addotte dalla difesa, divenute superflue in considerazione dell’istruzione già espletata.
All’udienza del 15.1.2002, erano indicati gli atti utilizzabili per la decisione e si dava atto dell’ultimazione dell’assunzione delle prove.
Esaurita la discussione, che si svolgeva nel corso delle udienze sopra indicate, il Presidente, all’udienza del 10.4.2002, dichiarava chiuso il dibattimento; sicché la Corte, previo allontanamento dei giudici popolari supplenti, si ritirava in camera di consiglio per la deliberazione della sentenza, pubblicata il 11.4.2002, mediante la lettura del dispositivo da parte del Presidente, in pubblica udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza emessa il 19.5.1984 ed acquisita all’udienza del 20.2.2001, il Giudice Istruttore di questo Tribunale dichiarava non doversi procedere in ordine all’omicidio premeditato di Giuseppe Impastato ed ai connessi delitti di porto e detenzione illegale di esplosivo, per essere rimasti ignoti gli autori di detti reati.
In quel provvedimento, preliminarmente, si procedeva alla puntuale esposizione dell’esito delle indagini inizialmente espletate, richiamandosi atti quasi tutti acquisiti al fascicolo del dibattimento di questo processo (e dunque qui utilizzabili) e sul cui contenuto si sono, comunque, soffermati diversi testi escussi davanti a questa Corte.
In particolare, il Giudice Istruttore evidenziava quanto segue:
“Alle ore 1,40 del 9 maggio 1978 il macchinista delle FF.SS. Sdegno Gaetano, transitando colla propria locomotiva in località “Feudo” di Cinisi, avvertiva un forte scossone e, fermatosi, constatava che un tratto di rotaia era tranciato, del che avvertiva il Dirigente della stazione ferroviaria di Cinisi, Puleo Giuseppe.
Questi ne informava per telefono, alle ore 3,45, i Carabinieri del luogo, che procedevano ad un immediato sopralluogo …, nel corso del quale si accertava:
1) che la rotaia del binario (unico) lato monte era tranciata e divelta per un tratto di circa 40 cm. e sotto di essa si era formata una grossa buca con spostamento della traversa di legno;
2) che nel raggio di 300 metri erano sparsi brandelli di resti umani e di indumenti, nonché frammenti del tratto di rotaia divelto;
3) che a circa 20 metri dal punto dell’esplosione si trovava l’autovettura Fiat 850 targata PA/142453, dal cui cofano socchiuso fuoriusciva un cavo telefonico per un tratto di circa un metro, collegato – ad un’estremità – ai morsetti della batteria, mentre l’altra estremità, priva della guaina di protezione, era poggiata sul cofano in direzione dello sportello destro del veicolo. All’interno della vettura si rinveniva una matassa di cavo telefonico, dello stesso tipo del tratto sopradescritto, lunga circa 20 metri e colle estremità prive di guaina ….
Risultava che l’autovettura apparteneva a Bartolotta Fara, che l’aveva concessa in uso al nipote Impastato Giuseppe. Questo particolare ed il riconoscimento degli indumenti da parte dei congiunti consentivano di stabilire con certezza che la persona deceduta in conseguenza dell’esplosione si identificava proprio nel giovane Impastato Giuseppe.
La Bartolotta Fara, zia materna del giovane, riferiva che suo nipote aveva vissuto con lei sin dalla tenera età e che il giorno 8 maggio egli era uscito di casa alle ore 10 circa, alla guida dell’autovettura “Fiat 850” di cui aveva la piena disponibilità e che da quel momento ella non aveva più visto.
Precisava – inoltre – la donna che il nipote era di carattere chiuso e totalmente dedito all’attività politica, quale militante (e segretario politico locale) nel partito di “Democrazia Proletaria”, pur se negli ultimi tempi se ne era mostrato “deluso”.
Nel corso di una perquisizione domiciliare venivano rinvenute, nel cassetto del comodino della camera da letto dell’Impastato, cinque lettere, risalenti al novembre del 1973 (di cui tre indirizzate al predetto e due al suo compagno di partito La Fata Giampiero) e contenenti minacce contro i destinatari ed i loro “amici comunisti” per l’attività da essi svolta tra i muratori di Cinisi, nonché un manoscritto di tre fogli a firma “Giuseppe”, riconosciuto da Impastato Giovanni come autentica ed appartenente al defunto suo fratello. Tale manoscritto, recante espressioni rivelatrici di una profonda crisi umana e politica (vi si parla – tra l’altro – di “fallimento come uomo e rivoluzionario”) ed altre duramente critiche verso le posizioni assunte da alcuni compagni di fede politica, peraltro non nominati, sembrava rivelare anche chiari propositi suicidi, come appariva dalle frasi: “… medito sull’opportunità, o forse sulla necessità, di “abbandonare” la politica e la vita … Ho cominciato esattamente il 13 febbraio … Non voglio funerali di alcun genere. Dal punto di morte all’obitorio. Gradirei tanto di essere cremato e che le mie ceneri venissero gettate in una pubblica latrina della città…”.
Nel corso delle indagini venivano interrogati dalla Polizia giudiziaria diversi compagni di partito dell’Impastato Giuseppe, i quali si manifestavano quasi tutti concordi nel negare che fossero mai sorti seri contrasti, all’interno del gruppo, circa la linea politica da seguire e nell’esprimere il convincimento che il loro compagno fosse stato ucciso a motivo delle sue ripetute denunce a carico della mafia locale e delle speculazioni – soprattutto edilizie – da essa effettuate e che gli autori dell’omicidio avessero poi cercato di far apparire l’Impastato come protagonista o vittima di un attentato terroristico.
Le dichiarazioni più articolate ed interessanti venivano rese dal La Fata Pietro e dal Di Maggio Faro, entrambi aderenti alla lista di “Democrazia Proletaria” presentata per le elezioni amministrative indette per il 14 maggio 1978.
Il La Fata, pur escludendo l’esistenza di contrapposizioni od atteggiamenti polemici in seno al gruppo politico di comune appartenenza, precisava che da circa un anno Impastato Giuseppe “si era una po’ allontanato”, ossia aveva diradato i contatti con i propri compagni, e che la data del “13 febbraio” indicata nello scritto lasciato dal predetto andava riferita ad una manifestazione pubblica organizzata, colla denominazione di animazioneteatrale”, dal gruppo di “Democrazia Proletaria” nella piazza di Terrasini, e dalla quale l’Impastato si era dissociato, senza peraltro spiegarne i motivi.
Affermava infine il La Fata di ritenere che l’Impastato fosse stato ucciso ad opera della mafia locale, cui lo stesso faceva carico – anche pubblicamente – di “speculazioni varie come lottizzazioni, edilizia, cave, scempio delle coste del litorale”; aggiungeva che nel 1977 l’Impastato aveva apertamente accusato – in un volantino – tale Finazzo Giuseppe, legato al noto mafioso Gaetano Badalamenti, di avere presentato un progetto per la illegale costruzione di un edificio di cinque piani, progetto poi non approvato a seguito di detta pubblica denuncia.
Il Di Maggio, dal canto suo, pur confermando la mancata partecipazione dell’Impastato alla manifestazione “Animazione Teatrale” tenuta in Terrasini dal gruppo “la domenica successiva a quella di carnevale” del 1978, dichiarava di ritenere che la data del “13 febbraio” indicata nello scritto di cui si è detto fosse da ricollegare ad una manifestazione degli “indiani metropolitani” svoltasi a Palermo nel febbraio 1977 e ritenuta dal defunto compagno “una ridicola mistificazione”.
Precisava, inoltre, il Di Maggio che i rapporti in seno al gruppo erano cordiali e che se qualche polemica divideva l’Impastato dai compagni essa era dovuta al suo “senso esasperato della politica, dove era molto preparato”, mentre “gli altri intendevano valorizzare anche la vita personale”. Identico motivo, a giudizio del Di Maggio, stava alla base delle dimissioni dell’Impastato, nel gennaio-febbraio 1978, dalla carica di direttore responsabile della radio “Aut” con sede in Terrasini, carica nella quale gli era succeduto Cavataio Benedetto, pur continuando l’Impastato a dare il proprio contributo ai programmi, “tendenti a denunciare in chiave satirica speculazioni mafiose”.
Dichiarava infine il Di Maggio di avere appreso dallo stesso Impastato delle minacce da quest’ultimo ricevute, e che lo inducevano ad escludere, in ordine alla morte del compagno, le ipotesi del suicidio e dell’evento accidentale; e chiariva di avere egli stesso fornito e sistemato i cavetti telefonici rinvenuti nell’autovettura usata dall’Impastato, e destinati ad alimentare, mediante collegamento alla batteria dell’auto, l’amplificatore posto sul sedile del veicolo ed usato per il comizio elettorale tenuto dal gruppo il 7 maggio in Cinisi.
Riferendo – con rapporto del 10/5/1978 – alla Procura della Repubblica in sede circa le indagini come sopra svolte, il Comandante del Reparto Operativo del Gruppo Carabinieri di Palermo Magg. Subranni accreditava – conclusivamente – l’ipotesi che l’Impastato, dopo essere uscito dalla sede della radio “Aut” verso le 20,12 del dì 8 maggio (come era risultato per concordi testimonianze), avesse rinunziato a partecipare alla riunione che nella stessa sede avrebbe dovuto tenersi verso le ore 21, e, “dopo avere riflettuto ancora una volta su quello che egli stesso aveva definito un fallimento, avesse progettato ed attuato l’attentato dinamitardo alla linea ferroviaria in modo da legare il ricordo della sua morte ad un fatto eclatante”.
Dunque, nel corso delle iniziali indagini si contrapponevano due tesi: quella dei Carabinieri consacrata negli atti ufficiali diretti all’A.G. e quella degli amici e compagni di partito di Giuseppe Impastato.
Questi ultimi, resisi conto dell’orientamento assunto dai Carabinieri, non mancavano di cercare altri interlocutori che potessero dare il giusto peso alla loro ipotesi alternativa, onde scongiurare il pericolo che il caso fosse frettolosamente archiviato come uno dei tanti tragici episodi dell’epoca ricollegabili, in un modo o nell’altro, all’attività eversiva dei gruppi terroristici dell’area dell’estrema sinistra.
Veniva così presentato in data 11.5.1978 un esposto al Procuratore della Repubblica firmato dagli studenti universitari Carlotta Francesco, Barbera Giovanni e Bonsangue Paola, ove era confutata la tesi dell’attentato e sostenuta invece quella dell’omicidio premeditato.
Ma, i compagni di Impastato non si limitavano alle rimostranze.
Ed infatti, come si legge nella citata sentenza resa dal G.I.:
“Nel pomeriggio del 12 maggio (secondo quanto si evince dalla deposizione resa ai Carabinieri il 16 maggio 1978 dal prof. Del Carpio…) lo studente Carlotta, sopramenzionato, assieme ad altro giovane, si recava presso l’Istituto di Medicina Legale ed ivi consegnava al predetto Prof. Del Carpio Ideale, libero docente, un sacchetto di plastica contenente alcuni resti umani ed una pietra avvolta in carta, spiegando che i resti umani erano stati da loro recuperati sul luogo della esplosione, mentre il sasso era stato divelto da un “locale a nord della casa rurale. Il prof. Del Carpio provvedeva a conservare nella cella frigorifera i resti umani ed a custodire la pietra, in attesa di disposizioni da parte del Magistrato.
La mattina successiva il Sostituto Procuratore della Repubblica Dott. Scozzari (evidentemente avvertito – la sera precedente – dal prof. Del Carpio), accompagnato da alcuni Ufficiali di Polizia Giudiziaria, da elementi della Squadra Scientifica dei Carabinieri di Palermo, dai due periti medico – legali già officiati con verbali del 9 e 10 maggio …(ndr. si tratta del Dott. Procaccianti e del Dott. Caruso), nonché dallo stesso Prof. Del Carpio, indicato nel verbale di ispezione dei luoghi come “consulente tecnico di parte già nominato” …, si recava nel luogo dell’esplosione “e precisamente nella costruzione abbandonata in prossimità della quale fu rinvenuta l’autovettura Fiat 850 che era nel possesso di Impastato Giuseppe; questo al fine di accertare la esistenza di ulteriori tracce ed, in particolare, delle asserite tracce di sangue che sarebbero state rinvenute da taluni giovani che, eseguita una loro ispezione, effettivamente rinvennero una mano umana ed altri frammenti organici e ritennero di avere rinvenuto, nell’interno del caseggiato predetto, tracce di sangue umano”.
Presenziavano all’ispezione dei luoghi anche il La Fata Pietro, più volte menzionato, e tale Lo Duca Vito, facenti parte del predetto gruppo di giovani, e convocati per indicare i luoghi in cui avevano compiuto le loro ricerche ed il punto del caseggiato ove sarebbe stata da essi rinvenuta su di un sasso, e quindi asportata e consegnata al Prof. Del Carpio, la ricordata traccia di sangue. In un caseggiato abbandonato, in prossimità del luogo in cui era stata rinvenuta la “Fiat 850” usata dall’Impastato, i due giovani indicavano il punto in cui, nel vano con ingresso da lato sud, era stata da essi asportata la pietra recante le asserite tracce di sangue e facenti parte della pavimentazione del vano, a 15 cm. circa dello spigolo di un sedile di pietra esistente in un angolo del vano stesso; veniva – altresì – asportata e repertata altra pietra, saldamente infissa nel terreno, e recante una traccia rossastra che i periti ritenevano riconducibile a materia organica.
Nella stessa giornata del 13 maggio, verso le ore 13, lo studente Chirco Francesco Paolo consegnava al Comandante la Stazione Carabinieri di Cinisi … un sacchetto di plastica, contenente frammenti di resti umani raccolti dallo stesso Chirco, e dai suoi amici Bartolotta Ferdinando e Riccobono Giovanni, nel pomeriggio del giorno precedente, nella zona dell’esplosione. Anche detti frammenti venivano consegnati dal magistrato ai periti. Altri reperti (pezzi di stoffa e macchie di sangue), venivano, infine, acquisti – il 13.5.78 – dai Carabinieri di Cinisi…”.
In data 16.5.1978 anche Impastato Giovanni e Bartolotta Felicia, rispettivamente fratello e madre di Impastato Giuseppe, presentavano un esposto sostenendo con forza e motivatamente la tesi dell’omicidio.
I CC., tuttavia, rimanevano fermi nelle loro conclusioni, ribadite in un rapporto a firma del Magg. Subranni depositato il 30.5.1978, in cui si richiamavano anche le dichiarazioni raccolte da Maniaci Anna gestrice del bar “Munacò” di Cinisi, la quale, sentita il 17.5.1978, aveva riferito che quel giorno 8 maggio, verso le 20,30 – 20,45, Impastato Giuseppe (che appariva “normale”) era entrato da solo in detto locale, con in mano “una carpetta o un libro” e vi si era trattenuto il tempo necessario per ordinare e bere un bicchiere di whisky.
Ciò nonostante, all’esito dell’istruzione sommaria, il Procuratore della Repubblica trasmetteva gli atti al Giudice Istruttore, perché si procedesse a carico di ignoti per i reati di omicidio premeditato di Impastato Giuseppe e di detenzione e porto illegale di esplosivo.
La laboriosa attività di istruzione formale si sviluppava anche nell’audizione da parte del G.I. di numerosi altri testimoni, ritenuti via via a conoscenza di circostanze utili ai fini dell’accertamento dei fatti.
Al riguardo, nella citata sentenza si evidenziava:
“Venivano altresì sentiti numerosi testimoni …, dalle cui deposizioni emergevano talune significative, nuove circostanze, e – in particolare – un colloquio avvenuto nel pomeriggio dell’8 maggio 1978 tra tale Riccobono Giovanni (amico dell’Impastato Giuseppe) e il suo cugino e datore di lavoro Amenta Giuseppe, e nel corso del quale il Riccobono, chiamato in disparte, era stato avvertito “di non andare in paese perché in questi giorni succederà qualcosa di grosso”; precisava il Riccobono … di avere appreso dal cugino, nell’accennato colloquio, “che era stato suo fratello Amenta Carmelo Giovanni a incaricarlo di dargli tale consiglio”, e di averne – subito dopo – parlato con parecchi amici di Cinisi, tra cui il fratello dell’Impastato Giuseppe, ma di non averne potuto informare Giuseppe, benché questo fosse stato il suo primo, istintivo pensiero, perché, recatosi appositamente alla radio, lo aveva trovato impegnato in vista di un’assemblea fissata per le ore 21.
Le circostanze riferite dal Riccobono venivano confermate da numerosi testi (Impastato Giovanni, Di Maggio Faro, Maniaci Giosué, Iacopello Fara, Vitale Maria Fara, Bartolotta Andrea, La Fata Pietro Giovanni, Cavataio Benedetto e Di Maggio Domenico).
Emergeva altresì, da taluna delle testimonianze sopraricordate, che le circostanze riferite dal Riccobono avevano creato, nella stessa sera dell’8 maggio 1978, uno stato di apprensione tra gli amici di Impastato Giuseppe, alcuni dei quali (“circa otto persone” …), non avendolo visto arrivare alla riunione fissata per le ore 21, si erano mossi – su tre autovetture – alla sua ricerca, protrattasi invano per quasi tutta la notte …
Precisavano concordemente i testi suindicati di non avere riferito prima, nemmeno al magistrato, quanto avevano appreso dal Riccobono, a motivo della sfiducia in essi ingenerata dal deciso orientamento che sin dal primo memento gli investigatori avevano palesato verso la tesi dell’incidente o del suicidio.
I testi stessi, inoltre, fornivano particolari circa la battaglia politica condotta dall’Impastato Giuseppe contro il potere mafioso della zona, e in particolare contro Gaetano Badalamenti, Finazzo Giuseppe ed un certo Palazzolo; personaggi che egli non esitava a ridicolizzare nelle trasmissioni di “Onda Pazza” dalla Radio Aut.
A tal riguardo l’Impastato Giovanni consegnava al magistrato istruttore, il 7/12/1978 …, sette cassette di registrazione di dette trasmissioni, oltre a vari documenti, e precisava … che suo fratello era riuscito, coll’intensa attività politica svolta, a far sospendere i lavori di costruzione di un palazzo a cinque piani (“che pare sia del Finazzo) e si era battuto a fondo, con pubbliche denunce, contro l’approvazione “quasi clandestina” del cosiddetto piano “Z10”, consistente nella realizzazione di un campo turistico nella zona di Cinisi, ed alla quale “erano interessati un certo Lipari … figlioccio di un noto mafioso defunto Rosario Badalamenti; un certo Caldara di Palermo; e un certo Cusimano di Cinisi, costruttore edile … forse in buoni rapporti con esponenti mafiosi”.
Del resto già in data 19/5/78 il Lo Duca Vito … aveva riferito al Sostituto Procuratore della lotta condotta dall’Impastato Giuseppe contro la realizzazione del villaggio turistico Z 10 (nonché di una strada costruita, con soldi del comune, in contrada “Purcaria”, e che, precisava il teste, “serviva per uso di due sole persone di cui non so i nomi ma ho sentito di essere mafiosi”).
Riferiva – ancora – l’Impastato Giovanni, nella citata deposizione del 7/12/78, che suo fratello aveva denunciato “anche pubblicamente, attraverso la radio, le imposizioni nei confronti delle società che costruivano l’autostrada le quali erano costrette ad acquistare il materiale necessario dal Finazzo e dai D’Anna, elementi mafiosi di Terrasini”; e rivelava – infine – che (secondo quanto egli aveva appreso circa un mese dopo la morte del fratello e successivamente alla deposizione dinanzi al Sostituto Procuratore) il Vito Lo Duca, “il giovane più vicino a suo fratello”, era stato seguito, la sera dell’8maggio 1978, mentre conduceva la propria autovettura, da un’altra persona, pure in macchina.
Questa circostanza veniva confermata, nella stessa giornata, dal Lo Duca …, il quale precisava di essere stato seguito “per circa 6 o 7 minuti” da un’autovettura condotta da tale Pizzo Salvatore, e che egli successivamente aveva più volte notato, con all’interno lo stesso Pizzo, “davanti all’abitazione di Gaetano Badalamenti noto mafioso di Cinisi”.
Un’ultima circostanza di rilievo veniva riferita, in dep. 7/12/1978, dal Di Maggio Faro …, e riguardava un colloquio avvenuto in Cinisi tra Amenta Carmelo ed il Finazzo Giuseppe (inteso “u parrineddu”), e riferitogli dal Riccobono Giovanni; la circostanza verrà poi confermata in dep. 17/3/1979 … dal teste Di Maggio Domenico, il quale aveva notato, la domenica precedente la morte dell’Impastato, un colloquio “appartato” tra il Finazzo e l’Amenta, davanti al Municipio di Cinisi, e, la sera dell’8 maggio, appena erano cominciate le ricerche dell’Impastato Giuseppe, aveva riferito l’episodio al Riccobono Giovanni, collegandolo subito alla mancanza di “Peppino”.
I fratelli Amenta venivano interrogati (il Giuseppe il 21/12/1978 …, il Carmelo il 3/1/79 …) sulle circostanze emerse, nei loro confronti, dalle deposizioni più volte ricordate, e che entrambi negavano; né miglior esito aveva il confronto … tra l’Amenta Giuseppe ed il Riccobono.
Sulla base delle risultanze acquisite veniva emesso in data 31/1/1979 – mandato di cattura per il delitto di cui all’art. 372 C. Pen. nei confronti dell’Amenta Giuseppe …, mentre il giorno successivo veniva spedita comunicazione giudiziaria – per la stessa imputazione – all’Amenta Carmelo Giovanni …
Sempre in data 1/2/1979 veniva inviata comunicazione giudiziaria al già nominato Finazzo Giuseppe, quale “indiziato” del delitto di omicidio volontario in pregiudizio dell’Impastato Giuseppe ……
Interrogati dal magistrato, rispettivamente il 14 e il 23/2/1979, sia l’Amenta Giuseppe (costituitosi il 14/2/79) che il fratello Carmelo Giovanni insistevano nel negare le circostanze più sopra precisate, così come riferite dai testi menzionati e – in particolare – dal Riccobono Giovanni e dal Di Maggio Faro; meno recisa – peraltro – risultava la smentita dell’Amenta Carmelo in ordine al suo colloquio col Finazzo qualche giorno prima della morte dell’Impastato (.. “non ricordo, avrò potuto anche fermarmi a parlare un po’ nel senso che il Finazzo mi avrà rivolto l’invito ad andare con lui al circolo”) ..”.
Le indagini erano dirette anche al fine di fare luce sulle vicende di speculazione edilizia denunziate dall’Impastato e, segnatamente, su quelle relative al cosiddetto “Progetto Z 10” e alla realizzazione da parte del Finazzo del “palazzo a cinque piani” nel centro abitato di Cinisi.
Nella menzionata sentenza, il G.I. proseguiva la sua disamina della vicenda processuale, esponendo dettagliatamente tutte le circostanze di fatto e le considerazioni di carattere logico che lo inducevano a ritenere provato che Giuseppe Impastato fosse “… rimasto vittima di un efferato omicidio, attuato con modalità tali da far attribuire la morte ad un deliberato atto suicida o ad un’accidentale esplosione …”.
E quanto alle diverse conclusioni rassegnate all’inizio delle indagini dai Carabinieri, quel Giudice non mancava di fare notare:
“… lo stesso C.llo Subranni (che, allorquando comandava – con grado inferiore – il Reparto Operativo del Gruppo Carabinieri di Palermo, aveva, sulla base di indagini iniziali, espresso, ne due sovracitati rapporti 10/51978 e 30/5/1978, il motivato e fermo convincimento che l’Impastato Giuseppe si fosse “suicidato compiendo scientemente un attentato terroristico”) precisava in deposizione 25/12/1980 … di avere appreso, “attraverso i contatti tenuti con l’autorità giudiziaria”, che – nel corso delle ulteriori indagini – erano “venuti fuori elementi tali da far ritenere possibile una causale diversa da quella formulata con il rapporto”. Nella successiva deposizione del 16/7/1982 lo stesso Col Subranni, in termini ancora più espliciti e con una lealtà che gli fa onore, dichiarava …: “… nella prima frase delle indagini, si ebbe il sospetto che lo Impastato morì nel momento in cui stava per collocare un ordigno esplosivo lungo la strada ferrata. Questi sospetti, però, vennero meno quando, in sede di indagini preliminari, svolte da magistrati della Procura, emersero elementi che deponevano per l’omicidio dell’Impastato più che per una morte accidentale cagionata dall’ordigno esplosivo. Dalle indagini a suo tempo svolte, emerse in maniera certa che lo Impastato era seriamente e concretamente impegnato nella lotta contro il gruppo di mafia capeggiato da Gaetano Badalamenti che lo Impastato accusava di una serie di illeciti, anche di natura edilizia. In ordine a quest’ultima circostanza, muoveva anche accuse ad un certo Finazzo da lui ritenuto mafioso e legato al Badalamenti”.
Occorre precisare – a questo punto – che, nel frattempo, il già nominato Finazzo Giuseppe era rimasto vittima di un omicidio consumato il 20 dicembre 1981 e del quale sono rimasti ignoti gli autori.
Oltremodo significativo ed illuminante appare, per le considerazioni svolte in ordine alla morte dell’Impastato Giuseppe, il rapporto giudiziario compilato in data 10/2/1982, relativamente al predetto omicidio, dal Comandante la Compagnia Carabinieri di Partinico …
Giova qui trascrivere i passi principali di tale rapporto, anche per poter misurare di quanto risultino mutati nel frattempo (ma sono trascorsi solo quattro anni!) gli orientamenti e gli indirizzi nella individuazione delle modalità e delle cause del tragico avvenimento verificatosi nella notte sul 9 maggio 1978:
“Finazzo Giuseppe, componente del clan mafioso capeggiato dal noto Badalamenti Gaetano da Cinisi, era l’uomo di fiducia più vicino al capo … Ufficialmente imprenditore edile ed iscritto al n. 146 dell’elenco dei mafiosi aveva precedenti per reati contro il patrimonio. Inteso “Parrineddu” ed anche “Percialino”, soprannome questo ultimo che gli affibbiò il defunto Impastato Giuseppe, noto esponente di democrazia proletaria … Era definito, per la voce pubblica, un soggetto di spiccata capacità a delinquere, a servizio della mafia e privo di scrupoli morali. Da epoca remota, grazie alla sua attività, ha avuto la possibilità di adoperare grossi quantitativi di esplosivo, non certo impiegato solo nelle note cave della S.I.F.A.C., ma anche, presumibilmente, per favorire i vari mafiosi a lui associati nella consumazione di attentati dinamitardi. Il più grave di questi delitti, che la voce pubblica gli addebita, e che risale al 9/5/1978 è la soppressione di Impastato Giuseppe, noto esponente di democrazia proletaria di Cinisi, che pubblicamente non cessò mai, fino al giorno della sua morte, di accusare, arrivando financo a ridicolizzarli, il Finazzo Giuseppe, il Badalamenti Gaetano e gli altri esponenti della mafia”.
E concludendo la sua analisi, il Giudice Istruttore osservava:
“… poiché … l’Impastato Giuseppe aveva concentrato il suo impegno di lotta contro le prevaricazioni, gli abusi e gli illeciti di taluni amministratori e – soprattutto – di ben individuati gruppi e personaggi mafiosi, se ne deve trarre il logico convincimento che proprio in questi ambienti sia stata decisa ed attuata la soppressione di un così irriducibile accusatore.
Se però può dirsi raggiunta la certezza processuale in ordine alla consumazione dell’omicidio, ai moventi del medesimo ed al gruppo od ambiente nel quale è maturata la criminale decisione, non altrettanto può dirsi circa la individuazione dei responsabili.
E’ appena il caso di ricordare che nel nostro ordinamento giuridico la responsabilità penale è strettamente personale, e che non può configurarsi una astratta responsabilità “di gruppo” ove manchino prove certe che consentano di formulare specifici addebiti a carico dei componenti del gruppo stesso e di coloro che ne dirigono l’attività.
Nel nostro caso gli irreparabili ritardi derivati da quello che nella requisitoria del P.M. viene definito l’iniziale “depistaggio” delle indagini e la sopravvenuta uccisione del Finazzo Giuseppe, indiziato del reato di omicidi di cui è processo, non hanno consentito di tradurre in ben definite responsabilità individuali le verità che emergono dalle carte processuali, nel senso che non è stato possibile accertare se l’assassinio dell’Impastato sia il frutto di una decisione di taluno degli esponenti mafiosi più volte nominati o (come è parimenti ipotizzabile) di taluno degli elementi di fiducia che gravitavano nella loro orbita e che potevano con ciò mirare a guadagnarsi meriti, prestigio ed autorità o – comunque – a dimostrare la propria fedeltà verso i capi”.
Per questi motivi il G.I., dichiarava quindi non doversi procedere in ordine ai rubricati delitti di omicidio volontario e di detenzione e porto illegale di esplosivo, per essere rimasti ignoti gli autori dei fatti.
A completamento del riepilogo delle vicende processuali che hanno preceduto questo giudizio, quali si desumono dagli atti acquisiti al fascicolo del dibattimento e da quanto rappresentato dai testi e dalle parti, va evidenziato che, qualche anno dopo la pronunzia di detta sentenza, il procedimento veniva riaperto, a seguito di un esposto presentato da Giovanni Impastato e dai responsabili del “Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato”, ove si rappresentavano diverse circostanze, a conoscenza dei congiunti, riguardanti i rapporti intrattenuti da Luigi Impastato, padre di Giuseppe, con Badalamenti Gaetano e con altri esponenti della mafia di Cinisi, nonché alcuni particolari concernenti un improvviso viaggio negli Stati Uniti effettuato dallo stesso Luigi Impastato nella Primavera del 1977.
Fra l’altro, si assumeva che quest’ultimo (deceduto nel Settembre del 1977 a Cinisi a seguito delle lesioni riportate in un investimento d’auto), poiché legato agli esponenti mafiosi di cui sopra, non solo aveva osteggiato l’attività di denunzia del figlio, ma anche aveva ben compreso il pericolo di ritorsioni al quale costui andava incontro, come era confermato da alcune confidenze ai parenti americani.
Inoltre, lo scenario mafioso che avrebbe fatto da cornice alla decisione e all’esecuzione dell’omicidio di Giuseppe Impastato si riteneva ormai ben delineato dalle conoscenze – concernenti in generale Cosa Nostra ed in particolare la famiglia mafiosa di Cinisi e lo stesso Badalamenti Gaetano – acquisite grazie al progredire delle indagini che in quegli anni avevano dato vita al “maxi processo” (si faceva in particolare riferimento alle dichiarazioni di collaboratori come il Buscetta).
Le indagini scaturite dalla riapertura del procedimento si sviluppavano anche allo scopo di verificare la pista del coinvolgimento di esponenti dell’eversione di estrema destra, indicata da Izzo Angelo in forza di confidenze asseritamene ricevute dal terrorista Concutelli Pierluigi, nonché nell’audizione in USA, tramite rogatoria internazionale, di Badalamenti Gaetano e di alcuni parenti degli Impastato.
L’esito di questi e altri accertamenti non veniva, tuttavia, giudicato idoneo al fine di individuare i responsabili dell’omicidio, sicché nel Marzo del ’92 era disposta l’archiviazione del procedimento.
Come più volte evidenziato dalla difesa, nella circostanza il richiedente P.M. non mancava di prospettare l’ipotesi che la paternità del delitto fosse, invece, da attribuire ad esponenti delle cosche mafiose emergenti facenti capo ai “corleonesi”, in quegli anni intenti a preparare la loro scalata al vertice di Cosa Nostra, a scapito di boss del calibro di Badalamenti Gaetano divenuti ben presto acerrimi nemici.
L’ultima riapertura delle indagini avente quale esito l’emissione del decreto da cui trae origine il presente giudizio, consegue alle rivelazioni del collaboratore Palazzolo Salvatore (dissociatosi dal sodalizio mafioso nel ’93), avendo costui accusato, quali mandanti del delitto, Badalamenti Gaetano e Palazzolo Vito e in tal modo confermato non solo la tesi dell’omicidio, ma anche la sua matrice mafiosa.
Si sono succedute, inoltre, le dichiarazioni accusatorie degli altri collaboratori escussi nel corso del dibattimento, tutte ritenute idonee a comprovare il coinvolgimento nel fatto di sangue del Badalamenti.
E le nuove indagini non hanno mancato di approfondire ancora una volta, mediante l’audizione dei congiunti di Giuseppe Impastato ed anche di quelli residenti negli Stati Uniti, le tematiche dei rapporti intrattenuti da Luigi Impastato con il Badalamenti (ed altri mafiosi di Cinisi) e del viaggio del primo risalente alla Primavera del ’77.
La superiore esposizione del lungo e complesso iter processuale consente di mettere a fuoco i principali temi di accertamento con cui si è dovuta misurare la ricostruzione accusatoria e, in ordine di tempo, presi in considerazione dai Magistrati occupatisi del caso.
Il primo problema che ci si è posti e che qui va nuovamente affrontato riguarda la diversa lettura dei fatti prospettata almeno inizialmente dai CC., convinti di trovarsi di fronte ad un attentato dinamitardo posto in essere dall’Impastato, motivato da intenti terroristici e, secondo una versione riveduta e corretta, risoluto a togliersi la vita.
Il G.I. nella sentenza del 19.5.84 ha confutato però tale ipotesi, evidenziando correttamente che la preconcetta accettazione di essa pregiudicò non poco la completezza e la linearità dell’attività di indagine, con l’inevitabile dispersione di prezioso materiale probatorio.
Invero, i familiari e gli amici tentarono subito di spiegare – e lo hanno fatto anche nel corso del dibattimento – che Giuseppe Impastato non aveva mai compiuto gesti che rivelassero l’intenzione di condurre l’attività politica con metodi terroristici, avendo invece sempre manifestato una cultura volta a rappresentare apertamente le proprie idee, con ogni mezzo a disposizione e con azioni sì talvolta eclatanti e di rottura, ma sempre non violente e improntate al libero confronto.
Proprio il rifiuto di qualsiasi forma di sopraffazione, lo aveva indotto per anni a denunziare, pubblicamente e in modo circostanziato, le malefatte di esponenti mafiosi e le relative collusioni in vari settori.
L’entusiasmo ed il fervore con cui l’Impastato aveva continuato a condurre soprattutto negli ultimi giorni di vita la sua attività politica ed a portare avanti la sua opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica relativamente all’argomento mafia, ma anche ad altri più o meno connessi, come la speculazione edilizia e la deturpazione del territorio, tutto potevano far pensare meno che il maturare ed il mettere in atto la volontà di togliersi la vita con un gesto terroristico.
Questa realtà era palese all’indomani dei fatti, sia perché coralmente rappresentata da quasi tutte le persone legate affettivamente e/o politicamente all’Impastato, sia in quanto avvalorata da tanti altri dati di inequivocabile significato e da logiche considerazioni.
Ed infatti, come si desume anche dalla documentazione acquisita in dibattimento, mai come in quei giorni l’Impastato, candidandosi alle elezioni comunali indette per il 14.5.1978, tenendo comizi nella piazza di Cinisi, allestendo mostre fotografiche, parlando ai microfoni di Radio Aut, effettuando attività di volantinaggio, promuovendo riunioni con i compagni per organizzare la campagna elettorale, aveva dato prova di volere perseguire le sue aspirazioni politiche e di volere profondere il suo impegno sociale con metodi democratici e comportamenti assolutamente incompatibili con quelli di colui che sta maturando l’idea di togliersi la vita tramite un attentato dinamitardo.
In tal senso militano anche le concordanti notizie acquisite sui movimenti dell’Impastato quel giorno 8 maggio: egli, insieme ai tanti amici con cui condivideva l’esperienza politica, preparava l’ultimo comizio della campagna elettorale che avrebbe dovuto tenersi il giorno successivo e per il quale era stata già presentata la richiesta di autorizzazione presso la Caserma dei CC.; il pomeriggio si era intrattenuto nei locali di Radio Aut ove, seguendo la messa in onda di un’intervista che aveva rilasciato a tale Cucinella Giuseppe, giornalista di altra emittente locale, si era molto arrabbiato in quanto era stata soppressa la parola mafia da lui proferita a proposito delle collusioni nel territorio intrattenute dalla D.C. (tale censura è stata sostanzialmente confermata davanti alla Corte dal Cucinella); l’Impastato era rimasto insieme agli altri nei locali di Radio Aut fino alle 20,00 circa, quando si era congedato per recarsi a casa a cenare, con l’accordo che si sarebbero rivisti intorno alle 21,00 per l’ennesimo incontro avente all’ordine del giorno le ultime battute della campagna elettorale.
E tale ricostruzione non può dirsi smentita dal fatto che l’Impastato si fosse brevemente fermato nel bar Munacò nei pressi della sua abitazione fra le 20,30 e le 20,45, allo scopo di consumare – come era solito fare – un whisky (la circostanza è stata riferita ai CC. e ribadita davanti alla Corte dalla titolare del locale, Maniaci Anna).
Ed ancora, non può sottacersi che le perquisizioni espletate nell’immediatezza, nella dimora dell’Impastato, nella sede di Radio Aut ed in altri luoghi nella disponibilità di parenti, compagni di partito ed amici del giovane attivista politico, non consentirono di acquisire il benché minimo dato a supporto della tesi propugnata dai Carabinieri; né gli stessi – come emerge dalla deposizione del M.llo Travali (all’epoca Comandante della Stazione dei Carabinieri di Cinisi) – furono nelle condizioni di rappresentare eventi precedenti che facessero seriamente ipotizzare il coinvolgimento di quei soggetti in strategie ed azioni violente o nel possesso di armi ed esplosivi di qualsiasi tipo.
Ma vi è di più: i funzionari delle Ferrovie dello Stato all’esito delle loro indagini amministrative ebbero a rappresentare (cfr. relazione in data 11.12.1978, acquisita al fascicolo del dibattimento):
“Il giorno 9.5.1978 il treno 59411, formato dal solo locomotore, effettuava la corsa Palermo Alcamo D.; con partenza da Palermo Br. Alle ore 0,26 giunto alle 1,30 circa in prossimità del Km. 30 fra le stazioni di Carini e Cinisi il Macchinista avvertiva un forte sobbalzo, pertanto si fermava al P. L. Km. 30+745 e informava il Guardiano in servizio …
…Il tratto di linea al Km. 30 + 180, dove si riscontrava la mancanza di ml. 0,54 di rotaia, si svolge in curva di raggio di ml. 200.
Il tratto di rotaia mancante è stato riscontrato nella fila interna della curva, senza alcun danno alle traverse né alla massicciata, che in corrispondenza del tratto di rotaia mancante, presentava soltanto un lieve avvallamento. Il pezzo di rotaia di ml. 0,54 asportato dall’esplosione risultava ridotto in numerosi frammenti di piccola pezzatura.
Nel tratto in cui è avvenuto l’inconveniente alla sede ferroviaria si trova pressoché alla stessa quota delle circostanti campagne.
Poiché il personale di macchina del treno 735 (precedente al treno 59411) non ebbe a segnalare alcuna anormalità fra le stazioni di Carini e Cinisi si deve fondatamente ritenere che lo scoppio della carica esplosiva si sia verificato nell’arco di tempo intercorrente fra le ore 0,11 (ora di transito del treno 735 in corrispondenza del Km. 30 + 180).
Non vi è dubbio, infatti, che se il danneggiamento della rotaia si fosse verificato prima del transito del treno 735 il macchinista di detto treno avrebbe sicuramente rilevato l’anormalità, in quanto la mancanza di mezzo metro di rotaia determina un notevole sbandamento di un veicolo (poteva addirittura provocare un furviamento) …”.
Ebbene, la scelta di quel giorno, di quel luogo, così come di quell’orario, per compiere “scientemente un attentato terroristico”, non può che ritenersi del tutto illogica e dunque per nulla verosimile.
Ed infatti, un simile atto alla vigilia delle elezioni sarebbe stato subito ricollegato ai movimenti eversivi di estrema sinistra, sicché avrebbe avuto l’effetto di danneggiare il partito politico e la stessa candidatura dell’Impastato, vanificando tutto l’impegno da lui profuso, con ben altri metodi, per divulgare idee che, specialmente se rapportate alla realtà locale, nulla avevano a che fare con la lotta armata.
Mentre l’obiettivo da colpire, seguendo il modo di ragionare di chi si determina a progettare un gesto eversivo procurandosi all’uopo un ragguardevole quantitativo di esplosivo, sarebbe stato poco significativo, trattandosi di un’esplosione in un luogo isolato che avrebbe potuto al più provocare il mero deragliamento di un treno che era privo di passeggeri e che procedeva in quel tratto a velocità moderata.
Quanto al rinvenimento dello scritto vergato dall’Impastato in cui si accennava a possibili propositi suicidi, va rilevato che il suo effetto di depistare le indagini è stato sostanzialmente riconosciuto nel corso della prima istruzione e ribadito in occasione del dibattimento di questo giudizio dal Generale (allora Maggiore) Subranni, il quale fra l’altro non ha mancato di sottolineare che, dalle notizie via via acquisite dall’Autorità Giudiziaria, aveva poi appurato che il contenuto dello scritto consentiva di datarlo in un periodo precedente di diversi mesi.
Tale periodo, come riferito da parenti e amici, era coinciso con quello in cui Giuseppe Impastato aveva evidenziato uno stato d’animo profondamente critico e di momentaneo scoramento, che lo aveva portato a dissentire ed estraniarsi da comportamenti e prese di posizione dei compagni, tanto da dimettersi dalla carica di direttore di Radio Aut.
In merito risultano particolarmente illuminanti le delucidazioni offerte da Di Maggio Faro già all’indomani dei fatti (e poi ribadite), anche con riguardo all’indicazione della data “13 febbraio”, riferibile, in effetti, all’anno 1977 e da cui, stando al tenore delle altre frasi riportate nel manoscritto, avrebbero dovuto farsi decorrere pressappoco nove mesi al fine di determinare l’epoca esatta di redazione del documento.
Del resto, va sottolineato che la stessa zia, Bartolotta Fara, in occasione di una seconda audizione in data 17.5.78 davanti al Procuratore della Repubblica (il verbale è stato acquisito al fascicolo del dibattimento), riferì: “… sono a conoscenza di una lettera da lui (cioè da Giuseppe Impastato, ndr.) scritta parecchio tempo prima, in un momento in cui non era d’accordo con alcuni del suo partito. So che in detta lettera, che io conoscevo, egli manifesta molta sfiducia ed il proposito di suicidarsi. Escludo nel modo più assoluto che mio nipote avesse avuto seri propositi suicidi … Non so precisare quando io vidi la lettera scritta da mio nipote. Comunque circa otto o dieci mesi prima della morte …”.
E deve chiarirsi che tali nuove dichiarazioni della Bartolotta, così come quelle nello stesso senso rese al G.I. il 7.12.78, appaiono più affidabili delle laconiche asserzioni sulla persona del nipote che sono riportate nei verbali redatti dai Carabinieri il 9.5.78 e risultano citate nella sentenza del Giudice Istruttore, essendosi nell’immediatezza rappresentata un’immagine dell’Impastato, quale individuo dal “carattere chiuso” e “negli ultimi tempi … deluso”, che invero non ha nulla a che vedere con quella – di persona invece estroversa, piena di vita e di iniziative e ancora entusiasta e convinta dell’azione politica e di denunzia proseguita fino all’ultimo giorno – che emerge anche da risultanze diverse dalle testimonianze degli altri parenti e amici (si consideri come Impastato conduceva la sua campagna elettorale e le trasmissioni di “Onda Pazza” di cui meglio si dirà in seguito).
Ma, la fallacia della tesi originariamente sostenuta dai Carabinieri emerge in modo ancor più macroscopico da diversi dati obiettivi evidenziati dall’esito delle indagini svolte nell’immediatezza dei fatti.
In proposito, va premesso che gli inquirenti, recatisi a suo tempo sui luoghi, non poterono che prendere atto che la deflagrazione della carica aveva avuto effetti devastanti sul corpo di Giuseppe Impastato.
Si legge nel verbale di sopralluogo del Pretore di quella mattina:
“… il cadavere è dilaniato e si possono descrivere i frammenti sparsi nel raggio di circa 300 mt. che vengono così descritti: un pezzo costituito da lobi celebrali con ossa della volta cranica ed un tratto di cuoio capelluto, un pezzettino d’osso della volta cranica che si rinviene a poca distanza. Un pezzo di pelle lacera commista a frammenti di tessuti molli probabilmente del collo. Un pezzo d’osso che si identifica con un tratto della colonna vertebrale del lato cervicale, pezzi sparsi ovunque di tessuti molli di cui non si riesce neanche a stabilire la parte del corpo a cui appartengono. Un pezzo di pelle con tessuti molli. Esiste un pezzo d’arto presumibilmente di femore destro stroncato con visione delle parti muscolari, probabilmente destro. L’arto è coperto in parte dal resto di un calzone di colore blu e al piede … una calza dello stesso colore. Levata la calza si accerta che trattasi dell’arto inferiore destro. L’arto è integro dal terzo superiore in giù … Alla distanza di quasi 100 metri dal primo arto si rinviene ulteriormente il resto dell’arto di sinistra, pure integro dal terzo superiore della coscia fino al piede e alla radice dilaniato con visioni di parti molli e della testa del femore scoperchiata. Al piede la calzetta blu… Si dà atto che sparsi tutto intorno alla zona in questione e particolarmente nel tratto vicino alla linea ferrata si trovano frammenti di stoffa che di seguito si descrivono. Si rinvengono due tipi di stoffa: frammenti di stoffa a piccoli quadrettini di color verde, caffè e grigio; stoffa di colore blu apparentemente appartenente al pantalone; stoffa di lana di colore blu apparentemente facente parte di un maglione … Si rinvengono altresì sulla massicciata adiacente alla strada ferrata due zoccoli di tipo scholls in legno con cinghie in cuoio di color bianco marca Dr. Scholl’s …
Quello stesso giorno il perito medico legale dottor A. Caruso, alla presenza del Pretore, descrisse in tal modo detti “pezzi anatomici”:
“I due arti inferiori ricoperti di abbondante peluria di un soggetto di sesso maschile, con unghia che oltrepassano le estremità delle dita. Tali arti risultano irregolarmente disarticolati in corrispondenza delle anche. Il rivestimento cutaneo manca al terzo superiore delle cosce; il limite superiore del rivestimento cutaneo è irregolarmente frastagliato ed affumicato sulla faccia anteromediale delle cosce stesse. L’affumicatura si estende alla cute integra per una decina di centimetri ed ai muscoli della radice della coscia per una estensione pressoché analoga. Sulla faccia … della coscia sinistra la pelle presenta delle lacerazioni a forma di … con apice in basso. In corrispondenza della lacerazione più interna (delle due anzidette) si rinviene una parte dello scroto, un testicolo ed il pene ampiamente lacerati ed affumicati. Integre le parti restanti delle cosce, delle gambe e dei piedi. Sulla faccia destra dei piedi … delle dita rispettive, piccole ferite lacero contuse a lembo, il cui bordo … è rivolto verso l’alto (verso la tibiotarsica). Integre le ossa delle cosce, delle gambe e dei piedi. Frammenti della mano destra costituiti dagli ultimi tre metacarpi e dalle ultime tre dita, a confine assai irregolare, la superficie palmare è interamente affumicata e decisamente nerastra sui polpastrelli.. Si notano altresì frammenti di cuoio capelluto, di ossa craniche (ogni frammento, di forma triangolare, o pentagonale, ha il diametro massimo di 6,8 centimetri), di muscoli, di rachide cervicale, di ossa tra cui è riconoscibile solo un lungo frammento dell’osso iliaco destro, di cute, di encefalo e di intestino …”.
Come si è visto, altri resti nello stesso stato furono, poi, ritrovati dagli amici dell’Impastato anche ad una certa distanza dai binari.
Ciò posto, è chiaro che l’esame di quanto rimasto del corpo neppure all’esito delle indagini medico-legali poté consentire di rassegnare sicure conclusioni sulle cause della morte, avuto riguardo in particolare alla possibilità di affermare o di escludere con certezza che l’Impastato fosse vivo all’atto della forte deflagrazione che ne dilaniò il corpo (come si vedrà, furono solo sviluppate alcune considerazioni in merito alla posizione del corpo del giovane in quel preciso momento).
Come riferito dal dott. Procaccianti, emerse però, tramite l’esame delle polveri rinvenute sugli indumenti e sui reperti anatomici dell’Impastato, che la carica esplosa era costituita da un composto di nitroluene, un derivato del tritolo comunemente adoperato nelle cave.
Gli artificieri Longhitano e Sardo, intervenuti quello stesso giorno, rilevarono, basandosi sul dato empirico degli effetti della deflagrazione, che la quantità di esplosivo “poteva essere di Kg. 4-6 circa”.
Tutti coloro che si recarono sui luoghi, nell’immediatezza o successivamente, hanno sempre riferito di non aver trovato tracce di miccia, di fili o di congegni elettrici, nei pressi del punto dell’esplosione.
Come si è visto, secondo i Carabinieri, il rinvenimento del cavo telefonico collegato alla batteria dell’auto poteva far ritenere l’iniziale intento della sua utilizzazione per fare esplodere a distanza la carica.
Tuttavia, è evidente che tale lettura è inconciliabile con l’ipotesi di un progetto suicida preordinato dall’Impastato, stante che costui, portando con sé sui binari la carica che lo avrebbe fatto saltare in aria, non avrebbe avuto bisogno di congegni a distanza per raggiungere il suo scopo e anzi sarebbe dovuto rimanere nel luogo dello scoppio.
Per altro verso, è lecito ritenere che, nel caso della pianificazione di un semplice attentato dinamitardo, l’Impastato non si sarebbe limitato a procurarsi il quantitativo di esplosivo da cava, ma, tramite gli stessi canali, si sarebbe parimenti dotato di una miccia a lenta combustione e comunque di un appropriato detonatore, onde fare esplodere agevolmente la carica, senza correre il rischio di stazionare con la sua autovettura a così breve distanza dal luogo della deflagrazione.
Quello che la difesa ha definito “un incidente sul lavoro”, appare peraltro di per sé assai improbabile anche alla luce di quanto riferito nel corso del dibattimento dal perito balistico dr. Pietro Pellegrino:
Avv. Gullo: … questo esplosivo a seguito di un urto, di un contatto creato sullo stesso posto dove si trova, può deflagrare?
Pellegrino Pietro: L’esplosivo per deflagrare deve subire un insulto o termico o meccanico, spontaneamente no.
Avv. Gullo: … Parliamo dell’insulto meccanico.
Pellegrino Pietro: Si.
Pubblico Ministero: In che cosa può consistere questo insulto meccanico?
Pellegrino Pietro:Un colpo.
Avv. Gullo: Cioè per esempio …
Pellegrino Pietro: – voci fuori microfono –
Avv. Gullo: Una caduta per terra, un … non so, un colpo di gomito …
Pellegrino Pietro: No, no, questo no, un colpo diciamo di una certa energia.
Avv. Gullo: Quindi se cade per terra per esempio, questo significa che è un colpo di una certa energia.
Pellegrino Pietro: No.
Avv. Gullo: E allora mi dica quali possono essere questi impulsi meccanici.
Pellegrino Pietro: Che so una martellata.
Avv. Gullo: Mi scusi, cadendo per terra un colpo … un corpo, un corpo solido o sbattendo su un corpo solido quale una pietra, un legno del … del pietrisco, non può esplodere, non equivale a una martellata?
Pellegrino Pietro: E’ molto difficile, questo tipo di esplosivi no, molto difficile.
Avv. Gullo: E quale tipo di esplosivo?
Pellegrino Pietro: Dico questi qui sono esplosivi da mina …
Avv. Gullo: Benissimo.
Pellegrino Pietro: Non sono degli inneschi, gli inneschi sono quelli usati nelle capsule delle cartucce che sono estremamente sensibili agli urti ma questo … questo tipo di esplosivi non …
Dunque, non è plausibile che ci si fosse determinati ad usare i cavi telefonici trovati nell’auto ed il loro collegamento con la batteria.
Epperò, se da un lato è rimasto accertato dalle deposizioni testimoniali che quel cavo era stato in precedenza collegato alla batteria della Fiat 850 per alimentare il megafono adoperato nella campagna elettorale, dall’altro appare strano che l’Impastato circolasse con un parte del filo penzolante fuori dal cofano, sì da non consentirne neppure la chiusura (si legge nel verbale di sopralluogo del Maresciallo Travali: “L’autovettura non chiusa a chiave, presentava il cofano socchiuso … da cui fuoriusciva un filo della lunghezza di circa un metro”).
Il che sembrerebbe suggerire l’idea che altri quella notte abbiano avuto tra le mani il cavo telefonico e lo abbiano fatto ritrovare in quello stato che condusse i Carabinieri a rappresentare il suo preordinato utilizzo, da parte dell’Impastato, per far esplodere a distanza la carica.
Ma, che lo stato dei luoghi sia stato modificato subito dopo lo scoppio emerge da ulteriori elementi aventi autonoma efficacia probatoria.
Ci si riferisce in particolare alle risultanze relative al ritrovamento delle calzature dell’Impastato, nonché dei suoi occhiali, ai quali si fa cenno nel solo verbale di sopralluogo separatamente redatto dal Maresciallo Travali, dandosi ad un certo punto laconicamente atto: “è stata rinvenuta … nella zona la montatura degli occhiali di colore nero”.
Nel medesimo verbale a proposito del rinvenimento degli arti inferiori, in aderenza a quanto risulta dal verbale redatto dal Pretore, si evidenzia: “Nel raggio di circa 300 metri dal punto in cui è avvenuto lo scoppio si rinvengono pezzi sparsi ovunque di tessuti molli di cui non si riesce neanche a stabilire la parte del corpo a cui appartengono. Esiste un pezzo d’arto presumibilmente inferiore destro stroncato con visone delle parti muscolari probabilmente destro. L’arto è coperto da parte di un calzino di colore blu e al piede vi è una calza dello stesso colore. Levata la calza si accerta che trattasi dell’arto inferiore destro. L’arto è integro dal terzo inferiore in giù. Alla distanza di quasi cento metri dal primo arto si rinviene ulteriormente il resto dell’arto di sinistra pure integro dal terzo superiore della coscia. Pure dilaniato con visione di parti molli e della testa del femore scoperchiata. Al piede vi è un calzino blu”.
Al riguardo, è stato interpellato anche l’Appuntato Pichilli (uno dei CC. che accompagnò il M.llo Travali in occasione del primo sopralluogo), il quale ha confermato davanti alla Corte quanto riferito al G.I. nel corso di un’audizione in data 28.12.78, il cui verbale, sull’accordo delle parti, è stato integralmente acquisito agli atti del dibattimento.
Ivi si legge: “Per terra, quasi nel tratto in cui mancava il binario, notai un sandalo di “tipo farmacia” di colore bianco, un altro era nel lato opposto, e quasi a contatto con il binario. A tre metri di distanza circa del sandalo che si trovava nel punto in cui mancava il binario, c’erano gli occhiali, intatti, o – non ricordo – se mancava il vetro … Una delle due gambe fu da me rinvenuta a circa 150 mt. di distanza dalla linea ferrata, lato destro direzione Trapani; l’altra invece fu rinvenuta da altri militari sempre dallo stesso lato ma ad una distanza inferiore …”.
Anche Briguglio Giuseppe, il necroforo che prese parte alle operazioni di ricerca dei resti del corpo, ha ricordato davanti alla Corte di avere visto gli occhiali a tre metri circa dal punto dello scoppio.
E le dichiarazioni rese da Nigrelli Antonino ed Evola Antonino, entrambi dipendenti delle Ferrovie dello Stato che accompagnarono i militari in occasione di detto sopralluogo, confermano che furono rinvenuti due “zoccoli”, uno “quasi sul punto in cui mancava il binario” (cfr. deposizione Nigrilli davanti al G.I., in data 28.12.78), l’altro nel lato opposto, a 60-70 centimetri dal binario di destra rispetto alla direzione per Trapani (cfr. deposizione Evola, all’udienza del 16.1.2001).
Sia alle calzature che agli occhiali fa riferimento il verbale di “ricognizione di cose operata da Bartolotta Fara” quella mattina, essendosi dato preliminarmente atto che si procedeva a mostrare alla predetta anche “..un paio di sandali di legno con striscia di pelle di colore bianco chiuse con gancio; una montatura di occhiali verosimilmente di plastica di colore nero con una stanghetta staccata e la montatura avvolta nella parte terminale con nastro isolante di colore nero …”.
E come emerge dal medesimo verbale di ricognizione, Bartolotta Fara successivamente affermava: “Riconosco perfettamente gli oggetti che mi mostrate appartenenti a mio nipote … In particolare … i sandali di legno sono anche quelli che calzava ieri e per finire gli occhiali o meglio la montatura sono proprio gli occhiali che usava mio nipote Giuseppe. Per altro gli occhiali li riconosco anche perché una stanghetta è legata al resto della montatura con un nastro adesivo di colore nero”.
Orbene, riflettendo su tutte queste risultanze, non può che formularsi la conclusione che gli occhiali ed i sandali di cui sopra, pur appartenendo all’Impastato e pur essendo stati rinvenuti nelle immediate vicinanze del luogo in cui saltò in aria il corpo del giovane, non avrebbero potuto essere da lui portati indosso all’atto dell’esplosione.
Ed infatti, se la montatura degli occhiali fosse stata posta sul viso dell’Impastato, certamente non sarebbe stata rinvenuta praticamente integra (con le stanghette al loro posto, nonostante la precaria riparazione di una di esse) a soli pochi metri dalla violenta esplosione che quasi disintegrò il capo del giovane, tanto è vero che quei pochi frammenti di ossa craniche riconoscibili e sparsi nel raggio di circa trecento metri non superavano la lunghezza di circa otto centimetri.
Analogamente, va rilevato che gli arti inferiori ancora uniti ai piedi che in quel momento avrebbero dovuto calzare gli “zoccoli”, furono proiettati dall’onda d’urto (con i relativi indumenti di cui furono trovati solo dei brandelli), uno a circa centocinquanta metri di distanza e l’altro pure a notevole distanza ed a circa cento metri dal primo.
Detti arti furono entrambi trovati nel medesimo lato della ferrovia, diversamente dagli “zoccoli” che giacevano vicino al punto della esplosione, uno sul lato destro e l’altro su quello sinistro dei binari.
Mentre, se davvero l’Impastato avesse calzato in quel momento gli “zoccoli”, essi avrebbero dovuto essere sbalzati via pressappoco alla stessa distanza delle gambe e, comunque, nella medesima direzione.
E va ancora evidenziato che tutti coloro che hanno riferito in ordine al rinvenimento degli “zoccoli”, così come degli occhiali, procedendo a descriverne lo stato, non hanno mai parlato di quelle evidenti tracce di bruciatura, di affumicatura e di polvere nera che la vicinanza allo scoppio avrebbe dovuto necessariamente determinare.
Ed allora, essendo certo che l’Impastato all’atto dell’esplosione non portava né i suoi “zoccoli” né i suoi occhiali, come invece avrebbe dovuto fare nel caso in cui si fosse recato volontariamente sui binari per trasportarvi il carico di esplosivo, è lecito argomentare che il corpo del giovane privo di sensi od ormai privo di vita fu trascinato da qualcuno in quel posto e che, durante tali operazioni (ad esempio, al momento della discesa dalla macchina), sia gli “zoccoli” che gli occhiali dovettero sfilarsi e rimanere temporaneamente ad una certa distanza dal luogo dell’esplosione, per essere in seguito trasportati dagli attentatori nel posto in cui furono rinvenuti nel corso del sopralluogo.
Una simile ricostruzione dell’azione degli assassini, del resto, risulta già ipotizzata nella citata sentenza del 19.4.1984, valorizzandosi anche la circostanza – che era stata tuttavia riferita dal solo Briguglio nella deposizione in data 20.12.78 ed è stata dallo stesso solo in parte confermata nel corso del presente giudizio a seguito di contestazione – “relativa al rinvenimento di “tre chiavi vicino alla macchina di Impastato e precisamente accanto alla portiera destra, cioè accanto al posto di guida di chi si trova vicino al guidatore … l’una vicina all’altra”.
Ed invero, è chiara l’allusione al fatto che tale ulteriore rinvenimento avrebbe potuto rafforzare l’ipotesi della perdita degli oggetti appartenenti all’Impastato in occasione del trasporto sui luoghi del suo corpo a bordo della Fiat 850, da cui il corpo stesso del giovane (già morto o privo di sensi e comunque con la forza) avrebbe potuto essere portato fuori, utilizzando – come è logico ritenere – la portiera del lato destro.
Così come il Giudice Istruttore agli stessi fini osservava:
“l’esito degli esami di laboratorio eseguiti sulla grossa pietra asportata, durante l’ispezione giudiziaria dei luoghi … dalla pavimentazione di un vano – con ingresso dal lato sud – facente parte di un caseggiato rurale abbandonato sito in prossimità del luogo ove era stata rinvenuta la “Fiat 850″ in uso all’Impastato Giuseppe”.
Detta pietra, saldamente infissa nel terreno, era stata prelevata in quanto i periti presenti al sopralluogo avevano notato su di essa “una traccia rossastra” riconducibile a loro giudizio, a “materia organica”.
I successivi accertamenti ematologici hanno consentito di stabilire che la predetta traccia era di sangue umano .. – e più precisamente – di sangue riconducibile al gruppo “O-CD”, ossia allo stesso gruppo specifico cui sono risultate appartenere le macchie di sangue presenti sul frammento di camicia indossato dal giovane al momento dell’esplosione (e riconosciuti dai suoi familiari…) e prelevato al termine dell’autopsia…
Pur se non si tratta di un elemento di (ndr.) assoluto valore probatorio dal momento che – come hanno tenuto a precisare i periti – le proprietà del gruppo sanguigno O-CD “sono riconoscibili all’incirca nel 30% della nostra popolazione”, non può tuttavia seriamente contestarsi che, se inserite in una globale e meditata valutazione di tutte le risultanze istruttorie, le conclusioni degli accertamenti ematologici conferiscono ulteriore credibilità all’ipotesi che Impastato Giuseppe sia stato prelevato assieme alla sua autovettura, la sera dell’8 maggio, condotto nel caseggiato più sopra menzionato (e nei cui pressi l’autovettura venne rinvenuta) e di qui, dopo essere stato ridotto colla violenza (come fanno ritenere le tracce di sangue rinvenute sul pavimento) in stato di incoscienza, sia stato trasportato sulla vicina linea ferroviaria ed ivi adagiata a diretto contatto con una carica di esplosivo, fatta deflagare poi a distanza od a tempo.
Va precisato – peraltro – che l’ipotesi dell’omicidio … non deve ritenersi necessariamente collegata coll’attribuzione all’Impastato Giuseppe delle macchie di sangue riscontrate sulla pietra di cui si è detto. Nulla esclude – infatti – di ritenere che il corpo della vittima sia stato trasportato già inanimato, a bordo dell’autovettura da lui usata, sul luogo ove il veicolo venne lasciato e di qui sia stato trasportato sulla rotaia, ed ivi adagiato proprio sull’ordigno esplosivo (come confermano le perizie in atti)”.
Ad ogni modo, già quanto rilevato sulle circostanze del rinvenimento degli “zoccoli” e degli occhiali comprova la tesi dell’omicidio.
Si è obiettato, però, che tale tesi sarebbe stata smentita dai periti a suo tempo nominati, Procaccianti e Caruso, nelle loro relazioni in data 28.10.78, tenuto conto in particolare delle seguenti osservazioni:
“Il tipo di lesioni osservate sui pezzi anatomici esaminati, l’affumicamento di parte di essi e la presenza di tracce di esplosivo sul frammento della mano dx e sulla camicia di lana indossata al momento del fatto, inducono a ritenere fondatamente che Impastato Giuseppe sia morte per effetto della deflagrazione di un potente ordigno esplosivo.
Stando alla frantumazione dell’estremità cefalica, degli arti superiori e del tronco, contrapposta alla buona conservazione degli arti inferiori, e consideri gli effetti lasciati dall’esplosivo sulla linea ferrata, è ammissibile che al momento dell’esplosione gli arti inferiori si trovassero su un piano più basso rispetto al resto del corpo. In altri termini, l’onda d’urto prodotta dall’esplosione avrebbe investito in pieno la strada ferrata e la parte superiore e media del corpo dell’Impastato, mentre gli arti inferiori – interessati dalla parte marginale dell’onda – sarebbero rimasti pressoché integri.
Inoltre, dato che l’affumicamento è stato riscontrato sul frammento della mano dx e sulle estremità superiori delle cosce e tenuto conto delle due lacerazioni (ad apice in basso) sulla faccia interna della coscia sx (nella lacerazione mediale erano incuneati i genitali lacerati ed affumicati), sembra verosimile che al momento dell’esplosione l’ordigno si trovasse all’altezza del bacino, probabilmente tra le mani della vittima. Questi dati, però, permettono di stabilire soltanto la posizione dell’ordigno rispetto alle parti anatomiche del soggetto, ma non permettono di far luce su quale fosse in quel momento l’esatta posizione del corpo dell’Impastato rispetto al suolo (o alla strada ferrata), né – in vero – disponiamo di altri dati idonei a risolvere tale quesito”.
Sennonché, già quest’ultima precisazione priva di ogni certezza le precedenti affermazioni che parrebbero sostenere che l’Impastato fosse stato ucciso dall’esplosione mentre maneggiava l’esplosivo.
Ed infatti, rimane altrettanto plausibile che il corpo, inerte, fosse stato adagiato al suolo o meglio sul binario che fu divelto dall’esplosione, con la carica posizionata all’altezza del bacino ed i soli arti inferiori su un piano più basso a seguire il dislivello della massicciata e, comunque, relativamente protetti dal medesimo binario.
Senza che, peraltro, tale ricostruzione possa ritenersi smentita dal rinvenimento sui frammenti della mano destra di residui di esplosivo, posto che la particolare vicinanza alla carica di tale arto non può significare che fosse animato e tenuto conto, per altro verso, che il notevole quantitativo di residui di esplosivo sprigionato tutto intorno dalla violenta esplosione giustifica di per sé il suddetto rinvenimento.
Né, d’altronde, lo stato in cui furono ridotte le rimanenti parti del corpo permise di operare una completa ed utile analisi comparativa.
Anzi, potrebbe affermarsi che la mano non rimase disintegrata sì che fu possibile il rilevamento delle polveri, proprio perché, contrariamente alle altre parti del corpo (diverse dagli arti inferiori), si venne a trovare su un piano più basso, in posizione riparata e non a diretto contatto con l’esplosivo e comunque non nelle immediate vicinanze.
Ma, l’equivocità delle conclusioni di cui alla menzionata relazione di perizia può agevolmente desumersi anche da talune affermazioni dello stesso dott. Procaccianti nel corso dell’esame dibattimentale (non è stato invece escusso il dott. Caruso, essendo costui deceduto):
Pubblico Ministero: Analizzando questi resti del cadavere dell’Impastato lei ha potuto chiarire al Giudice Istruttore titolare dell’indagine quale fosse la posizione dell’Impastato al momento dell’esplosione, in termini naturalmente di probabilità?
Procaccianti: Ecco, l’unica cosa che non possiamo dire la presenza di questo … tracce di nerofumo sulle … sugli arti superiori e infatti cioè su … sulla … sulla … sulla resa … sulla parte restante dei metacarpi e delle ultime tre dita della mano destra, che era appunto interamente affumicata, in più la presenza di questo nerofumo sui … sul terzo superiore, questo diciamo consentì di potere dire che probabilmente … ecco poi sulla faccia interna delle cosce vi era ancora … Mi scusi Presidente se mi riporto alla relazione anche per avere … così per essere più chiaro. Ecco, dalla presenza di questo affumicamento sembra probabile che l’ordigno si trovasse all’altezza diciamo … personalmente io ritengo a livello della parte superiore del torace o quanto meno qui all’altezza del … se vogliamo tra il … dello stomaco ecco, Questo però, ecco, consente di stabilire giustamente la posizione dell’ordigno rispetto alle parti anatomiche, non … non permettono invece di fare luce su quello che poteva essere l’esatta posizione del corpo dell’Impastato rispetto al suolo.
Omissis
Pubblico Ministero: Con riferimento a queste … a questi dati possiamo affermare che il corpo dell’Impastato era adagiato, poggiato sui binari della ferrovia, le gambe all’indietro? Voi parlate di …
Procaccianti: Si.
Pubblico Ministero: Gambe …
Procaccianti: Si.
Pubblico Ministero: Arti inferiori …
Procaccianti: Si una cosa che certamente … questo è una cosa importante che diciamo è che … questo
omissis
Lo vorrei proprio dire con le stesse parole che abbiamo utilizzato. Cioè l’ordigno diciamo esattamente si trovasse a una distanza diversa rispetto … cioè per lo meno gli arti inferiori rispetto all’ordigno non erano … erano diciamo su un piano diverso se vogliamo. Perché l’onda d’urto se … io faccio un’ipotesi, se l’individuo fosse stato in piedi l’onda d’urto e l’ordigno diciamo ad altezza del bacino o di stomaco, di addome quanto meno avrebbe avuto la stessa possibilità di deflagare e quindi di distruggere sia gli arti superiori come gli arti inferiori. Ripeto sono delle ipotesi …
Omissis
Avv. Gullo: … Lei nella perizia dice espressamente: “l’ordigno si trovasse all’altezza del bacino dell’Impastato probabilmente tra le mani dello stesso”. Cosa significa tra le mani, che lo teneva … se vuole chiarire alla Corte questa espressione?
Procaccianti: Ma … cioè il fatto che la mano fosse affumicata, chiaramente significa che era in vicinanza a questo ordigno. Che lo tenesse o non lo tenesse questo non è che lo posso dire, nel senso che lo teneva … cioè posso dire che c’era questo ordigno che era in prossimità delle … delle cosce, dove c’era questa zona affumicata, della mano … dell’altra mano, la sinistra era completamente … non c’era più, della mano destra c’erano solamente questi frammenti e in questi frammenti di mano vi era … c’era questo affumicamento.
Avv. Gullo: Quindi come lei dice e sta confermando probabilmente quindi poteva essere e non poteva essere che si trovasse nelle mani dell’Impastato. Fogli 21 e 25.
Procaccianti: Si lo so. Non è che dico che lo teneva … cioè teneva questo esplosivo con le mani … Cioè c’era questa mano che in vicinanza di questo esplosivo.
Nel senso che la parte superiore del corpo poggiava sull’esplosivo collocato nel ciottolato tra le due traverse dei binari si è, poi, espresso l’esperto balistico dott. Pietro Pellegrino (anch’egli a suo tempo nominato perito per ricostruire, in base agli atti acquisiti, la dinamica dei fatti), senza attribuire alcun significato particolare allo stato dei frammenti della mano destra (v. deposizione all’udienza del 20.2.01).
Rimane, pertanto, confermato da tutte le risultanze di cui sopra che l’Impastato fu ucciso e che il suo corpo fu fatto saltare in aria dagli assassini, i quali poi si adoperarono per eliminare le tracce del trasporto del giovane fino al luogo dell’esplosione e per creare la messa in scena dell’attentato dinamitardo premeditato dalla stessa vittima.
Tali particolarità della condotta degli assassini – da ritenersi inequivocabilmente accertate – vedremo che assumono non trascurabile peso probatorio ai fini del presente giudizio, se posti in relazione – come è corretto fare – con gli altri elementi evidenziati dall’accusa.
Occorre a questo punto occuparsi del movente dell’omicidio, osservando che esso, come già rilevato dal G.I., va senza ombra di dubbio ricollegato all’incessante denunzia degli “affari” mafiosi da tempo portata avanti dall’Impastato, con iniziative come quelle che da ultimo caratterizzarono la sua campagna elettorale, nonché attraverso le trasmissioni satiriche di “Onda Pazza” messe in onda da Radio Aut.
Si è già evidenziato che il modo di fare politica e di opporsi alla straripante situazione di illegalità, in un territorio infestato da interessi mafiosi e da collusioni con tali interessi, emerge non solo dalle dichiarazioni di parenti ed amici, ma anche dalle prove documentali.
Per rendersi conto di ciò, basta esaminare le numerose fotografie acquisite all’udienza del 16.1.2001, che ritraggono i cartelloni allestiti dall’Impastato e dai compagni di partito che lo collaboravano, in occasione di una mostra tenuta a Cinisi il 7.5.78 nella pubblica via.
Ivi si denunziano attraverso l’esibizione di materiale fotografico:
– lo sfruttamento indiscriminato delle “cave della mafia”, responsabile di avere “irrimediabilmente divorato e devastato le … montagne”, cave attivate “in concomitanza con l’inizio dei lavori dell’autostrada …” Palermo Mazara del Vallo (“La Mafia non sbaglia i suoi conti”), con “curve incredibili per non marcare di rispetto agli amici” (osservandosi “Magistratura, Polizia, Forze Politiche Istituzionali hanno sempre fatto finta di niente nonostante le denunce politiche della sinistra rivoluzionaria mai un’inchiesta è stata aperta!”);
“gli interessi della mafia legati alle cave di Percialino”, ossia di Finazzo Giuseppe (aggiungendosi “le maggioranze comunali di questi ultimi sei anni – D.C., P.C.I., P.S.I. -non se ne sono mai accorte!”);
il “saccheggio del territorio” e in particolare lo scempio del litorale, come la “spiaggia di Magaggiare”, dovuto alle “costruzioni incontrollate”, alle “selvagge lottizzazioni” ed al rilascio di “licenze edilizie a Cinisi”, anche per “villini addossati ad antichissime costruzioni tardo romane” (“la sovrintendenza ai monumenti non ha mai sovrinteso!”);
il “progetto Z10 (ex PA 2), una miserabile speculazione di alcuni miliardi”, per la quale “uomini legati alla mafia e alla D.C. non hanno esitato a ricorrere al ricatto e alle minacce” (“totale è stata la disponibilità delle forze politiche di maggioranza; completamente assente l’opposizione in consiglio comunale. Solo le denunce della sinistra rivoluzionaria hanno ritardato l’approvazione del progetto”);
– i costi spropositati e la poca rispondenza agli interessi della collettività di tante altri opere pubbliche, come “gli ultimi 100 metri della famigerata Siino-Orsa, che sono costati 11 milioni” (mentre tutta l’opera era “costata complessivamente 40 milioni”), “la strada delle Purcaria” (“20 milioni per un pugno di amici”), la Piano Margi Montelepre (“150 milioni di finanziamento più 50 milioni di rifinanziamento dopo la recente frana! 200 milioni in tutto!!”), il restauro della facciata del palazzo comunale che “sta costando all’ultima giunta D.C. P.C.I. P.S.I. quasi 60 milioni, incredibile, di sola base d’asta!”; il “molo di levante del Porto di Terrasini una spesa enorme, che oltre a non risolvere il problema dell’insabbiamento, ha cancellato la spiaggia preesistente e una zona archeologica di sicuro interesse ..” (“Intanto, più della metà dei pescatori locali vive e lavora a Viareggio.”);
una gestione dello smaltimento dei rifiuti poco sensibile ai problemi ambientali (“l’immondezzaio deturpa ed inquina uno degli angoli più beli della nostra montagna … il preannunciato inceneritore aggraverà ancora il problema dello inquinamento … se sarà costruito, come si ha ragione di temere, nel nostro territorio”).
Pertanto, le concordi testimonianze di amici, parenti e compagni di partito non hanno fatto altro che specificare taluni dei contenuti di detta azione di denunzia e chiarire in particolar modo che, fra gli esponenti mafiosi additati dall’Impastato, vi era anzitutto Badalamenti Gaetano, da lui evocato anche negli ultimi comizi ed indicato pubblicamente senza mezzi termini come un boss e trafficante di droga, localmente legato da solidi rapporti ad imprenditori, parimenti inseriti in ambiente mafioso (come il Finazzo), nonché a molti uomini politici.
E che questo fosse l’obiettivo preso di mira dall’Impastato anche mediante lo strumento della satira, nel corso delle trasmissioni del programma di Radio Aut denominato Onda Pazza, è autonomamente provato dalle trascrizioni in atti di alcune delle suddette trasmissioni.
Ed invero, le stesse non si riducevano ad un mezzo per dare sfogo al turpiloquio ed a colorite espressioni addirittura blasfeme (come invece è stato sostenuto dalla difesa), palesando piuttosto, in numerosi passaggi, il proposito di mettere a nudo, attraverso un irriverente dileggio, la personalità mafiosa, gli interessi e le connivenze amministrative dei boss locali ed anzitutto di Gaetano Badalamenti.
E’ sufficiente evidenziare al riguardo che nelle ultime puntate si alludeva senza mezzi termini ad argomenti come quello della speculazioni edilizia portata avanti dalla criminalità organizzata con la compiacenza dei pubblici amministratori di Cinisi, ribattezzata “mafiopoli” (si parlava, fra l’altro, del Finazzo, soprannominato don Percialino e del Sindaco Gero Di Stefano soprannominato Geronimo Stefanini); ma soprattutto ci si proponeva di ridicolizzare Gaetano Badalamenti (spesso chiamato “Tano seduto”) ed il suo potere e prestigio di boss.
Né si mancava di far riferimento al progetto di costruzione del “palazzo a cinque piani”, ponendosi in evidenza, con i modi propri di una trasmissione satirica, i tanti sospetti sulla trasparenza dell’iter amministrativo e l’interessamento mafioso a tale speculazione edilizia.
E negli stessi termini si trattava l’argomento del “Progetto AZ10”, con chiari riferimenti alla gestione di tutta l’operazione da parte di “Tano seduto”, il “grande capo di Mafiopoli” che aveva imposto “la sua legge” e con avvertimenti che fanno ben capire che ci si riferiva a Badalamenti (“Ma che fa ti lamenti … Bada, bada, bada a come ti lamenti”), seguiti dall’esplosione di spari e da chiare allusioni a quanto fosse appetitoso l’affare per la mafia (“Ci saranno … sei miliardi nelle nostre tasche, sei miliardi concessi dalla Cassa per la Mezzanotte”) e persino al traffico di stupefacenti (“… ci sarà anche un porticciolo bellissimo … già in costruzione … da dove le vostre merci potranno partire indisturbate da dove i nostri commerci si potranno sviluppare … Potremo sistemare le nostre veloci canoe che porteranno al di là del mare la sabbia bianca, le nostre canoe cariche di eroiche eroiche merci … Potremo fumare in pace il calumet con tabacco … bianco come la neve. Veramente lo faremo fumare agli altri il calumet della pace, il tabacco bianco”).
E va detto che l’Impastato, nel portare avanti la sua attenta quanto coraggiosa opera di denunzia, senza curarsi dei diffusi atteggiamenti omertosi destinati talvolta a tracimare nella connivenza vera e propria, si dimostrava quasi sempre bene informato su tanti risvolti delle vicende riguardanti quella realtà che egli chiamava “mafiopoli”.
Ciò emerge a prescindere dalle rivelazioni degli ultimi collaboratori, essendo al riguardo sufficiente richiamare le risultanze evidenziate nel citato rapporto del Colonnello Arena (sul quale lo stesso è stato chiamato a riferire anche nel corso del presente giudizio) e nella sentenza del “maxi uno”, ove non solo ci si occupa di Gaetano Badalamenti, della sua storica presenza di boss mafioso nel territorio di Cinisi, dei suoi traffici di stupefacenti ed in particolare di quello con gli USA denominato “pizza connection” (per tale traffico l’imputato sarà arrestato in Spagna nell’Aprile ’84, estradato negli USA e ivi condannato alla pena che sta espiando), ma anche si fa riferimento ad altri personaggi, a suo tempo parimenti additati dall’Impastato, come Lipari Giuseppe (ossia uno dei soggetti interessati al “Progetto AZ10”), i D’Anna, i Di Trapani e Badalamenti Antonino (cugino di Gaetano).
Quanto ai rapporti fra Finazzo Giuseppe e Badalamenti Gaetano, avuto riguardo in particolare all’attività imprenditoriale ed alle connesse forniture per la realizzazione di opere pubbliche, è significativo rilevare che, dalle deposizioni del M.re Strada e del C.llo Arena, nonché da quanto si dà atto nei rapporti acquisiti e nelle sentenze rese nell’ambito del “maxi uno” e del “maxi quater”, risulta che la S.I.F.A.C. s.p.a. “Cava Calcarea” con stabilimento in località San Giovanni di Cinisi, di cui erano azionisti i fratelli Finazzo Giuseppe ed Emanuele, prima del 24.11.77 aveva sede sociale a Palermo in via Serradifalco n. 149 presso lo studio del commercialista Giuseppe Mandalari (ritenuto uomo di fiducia dei “corleonesi”) e cioè nello stesso luogo ove aveva fissato la sua sede sociale fin dal momento della costituzione in data 13.5.74, la SOZOI s.p.a. (società agricola zootecnica industriale) di cui erano soci Badalamenti Gaetano e suo fratello Emanuele e, prima del 20.9.78, presidente il suddetto Mandalari.
Ciò nonostante, lo stesso Badalamenti, in sede di dichiarazioni spontanee all’udienza del 27.9.01 ed in precedenza interrogato negli USA dal pubblico ministero, ha tentato di ricondurre unicamente alla di lui sorella Fara i rapporti imprenditoriali con Finazzo Giuseppe, circoscrivendoli ad una “società” che si occupava del calcestruzzo.
Proprio perché le martellanti denunzie dell’Impastato coglievano quasi sempre nel segno e trovavano diffusione anche con modi e mezzi inediti, ma assai efficaci, il pericolo costituito da tanta irriverente ed irritante rottura del muro dell’omertà era vieppiù palpabile, sì da far ritenere che la soluzione del problema fosse necessaria ed anche impellente, stante peraltro che il giovane di lì a poco, secondo attendibili previsioni, sarebbe stato eletto consigliere comunale e dunque avrebbe avuto istituzionalmente diritto ad interloquire e ad attingere notizie sugli “affari” che erano stati toccati dalle sue precedenti denunzie.
Ed era altrettanto evidente che per far tacere un così risoluto e poco malleabile oppositore non sarebbero bastate semplici intimidazioni e che anzi esse, verosimilmente, avrebbero sortito l’effetto opposto, trattandosi di un soggetto che non avrebbe esitato a denunziarle pubblicamente e non avrebbe mancato di richiedere ed ottenere la solidarietà quanto meno dei non pochi compagni di partito ed amici.
Solo l’omicidio avrebbe potuto mettere fine ad una situazione divenuta intollerabile e pertanto meritevole di una pronta soluzione.
Del resto, non è agevole ipotizzare plausibili moventi di diversa natura riferibili ad altri soggetti, da potersi ritenere parimenti in grado di organizzare ed eseguire un delitto del genere, che presupponeva la disponibilità di un commando di uomini adusi alla violenza, un’adeguata conoscenza del territorio, la possibilità di procurarsi un notevole quantitativo di esplosivo e la dimestichezza nel suo utilizzo.
E’ vero, tuttavia, che le circostanze della scomparsa dell’Impastato quella sera fanno fondatamente ritenere che egli, all’uscita dal bar Munacò o forse all’interno dello stesso locale (ma in tal caso dovrebbe presumersi che la Maniaci non abbia mai detto tutta la verità e non certo per paura degli amici dell’Impastato che non avevano l’abitudine né la possibilità di esercitare intimidazioni), fosse entrato in contatto con qualcuno che trovò il modo di convincerlo a cambiare i programmi serali almeno temporaneamente e di condurlo, così, dagli assassini nel luogo più idoneo ad eseguire l’omicidio.
Né pare inverosimile, tenuto conto delle ramificazione dell’organizzazione mafiosa nel territorio ed anche fra i componenti del ceppo familiare degli Impastato, che vi fossero persone, conosciute dalla stessa vittima, in grado di svolgere quel delicato compito, confidando sull’omertà di eventuali spettatori di un normale incontro.
In alternativa potrebbe, in ogni caso, farsi strada la meno probabile ma possibile ipotesi che l’Impastato fosse stato sorpreso dagli assassini all’uscita del bar magari in prossimità della sua auto, caricato a forza sulla stessa e condotto nel luogo dell’omicidio e ucciso o, comunque, ridotto privo di sensi nel tragitto per raggiungere la ferrovia.
Ad ogni modo, in forza di quanto rilevato a proposito delle risultanze delle pur lacunose indagini nell’immediatezza e nei giorni successivi, è certo che gli assassini portarono a compimento il loro progetto, con la complessa messa in scena dell’attentato dinamitardo, non prima delle 0,11 del 9 Maggio (si ricordi quanto rappresentato dalle FF.SS. sull’orario cui far risalire il danneggiamento del binario).
Le considerazioni che precedono vanno, a questo punto, completate e messe correttamente in relazione con il quadro di conoscenze sull’assetto mafioso all’epoca nella zona rappresentato dalle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia anche in questo processo.
Nell’esaminare tali dichiarazioni si terranno presenti le approfondite valutazioni interpretative dell’art. 192 comma III c.p.p. e le considerazioni generali in ordine al profilo delle diverse collaborazioni che risultano rassegnate nelle sentenze irrevocabili in atti e in particolare in quelle emesse nell’ambito del “maxi uno” e del “maxi quater”.
Al riguardo, va premesso che, già all’esito del giudizio di primo grado del “maxi uno”, grazie alle dichiarazioni dei primi collaboratori, confortate da un’enorme mole di riscontri, si poteva accertare che la storia di Cosa Nostra, nella prima metà degli anni ’70, era stata contrassegnata dall’ascesa di alcuni boss come appunto Badalamenti Gaetano, capomafia mafia di Cinisi, ma anche, per un certo periodo (a seguito della ristrutturazione dei mandamenti), “coordinatore” dei lavori della “Commissione” che governava l’intera Provincia di Palermo.
Le aspirazioni egemoniche e le prese di posizione dei “corleonesi”, guidati da Totò Riina e Bernardo Provenzano, avevano dato luogo a quella frattura, prima sotterranea e poi resa palese da iniziative per così dire “ufficiali”, a loro volta causa, nei primi anni ’80, dello scoppio della seconda guerra di mafia e dell’uccisione in breve tempo di boss del calibro di Salvatore Inzerillo e Stefano Bontade e di tanti altri uomini d’onore, ritenuti schierati nella stessa fazione del Badalamenti.
I “corleonesi”, però, non riuscivano a sorprendere e ad eliminare il Baldalmenti, il quale ad un certo punto non si era fatto più vedere nel territorio di Cinisi (il suo peregrinare lo aveva portato dopo il 1982 anche in Brasile, ove aveva avuto modo di incontrare il Buscetta).
Ancor prima dell’apertura delle ostilità, il Riina aveva tuttavia colto l’occasione per sferrare un duro colpo al ruolo ed al prestigio del Badalamenti, consistito nel farne deliberare la formale “espulsione” dal sodalizio e pertanto dalla stessa Commisione (ormai presieduta da Michele Greco), prendendo a pretesto gli eventi che avevano portato all’uccisione in data 30.5.1978 del boss di Riesi Giuseppe Di Cristina.
Tale vicenda già trattata nell’ambito del “maxi uno”, essendo stato ivi contestato anche l’omicidio del Di Cristina, è stata ulteriormente approfondita nel corso di questo giudizio, in particolare grazie alle dichiarazioni rese sulla base di conoscenze dirette da Di Carlo Francesco, all’epoca importante boss di Altofonte ed assai vicino ai Brusca.
Invero, per quel che qui interessa, è rimasto accertato che al Badalamenti si era inteso contestare di avere spalleggiato il Di Cristina e comunque di essersi incontrato con costui senza avvertire la Commissione della Provincia di Palermo, quando il boss di Riesi aveva iniziato a tramare contro i “corleonesi” e prendere di mira esponenti mafiosi della sua zona vicini a questi ultimi, rendendosi in particolare responsabile dell’uccisione nel ’78 del boss di Vallelunga Ciccino Madonia.
E l’accusa di connivenza con il Di Cristina avrebbe dovuto ritenersi vieppiù grave e meritevole di formali quanto drastici provvedimenti, in considerazione del fatto che quel boss, nell’ultimo periodo della sua vita, aveva assunto il ruolo di confidente dei Carabinieri, al precipuo scopo di colpire con mirate “soffiate” i nemici in Cosa Nostra.
Ma, si è anche acquisita la notizia che il ruolo decisionale del Badalamenti all’interno della Commissione era stato messo in discussione dai “corleonesi” già in epoca più remota ed in particolare in occasione del diniego opposto dal boss di Cinisi al progetto di uccidere il Collonello Russo, portato ugualmente a compimento il 20.8.1977.
Tali ultimi eventi avevano già offerto al Riina l’occasione per gettare ombre sul comportamento del Badalamenti, elevando contro di lui il sospetto di fare il doppio gioco, stante che, per fini personali, avrebbe operato quale confidente dei CC. e dello stesso C.llo Russo.
Tralasciando per adesso di considerare le dichiarazioni di Grado Gaetano, va comunque rilevato che è ricorrente l’affermazione dei collaboratori che, tuttavia, Gaetano Badalamenti solo con l’evolversi degli eventi degli anni successivi sarebbe stato formalmente destituito dal ruolo di capo mafia di Cinisi, essendogli subentrato al vertice della cosca, per decisione della Commissione, il cugino Nino Badalamenti.
Al riguardo, l’unico punto di riferimento temporale su cui fare affidamento va tratto dalla risoluzione del caso Di Cristina da ricollegare all’omicidio di costui, consumato, come si è già detto, il 30.5.78.
Né si hanno precise notizie sulle modalità di comunicazione all’interessato di un simile pronunciamento e della sua stessa attuazione, nonostante le prevedibili manovre per renderlo non operativo.
Invero, a distanza di tanti anni, dalle fonti a disposizione è possibile desumere in modo affidabile solamente che ad un certo punto, per la famiglia di Cinisi, l’interlocutore istituzionale esterno della fazione “corleonese”, ormai egemone, diveniva Badalamenti Antonino.
E proprio a Badalamenti Antonino i “corleonesi” si rivolgevano qualche anno dopo per ottenere la consegna di Gaetano Badalamenti.
Ma, siamo ormai nel periodo in cui il conflitto era aperto e a tutto campo, si era giunti alla resa dei conti e non si faceva più mistero della volontà di sopprimere Tano Badalamenti e altri boss “perdenti”.
Come hanno concordemente riferito i collaboratori, le richieste di favorire l’uccisione di Tano Badalamenti non trovavano però adeguata sponda nei comportamenti di suo cugino Antonino e costui pagava con la vita tale mancata collaborazione, rimanendo vittima il 9.8.1981 a Carini dei killer “corleonesi” (a tale vicenda ha potuto accennare anche Ganci Calogero, essendo stato uno dei protagonisti dell’agguato).
L’omicidio di Badalamenti Antonino inaugurava la controffensiva a Cinisi dei “corleonesi”, volta a fare terra bruciata intorno a Badalamenti Gaetano, mediante l’uccisione di tutta una serie di parenti del boss di Cinisi e di altri soggetti che erano stati vicini a costui, come ad esempio Gallina Stefano (egli veniva ucciso in data 1.10.1981).
Di tale nuova situazione, che dava luogo ad un bagno di sangue senza precedenti nella zona, può aversi contezza già prestando attenzione all’elenco delle vittime e alla cadenza degli omicidi di cui hanno parlato i Carabinieri escussi e si fa menzione nelle sentenze in atti.
L’omicidio di Finazzo Giuseppe in data 20.12.81, su cui ha riferito il C.llo Arena anche nel corso della deposizione davanti a questa Corte, costituisce appunto uno degli episodi della faida di cui sopra.
Ma, facendo un passo indietro, va rilevato che se da un lato non si può disporre di notizie univoche sui tempi in cui fu dato corso alla risoluzione relativa all’espulsione di Badalamenti Gaetano; dall’altro, le risultanze già esaminate nella sentenza resa all’esito del “maxi quater” evidenziano come, in effetti, quel provvedimento, nella realtà del mandamento di Cinisi, almeno inizialmente, di fatto, fosse rimasto non operativo, non essendo sufficiente ad interrompere quei solidi rapporti mafiosi instaurati da Badalamenti Gaetano con tanti uomini d’onore, che da sempre lo avevano considerato il loro prestigioso capo ed il loro unico punto di riferimento in Cosa Nostra; né d’altronde egli avrebbe potuto essere estromesso da tutte le iniziative imprenditoriali e tipicamente mafiose coltivate nella zona, ma anche fuori e persino Oltreoceano (si pensi ai traffici droga come quello “pizza connection”).
Pressappoco nello stesso modo continuavano a comportarsi, sino alla fase cruenta della guerra di mafia, tanti importanti esponenti mafiosi di altri mandamenti in forza di rapporti altrettanto intensi e risalenti, come riferito da diversi collaboratori fra cui detto Di Carlo, il quale, al pari di Marino Mannoia, Buscetta, Calderone e Mutolo (tutti all’epoca uomini d’onore in rapporti con Badalamenti Gaetano), ha fornito comunque indicazioni che portano a collocare a non prima dell’Estate del ’78 il provvedimento di “espulsione” del boss di Cinisi (Brusca Giovanni al riguardo si è invece espresso in termini incerti).
Nella sentenza da ultimo citata, trattandosi la posizione di alcuni imputati accusati di avere fatto parte della cosca di Cinisi anche negli anni ’80, veniva, altresì, approfondito il tema della permanenza di tale cosca, quale associazione di tipo mafioso capeggiata da Badalamenti Gaetano, anche dopo la sua formale espulsione da Cosa Nostra e persino nel periodo in cui quest’ultimo era “ricercato” dai “corleonesi”.
Preziose informazioni in proposito venivano fornite dal collaboratore Palazzolo Salvatore, il quale, ricostruendo con dovizia di particolari esperienze personalmente vissute, riferiva in ordine alla sua affiliazione proprio nella famiglia di Cinisi quando già era scoppiata la guerra con il “corleonesi” e Badalamenti Gaetano stava preparando con diversi altri uomini d’onore di Cinisi a lui vicini quella controffensiva che, però, sarebbe stata interrotta dalla sua cattura in Spagna.
Rimandando a quanto diffusamente si osserva in detta sentenza, è comunque significativo evidenziare che le dichiarazioni accusatorie di Palazzolo Salvatore rese su tali temi in quella sede – e ribadite in questo processo – sono risultate assistite da inequivocabili riscontri; di talché hanno irrobustito il compendio probatorio posto a sostegno dell’affermazione della colpevolezza anche del sottocapo di detta cosca Palazzolo Vito e di uno dei figli di Badalamenti Gaetano, in relazione al reato di associazione di tipo mafioso commesso anche dopo il 1982.
Ciò posto, procedendo alla complessiva valutazione delle risultanze fin qui richiamate, è lecito affermare che l’espulsione di Badalamenti Gaetano da Cosa Nostra costituisce una delibera unilaterale della Commissione, collegata alla fine all’omicidio del Di Cristina e pertanto collocabile in epoca prossima alla data dell’uccisione dell’Impastato, ma a tale data in ogni caso ancora priva di effetti ai fini della designazione del titolare della rappresentanza esterna della famiglia ed a maggior ragione della strutturazione della gerarchia al suo interno, sì che Tano Badalamenti continuava ad esserne il capo.
E tale conclusione è del tutto coerente alla ricostruzione che attribuisce la responsabilità deliberativa dell’omicidio Impastato a Gaetano Badalamenti e quella esecutiva agli affiliati alla sua “famiglia”.
Ma, la superiore esposizione suggerisce ulteriori considerazioni.
In quel periodo il prestigio e l’autorevolezza di Badalamenti Gaetano venivano messi in discussione dai “corleonesi” e pertanto egli, a maggior ragione, non avrebbe più potuto permettersi di essere dileggiato pubblicamente a Cinisi dall’Impastato che, peraltro, con le sue martellanti denunzie, si dimostrava in grado di ben comprendere quali fossero i ramificati interessi mafiosi in quella zona e di lì a poco avrebbe potuto fare sentire la sua voce quale componente del consiglio comunale, istituzionalmente chiamato a pronunziarsi in merito alle vicende relative alle speculazioni edilizie ed agli appetitosi appalti.
Ma, proprio le difficoltà del momento, sconsigliavano la consumazione dell’omicidio dell’Impastato con modalità che ne rivelassero la matrice mafiosa e facessero sì che gli investigatori fossero indotti a considerare quello che era l’unico plausibile movente del delitto: la denunzia degli affari mafiosi da sempre gestiti da Tano Badalamenti.
E ciò di per sé si presta a giustificare le inusuali modalità di perpetrazione dell’omicidio, con l’impiego di una struttura organizzativa ed operativa logicamente riferibile alle risorse della cosca mafiosa di Cinisi, al fine di sequestrare la vittima e soprattutto di inscenare un attentato dinamitardo, onde indirizzare le indagini su una pista che avrebbe al contempo screditato la stessa personalità dell’ucciso.
Partendo da queste riflessioni, va altresì rilevato che un simile comportamento non potrebbe comunque plausibilmente riferirsi ad un’invasione di campo dei “corleonesi”, sia perché costoro solo dopo qualche anno troveranno la forza ed i mezzi per violare quel territorio, sia tenuto conto della circostanza che la messa in scena dell’attentato appare funzionale solamente ad esigenze riferibili al Badalamenti.
Anzi, i “corleonesi”, una volta deciso di lanciare la sfida al Badalamenti (al quale comunque non sarebbe sfuggito che in realtà si trattava di un omicidio), non avrebbero mancato di farlo apertamente, sia per dimostrare a tutti la loro potenza militare, sia perché avrebbero messo ancor più in difficoltà il boss di Cinisi che si sarebbe inevitabilmente trovato coinvolto nelle indagini, essendo proprio lui il soggetto pubblicamente bersagliato dall’azione di denunzia dell’Impastato.
Né vale affermare che la condotta di personaggi come Giuseppe Lipari o Ciccio Di Trapani, pure tirati in ballo dall’Impastato, sarebbe stata in seguito ricollegata all’attività mafiosa dei boss “corleonesi”.
Ed infatti, all’epoca dell’omicidio la mafia di Cinisi si muoveva compatta attorno alla figura di Badalamenti Gaetano ed era costui a gestire i rapporti di affari intrattenuti anche con esponenti “corleonesi”, come si desume fra l’altro dalla vicinanza al commercialista Mandalari che emerge già dalle risalenti indagini dei Carabinieri ed è stata recentemente confermata anche dal collaboratore Brusca Giovanni.
Siino Angelo, per anni importante pedina a disposizione dei “corleonesi” in tante iniziative economiche mafiose, ha fatto chiarezza in particolare sulla posizione del Lipari, nel seguente passo dell’esame:
Pubblico Ministero: … tornando a Gaetano Badalamenti, lei è a conoscenza di suoi interessi nel territorio di Cinisi? Interessi del Badalament intendo dire … interessi economici.
Siino Angelo:Interessi … appunto economici?
Pubblico Ministero: Economici …
Siino Angelo: Si, certamente … economici, lui praticamente … quando si … stava per costruire l’autostrada Punta Raisi – Ma zara del Vallo, insieme con un altro gruppo di personaggi che facevano capo ad un geometra dell’ANAS, ormai penso abbastanza conosciuto, si chiamava Pino Lipari e aveva degli interessi in una cava che era prima dell’ingresso di Cinisi sulla sinistra. E questa cava si occupava appunto di fornire gli inerti e conglomerati bitumitosi all’autostrada stessa. Poi successivamente so che lui aveva interessi su un camping con annessa stazione di rimessaggio e alaggio di imbarcazioni che si chiamava l’A-ZETA 10. Esattamente questa … questo camping A-ZETA 10 poi, quando il Badalamenti cadde in disgrazia, alla fine degli anni ’70 e prima degli anni ’80, fu requisito come si usa sempre in questi casi, quando si tratta di persone cadute in disgrazie, e praticamente acquisito al patrimonio di Bernardo Provenzano e gestito esattamente dal geometra Pino Lipari.
Pubblico Ministero: … lei ricorda se questo camping A-ZETA 10 era intestato formalmente a Gaetano Badalamenti o se invece a suoi prestanomi e, se sì, se ricorda i nominativi?
Siino Angelo: No, non so a chi era intestato di prestanomi del Badalamenti, so a chi è intestato di prestanomi del … Provenzano.
Pubblico Ministero: Può dircelo?
Siino Angelo: Che erano … Lipari che era materialmente quello che gestiva, ma era intestato a tedeschi e una certa Caldara … un certo Caldara.
Pubblico Ministero: Si … senta, torniamo al Lipari … che rapporti c’erano prima che cadesse in disgrazia il Badalamenti, tra il Badalamenti stesso e il geometra Pino Lipari?
Siino Angelo: Ottimi, perché il Badalamenti è di Cinisi e la moglie del Pino Lipari è anche lei originaria di Cinisi e praticamente … effettivamente erano molto … molto amici, in quanto il … Lipari era il personaggio che l’aiutava a gestire i lavori che … della zona, sia riguardanti l’ANAS che anche tutti i lavori generali che riguardavano le forniture che potevano fare con la loro cava.
Pubblico Ministero: Dopo l’estromissione di Gaetano Badalamenti dalla “commissione” di “cosa nostra”, sa a quali personaggi si è avvicinato Pino Lipari?
Siino Angelo: Si, esattamente si è avvicinato ai “corleonesi”, anche perché lui era corleonese di origine, in quanto originario di Campofiorito che è un paese ricade nel mandamento di Corleone e poi effettivamente il Pino Lipari si avvicinò ai “corleonesi” diventandone addirittura il “consigliori”..
E parimenti alla fine anni ’70 – inizio anni ’80, deve collocarsi il passaggio di detto Ciccio Di Trapani nelle file “corleonesi”, come è stato già rilevato nella sentenza del “maxi quater” e si desume anche dalle dichiarazioni rese dai collaboratori nel corso del presente giudizio.
Ma, che la pista “corleonese” sia destituita di fondamento può oggi affermarsi con ancor maggiore sicurezza, tenuto conto che sono state acquisite le dichiarazioni di tanti esponenti mafiosi e killer già all’epoca sotto le direttive del Riina e nessuno di loro ha mai riferito dell’organizzazione da parte di quest’ultimo dell’omicidio Impastato.
E va evidenziato che se i “corleonesi” avessero deciso di portare a compimento una così delicata operazione, non avrebbero mancato di servirsi, come in tante altre occasioni in quegli anni, di killer di fiducia quali Anzelmo Francesco Paolo, Ganci Calogero, Marchese Giuseppe, Brusca Giovani e Onorato Francesco, tutti oggi collaboratori.
Per completezza va, altresì, ribadito in questa sede che alcun credito merita la tesi dell’utilizzo con il ruolo di killer di esponenti del terrorismo di estrema destra, stante che essa si basa solo su generiche notizie che sarebbero state riferite all’Izzo dal terrorista Pierluigi Concutelli, il quale, all’epoca dell’uccisione dell’Impastato, si trovava però in carcere e, comunque, ha sempre negato di avere fatto simili confidenze ad un soggetto come l’Izzo, da lui definito un mitomane.
Del resto, non si comprenderebbe perché gli esponenti mafiosi avrebbero dovuto servirsi per commettere l’omicidio di soggetti estranei, quando potevano contare su assai più affidabili uomini d’onore, ben a conoscenza del territorio ed in grado di compiere simili delitti.
Ma, tornando a sviluppare le riflessioni sui plausibili motivi della messa in scena dell’attentato, va aggiunto che l’artifizio pare, al contempo, rispondere ad altri interessi riconducibili al Badalamenti.
Al riguardo, occorre premettere che le dichiarazioni della madre, del fratello e della cognata della vittima, rese anche in questo giudizio e avvalorate da quanto emerso dalle indagini sulla personalità mafiosa di diversi parenti degli Impastato (alcuni dei quali rimasti uccisi e ritenuti inseriti proprio nella famiglia di Cinisi), evidenziano che non si trattò di un delitto qualsiasi che colpì una persona qualsiasi.
Peraltro, secondo quanto precisato da detti congiunti, pure Luigi Impastato, padre di Giuseppe, intratteneva rapporti con Badalamenti Gaetano ed erano suoi “amici” anche altri esponenti della famiglia mafiosa di Cinisi, come il più volte sopramenzionato Palazzolo Vito.
Ecco perché le denunzie contro la mafia portate avanti da Giuseppe Impastato non erano in alcun modo accettate dal di lui padre, che evidentemente era costretto a sentire le lamentale provenienti dall’ambiente mafioso e patire al contempo l’affronto di avere un figlio che continuava ad infangare apertamente l’onore della sua famiglia.
Di questa difficile posizione in cui si era venuto a trovare Luigi Impastato, paiono offrire testimonianza le vicende di poco precedenti alla sua morte ed in particolare quelle connesse al viaggio negli USA.
Sempre dai predetti congiunti, si è appreso che poco prima di tale viaggio e dopo la diffusione da parte di Giuseppe Impastato di un altro volantino in cui senza mezzi termini si accusava Badalamenti Gaetano, Luigi Impastato era stato cercato a casa da Palazzolo Vito.
Senza spiegare le ragioni dell’improvviso suo allontanamento da Cinisi, Luigi Impastato si era poi recato negli Stati Uniti, ove era andato a trovare alcuni suoi parenti che si erano ivi stabiliti da anni.
Neppure dai verbali di audizione in sede di rogatoria internazionale dei cugini Giuseppe e Nicola Impastato che inizialmente ospitavano negli USA Luigi Impastato, è possibile desumere notizie coerenti e plausibili in ordine alle reali motivazioni del soggiorno in questione.
E sicuri chiarimenti in merito non sono stati acquisiti neanche da Bartolotta Felicia, detta Vincenzina, altra parente presso cui in un secondo tempo si recava Luigi Impastato in occasione di detto viaggio.
Quest’ultima, però, escussa sempre in sede di rogatoria internazionale, ha fornito altre interessanti notizie, riferendo in particolare:
“Nel corso di detta permanenza io ebbi modo di discutere con Luigi Impastato nonché di suo figlio Giuseppe. Egli mi disse che suo figlio, detto Peppino, “parlava assai” e faceva politica, in particolare muovendo aspre critiche ai mafiosi di Cinisi.
A queste parole io esternai la mia preoccupazione chiedendogli esplicitamente se Peppino non stesse correndo il rischio di essere ucciso. A quel punto Luigi rispose che “finché egli era in vita suo figlio Peppino non correva alcun pericolo” in particolare disse: “prima di uccidere Peppino devono uccidere me”.
Per rendersi conto che quanto poi accaduto non è altro che quello che si era temuto nell’ambiente familiare, è significativo evidenziare che la stessa Vincenzina Bartolotta, parlando del suo rientro a Cinisi il giorno della scomparsa di Giuseppe (quella sera avrebbero dovuto incontrarsi a casa della madre di costui), ha aggiunto: “Nel corso dei funerali di Giuseppe Impastato io ebbi modo di sentire che tutti i suoi parenti nonché altra gente presente ai detti funerali facevano il nome di Tano Badalamenti, dando una spiegazione del fatto assolutamente univoca e cioè che Giuseppe Impastato era stato ucciso dalla mafia”.
Va, altresì, evidenziato che Badalamenti Gaetano, già nel corso delle sue audizioni in sede di rogatoria internazionale, ha confermato che Impastato Luigi poco prima di partire per detto viaggio era andato a trovarlo, dicendo di doversi recare negli Stati Uniti perché suo cugino Peppino Impastato intendeva fare testamento e lo voleva presente.
Come aggiunto dall’imputato, Impastato Luigi, appena ritornato dagli USA, si era nuovamente recato a casa sua consegnandogli un cravatta donata da detto cugino a conferma di una stima reciproca.
Le stesse dichiarazioni sono state rese da Badalamenti Gaetano in sede di dichiarazioni spontanee davanti alla Corte, rimanendo così ribadita dall’imputato una versione sui motivi del viaggio di Luigi Impastato sconfessata dagli stessi parenti americani di quest’ultimo.
Anche tralasciando di considerare le altre affermazioni dei testi su tali vicende, fondate su supposizioni e comunque non altrettanto riscontrate, non vi è dubbio che l’accertata sequenza degli eventi evidenzia non solo i legami esistenti fra il padre della vittima ed il boss di Cinisi, ma anche una serie di contatti con costui ed i suoi emissari, che possono plausibilmente mettersi in relazione con lamentele ed avvertimenti fatti pervenire a Luigi Impastato a causa del comportamento del figlio e con l’adoperarsi da parte dello stesso Luigi Impastato al fine di scongiurare il pericolo di un tragico epilogo della vicenda.
Ciò posto, può pure rilevarsi che la decisione di uccidere Peppino Impastato, pur se non più procrastinabile, avrebbe potuto creare non pochi problemi, anche sotto il profilo dei rapporti con altri soggetti legati a Gaetano Badalamenti, per tradizione familiare e/o mafiosa.
E una cosa sarebbe stato firmare il delitto facendo scomparire il giovane o procedendo ad una plateale esecuzione, altra cosa invece sarebbe stato, come in effetti è stato, allestire la messa in scena dell’attentato, rappresentando così una verità “ufficiale” che prevedibilmente avrebbe esposto il Badalamenti soltanto a voci ed illazioni non provate e, comunque, tali da non mettere in difficoltà gli Impastato, mostrandoli pubblicamente quali vittime di un omicidio di mafia.
Né può escludersi, considerate le ragioni fatte valere da Badalamenti e l’impossibilità di arrestare in altro modo il pericoloso corso dei fatti, che detta opzione fosse stata previamente accettata pure da chi all’interno della cosca era legato al giovane da rapporti familiari.
E’ ravvisabile, dunque, una concorrente motivazione per riferire la messa in scena dell’attentato agli interessi di Badalamenti Gaetano.
Anche per questo non va dato credito alle obiezioni espresse nella nota in atti del 20.6.84 a firma dell’allora Maggiore Tito Baldo Honorati, Comandante del Nucleo Operativo Gruppo di Palermo, con la quale a proposito del caso Impastato si comunicava ai superiori:
“Le indagini molto articolate e complesse svolte all’epoca da questo Nucleo Operativo hanno condotto al convincimento che l’Impastato Giuseppe abbia trovato la morte nell’atto di predisporre un attentato di natura intimidatoria.
L’ipotesi di omicidio attribuito all’organizzazione mafiosa facente capo al boss Gaetano Badalamenti operante nella zona di Cinisi è stata avanzata e strumentalizzata da movimenti politici di estrema sinistra ma non ha trovato alcun riscontro investigativo ancorché sposata dal Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo, Dr. Rocco Chinnici a sua volta, è opinione di chi scrive, solo per attirarsi le simpatie di una certa parte dell’opinione pubblica conseguentemente a certe sue aspirazioni elettorali, come peraltro è noto, anche se non ufficializzato ai nostri atti, alla scala gerarchica.
Lo stesso Magistrato peraltro, nell’ambito dell’istruttoria formale condotta con molto interessamento, non è riuscito a conseguire alcun elemento a carico di esponenti della mafia di Cinisi tanto da concludere con un decreto di archiviazione per delitto ad opera di ignoti.
A parte il complesso di elementi a suo tempo forniti da questo Nucleo a sostegno della tesi prospettata dall’Arma, si vuole fare osservare, e ciò è di immediata intuizione per chi conosca superficialmente questioni di mafia, come una cosca potente, ed all’epoca dominante, come quella facente capo al Badalamenti non sarebbe mai ricorsa per l’eliminazione di un elemento fastidioso ad una simulazione di un fatto così complesso nelle sue componenti anche di natura ideologica, ma avrebbe organizzato o la soppressione eclatante ad esempio e monito di altri eventuali fiancheggiatori dell’Impastato, o la più sbrigativa e semplice eliminazione con il sistema della lupara bianca che ben difficilmente avrebbe comportato particolari ripercussioni.
Si aggiunge, con riserva di fornirne dimostrazione che l’indagine è stata svolta con il massimo scrupolo e la possibile completezza ed, allo stato non sussistono ulteriori possibilità investigative”.
Esaminando il contenuto di tale nota e le spiegazioni che ha tentato di darne il C.llo Honorati nel corso della sua audizione dibattimentale, non può tuttavia sottacersi che appare stupefacente che un alto ufficiale dei Carabinieri abbia potuto tranciare giudizi così netti e poco lusinghieri sull’operato, con “molto interessamento”, del Consigliere Istruttore dottor Chinnici, che invero con le sue penetranti e coraggiose iniziative aveva dato tanto fastidio alla mafia da essere anche lui ucciso insieme ai Carabinieri della scorta, appena un anno prima a seguito dell’esplosione di un’auto bomba, sì da non avere avuto neppure la possibilità di completare l’istruzione relativa all’omicidio Impastato.
Del resto, alla luce di quanto già osservato, non può certo dirsi che le iniziali indagini dei Carabinieri fossero state attente, complete e libere dall’accettazione preconcetta di tesi fuorvianti, se non altro perché contrastanti persino con semplici considerazioni di natura logica.
Sul punto la parte civile ha molto insistito, rappresentando tutta una serie di altri lati oscuri e di anomalie delle prime indagini, ma tale tema di accertamento non appare utile ai fini della decisione che ci occupa, non sussistendo comunque elementi per sostenere che si tratti di vere e proprie collusioni con i responsabili dell’omicidio, anziché di mera imperizia o dell’accettazione di tesi che avrebbero consentito una comoda soluzione del caso senza smuovere troppo le acque.
Ad ogni modo, va dato atto che il contenuto della predetta nota del Colonnello Honorati non era in sintonia neanche con le conclusioni che nel corso dell’istruzione formale erano state rassegnate (e sono state poi ribadite) dal Colonnello Subranni e dal Capitano Arena.
Come si è visto, nella sentenza del G.I. si evidenziava, anche ai fini della ricostruzione del contesto mafioso in cui poteva ritenersi maturato l’omicidio, come fosse circolata la notizia dell’avvertimento degli Amenta di non recarsi a Cinisi, perché in quei giorni sarebbe successo “qualcosa di grosso”, di modo che si era subito creato uno stato di apprensione tra gli amici degli Impastato, alcuni dei quali, non vedendolo arrivare nella sede di Radio Aut ove era stata indetta per le 21,00 la riunione, lo avevano cercato senza esito per diverse ore in paese e nei dintorni, utilizzando tre auto, una delle quali, con a bordo il Lo Duca, ad un certo punto era stata seguita da altra auto.
Né era stato trascurato da quel Giudice “l’inquietante collegamento che – dalle carte processuali traspare tra l’episodio ora ricordato ed il colloquio “appartato” svoltosi dinanzi al Municipio, la domenica precedente la mortale esplosione, tra Amenta Carmelo e Finazzo Giuseppe” aggiungendosi che “Detto colloquio, notato dal Di Maggio Domenico … e da questi riferito al Riccobono Giovanni e ad altri amici, trova riscontro anche nella testimonianza di Di Maggio Faro …; risulta – di contro – tutt’altro che recisa e convincente la smentita dell’Amenta Carmela ( … “non ricordo, avrò potuto anche fermarmi a parlare un po’ nel senso che il Finazzo mi avrà rivolto l’invito di andare con lui al circolo”).
Nulla di nuovo è emerso nel presente giudizio con riguardo a tali ultime circostanze, la cui veridicità non può ritenersi comunque smentita dal fatto che non siano state riferite nell’immediatezza ai Carabinieri, stante il clima di sfiducia ingenerato dalla piega che avevano preso le indagini, indirizzate piuttosto a disvelare manovre eversive, tramite una serie di perquisizione nella sede di Radio Aut e nell’abitazione di amici e parenti dell’Impastato e di pressanti audizioni degli stessi, in più occasioni accompagnate dalla contestazione di risultanze fuorvianti, quali appunto quelle relative al rinvenimento della lettera autografa in cui sembravano manifestarsi intenti suicidi.
E non va trascurato che era tanto radicato il pregiudizio nei confronti degli amici e parenti dell’Impastato che, subito dopo l’uccisione del Finazzo, non si mancava di procedere nuovamente a perquisizioni a loro carico, come se quei giovani potessero essere questa volta implicati nell’omicidio di un indiziato mafioso vicino a Gaetano Badalamenti, commesso in un contesto e con modalità tali da rendere palese il divampare della faida fra clan, in lotta per l’egemonia nel territorio.
E’ stato acquisito al fascicolo del dibattimento il verbale di audizione davanti al G.I. in cui Lo Duca Vito aveva riferito la circostanza dell’inseguimento della sua auto, “per circa 6 o 7 minuti” da parte di quella condotta da Pizzo Salvatore, già notato più volte a bordo dello stesso mezzo, mentre stazionava sotto casa di Gaetano Badalamenti.
Ritiene la Corte che neppure questa circostanza possa essere trascurata ai fini della valutazione complessiva degli elementi offerti dal processo e della loro concatenazione logica in chiave accusatoria.
Ed infatti, va considerato che il commando che si fece carico di eseguire il sequestro dell’Impastato, di ucciderlo e portarlo con l’auto nel luogo in cui fu rinvenuto il corpo dilaniato, rimase operativo almeno fino a subito dopo l’esplosione, collocabile – come si è visto – non prima delle ore 0,11 e, pertanto, nello stesso arco di tempo in cui Lo Duca Vito e gli altri si mossero in auto alla ricerca dell’amico.
Ed è lecito ritenere che gli assassini, mettendo in atto un simile piano, non trascurarono di battere la zona a titolo precauzionale, sì da potersi accorgere dell’auto con il Lo Duca e seguirne i movimenti.
Ecco perché rileva che il Pizzo coinvolto in tale pedinamento possa considerarsi soggetto non estraneo a rapporti con Badalamenti alla luce delle altre indicazioni fornite dal Lo Duca per esperienza diretta.
E’ chiaro, però, che si tratta di un tassello di un quadro indiziario ben più articolato ed arricchito da altri elementi significativi, tenuto conto di quanto si è rilevato sui seguenti temi: l’unico plausibile movente è riferibile proprio a Badalamenti Gaetano; lo stesso per di più aveva l’impellente necessità di fare tacere l’Impastato e poteva riuscirvi solo uccidendolo; il Badalamenti era il capo della famiglia mafiosa di Cinisi, ancora coesa ed operante incontrastata nel territorio; le peculiari modalità di esecuzione del delitto vanno ricondotte all’apparato di uomini, conoscenze e mezzi da sempre a disposizione della predetta cosca (si pensi alla facilità di procurarsi e maneggiare il notevole quantitativo di esplosivo in uso nelle cave della zona, alcune delle quali riferibili di fatto allo stesso Badalamenti); l’imputato, il principale possibile sospettato non solo dalla P.G., aveva il particolare interesse ad approntare la complessa messa in scena dell’attentato.
E sotto quest’ultimo profilo vanno, altresì, richiamate le considerazioni rassegnate a proposito di quel che si è potuto apprendere sul comportamento di Luigi Impastato nell’ultimo periodo di vita, che comunque evidenzia che costui, pur essendo al pari di altri familiari in intimi rapporti con il boss di Cinisi, aveva esternato la preoccupazione che il figlio fosse ucciso a causa delle denunzie contro la mafia locale.
Tenendo presente tale quadro, occorre adesso occuparsi delle dichiarazioni dei collaboratori che attengono alla paternità del delitto.
Al riguardo, va rilevato che sono state acquisite tutte notizie “de relato”, che in quanto tali debbono valutarsi con quel particolare metodo che richiede, anzitutto, il controllo della fonte di riferimento e l’approfondimento delle modalità di trasmissione delle informazioni.
Considerato ciò, le dichiarazioni rese da Brusca Giovanni, Brusca Emanuele (fratello del primo), Mutolo Gaspare ed Onorato Francesco a proposito della responsabilità di Badalamenti Gaetano assumono una valenza probatoria assai limitata, dovendosi prendere atto che i predetti collaboratori, pur soffermandosi sulle persone e sul contesto di tempo e di luogo in cui avrebbero appreso le notizie in questione, non hanno tuttavia offerto indicazioni sulle fonti dei rispettivi referenti e comunque non le hanno fornite in modo convincente.
In particolare, Brusca Giovanni ha riferito che, in occasione di un incontro in contrada Dammusi di San Giuseppe Jato fra suo padre Bernardo, Riina ed altri esponenti mafiosi alleati dei “corleonesi”, si era commentato di questo Peppino Impastato che il Badalamenti avrebbe commesso questo fatto” ed in particolare il Riina aveva affermato che Badalamenti aveva detto di avere fatto il proprio “dovere”.
Il collaboratore ha poi sostanzialmente confermato quanto aveva riferito al P.M. e cioè che il Riina aveva riportato la notizia di cui sopra, in quanto il Badalamenti “se ne vantava, aveva parlato con qualcuno … perché questo qua (Giuseppe Impastato) faceva campagna contro “cosa nostra” e gli dicevano ma quando te ne esci di questo fatto?”.
Successivamente, il P.M. ha proceduto ad un’altra contestazione:
Pubblico Ministero: Leggo le parole testuali: “E’ stato fatto, ordinato da Gaetano Badalamenti; questo di qua, io lo so da commenti fatti da mio padre e da Salvatore Riina, in quanto, quando è stato fatto questo omicidio, è stato fatto in maniera particolare per deviare le indagini …. Gaetano Badalamenti si vantava di avere fatto questo omicidio e di avere architettato questo stratagemma per deviare le sue indagini da questo omicidio”. Ricorda di avere fatto queste dichiarazioni Brusca?
Brusca Giovanni: Sì sì, confermo … quello che volevo dire, non so Salvatore Riina da chi l’ha appreso, confermo quanto lei ha letto
Pubblico Ministero: Ma quando lei dice Gaetano Badalamenti si vantava di avere fatto questo omicidio, ci può chiarire allora che cosa intendeva dire?
Brusca Giovanni: Che Salvatore Riina aveva appreso, non so se direttamente dallo stesso o da altre terze persone, che Gaetano Badalamenti, quando andò a riferire questo particolare, che se ne vantava di avere portato a termine questo fatto. Non so chi gliel’ha detto, cioè il tramite se diretto o tramite terze persone, questo non so.
E nel corso della sua audizione il collaboratore non ha mancato di evidenziare come in quel periodo il Riina, davanti ai suoi alleati, fosse solito esprimere giudizi poco lusinghieri sul conto del Badalamenti accusandolo fra l’altro di essere un confidente dei Carabinieri.
Sicché, non può disconoscersi che Brusca Giovanni non solo non è stato nelle condizioni di indicare la fonte iniziale delle notizie recepite sull’omicidio Impastato, ma anche ha tratteggiato uno scenario da cui emerge che i rapporti fra Badalamenti e Riina si erano tanto incrinati da rendere poco plausibile che i due si fossero accordati in vista della consumazione del delitto e che, comunque, il primo avesse fatto delle confidenze al secondo su come aveva gestito il delicato caso
Gli stessi rilievi vanno espressi con riguardo a quanto riferito a Brusca Emanuele, stante che costui si è limitato a riportare commenti di Bagarella Leoluca, cognato del Riina, in occasione dei quali non si era persa l’opportunità di censurare l’operato dell’odiato Badalamenti.
P.M.: … Lei ha accennato di aver appreso da Leoluca Bagarella un fatto specifico attribuibile a Gaetano Badalamenti. Quale è questo fatto?
Brusca Emanuele: Cioè in sostanza siamo nel … nel 1978. In quel periodo in Palermo venne ucciso un tale Giuseppe Di Cristina. In quell’occasione io ebbi modo di assistere, perché fu ferito Antonino Marchese, che allora fu accompagnato da Bagarella a casa mia per … perché ferito e poi noi abbiamo assistito e quindi aiutato nel … nel … medicare il … l’Antonino Marchese. In quel contesto di tempo, quindi in quel periodo di tempo io ho avuto modo di … di … di scambiare con Bagarella pareri, opinioni e il Bagarella ricordo che in una di queste occasioni mi parlava di una fatto allora avvenuto in Cinisi, cioè a dire l’uccisione di un … di un … di un attentato terroristico, diciamo di una persona impegnata politicamente, un certo Impastato. Diceva che, andando per sintesi, che il … il … questa era una messa in scena, in quanto il Badalamenti aveva voluto così mascherare l’eliminazione di questa persona facendolo apparire come un fatto politico – terroristico. Non so se ho reso il concetto.
P.M.: Si lei si ricorda dove vi trovavate con Bagarella in quel periodo quando le fece queste confidenze?
Brusca Emanuele: Cioè Bagarella era molto vicino alla mia famiglia, veniva spessissimo a casa mia, avevamo come punto di ritrovo una contrada che si chiama contrada Dammusi in territorio di Monreale che è vicinissima a Palermo. Ci vedevamo a Palermo, cioè con Bagarella non c’erano … non c’era luogo, diciamo il rapporto era tanto intimo che … diciamo uno vale … Non ricordo quale era il luogo preciso, però col lui avevo questa …. Questa possibilità di incontrarmi in tutti questi luoghi.
P.M.: … Bagarella le specificò quali erano le ragioni che avevano spinto Gaetano Badalamenti a ordinare l’uccisione di Peppino Impastato?
Brusca Emanuele: Cioè il Bagarella allora criticava Badalamenti perché diceva che questo era un atto di debolezza del … del Badalamenti o un atto addirittura di vigliaccheria, lo definiva in questi termini, perché diceva che questo … questo Impastato derideva, sfotteva, provocava continuamente in Cinisi e lui diciamo subiva … senza reagire. Quindi una persona della portata di Badalamenti doveva in qualche modo dare una dimostrazione e il fatto che camuffò la morte con … con l’attentato terroristico diciamo fu … il Bagarella lo definiva un atto di vigliaccheria.
P.M.: … Leoluca Bagarella in quel periodo le specificò se aveva appreso queste notizie direttamente da Gaetano Badalamenti o se no invece da chi?
Brusca Emanuele: Non ricordo al momento, però lo dava come un fatto certo, come un fatto assodato. Non me lo ricordo se … se mi disse di averlo appreso da qualcuno, se … se ne era conoscenza diretta diciamo.
Da parte sua, il Mutolo, uomo d’onore della famiglia di Partanna Mondello assai vicino al capo mandamento Rosario Riccobono, si è anzitutto soffermato su quanto appreso sull’omicidio Impastato da altri esponenti mafiosi, in carcere subito dopo il fatto e, da libero, quando già Badalamenti Gaetano era stato espulso da Cosa Nostra, era stato sostituito dal di lui cugino Nino quale capo famiglia e l’intero mandamento era stato posto sotto la “reggenza” di Rosario Riccobono.
P.M.: … Mutolo riferisca alla Corte tutto quello che sa riguardo all’uccisione di Peppino Impastato, e se ha saputo fatti e circostanze da terzi, specifichi i loro nominativi.
Mutolo Gaspare: Guardi io mentre mi trovavo in galera … intorno …. nel 1978 … nel 1978 … abbiamo sentito … perché era in una … in un braccio … diciamo dell’Ucciardone in galera, che ci eravamo tanti mafiosi di tutte le famiglie di Palermo ricoverati, l’omicidio di questo … diciamo non che l’omicidio, questo omicidio …. Questa persona che era stata trovata morta, ricordo dentro una macchina .. di piccola cilindrata che era stata investita da un treno … noi … diversi detenuti abbiamo commentato questo fatto, perché si parlava spesso di questi … di tutto quello che succedeva attraverso la lettura dei giornali, delle …. e della televisione e delle notizie che si avevano quando si andava nei colloqui che si facevano in quel periodo, abbiamo sentito subito che non era affatto diciamo un omicidio così … causale, di un investimento del treno, ma era stato un omicidio di mafia perché, diciamo, questo ragazzo che era un cronista … aveva una specie di radio privata diciamo più di una volta era stato richiamato da persone della mafia perché aveva assunto delle … dei toni un pochettino critici e magari offensivi nei riguardi di Gaetano Badalamenti … Soprannominandolo, diciamo, toro seduto oppure Tano bada come te lamenti e questi oggetti così … Quindi c’è stato qualche … qualche persona che ha detto no, questo dice … già si sapeva da molto tempo prima che si doveva uccidere, perché dava fastidio … diciamo a Gaetano Badalamenti.
Omissis
P.M.: … lei ha accennato ad un investimento di una macchina sui binari di una ferrovia. E’ certo di questa circostanza …
Mutolo Gaspare: Ma guardi, io mi ricordo che abbiamo noi letto … credo o commentato, non mi ricordo perché è un discorso di più di 20 anni fa …
P.M.: Si quando dice noi, a chi si riferisce … lei e chi altri?
Mutolo Gaspare: Ma guardi, in infermeria, in quel braccio dove io mi trovavo, eravamo circa 35 detenuti, tutti mafiosi di tutte le “famiglie” palermitane, quindi ogni mattina si commentava se veniva uccisa qualche persona … se veniva … tutti i fatti di cronaca li commentavamo insomma a gruppi a gruppi insomma … con le persone che più eravamo in contatto. Io ricordo che la prima notizia, diciamo, che … che si è avuta, che questo Impastato, questo cronista … era stato investito. Dopo arrivò la notizia no, che era stata una simulazione, che questo ragazzo era stato strangolato e dopo fatto scoppiare con la dinamite, diciamo … facendo capire e facendolo mettere vicino ai binari, diciamo … vicino dove passava la ferrovia per far capire che era stato investito, qualche cosa del genere …
P.M.: Eh … ma in particolare chi le accennò a queste circostanze? Lasci stare le notizie di cronaca, io vorrei sapere se lei ha avuto notizie di terzi, da persone da uomini d’onore o da altri soggetti.
Mutolo Gaspare: Ma guardi … io in questa prima fase eravamo tutti detenuti si andava ogni settimana oppure ogni 15 giorni a colloquio … e ci venivano a trovare familiari, cioè persone che appartenevano alla nostra famiglia mafiosa. Io le posso indicare in quel periodo sono per esempio con un certo Lamberti Salvatore che è una persona … era in quel periodo … era molto legato, diciamo a Gaetano Badalamenti, c’era un certo Gaetano Fidanzato che era dell’area, diciamo, di … di Gaetano Badalamenti … così come, tutte le persone in simpatia … Quelli della famiglia di … Partanna Mondello.
P.M.: … Lei ha accennato a questo primo periodo relativo alla sua detenzione nel carcere Ucciardone; successivamente ha appreso delle altre circostanze? Se sì, da chi … relativamente a questa a questa uccisione?
Mutolo Gaspare: Sì, ma io questo stavo aggiungendo, quando io proprio sono uscito, io ho parlato …. Mi sono trovato a parlare anche perché la famiglia di Cinisi era sotto il mandamento di Rosario Riccobono, cioè nella mia famiglia mafiosa e così parlando parlando con Rosario Riccobono, che era il mio capo mandamento, il mio capo famiglia e con una compare mio, un certo Micalizzi Salvatore e il fratello Michele Michele, che si parlava così, ma per ridere, che questo Impastato che era stato diciamo ucciso, era … perché aveva, diciamo … aveva di questi … questi atteggiamenti, diciamo, così offensivi nei riguardi di Gaetano Badalamenti.
P.M.: … Riccobono, cioè Rosario Riccobono e i due Micalizzi a cui ha accennato, le hanno riferito qualche particolare riguardo a questa uccisione, le hanno detto chi aveva ucciso Peppino Impastato?
Mutolo Gaspare: No, chi precisamente è stato eseguito l’omicidio no … io no mi ricordo, però che in quel periodo non si muoveva una foglia d’albero, non si faceva la minima cosa a Cinisi, Carini … se non c’era la volontà di Gaetano Badalamenti, quindi un omicidio era discorso pacifico, sereno che … non l’avrebbe potuto ordinare che Gaetano Badalamenti, perché era il capo mandamento di Cinisi, ma in quasi tutta la Sicilia.
P.M.: … Mutolo, queste sono sue valutazioni o Rosario Riccobono le disse che Badalamenti Gaetano aveva ordinato l’omicidio di Peppino Impastato?
Mutolo Gaspare: No questi sono quello che mi ha detto, diciamo, Rosario Riccobono e i fratelli Michele Micalizzi, a parte che io il Gaetano Badalamenti io lo conosco da moltissimo tempo e quindi non è che parlo perché è una persona che non conosco, è una persona che conosco benissimo … da moltissimi anni. Questo fatto però … io siccome era in galera, non lo potevo sapere, quindi l’ho saputo e ho avuto la conferma perché, dopo l’estromissione di “cosa nostra” di Gaetano Badalamenti, la famiglia di Gaetano Badalamenti passò nel mandamento di Rosario Riccobono, cioè tutti gli uomini d’onore di Cinisi dovevano fare capo a Rosario Riccobono.
Omissis
P.M.: … io vorrei che lei puntualizzasse meglio, tornando indietro a Rosario Riccobono, quando Rosario Riccobono le dice che l’omicidio di Peppino Impastato era stato ordinanto da Gaetano Badalamenti. In che epoca siamo, se si ricorda dove …
Mutolo Gaspare: Guardi siamo nel 1980 … siamo in un villino che Rosario Riccobono, tra Partanna Mondello e Cardillo e quindi spesso io, quando sono a Palermo, sono sempre con Riccobono, perché Riccobono, oltre a essere il mio capo famiglia, è anche … è il mio amico, quindi riconosciamo da tanto tempo, quindi stiamo con le famiglie assieme, in una occasione che si parla, che spesso si nominava, diciamo, Gaetano Badalamenti … per … per quei fattori che andavano … nascendo, perché molte persone grazie, diciamo, a quel comportamento di Gaetano Badalamenti vengono uccisi, vengono eliminati e quindi il Badalamenti è un personaggio che è molto discutibile in quel periodo, sempre che ne parliamo, sia di bene o di male, comunque non passa una giornata che non ne parliamo …
Poi il Mutolo, rispondendo alle domande dell’Avv. Gullo, ha ribadito che nell’infermeria di “Ucciardone”, nel periodo in cui si era discusso dell’omicidio dell’Impastato, vi erano numerosi altri esponenti mafiosi (oltre quelli già nominati) e fra questi anche Grado Gaetano.
Micalizzi Salvatore e Rosario Riccobono sono stati inghiottiti dalla lupara bianca il 30.11.82; mentre Micalizzi Michele e Fidanzati Gaetano, entrambi in atto detenuti e condannati per associazione di tipo mafioso ed altri gravi delitti, sentiti in dibattimento su richiesta della difesa, hanno negato di avere parlato con il Mutolo di argomenti come l’omicidio Impastato e non avrebbero potuto fare altrimenti, avendo gli stessi sempre rinnegato conoscenze e rapporti con altri soggetti in ipotesi riferibili ad una comune affiliazione al sodalizio Cosa Nostra
Si è altresì proceduto ad escutere Grado Gaetano, il quale invece di recente ha manifestato l’intenzione di collaborare con la giustizia.
Il Grado, uomo d’onore della famiglia Santa Maria di Gesù fin dagli anni ’60, ha premesso che il suo capo Stefano Bontade gli aveva presentato, prima del 1970, Badalamenti Gaetano come il “rappresentante di Cinisi”; con costui si erano poi frequentati senza però commettere in concorso delitti; nel periodo successivo al ’70 -’71, non lo aveva più incontrato, ma aveva potuto apprendere dal Bontade, che era stato “messo fuori famiglia” per vicende che avevano a che fare con l’uccisione del padre del boss di Caltanissetta Piddu Madonia
Il Grado ha poi ricordato che per circa un anno e fino a 17.5.78 era stato detenuto all’Ucciardone e, poco tempo dopo “l’attentato” all’Impastato, ne aveva parlato con il boss di Porta Nuova Pippo Calò.
Al riguardo il Grado così si è espresso: “Cioè in pratica io incontrai dopo … è stato l’omi … dopo l’attentato che hanno fatto a questo Impastato. Incontrai in un bar un certo Pippo Calò. Cioè e gli dico ma come mai è successo sto fatto qui? Ma così accademicamente. E lui mi fa, dice, non Gaetano Badalamenti non ne sa niente, perché e … era giusto come mi aveva detto lui. Perché quando c’era veramente che esisteva “cosa nostra”, regola di “cosa nostra” ferrea, in pratica se una persona era messo fuori “famiglia” non poteva né chiedere di commettere nessun delitto e né avvicinare degli uomini d’onore né le famiglie, questa era la vero regola di “cosa nostra”. Perciò io penso, escludo, a parere mio categoricamente che Gaetano Badalamenti sia stato … l’autore principale … di fare questo …. attentato Impastato …”
Nel prosieguo, il dichiarante, sempre interpellato dal P.M., si è soffermato a riferire sul suo più recente incontro con il Badalamenti.
P.M.: ….Ha poi avuto modo di incontrare Getano Badalamenti fuori dal territorio nazionale, diciamo dopo la guerra di mafia negli anni ’80?
Grado Gaetano: Ma guardi l’ho incontrato io a Badalamenti mi ricordo ma non so precisare sempre … ma prima allora che lui venisse arrestato su a Madrid. Ero io latitante e lo incontrai su a Madrid Gaetano Badalamenti. … Poi ho sentito del suo arresto e non ne ho saputo più niente.
P.M.: Lo incontrò per quale ragione?
Grado Gaetano: No, non è che ci siamo incontrati perché avevamo un appuntamento. Per un puro caso, così lì a Madrid, io ero su a Madrid un giorno stavo pigliando l’areo che mi stato trasferendo in un’altra città, sempre da latitante, e a lui lo incontrai lì vicino l’aeroporto. Poi dopo giorni ho sentito che lui è stato arrestato lì su a Madrid. Ma non è che ho avuto più la possibilità di incontrarlo, vederlo. … E’ stato casualmente, non è che avevamo un appuntamento su a Madrid.
P.M.: Sono passato latitante sulla Costa Azzurra, a Nizza, ci sono stato quasi 4 anni. Poi sono sceso giù a Palermo quando ho deciso di fargli la guerra contro Totò Riina e mi hanno arrestato nell’89 e ancora oggi sono carcerato.
Il Grado è stato altresì interpellato dalla difesa a proposito delle conversazioni in carcere sulla morte dell’Impastato riferite da Mutolo.
Avv. Gullo: … Lei conosce Gaspare Mutolo?
Grado Gaetano: Sì, lo conoscevo come “uomo d’onore” de … fa … facente la parte la famiglia di Saro Riccobono.
Avv. Gullo: Dove lo ha conosciuto se lo ricorda?
Grado Gaetano: Ma guardi Gaspare Mutolo che abbiamo fatto pure una carcerazione …. Assieme, perché ai tempi eravamo tutti concentrati quelli imputati per mafia all’Ucciardone di Palermo in infermeria, che avevamo una sezione tutta per noi, cioè un piano tutto per noi. L’ho conosciuto lì, lo vedevo altre volte giù a Palermo, lo incontravo spesso, ma non ci ho avuto mai niente a che … a che dividere o spartire.
Avv. Gullo: Con Mutolo non ha niente avuto da dividere e da spartire. Paralavate di omicidi o di altro con … con il signor Mutolo oppure no?
Grado Gaetano: Ma completamente non esisteva, perché ripeto la regola del … della vecchia mafia, di “cosa nostra”, non è che noi potevamo permettere che io incontravo un pinco pallino o un altro “uomo d’onore” di un’altra “famiglia” e ne … e parlavamo di fatti delittuosi, completamente non esisteva. Anche per non creare responsabilità ad altri o creare delle responsabilità personali.
Avv. Gullo: Giusto. Quindi non le parlò mai della morte o dell’omicidio o dell’incidente occorso a Giuseppe Impastato?
Grado Gaetano: No, no, completamente. Non avevo questi rapporti poi, lui faceva parte della famiglia di Saro Riccobono, io facevo parte a un’altra famiglia perciò non c’era poi questa … questa intimità di … di parlare di fatti delittuosi. Se io ne dovevo parlare, quando ne parlavo, con qualcuno della mia famiglia, appartenente alla mia famiglia.
Avv. Gullo: Certo. Quindi né Mutolo le parlò mai di questo caso Impastato né ne parlò mai lei a Mutolo, giusto?
Grado Gaetano: No, no, completamente.
Osserva la Corte che l’attendibilità del Grado, sia in generale che con riguardo alle dichiarazioni di cui sopra, va messa seriamente in discussione, anche tenuto conto che la genuinità del contributo di tale nuovo “dissociato” da “Cosa Nostra” – a quanto risulta – non è stata ancora acclarata da alcuna pronunzia emessa all’esito di altri giudizi.
Del resto, il Grado, rispondendo alle domande poste dal Presidente all’esito dell’audizione dibattimentale, ha inizialmente sostenuto, a proposito della genesi della sua collaborazione: “Cioè in pratica signor Presidente lei potrebbe dirmi ma non è da stupidi, io mi sono fatto tutta la carcerazione mia. Quando ho finito la mia carcerazione in pratica con i benefici e tutto io dovrei essere fuori, ancora oggi sono carcerato ….. Perché ripeto signor Presidente, anche per … per adito alla sorveglianza di dove mi trovavo a L’Aquila che in pratica io mi sono ripresentato. Perché ripeto tra il carcere che avevo fatto, perché tenga presente che io sono stato arrestato nell’89, 3 anni di condono mi hanno applicato, in pratica buona condotta che ho carceraria che mi dovrebbero applicare ancora oggi i giorni che non li ho chiesti io, io vado a finire a qualche 16 anni … 16 – 17 anni di carcere signor Presidente. E lei mi insegna che con le leggi di oggi una persona con 30 anni definitivi la pena è quella lì, in pratica ero scarcerato quasi signor Presidente e mi sono ripresentato a maggior ragione per questo qui, perché volevo andarmene all’estero non ne volevo sentire parlare. Quando ho capito che mi stavano per scarcerare, perché ero quasi arrivato, allora ho deciso di collaborare e la mia collaborazione, guardi signor Presidente, che non è indifferente perché io mi sto accusando di una serie di omicidi, appartenenti tutti … collegati con il signor Totò Riina e company. Non è che io gli ho fatto pochi omicidi al signor Riina … Io sono uscito per un intervento chirurgico. A pena sospesa … Mi hanno dato sei mesi di sospensione pena. … Quando ho finito la sospensione mi sono presentato un giorno prima … Stavo dicendo questo io ho avuto … non è che ho avuto la pena di trenta anni sospesa. Io ho avuto una sospensione pena …. Per avere l’intervento chirurgico … “.
Sennonché, lo stesso Grado, quando gli sono stati chiesti dal Presidente chiarimenti sulle sue pendenze giudiziarie al momento dell’inizio della collaborazione, ha nella sostanza rappresentato una situazione meno tranquillizzante, avendo fatto riferimento ad un procedimento instaurato a Varese – a suo di dire frutto di una ritorsione perpetrata dal P.M. di quella città – in cui si trovava accusato, unitamente a numerose altre persone, di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e di traffico delle medesime sostanze.
A ciò si aggiunga che, nell’intento di convincere la Corte della sicura estraneità del Badalamenti allo “attentato” in danno di Impastato, il Grado ha parlato di un’estromissione del boss di Cinisi da Cosa Nostra risalente a molti anni prima (egli ha risposto positivamente e senza mostrare alcun dubbio alla domanda della difesa: “Lei conferma che il signor Gaetano Badalamenti era fuori “famiglia” molti anni prima del 78, cioè intorno al 70, 71, 72, 73, conferma questa circostanza?”).
Ebbene, ciò non solo è smentito dalle risultanze acquisite nell’ambito del “maxi uno” e poi del “maxi quater” e dalle dichiarazioni di buona parte dei collaboratori escussi in questo processo, ma anche contrasta con quanto riferito in altro passo dallo stesso Grado, il quale aveva infatti agganciato detta estromissione alla vicende connesse all’uccisione del padre di Piddu Madonia, avvenuta nell’Aprile del ’78.
Né si comprende per quale motivo la regola della riservatezza su episodi come l’omicidio Impastato sarebbe stata rigorosamente rispettata in carcere (ove il Grado era ristretto con Mutolo e tanti altri importanti uomini d’onore) e non in occasione del successivo colloquio al bar con Pippo Calò, il quale in quel periodo si accingeva a passare nelle fila “corleonesi” e dunque fra gli antagonisti dello stesso Grado.
Così come è lecito ritenere che non sia stato casuale l’incontro fra il Grado e Gaetano Badalamenti a Madrid, in un periodo in cui entrambi erano in stato di latitanza, erano dovuti espatriare per sfuggire alle ritorsioni “corleonesi” e stavano organizzando una controffensiva.
Sul punto, il Grado, rispondendo alle domande del Presidente, ha ancora riferito: “Signor Presidente un giorno stavo io … perché stavo rientrando perché avevo deciso … sono stato in Spagna io per andarmene via da … dalla Spagna, per andare a stare ancora latitante nella Costa Azzurra. Mentre stavo per avviarmi all’aeroporto che ero su un taxi ho visto Badalamenti a piedi. Ho fatto fermare il taxi e ci sono andato incontro. Ci siamo salutati, gli ho detto che fai qui? Siamo stati una mezz’oretta e me ne sono andato, io per la mia strada e lui per la sua. Dopo quando ero in Francia nella Costa Azzurra ho pigliato il giornale e ho sentito che hanno arrestato Gaetano Badalamenti su a Madrid. Questo è stato tutto l’incontro”.
E l’inattendibilità di tali ultime affermazioni è avvalorata già dalla considerazione che non è plausibile che i due esponenti mafiosi frequentatisi in passato per diverso tempo ed entrambi della stessa fazione che aveva subito l’attacco “corleonese”, si fossero limitati in occasione dell’incontro a Madrid ad un saluto, senza che peraltro l’uno riferisse all’altro il motivo del proprio soggiorno in quel paese.
Né ancora può essere un caso che il Grado abbia ammesso il suo soggiorno in quel periodo a Nizza e cioè proprio in quella stessa città che costituiva punto di riferimento degli spostamenti del Badalamenti, così come si è accertato nell’ambito del “maxi uno” e del “maxi quater” ed emerge dalle dichiarazioni dell’imputato in sede di interrogatorio.
Ve ne è, dunque, abbastanza per ritenere le dichiarazioni del Grado non solo inattendibili, ma addirittura sospette di compiacenza.
Ma, se è vero che l’attendibilità delle notizie riportate dal Mutolo non può dirsi compromessa dalle mancate conferme provenienti dalle fonti di riferimento, rimane il fatto che solo tramite deduzioni può ipotizzarsi che alla base della circolazione di dette notizie vi fossero le confidenze dello stesso Badalamenti e di altri esponenti della sua famiglia, nell’ambito dei rapporti ancora intrattenuti, ad esempio, con il Riccobono ed i Micalizzi, ai quali i “corleonesi” faranno pagare nel Novembre 1982 la non tempestiva presa di distanza dal Badalamenti e più in generale da esponenti e boss mafiosi della fazione “perdente”.
Onorato Francesco, anch’egli facente parte della famiglia di Partanna Mondello, ma “combinato” solamente all’inizio degli anni ’80, ha parimenti riferito notizie apprese da Micalizzi Salvatore e Riccobono.
P.M.: … signor Onorato riferisca alla Corte quanto ricorda in relazione all’omicidio di Peppino Impastato, fatto avvenuto a Cinisi il 9 maggio del 78.
Onorato Francesco:Si. Per quanto riguarda Peppino Impastato era un omicidio fatto dalla famiglia di Cinisi, all’epoca era il capo mandamento che era Gaetano Badalamenti, cugino di Nino Badalamenti e dopodiché è stato ucciso, dove è che io ho fatto anche parte del “gruppo di fuoco” a Carini. Intimo di Badalamenti, sia di Nino Badalamenti che Gaetano Badalamenti, tutti Badalamenti, Impastato, i Gallina con il nostro mandamento di Partanna Mondello, di Rosario Riccobono. Era risaputo in … nel nostro mandamento che Gaetano Bdalamenti ha voluto l’omicidio di Peppino Impastato, anche in quanto io alle volte parlando con Salvatore Micalizzi sottocapo della famiglia di Partanna Mondello di Saro Riccobono, si parlava di questo omicidio voluto da Gaetano Badalamenti anche attraverso un discorso che era nato, perché c’era stata una lite nella pizzeria di questo fratello … del fratello di Peppino Impastato, poi parlò anche … Sì. Quindi io questo omicidio ne ho saputo, ne ho sentito parlare, sono venuto a conoscenza nel 79-80-81, se ne parlava. Poi verso l’81-82 ne parlavo con Saro Riccobono, con Salvatore Micalizzi, che era il sottocapo della famiglia, in quanto mi avevano detto che il responsabile di questo omicidio era la famiglia di Cinisi … di Terrasini.
P.M.: Lei ha saputo per quale ragione … fosse stato ordinato l’omicidio di Peppino Impastato?
Onorato Francesco: Sì, perché dava … era un … un ragazzo che dava fastidio alle famiglie mafiose di quel territori, voleva diciamo combattere “cosa nostra” e dava fastidio.
P.M.: … Lei ha detto di avere appreso alcune notizie relative a questo omicidio da Salvatore Micalizzi e Saro Riccobono. Le hanno indicato i mandanti ed eventualmente gli autori di questo omicidio? Chi lo ha ordinato, chi lo ha fatto?
Onorato Francesco: Diciamo che questo omicidio … come autori mi hanno detto che era un omicidio voluto da Gaetano Badalamenti, all’epoca “capo mandamento” del territorio, uno dei maggiori rappresentanti di “cosa nostra”.
P.M.:Le hanno fornito altri elementi?
Onorato Francesco: No, no, perché se ne parlò pure nel … nello stesso discorso … cioè se ne parlò pure quando si … si prese la decisione di uccidere Nino … il Badalamenti, quando è stata la guerra di mafia nell’81, 82, dove è che noi cercavamo i Badalamenti , i Gallina, Impastato qui a … su questo territorio.
E nel prosieguo della sua audizione l’Onorato ha continuato ad affermare che quanto riferito sull’omicidio Impastato lo aveva appreso da Riccobono e Micalizzi in diverse occasioni all’inizio degli anni ’80
Ciò posto, con riguardo all’audizione dell’Onorato non può che ribadirsi tutto quanto già evidenziato a proposito di quella del Mutolo.
Ad ogni modo, va rilevato che le dichiarazioni dei Brusca, di Mutolo e dell’Onorato si prestano tutte ad avvalorare il dato che, nonostante le notizie diffuse dagli organi di stampa sulla pista terroristica decisamente imboccata dai Carabinieri, in Cosa Nostra non si era creduto alla messa in scena, essendo noto quanto ancora potente fosse a Cinisi Gaetano Badalamenti e quanto Giuseppe Impastato si fosse esposto al pericolo di gravissime ritorsioni accusando detto boss.
E indicazioni in tal senso si traggono anche dalle dichiarazioni di Siino Angelo, il cui esame, con specifico riferimento alle notizie concernenti l’uccisione di Giuseppe Impastato, si è svolto come segue:
P.M.: … signor Siino, riferisca alla Corte di Assise tutto quello che sa relativamente all’omicidio di Giuseppe Impastato e se ha appreso notizie, fatti, circostanze da terze persone, specifichi da chi.
Siino Angelo: Esattamente questa è la cosa che effettivamente so, cioè ho appreso da altre persone … a qualcosa su questo omicidio e precisamente da tale Silvio Badalamenti che è un personaggio che conoscevo, era un mio buon conoscente, e che praticamente una volta, commentando, subito dopo … qualche tempo dopo l’omicidio dell’Impastato, mi disse che effettivamente .. ce la ficiru finiri con il fatto del “Tano seduto”, cioè me lo … mi fece capire che effettivamente … ce la ficiru finiri con il fatto del “Tano seduto”, cioè me lo … mi fece capire che effettivamente l’Impastato era stato ucciso per delle offese arrecate al Gaetano Badalamenti. Non abbiamo commentato altrimenti perché il Silvio Badalamenti era una persona abbastanza chiusa e effettivamente non mi disse altro. Fece anche alcuni apprezzamenti anche sulla madre del Badalamenti … dell’Impastato stesso … e la cosa finì lì.
P.M.: Senta Silvio Badalamenti le accennò al ruolo che aveva avuto in quel delitto Gaetano Badalamenti?
Siino Angelo: Ma mi disse che ce la fece finire, che effettivamente … parole molto così … non … non abbastanza chiare, ma abbastanza intendibili, mi disse ce la fecero finire con u fatto du “Tano seduto” e mi disse che era una persona che era figlia di gente buona … gente buona ma INCOMPRENSIBILE parlando e praticamente era un … personaggio che non doveva avere questo tipo di atteggiamento.
Omissis
P.M.: … quando fa riferimento alle notizie avute da Silvio Badalamenti, in che epoca ci troviamo?
Siino Angelo: Alla fine degli anni 70 …
P.M.: Può essere più preciso?
Siino Angelo: Intorno al … signora … poteva essere … diciamo che … 80 … 79, non … non riesco ad essere più preciso.
P.M.: … i suoi rapporti con Silvio Badalamenti erano frequenti, occasionali … e quando le ha raccontato dell’omicidio Impastato, dove vi trovavate, lo ricorda?
Siino Angelo: In macchina, stavamo andando in provincia di Trapani non mi ricordo bene per che cosa … il Silvio Badalamenti era imparentato anche con altro personaggio che io ben conoscevo, che era tale Vincenzo Randazzo, anche lui parente del Badalamenti, mi pare che fosse nipote ….”.
E va aggiunto che sebbene il Siino abbia precisato di non sapere se Silvio Badalamenti fosse uomo d’onore, quest’ultimo era pur sempre il figlio del fratello di Gaetano e dunque era nelle condizioni di rendersi ben conto di quanto intollerabile fosse divenuta la martellante azione di pubblica denunzia portata avanti a Cinisi dall’Impastato.
Né può sottacersi che, come si desume dall’allegata sentenza resa nell’ambito del “maxi uno”, anche Badalamenti Silvio pagherà con la vita i suoi rapporti con lo zio, ma solo allorquando nei primi anni ’80 prenderà corpo l’offensiva dei “corleonesi” nel territorio di Cinisi.
Anche il collaboratore Calderone Antonino ha riferito, per averlo appreso dal di lui fratello Giuseppe, che l’Impastato, nelle sue trasmissioni alla radio, “parlava male” di Gaetano Badalamente e lo derideva chiamandolo “Tano seduto”, sicché, sempre a dire di Giuseppe Calderone, il boss di Cinisi aveva ordinato l’omicidio di quel giovane.
Come chiarito da Antonino Calderone, suo fratello era giunto a tale conclusione poiché allorquando aveva richiesto a Tano Badalamenti se sapesse qualcosa di quel fatto costui si era messo a ridere.
Per comprendere bene il significato di tali dichiarazioni, occorre far presente che il boss di Catania Calderone Giuseppe non solo era uno dei più importanti esponenti di Cosa Nostra tanto da averne presieduto la “commissione regionale”, ma anche vantava intensi rapporti di amicizia, frequentazione ed “affari” con Gaetano Badalamenti.
Calderone Antonino, anche lui uomo d’onore, seguendo il fratello nei suoi viaggi a Palermo e coltivando i suoi stessi rapporti mafiosi, aveva così potuto frequentare il Badalamenti e tanti uomini d’onore della famiglia di Cinisi e di altre famiglie della Provincia di Palermo.
Proprio grazie a tali rapporti ed alle notizie apprese dal fratello, Calderone Antonino, una volta divenuto collaboratore, ha potuto fornire preziose informazioni per fare luce sulle vicende di Cosa Nostra negli anni Settanta, come emerge dalla lettura delle sentenze allegate.
Come è stato ribadito dal collaboratore nel corso dell’audizione davanti a questa Corte, suo fratello era ucciso l’8.9.78 dagli alleati dei “corleonesi” che allora si stavano facendo avanti anche a Catania, capeggiati da Nitto Santapaola, il quale quell’estate, una prima volta, aveva attentato alla vita di Calderone Giuseppe piazzandogli nell’auto una bomba, che poi, però, era stata disinnescata da tale Rampulla.
Proprio di questo attentato, a dire di Calderone Antonino, si era parlato con Badalamenti, Bontade e Riccobono in occasione di un ultimo incontro avvenuto nell’Estate 1978 in una villa fuori Palermo.
Ed ha ricordato il collaboratore che, all’esito di tale incontro, egli aveva accompagnato in auto il Badalamenti, il quale, ripetendo le parole di una canzone (“spara Gonzales, spara perché altrimenti gli altri sparano a te”), gli aveva fatto capire che avrebbero dovuto affrettarsi a difendersi e pertanto avrebbero dovuto uccidere presto Santapaola.
Ciò posto, va rilevato che a quella stessa estate può farsi risalire la “risata” del Badalamenti al cospetto di Calderone Giuseppe, alla richiesta di costui di notizie sull’omicidio Impastato appena consumato.
Tale episodio lucidamente ricordato da Calderone Giuseppe assume un significato che non va ricollegato alla mera interpretazione di una “risata” del Badalamenti, posto che i contatti fra quest’ultimo ed il boss di Catania erano allora tesi ad approntare una strategia difensiva comune rispetto ad attacchi esterni; sicché, se il Badalamenti non fosse stato sicuro della paternità dell’omicidio Impastato avvenuto nel suo territorio o meglio se non avesse egli stesso almeno “autorizzato” il delitto come necessariamente competeva al suo ruolo di capo, avrebbe ragguagliato l’alleato di una così allarmante invasione di campo, che peraltro aveva colpito un familiare di uomini della sua cosca ed avrebbe potuto fare scaturire imbarazzanti indagini e sospetti.
Rimangono adesso da esaminare, le dichiarazioni dei collaboratori Palazzolo Salvatore e Di Carlo Francesco, i quali hanno entrambi riferito di avere appreso notizie sull’omicidio da appartenenti alla famiglia di Cinisi che, in diverso modo, ne sarebbero rimasti coinvolti.
Quanto alle dichiarazioni di Palazzolo Salvatore, va ribadito che il contributo di costui, riguardante per lo più fatti e rapporti con altri esponenti mafiosi personalmente vissuti, è stato già esposto e positivamente valutato nella sentenza resa all’esito del “maxi quater”.
In questa sede, invece, occorre apprezzare l’attendibilità di dichiarazioni “de relato” che, come risulta dall’andamento e dalle contestazioni dei due esami dibattimentali e dagli altri verbali di audizione acquisiti, presentano una genesi e un’evoluzione del tutto particolare.
Segnatamente, emerge che il Palazzolo, all’inizio della sua collaborazione in data 18.9.93, rendendo interrogatorio, riferiva al P.M.:
“Per quanto concerne la morte di Impastato Giuseppe nulla so per diretta conoscenza. Credo che a quel tempo ero detenuto. Successivamente, quando divenni uomo d’onore, ebbi conferma dai discorsi che si facevano nella famiglia che non si era trattato di un incidente, ma di un omicidio e che vi era coinvolto un tale Finazzo Giuseppe, uomo assai vicino a Badalamenti Gaetano e che per questa sua vicinanza era stato ucciso negli anni ’80.Non ebbi mai percezione di altri particolari né avrei potuto fare domande”.
Sentito il 18 Novembre 1994, dichiarava però:
“Quanto ad altri fatti a mia conoscenza di cui intendo parlare, preciso che si tratta: … dell’omicidio di Impastato Peppino, del quale non avevo parlato prima solo perché nel mio intimo lo considero un fatto particolarmente riprovevole, e di ciò non ho mai avuto piena consapevolezza, se non adesso, perché ho avuto modo di riflettere. In realtà è difficile spiegare quello che penso, perché si tratta di valutazioni diverse di uno stesso fatto, dipendenti dalle diverse mentalità di un uomo d’onore e di chi ha scelto invece di combattere Cosa Nostra a costo di notevoli sacrifici. Il vice rappresentante della nostra famiglia, Palazzolo Vito, mi ha raccontato del fatto pochi anni fa, e solo allora ho saputo che il padre di quel ragazzo era un uomo d’onore appartenente alla famiglia di Tano Badalamenti. La cosa mi ha sorpreso, anche perché mi rendevo conto che lo stesso padre era in un certo modo responsabile della morte di quel ragazzo, ed è proprio ciò che mi ha fatto apparire l’episodio riprovevole. Sono infatti molto legato ai miei figli e non riesco a capire le ragioni di un fatto così grave. Anche di tale omicidio parlerò dettagliatamente in altra occasione, ma posso dire sin d’ora che, secondo quanto ho appreso dal Palazzolo, è stato voluto da Badalamenti Gaetano ed eseguito da Di Trapani Francesco e da Badalamenti Nino. Al momento del fatto io mi trovavo detenuto nel carcere dell’Ucciardone, sezione IV- infermeria. Era il 1976…”.
In occasione di altro interrogatorio in data 23 Febbraio 1995, Palazzolo Salvatore affermava:
“In ordine all’omicidio di Impastato Peppino confermo quanto già in precedenza dichiarato (interrogatorio del 18.11.94). Le notizie che ho riferito le ho apprese dal mio vice rappresentante Palazzolo Vito in un’epoca in cui trascorrevamo insieme la latitanza in una casa nella periferia di Cinisi e ciò dopo l’ultimo arresto di Badalamenti Tano. Io sono lontano parente di Palazzolo Vito e comunque con lo stesso ho sempre avuto molta confidenza e amicizia anche perché sono nato nella sua stessa strada e quindi egli mi conosce dalla nascita. Preciso inoltre che Palazzolo Vito ha sostituito Badalamenti Tano per tutti i periodi in cui questi è stato detenuto o al soggiorno obbligato; la conoscenza del Palazzolo sugli affari della famiglia di Cinisi è quindi estremamente precisa. Egli mi riferì che Impastato Peppino già da tempo dava fastidio a Badalamenti Tano con le trasmissioni radiofoniche e con le manifestazioni pubbliche che organizzava a Cinisi, nel corso delle trasmissioni radiofoniche accusava Badalamenti Tano di traffici di stupefacenti e di varie irregolarità in campo di appalti pubblici e nella gestione dell’aeroporto; egli non usava minimamente perifrasi o allusioni ma pronunciava le sue accuse indicando il Badalamenti con nome e cognome. Aggiunse il Palazzolo che avevano tentato più volte di far diminuire l’intensità di tali attacchi ma, l’Impastato, era andato avanti per la sua strada al punto che era stato deciso in una apposita riunione degli esponenti di spicco della famiglia di Cinisi era stata deliberata l’uccisone dell’Impastato. Tale delitto era stato per varie volte rinviato perché sino all’ultimo si cercava di evitarlo sperando in un mutamento dell’atteggiamento di Impastato. Si sperava inoltre di evitare al padre dell’Impastato questo dispiacere e ciò perché anch’egli era uomo d’onore della famiglia di Cinisi ….
ADR:
Sono a conoscenza sempre per averlo appreso da Palazzolo Vito, nella stessa occasione della quale ho testé parlato, di un viaggio negli Stati Uniti compiuto dal padre di Impastato Peppino in epoca di poco precedente all’omicidio di Peppino. Secondo il racconto di Palazzolo Vito, l’Impastato (padre di Peppino) chiese permesso a Badalamenti Tano di recarsi negli Stati Uniti “per rasserenarsi” e ciò in relazione al comportamento del figlio Peppino. In buona sostanza l’Impastato voleva allontanarsi da Cinisi sia perché “imbarazzato” per il comportamento del figlio sia soprattutto perché non era stato capace di farlo desistere dai suoi attacchi a Badalamenti Tano. Il viaggio negli Stati Uniti fu quindi effettuato e l’Impastato fu ospite di alcuni dei suoi numerosi parenti che abitavano negli U.S.A. Il Palazzolo Vito al termine del suo racconto mi disse che alla fine erano proprio stati costretti a commettere l’omicidio pur avendo tentato in ogni modo di evitarlo. Mi riferì che l’Impastato era stato prelevato “all’uscita della sede della radio” e ucciso. Era stato poi simulato l’attentato dinamitardo al treno all’ovvio scopo di depistare le indagini. Degli esecutori materiali furono Di Trapani Francesco e Badalamenti Antnino, entrambi deceduti, mentre è ancora in vita Palazzolo Salvatore detto “Turiddu” uomo d’onore nonché uomo di fiducia di Badalamenti Gaetano per tutti i fatti di sangue. La deliberazione di tale grave fatto criminoso è ovviamente da ascrivere a Palazzolo Vito che me ne ha personalmente parlato ed a Badalamenti Gaetano. Aggiungo che in epoca immediatamente successiva a tale omicidio venne indiziato tale Finazzo Giuseppe detto “u parrineddu”, uomo di fiducia di Badalamenti Gaetano ma non uomo d’onore. Ricordo ancora un titolo del giornale L’ORA tutto dedicato a questo Finazzo che però era del tutto estraneo a questo omicidio.
ADR:
Prendo atto che l’omicidio di Impastato Peppino è avvenuto nel 1978 mentre io ho dichiarato nel precedente verbale del 18.11.94 che appresi il fatto nel 76 in carcere, evidentemente si trattava di un ricordo errato visti gli anni trascorsi io, comunque, ricordo di avere appreso tale episodio mentre ero al carcere di Palermo …” (le stesse cose riferiva Palazzolo Salvatore rendendo altro interrogatorio in data 16.7.96).
Quest’ultima versione è stata sostanzialmente mantenuta ferma nel corso delle audizioni successivamente svolte nel contraddittorio, il 26.6.2000 nel procedimento per lo stesso fatto a carico di Palazzolo Vito e il 21.3.2001 e 23.10.2001 nell’ambito di questo procedimento.
L’epoca in cui Palazzolo Salvatore avrebbe appreso da Palazzolo Vito le notizie sull’omicidio è però rimasta assai approssimativa, posto che il dichiarante, più volte interpellato al riguardo, ha fatto riferimento ad un colloquio avvenuto, in un anno ricadente fra l’85 e il ’90, in concomitanza di un breve soggiorno nella casa di Terrasini, finalizzato a propiziare i contatti fra la cosca di Cinisi e quella di Alcamo rappresentata da Stabile Benedetto, emissario di Rimi Filippo.
All’impossibilità di fornire riferimenti temporali meno ampi, si è aggiunta l’indicazione, seppur ad un certo punto in termini dubitativi, di tale Badalamenti Manuele fra i soggetti della famiglia di Cinisi che, secondo il racconto di Palazzolo Vito, avrebbero eseguito il delitto.
La difesa inoltre non ha mancato di evidenziare talune discrasie del racconto rispetto a quanto si desume da altre risultanze: Peppino Impastato non era stato prelevato “all’uscita dalla sede di Radio Aut”; suo padre si era recato negli Stati Uniti ed era poi rimasto ucciso nell’incidente stradale a Cinisi, diversi mesi prima del Maggio 1978.
Ma, ciò che suscita maggiori perplessità e fa ritenere poco affidabili le dichiarazioni di Palazzolo Salvatore su tale episodio è il mutamento della versione da lui riferita all’inizio della collaborazione, con una successiva progressione accusatoria non plausibilmente spiegata.
Ed invero, al dichiarante nel corso delle audizioni dibattimentali è stato più volte richiesto per quale motivo, fino all’interrogatorio del 18.11.94, avesse riferito di avere appreso solo del coinvolgimento del Finazzo, così tacendo del tutto il contenuto del colloquio intercorso con Palazzolo Vito che poi avrebbe rappresentato senza mostrare dubbi.
A queste domande Palazzolo Salvatore, nel corso dell’audizione nel procedimento a carico di Palazzolo Vito, ha risposto come segue:
“Perché … ero un po’ confuso Presidente, nel senso di volere … di approfondirlo questo fatto. Poi ho cominciato a ricordare bene quelle poche parole che mi sono state dette, che è quello poi che risulta e allora ho detto ai Magistrati voglio dire come stanno le cose su questo fatto … Un problema un po’ emotivo, un po’ di memoria, un po’ di confusione che avevo in me stesso Presidente, perché sono stato … ho parlato di tante cose, di tanti anni, del 74, 75 a Trapani dove poi le Forze dell’Ordine hanno fatto il solo percorso di indagine foto elicotteri. Io … hanno riscontrati tutti i dati, l’Alta Italia, tutte le parti, cose molto vecchie dove sono alla conoscenza. Poi quando ho parlato di questo fatto, devo dire la verità, era indeciso a parlarne di questo Presidente, ero indeciso … Poi ho detto ma io devo dire tutto, se ho preso questa strada devo dire le virgole, perché è giusto dire le virgole. Perché sta “cosa nostra” è stata la “cosa nostra” che mi ha rovinato totalmente, non mi ha dato niente, mi ha dato solo infelicità …. Ma la perplessità era perché sapevo che era una cosa di tanti anni fa, di 10 anni, non so quanti anni avrà, 20 anni, quando ne ho parlato io già aveva credo 10 anni. Ho detto ma sta cosa vecchia, ormai sarà archiviata, chissà cosa mi diranno che io ste cose chissà come le dico, ma come mai? Ho detto ormai a lui non ci fanno … ormai questo fatto sarà archiviato, non sarà più un fatto di … riaprire a processo. Invece poi ho riflettuto ho detto no, io questo caso lo devo fare riaprire e lì ho cominciato a dire come stavano le cose per quello che io sapevo.
E va rilevato che nel corso della prima audizione svolta nel dibattimento di questo processo, ove l’argomento è stato approfondito dallo stesso P.M., Palazzolo Salvatore ha affermato: “Ma non ho parlato io di questo fatto di Impastato che … un po’ di vari motivi, uno perché … poteva essere magari non creduto, nel senso di dire a distanza di tutti questi anni, un altro perché non me la sentivo di parlare di questo Impastato per motivi di … di paura dei familiari che c’erano a casa mia, che potervi succedere una relazione di loro di potere ammazzare a qualcuno dei miei, avevo tanti problemi in quel momento, ero confuso in quel momento … se parlarne oppure no; dopodiché ho deciso di parlarne perché se ho detto tutto, è giusto che dicevo anche queste cose”.
Occorre, altresì, dare atto che, dagli stessi verbali di interrogatorio, emerge che Palazzolo Salvatore intorno al Febbraio ’94 aveva abbandonato il domicilio protetto recandosi in Germania, ivi era stato poi arrestato per essere ricondotto in Italia e rimanervi in stato detenzione carceraria nel periodo delle audizioni del 18.11.94 e del 23.2.95, nel corso delle quali avrebbe fornito la nuova versione su quanto a suo tempo appreso in ordine ai responsabili dell’omicidio Impastato.
Orbene, le diverse giustificazioni addotte in dibattimento da Palazzolo Salvatore a proposito del suo iniziale atteggiamento riguardo a detto delitto non solo sono di per sé poco credibili (nel corso dell’interrogatorio del 18.9.93 lo stesso non aveva mancato di parlare di altri fatti di sangue remoti e pertanto oggetto di procedimenti già archiviati, aveva accusato anche di omicidio Badalamenti Gaetano ed altri esponenti mafiosi ancora in stato di libertà, né aveva mancato di riferire in ordine a collusioni con la mafia ascrivibile ad alcuni rappresentati dell’Arma dei Carabinieri), ma anche contrastano con quei chiarimenti forniti dal medesimo Palazzolo nell’interrogatorio del 18.11.94, ove invece era stata rimarcata la natura riprovevole del fatto.
Ed anche queste prime affermazioni lasciano perplessi, poiché si era trattato di un omicidio che, diversamente da altri già riferiti, non aveva visto in alcun modo coinvolto Palazzolo Salvatore, il quale nel 1978 era ristretto in carcere e neppure era inserito nel clan mafioso.
Di talché, la valutazione dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni risulta compromessa dall’assenza di adeguati e rassicuranti chiarimenti sulle modalità contraddittorie della strutturazione nel tempo del contenuto delle accuse, tramite il riferimento a notizie apprese all’interno dell’ambiente mafioso in cui il dichiarante gravitava.
Ed infatti, a fronte di tale “rateizzazione” delle dichiarazioni se, da un lato, appare arduo ipotizzare occulte regie e premeditate calunnie, dall’altro, non può trascurarsi la possibilità che si tratti di ricordi labili e pertanto inizialmente non evidenziati (più o meno volutamente), ma che, ad un certo punto, magari di particolare difficoltà della collaborazione e forse nello sforzo di rilanciare l’importanza della stessa, sono stati di nuovo riesumati e rappresentati, con la coloritura dell’indicazione di determinate fonti e specifiche circostanze di fatto.
Ecco perché neppure potrà tenersi conto di quanto inizialmente detto da Palazzolo Salvatore a proposito del coinvolgimento di Finazzo Giuseppe contestualmente indicato come “uomo assai vicino a Badalamenti Gaetano” che all’epoca era il capo indiscusso della cosca.
Considerazioni completamente diverse vanno svolte in relazione all’attendibilità delle dichiarazioni di Di Carlo Francesco, come raccolte nel corso dell’audizione dibattimentale, senza che siano state mosse contestazioni dirette ad evidenziare versioni difformi nel tempo.
Al riguardo, va premesso che tale collaboratore, diversamente da Palazzolo Salvatore, all’epoca dei fatti che ci occupano, era un uomo d’onore con funzioni di comando nell’importante famiglia di Altofonte, che vantava intensi e risalenti rapporti mafiosi sia con Riina Salvatore, Brusca Bernardo e buona parte degli esponenti che rafforzeranno la fazione “corleonese”, sia con gli altri boss di prestigio in posizione però contrapposta, come Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti.
Come si dà atto nella sentenza resa all’esito del maxi quater ed è stato spiegato dal Di Carlo nel corso dell’audizione in questo processo, lo stesso grazie alla suddetta collocazione all’interno di Cosa Nostra aveva potuto personalmente rendersi conto della genesi e dell’evoluzione, nella seconda metà degli anni Settanta, di quella frattura da cui sarebbe scaturita, solamente nei primi anni Ottanta, la fase cruenta della seconda guerra di mafia: ci si riferisce alle tendenze egemoniche del Riina spalleggiato dal Provenzano e da altri; al conseguente progetto di isolare all’interno della Commissione il Badalamenti; ai contrasti con il Di Cristina cui lo stesso Badalamenti era molto legato; alla decisione di espellere quest’ultimo dal sodalizio mafioso.
Il Di Carlo, nel riferire questi fatti, giovandosi di un punto di osservazione diverso da quello a suo tempo assunto dai collaboratori prima di lui dissociatisi, ha offerto un contributo caratterizzato da significativi profili di novità, ma in linea con le pregresse emergenze ed in seguito confermato dalle rivelazioni di altri collaboratori ancora.
In questo ampio contesto della collaborazione si inseriscono le dichiarazioni rese dal Di Carlo su Badalamenti Gaetano e su altri importanti esponenti della sua famiglia, come Badalamenti Antonino, Di Trapani Francesco e Palazzolo Vito, con una specificazione di ruoli, ma anche di episodi, rapporti ed interessi mafiosi e non, che, tenuto conto dei riscontri acquisiti, dà piena contezza della personale conoscenza di quanto narrato (il collaboratore si è potuto soffermare anche sull’attività di vendita di materiale edile gestita da Badalamenti a Palermo; sui rapporti da costui intrattenuti con il commercialista Mandalari; sulle iniziative economiche inizialmente comuni al Badalamenti e ai “corleonesi”, anche nella zona di Cinisi; sugli interessi mafiosi riferibili alle cave del Finazzo, personaggio vicino al Badalamenti).
La prima fonte cui ha fatto riferimento il Di Carlo, nell’esporre quanto appreso sull’omicidio Impastato, è Nino Badalamenti, al quale era legato da sincera amicizia dai tempi del “Triunvirato”, quando costui era chiamato a sostituire il cugino inviato al soggiorno obbligato.
In particolare il collaboratore ha dichiarato che, pochi mesi dopo avere appreso dai giornali della morte di Giuseppe Impastato, aveva avuto modo di parlarne con Nino Badalamenti, in occasione di uno dei loro frequenti incontri risalenti pressappoco alla fine del 1978.
Il motivo che aveva spinto il collaboratore ad interpellare l’amico su tale vicenda era dovuto al fatto che “gli Impastato a Cinisi erano una famiglia molto rispettata, come erano i Badalamenti … come erano i Finazzo …. come erano i Palazzolo”, stante che diversi appartenenti alla famiglia Impastato, fra i quali Giacomo (che sarà ucciso proprio per la sua vicinanza a Badalamenti Gaetano), erano uomini d’onore.
Nino Badalamenti aveva così spiegato al Di Carlo che “a volte in qualche famiglia buona nasce una pecora nera” ed era proprio il caso del ragazzo di cui si parlava, il quale “aveva studiato un po’ … aveva idee di sinistra e mal sopportava “cosa nostra”, per lui … abusi … soverchierie e si permetteva di criticare la mafia …. persone di “cosa nostra” .. in particolare Gaetano Badalamenti”; sicché la cosca di Cinisi ed in particolare i suoi “dirigenti” erano stati costretti a prendere la travagliata decisione di uccidere il giovane, senza che gli uomini d’onore che con lui erano imparentati potessero far nulla per salvarlo.
Per salvaguardare “l’immagine” degli Impastato si era, però, eseguito il delitto in modo tale che non apparisse pubblicamente un omicidio e pertanto, dopo la soppressione della vittima, era stata approntata la messa in scena dell’attentato dinamitardo alla linea ferroviaria.
La delicatezza del caso aveva, inoltre, richiesto il diretto intervento nelle fasi esecutive di alcuni dei più affidabili esponenti della cosca, quali erano, per l’appunto, in quel periodo lo stesso Nino Badalamenti e Francesco Di Trapani, “figlioccio” del capo Badalamenti Gaetano.
E proprio a Francesco Di Trapani, il Di Carlo ha fatto riferimento a proposito delle notizie da lui ricevute a conferma di quanto aveva già appreso da Nino Badalamenti sulla morte di Giuseppe Impastato.
Secondo il collaboratore, con il Di Trapani, che conosceva e frequentava fin dagli anni ’60, si era soffermato sull’argomento poco tempo dopo, apprendendo altresì che “in famiglia, a livello di famiglia di Cosa Nostra …c’era stato un po’ di malumore”, anche perché diversi esponenti mafiosi di Cinisi si erano lamentati del fatto non era stato possibile trovare il modo di ridurre finalmente al silenzio quel giovane (risvolto questo che, invece, non era stato messo evidenza da Nino Badalamenti, il quale era solito mantenere maggiore riservatezza).
Queste sono, in sintesi, le informazioni sull’omicidio Impastato riportate dal Di Carlo, non senza la corretta specificazione che altri dettagli da lui rappresentati, attinenti in particolare alle modalità dell’esplosione che quella notte aveva straziato il corpo del giovane, erano stati invece appresi dalle notizie giornalistiche via via diffuse.
La scarna descrizione degli incontri e dei temi toccati con Nino Badalamenti e poi con il Di Trapani riflette né più né meno ciò che è possibile rammentare, a distanza di tanti anni, su simili argomenti.
Tali contatti si inseriscono in un contesto di relazioni e di confidenze fra uomini d’onore di per sé plausibile e perfettamente coerente con tutte le altre risultanze, tenuto conto di quanto emerso “aliunde” sulla collocazione nel panorama mafioso di tutti e tre i protagonisti.
E va rimarcato che il Di Carlo, a riprova della buona conoscenza degli interlocutori, ha offerto tutta una serie di notizie non solo sul conto di Nino Badalamenti, di cui ha ripercorso la carriera mafiosa fino al momento della morte, ma anche di Francesco Di Trapani, il quale solo dopo qualche tempo avrebbe consumato il suo tradimento ai danni del “padrino” Gaetano Badalamenti transitando nelle fila “corleonesi”, come si desume da quanto riferito da altri collaboratori.
E’ allora credibile, da un lato, che Nino Badalamenti e Ciccio Di Trapani si fossero interessati di un fatto di sangue che così intensamente coinvolgeva la cosca della quale erano qualificati esponenti, dall’altro, che il Di Carlo potesse chiedere ad entrambi notizie in merito alla vicenda ed avere raccontato la verità, sulla base di quanto dagli interlocutori appreso poco prima, in forza di un’esperienza vissuta.
E va anche aggiunto che il Di Carlo, per i precedenti rapporti con molti dei protagonisti dei fatti di particolare delicatezza, aveva buoni motivi per fissare bene in mente e, pertanto, per ricordare negli anni almeno il dato essenziale che, in effetti, era stato il vertice della famiglia di Cinisi, ancora saldamente in mano a Badalamenti Gaetano, ad assumere la sofferta decisione di uccidere Giuseppe Impastato con quelle particolari modalità e per ragioni altrettanto particolari.
Tutte queste considerazioni che supportano il giudizio di attendibilità intrinseca delle accuse “de relato” provenienti dal Di Carlo non possono ritenersi smentite dalla mera constatazione che coloro che rivelarono i fatti al collaboratore non sono più in vita, stante che in tali casi l’audizione della fonte di riferimento costituisce un momento di verifica non necessario né sufficiente e va, per altro verso, esperita solamente ove possibile e ritenuta utile dal giudice o richiesta da una delle parti, come si desume dalle disposizioni di cui all’art. 195 c.p.p.
E’ invece ben più importante rilevare che il racconto del Di Carlo, avuto riguardo in particolare ai retroscena del fatto e alla responsabilità decisionale di Badalamenti Gaetano, risulta confermato dalle altre risultanze di diversa natura e provenienza in precedenza evidenziate, che – come si è visto – complessivamente considerate, assumono già un non trascurabile significato indiziario a carico dell’imputato e, conseguentemente, ben possono rivestire il carattere di riscontro “individualizzante” alla chiamata in reità proveniente dal Di Carlo.
Essa allora, superando positivamente la verifica dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca di cui al comma III dell’art. 192 c.p.p., assume un’efficacia dimostrativa idonea a completare il quadro indiziario.
A tal riguardo occorre ancora una volta evidenziare che l’eterogeneo, ma armonico complesso di elementi acquisiti, cui si saldano perfettamente le accuse del Di Carlo, consente di affermare che:
l’unico plausibile movente è riconducibile ad interessi facenti capo direttamente al boss Badalamenti Gaetano, il quale, anche per ragioni di immagine, aveva l’impellente esigenza di ridurre al silenzio Impastato Giuseppe ed avrebbe potuto farlo solamente uccidendolo;
l’imputato era il capo della potente e ramificata famiglia di Cinisi, che all’epoca dei fatti si muoveva compatta e governava incontrastata il territorio in cui fu consumato il delitto, senza che ancora fossero messe in atto invasioni di campo da parte o in forza di direttive dei componenti di altre famiglie di Cosa Nostra ed in particolare di quelle che facevano capo ai “corleonesi” Riina e Provenzano; di talché questi ultimi, come confermato dalla lettura complessiva delle dichiarazioni dei collaboratori, nel caso specifico non ebbero alcun ruolo;
le peculiari modalità di esecuzione del delitto vanno ricondotte all’apparato di uomini, conoscenze e mezzi a disposizione nella zona solamente della cosca di Cinisi capeggiata dall’imputato (si consideri, fra l’altro, la capacità di maneggiare il notevole quantitativo di esplosivo proveniente dalle cave del luogo, alcune delle quali di fatto nella disponibilità di Badalamenti Gaetano e comunque dei suoi sottoposti);
lo stesso Badalamenti, essendo colui che avrebbe potuto essere subito sospettato dell’omicidio sia dagli inquirenti che nell’ambiente di Cinisi (si ricordi quanto si è rilevato a proposito dei rapporti intercorsi fra esponenti di Cosa Nostra ed i congiunti della vittima), aveva quel particolare interesse affinché fosse accuratamente predisposta e poi attuata la complessa messa in scena dell’attentato, così salvaguardando anche l’esigenza di tutelare l’onore degli Impastato a lui vicini.
A tutto ciò si aggiunga quanto emerso sull’attività di controllo quella notte dei movimenti degli amici della vittima, proprio nelle ore in cui può farsi risalire il delitto; attività plausibilmente attribuibile a Pizzo Salvatore, soggetto da ritenersi vicino a Badalamenti Gaetano, alla stregua delle indicazioni a suo tempo fornite da Lo Duca Vito.
Ed in questo contesto neppure vanno trascurate, quali dati a supporto di un già pregnante complesso indiziario, le non casuali notizie in precedenza apprese dagli Amenta (in contatto, guarda caso, con il Finazzo, “socio” del Badalamenti e per questo parimenti accusato dall’Impastato) circa un grave evento puntualmente verificatosi.
Così come deve ribadirsi che non senso significato appaiono, nella drammatica sequenza dei fatti, le ultime iniziative di Impastato Luigi, il quale, da un lato, non mancava di manifestare in occasione del viaggio negli USA, rimasto senza spiegazioni per i familiari, le forti preoccupazioni nutrite per l’incolumità del figlio, risoluto più che mai a denunziare le malefatte mafiose; dall’altro, continuava a mantenere, prima e dopo il viaggio di cui sopra, i risalenti contatti con gli esponenti mafiosi di Cinisi ed in particolare con l’imputato ed il suo sottocapo Palazzolo, al plausibile scopo di ammorbidire la posizione del boss che tanto era stato oltraggiato dal giovane Impastato.
Il quadro probatorio che, allora, può ritenersi validamente acquisito conferma pienamente la particolare matrice mafiosa del delitto e soprattutto consente di sciogliere quelle residuali perplessità fatte proprie dal G.I. nella sentenza del 19.5.84, a causa dell’assenza all’epoca di notizie che potessero fare escludere l’iniziativa inconsulta di singoli e, al contempo, illuminare in ordine al processo decisionale, onde giungere a conclusioni certe sulle responsabilità individuali.
Oggi, invero, anche grazie alle dichiarazioni dei collaboratori, non solo si è potuto restringere il cerchio della responsabilità alla cosca di Cinisi ed escludere ogni ipotesi di colpi di mano, ma anche è rimasto accertato che Badalamenti Gaetano, avvalendosi delle prerogative di capo di detta famiglia, decise l’omicidio e la sua esecuzione con quelle particolari modalità, essendo il maggiore interessato sia all’eliminazione del giovane, che alla successiva messa in scena dell’attentato; cosicché il composito quadro indiziario, per la sua gravità, precisione ed univocità, impedisce ogni altra lettura alternativa.
Alla stregua di tutte le considerazioni svolte, va pertanto affermata la responsabilità del Badalamenti in ordine al delitto di omicidio aggravato dalla premeditazione allo stesso ascritto al capo a), senza che sussistano i presupposti per la concessione di attenuanti ed in particolare di quelle generiche, tenuto conto della personalità dell’imputato, del riprovevole movente e dell’efferatezza della condotta.
Ne consegue la condanna di Badalamenti Gaetano alla pena dell’ergastolo, a quelle accessorie dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e legale durante l’espiazione della pena e della pubblicazione della sentenza, nonché al pagamento delle spese processuali.
L’imputato va, altresì, condannato al risarcimento del danno cagionato alle parti civili Bartolotta Felicia, Impastato Giovanni, Comune di Cinisi in persona del Sindaco pro-tempore e Regione Siciliana, in persona del Presidente pro-tempore; danno il cui esatto ammontare deve essere determinato dal competente giudice civile; mentre in questa sede la prova già raggiunta consente di assegnare ai congiunti Bartolotta Felicia ed Impastato Giovanni, una provvisionale da determinarsi in 150.000 euro per la prima e 100.000 euro per il secondo.
Infine, il Badalamenti deve essere condannato a rifondere le spese processuali sostenute dalle parti civili, che vanno liquidate in favore di Bartolotta Felicia ed Impastato Giovanni in complessivi 35.000 euro, in essi compresi 25.000 euro per onorario, oltre IVA e C.P.A., nonché in favore del Comune di Cinisi e della Regione Siciliana in complessivi 5.000 euro ciascuno, in essi compresi 4.000 euro per onorari.
In ordine ai delitti di detenzione e porto illegale di esplosivo aggravati ai sensi dell’art. 61 n. 2 c.p. (contestati al capo b), deve invece essere emessa pronunzia di non doversi procedere perché i reati sono estinti per prescrizione, essendo decorso dalla data del fatto il termine di cui all’art. 157 n. 2 c.p. e dovendosi rilevare che ove si fosse avverata una delle ipotesi di interruzione della prescrizione previste dall’art. 160 comma II c.p., tuttavia non potrebbe che prendersi atto della maturazione anche del termine di cui al comma III dello stesso articolo.
Ai sensi dell’art. 544 c.p., tenuto conto della gravità degli addebiti, il termine per il deposito della sentenza va fissato in giorni novanta.

P.Q.M.
Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p.;
DICHIARA
Badalamenti Gaetano colpevole del reato di omicidio premeditato di cui al capo a) della rubrica e lo condanna alla pena dell’ergastolo, nonché al pagamento delle spese processuali;
DICHIARA
l’imputato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e legalmente interdetto durante l’espiazione della pena, ordinando la pubblicazione per estratto della presente sentenza, per una sola volta ed a spese del condannato, sui quotidiani “Il Giornale di Sicilia” e “La Repubblica” e mediante l’affissione nell’albo del Comune di Palermo ed in quello del Comune di Cinisi.
Visti gli artt. 538 e segg. c.p.p.;
CONDANNA
Badalamenti Gaetano al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, Bartolotta Felicia, Impastato Giovanni, Comune di Cinisi in persona del Sindaco pro-tempore e Regione Siciliana, in persona del Presidente pro-tempore, rimettendo le parti per la liquidazione dei danni dinanzi al giudice civile ed assegnando a Bartolotta Felicia ed Impastato Giovanni una provvisionale che determina in 150.000 euro per la prima e in 100.000 euro per il secondo.
CONDANNA
altresì, l’imputato alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle dette parti civili, liquidandole in favore di Bartolotta Felicia ed Impastato Giovanni in complessivi 35.000 euro, in essi compresi 25.000 euro per onorario, oltre IVA e C.P.A. come per legge, nonché in favore del Comune di Cinisi e della Regione Siciliana, d’ufficio, in complessivi 5.000 euro ciascuno, in essi compresi 4.000 euro per onorari.
DICHIARA
non doversi procedere nei confronti di Badalamenti Gaetani in ordine al reato continuato di cui al capo b) della rubrica, perché estinto per prescrizione.
Visto l’art. 544 c.p.p.,
INDICA
il termine di giorni novanta per il deposito della sentenza.