Sentenza di condanna per Vito Palazzolo
Sentenza di condanna per Vito Palazzolo
TRIBUNALE CIVILE E PENALE DI PALERMO
CORTE DI ASSISE
Sezione Terza
N. 33/1999 R.G. C. Assise
N. 07/2001 Reg. Ins. Sent.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
L’anno duemilauno il giorno 05 del mese di marzo, la Corte di Assise di Palermo, nell’Aula delle pubbliche udienze,
Sezione Terza composta dai signori:
1.dott. Angelo MONTELEONE, Presidente
2. dott. Angelo PELLINO, Giudice
3. sig. Giuseppe DE FRANCESCA, Giudice Popolare
4. sig. Vincenzo RESTIVO, Giudice Popolare
5. sig.ra Marina LA ROSA, Giudice Popolare
6. sig. Giuseppe MANNONE, Giudice Popolare
7. sig. Aldo DI VITA, Giudice Popolare
8. sig. Alfonso MOSCATO, Giudice Popolare
Con l’intervento del Sostituto Procuratore della Repubblica dott.ssa Franca Maria Rita IMBERGAMO e con l’assistenza del Cancelliere dott.ssa Valeria BERGAMINI riunita in Camera di Consiglio ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
nel procedimento penale
CONTRO
PALAZZOLO Vito fu Vito e fu Vitale Rosalia, nato a Cinisi il 29/09/1917. Arresti dom. il 29.05.1998 a seguito dell’ordinanza di custodia cautelare n. 2013/95 N. C. e n. 1504/96 G.I. P. e n. 2056/97 Lib. – Scarcerato il 20.02.2001 per dichiarata cessazione dell’efficacia della misura cautelare – detenuto per altro presso la Casa Circondariale di Termini Imerese.
Difeso di fiducia dall’avvocato Paolo Gullo – Presente
DETENUTO per altro PRESENTE
PARTI CIVILI COSTITUITE:
BARTOLOTTA Felicia ved. Impastato, nata a Cinisi il 24.05.1916, rappresentata e difesa dall’avv. Vincenzo GERVASI del foro di Palermo, come da procura speciale in calce all’atto di costituzione di parte civile del 15.12.1989.
IMPASTATO Giovanni nato a Cinisi il 26./06.1953, rappresentato e difeso dall’avv. Vincenzo GERVASI del foro di Palermo, come da procura speciale in calce all’atto di costituzione di parte civile del 15.12.1989.
COMUNE DI CINISI in persona del Sindaco pro-tempore Salvatore Mangiapane, rappresentato e difeso dall’avv. PALAZZOLO Leonardo, come da procura speciale in calce all’atto di costituzione di parte civile del 3.03.1999, elettivamente domiciliato presso lo studio del predetto Avvocato, sito in Palermo Via L. Ariosto n. 34.
PRESIDENZA REGIONE SICILIANA in persona del Presidente pro-tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Palermo, come da procura speciale in calce all’atto di costituzione di parte civile depositata all’udienza del 15.10.1999, elettivamente domiciliata in Palermo Via A. De Gasperi n. 81.
IMPUTATO
del reato di cui agli artt. 110, 575, 577 n. 3 c. p. per avere (con Badalamenti Gaetano nei cui confronti si procede separatamente) quali ideatori e mandanti, in concorso tra loro e con ignoti esecutori materiali cagionato, con premeditazione, la morte di Giuseppe Impastato, con l’uso di materiale esplosivo del tipo dinitrotoluene la cui deflagrazione dilaniava la vittima provocandone l’immediato decesso.
del reato di cui agli artt. 81 cpv., 110 c. p., 2 e 4 legge 2 ottobre 1967 n. 895 e succ. mod.; 61 n. 2 c. p., per avere (in concorso con Badalamenti Gaetano nei cui confronti si procede separatamente) e con ignoti, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, al fine di commettere il delitto di omicidio di cui al capo che precede, illegalmente detenuto e portato in luogo pubblico materiale esplosivo del tipo dinitrotoluene.
Fatti commessi in Cinisi il 9 maggio 1978, e allo scopo di agevolare il conseguimento dei fini illeciti dell’associazione criminale denominata Cosa Nostra, avvalendosi della forza di intimidazione e della condizione di assoggettamento ed omertà che derivava dalla loro partecipazione alla predetta associazione mafiosa, nell’ambito della quale, all’epoca dei fatti, il BADALAMENTI Gaetano rivestiva il ruolo di capo della famiglia mafiosa di Cinisi e il PALAZZOLO Vito quella di sotto-capo della stessa.
CONCLUSIONI DEL PUBBLICO MINISTERO:
Chiede affermarsi la penale responsabilità dell’imputato Palazzolo in ordine ai reati allo stesso ascritti e ritenuti gli stessi unificati dal vincolo della continuazione e la condanna dello stesso, ai sensi della nuova disciplina del giudizio abbreviato, alla pena dell’ergastolo.
CONCLUSIONI DEI DIFENSORI DELLE PARTI CIVILI COSTITUITE:
L’avv. Fabio CASERTA difensore della parte civile Presidenza della Regione Siciliana, chiede affermarsi la penale responsabilità dell’imputato per i reati ascritti e condannare lo stesso al risarcimento dei danni non patrimoniali arrecati alla Regione Siciliana, quantificati in 1.000. 000. 000, o in quella somma maggiore o minore che sarà ritenuta di giustizia.
L’avv. Giangiacomo PALAZZOLO sostituto processuale dell’avvocato Leonardo Palazzolo, difensore della parte civile Comune di Cinisi, chiede affermarsi la penale responsabilità dell’imputato per i reati ascritti e condannare lo stesso al risarcimento dei danni la cui quantificazione lascia alla determinazione della Corte.
L’avv. Vincenzo GERVASI difensore delle parti civili Bartolotta Felicia e Impastato Giovanni, chiede affermarsi la penale responsabilità dell’imputato per i reati ascritti e condannare lo stesso al risarcimento dei danni non patrimoniali arrecati, quantificati in £. 6.000.000.000 per Bartolotta Felicia e £. 6.000.000.000 per Impastato Giovanni o di quella somma maggiore o minore che verrà accertata od in quella misura che riterrà equa la Corte, con una provvisionale immediatamente esecutiva per £. 1.500.000.000 per Bartolotta Felicia e £. 1.500.000.000 per Impastato Giovanni. Condannare altresì l’imputato al pagamento delle spese legali quantificate in £. 175.599.900 oltre £. 60.000 per spese.
CONCLUSIONI DEL DIFENSORE DELL’ IMPUTATO:
L’avv. Paolo GULLO chiede in via principale l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non sussiste e in via subordinata l’assoluzione per non aver commesso il fatto.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto emesso dal G.U.P di questo Tribunale in data 19.04.99, PALAZZOLO Vito, come sopra generalizzato, veniva rinviato a giudizio dinanzi a questa Corte per rispondere del delitto di omicidio premeditato commesso, in qualità di mandante e in concorso con BADALAMENTI Gaetano, nonché con ignoti esecutori materiali, ai danni di IMPASTATO Giuseppe; e del connesso reato di porto e detenzione illegali di materiale esplodente del tipo dinitrotoluene: delitti commessi a Cinisi (PA) il 9 maggio 1978, e come in epigrafe specificati.
All’udienza del 15.10.1999, si costituiva parte civile, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro-tempore, la Regione Sicilia. A tale costituzione si opponeva la difesa dell’imputato che chiedeva altresì l’estromissione dal processo delle altre parti civili (già costituitesi all’udienza preliminare), fatta eccezione per i prossimi congiunti (la cui posizione processuale era stata stralciata all’udienza preliminare) della vittima.
La Corte, accogliendo un’articolata richiesta del P.M., disponeva un congruo rinvio in vista della possibilità di riunire il procedimento a quello pendente a carico del coimputato BADALAMENTI Gaetano, la cui posizione processuale era stata stralciata per legittimo impedimento del medesimo imputato, in quanto detenuto negli Stati Uniti per espiazione di una lunga pena detentiva comminatagli dall’Autorità Giudiziaria statunitense per il reato di traffico internazionale di stupefacenti, in esito al processo denominato “Pizza Connection”.
Dalla documentazione prodotta dal P.M. risultava infatti che la competente Autorità statunitense, pur essendo restia a concedere l’estradizione anche al solo fine e per il tempo necessario a consentire la partecipazione dell’imputato BADALAMENTI al processo a suo carico, era invece disponibile a collaborare per la celebrazione del processo a distanza, con il sistema della video-conferenza, in base al Trattato bilaterale di mutua assistenza in materia penale, vigente tra L’Italia e gli Stati Uniti d’America (Cfr. Nota 17.05.99 del Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti, prodotta, unitamente al carteggio parimenti prodotto e relativo alla domanda di estradizione ritualmente avanzata nei confronti dello stesso BADALAMENTI).
All’udienza del 26.01.2000, preliminarmente il P.M. specificava il capo d’imputazione relativo al delitto di omicidio, contestando al PALAZZOLO di averlo commesso “allo scopo di agevolare il conseguimento dei fini illeciti dell’associazione criminale denominata Cosa Nostra, avvalendosi della forza di intimidazione e della condizione di assoggettamento ed omertà che derivava dalla loro partecipazione alla predetta associazione mafiosa, nell’ambito della quale, all’epoca dei fatti, il BADALAMENTI Gaetano rivestiva il ruolo di capo della famiglia mafiosa di Cinisi e il PALAZZOLO Vito quella di sotto-capo della stessa”.
L’imputato, a sua volta, chiedeva di essere giudicato nelle forme e nei modi del giudizio abbreviato, ai sensi dell’art. 223 del D. Lgs n. 51 del 1998. Indi, le parti civili già costituite – e segnatamente: l’avv. CRESCIMANNO per l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia; L’avv. Giangiacomo PALAZZOLO per il Comune di Cinisi; l’avv. GERVASI per il Centro Siciliano di Documentazione; l’avv. SORRENTINO per il Partito di Rifondazione Comunista – e delle quali la difesa dell’imputato chiedeva l’estromissione dal processo, insistevano sulle ragioni della rispettiva costituzione.
La Corte si riservava su tutte le questioni proposte, ivi compresa l’eventuale necessità di integrazione degli atti ai fini del giudizio abbreviato, rinviando all’udienza del 4.05.2000. Nelle more il P.M. provvedeva al deposito di tutti gli atti contenuti nel proprio fascicolo, inclusa la documentazione relativa all’attività integrativa d’indagine svolta dopo l’emissione del decreto di rinvio a giudizio (Cfr. vol. 17 e ivi atti acquisiti al fascicolo del P.M. in data 5.10.99).
Con ordinanza emessa all’udienza del 4.05.2000, la Corte ammetteva la costituzione di parte civile della Regione Sicilia, mentre disponeva l’estromissione dell’Ordine dei Giornalisti, del Partito della Rifondazione Comunista e del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe IMPASTATO”.
Sulla richiesta di giudizio abbreviato avanzata dall’imputato, la Corte, verificati i presupposti di cui all’art. 223 D. Lgs. 51/98, disponeva, a titolo di integrazione probatoria, l’acquisizione dei seguenti atti:
copia della sentenza emessa dalla Prima Sezione del Tribunale di Palermo nell’ambito del processo a carico di ALFANO Michelangelo e altri (c.d. Maxi-Quater), passata in giudicato;
verbali degli interrogatori resi da BUSCETTA Tommaso nel periodo luglio-settembre ’84;
verbale delle dichiarazioni rese da MARCHESE Giuseppe nel processo ALFANO;
certificato penale e per carichi pendenti relativo all’imputato PALAZZOLO Vito.
Disponeva inoltre l’esame (in video-conferenza) dei collaboratori di Giustizia PALAZZOLO Salvatore, MARCHESE Giuseppe e DI CARLO Francesco.
Sono stati quindi acquisiti i verbali degli interrogatori resi da Tommaso BUSCETTA in data 23.07.84 e 18.08.84, nonché gli stralci prodotti dalla difesa dell’imputato degli interrogatori dello stesso BUSCETTA in data 21.07.84 e 1.08.84. Ed inoltre, il verbale delle dichiarazioni rese da MARCHESE Giuseppe all’udienza 27 marzo 1996 nell’ambito del processo ALFANO e i verbali degli interrogatori resi al G.I. dallo stesso MARCHESE sempre nell’ambito di quel procedimento.
Il P.M. ha inoltre prodotto copia dei verbali non omissati degli interrogatori resi dal collaboratore di giustizia PALAZZOLO Salvatore in data 18.11.94 e 23.02.94; nonché copia del verbale relativo alle dichiarazioni rese dallo stesso PALAZZOLO all’udienza dibattimentale del 18.12.95 nell’ambito del processo ALFANO.
Si è quindi proceduto all’esame dell’imputato di reato connesso PALAZZOLO Salvatore, all’udienza del 26.06.2000; ed alla successiva udienza del 29.09.2000 è stata la volta del collaboratore di Giustizia MARCHESE Giuseppe, mentre DI CARLO Francesco non si è presentato adducendo (tramite il proprio difensore) di essere impedito per ragioni di salute. Alla stessa udienza la difesa dell’imputato ha prodotto un documento in lingua inglese a firma dell’avv. Donald KEMPSTER, Attorney at Law con studio in Chicago in cui si asserisce che Vito BADALAMENTI (figlio di Gaetano) fu arrestato il 7 aprile 1984 ed estradato negli Stati Uniti nel marzo del 1985: ivi processato e assolto, fu rimesso in libertà il 19 settembre 1988. A seguito del contrasto insorto tra le parti in ordine all’ammissibilità e comunque all’attendibilità di tale documento, volto a comprovare, nelle intenzioni della difesa, che il suddetto BADALAMENTI, arrestato insieme al padre Gaetano a Madrid, nell’ambito di un’operazione di polizia concernente un traffico internazionale di stupefacenti e sfociata poi nel processo Pizza Connection, rimase detenuto nelle carceri statunitensi fino alla data appunto del 19 settembre 1988 e quindi per quattro anni e cinque mesi (e ciò al fine di provare documentalmente l’inattendibilità di quanto asserito dal collaboratore PALAZZOLO Salvatore circa l’epoca in cui si sarebbe incontrato con i figli di Gaetano BADALAMENTI, tra cui il predetto Vito, per ri-organizzare con loro un traffico di cocaina), la Corte ha disposto acquisirsi con il mezzo della rogatoria internazionale informazioni presso le competenti autorità statunitensi per appurare la data in cui fu rilasciato il Sig. BADALAMENTI Vito, di Gaetano, già arrestato nell’ambito del procedimento Pizza Connection il 7 aprile 1984 a Madrid.
Alla successiva udienza del 19 ottobre 2000, il DI CARLO si è presentato ma si è avvalso della facoltà di non rispondere. La Corte ha rinviato ancora per gli adempimenti connessi alla richiesta di rogatoria. Alla successiva udienza dl 19.12.2000, fissata anche per l’inizio della discussione, è stato disposto un nuovo rinvio non essendo ancora pervenute le informazioni richieste. Solo in data 11 gennaio 2001 è stata trasmessa con apposita Nota del Ministero della Giustizia la documentazione acquisita in evasione alla richiesta di rogatoria.
Indi, all’udienza del 22.01.2001, dopo che la Corte ha dato atto che erano pervenute le informazioni richieste, il P.M. ha prodotto le pagg. 46 e 47 della trascrizione del verbale di interrogatorio reso da SIINO Angelo in data 13 agosto 1997, verbale già agli atti, ma privo delle due pagine predette che concernevano proprio circostanze afferenti all’omicidio IMPASTATO, peraltro riportate nel verbale riassuntivo ritualmente depositato. Il P.M. ha chiesto altresì, sollecitando i poteri istruttori della Corte ex art. 507, di voler risentire il collaboratore di Giustizia PALAZZOLO Salvatore sulla circostanza oggetto della rogatoria internazionale, facendo presente che sulla stessa egli aveva già reso dichiarazioni perspicue nel corso dell’esame dibattimentale cui era stato sottoposto in data 18.12.95, nell’ambito del processo ALFANO e altri. Ed infine ha chiesto l’acquisizione della relazione della Commissione parlamentare Antimafia, depositata in data 6 dicembre 2000 a conclusione dell’inchiesta parlamentare su presunte deviazioni, omissioni, negligenze o dolosi atti di inquinamento perpetrati da apparati e servizi dello Stato proprio nell’ambito delle indagini sull’omicidio IMPASTATO.
La Corte, sentite le parti, ha rigettato la richiesta di una nuova audizione del collaboratore PALAZZOLO, mentre ha disposto l’acquisizione delle pagine mancanti del verbale di interrogatorio di SIINO Angelo e della relazione della Commissione Parlamentare Antimafia: quest’ultima in quanto utilizzabile “esclusivamente nelle parti che si risolvono in una rigorosa ricognizione o nella ricostruzione fattuale di dati, circostanze, di elementi privi di ogni connotato valutativo o quanto meno di quel connotato valutativo che spetta…che rientra nel compito della Corte, cioè in ultima analisi il giudizio sulla responsabilità, il giudizio sulla fondatezza delle imputazioni”.
All’udienza del 23.01.2001, dopo che la difesa dell’imputato ha prodotto due certificati storici anagrafici relativi allo stato di famiglia di PALAZZOLO Salvatore ha avuto inizio la discussione con la requisitoria del P.M., cui hanno fatto seguito gli interventi dei difensori delle parti civili. Indi, alle udienze del 5.02.2001 e del 2.03.2001 la difesa dell’imputato ha svolto la sua arringa. Alla stessa udienza del 2.03.2001, preliminarmente, sono state acquisite due memorie già depositate, nelle more, dalla difesa del PALAZZOLO e i relativi allegati, concernenti stralci dei verbali di udienza relativi alle deposizioni rese da alcuni testi escussi nel processo “parallelo” in corso di svolgimento dinanzi alla Prima Sezione della Corte d’Assise di Palermo a carico di Gaetano BADALAMENTI (e segnatamente quelle del prof. PROCACCIANTI, di MANIACI Anna e del fratello della vittima IMPASTATO Giovanni); nonché verbali di ispezioni dei luoghi, di S.I. e altri atti di indagine che peraltro si trovavano già contenuti nel fascicolo del P.M. ritualmente acquisito dopo che è stata disposta la definizione del processo nelle forme del giudizio abbreviato; ed ancora, stralcio del rapporto giudiziario di denunzia in data 27/11/83, a firma del C. te della Compagnia dei Carabinieri di Partitico, nei riguardi di 19 soggetti indiziati del reato di associazione mafiosa(e distinti tra appartenenti al clan definito emergente e affiliati al clan BADALAMENTI), tra i quali LIPARI Giuseppe, ivi indicato come affiliato allo schieramento facente capo a Bernardo PROVENZANO. A sua volta il P.M. ha prodotto schede di polizia relative alla posizione giuridica e ai precedenti giudiziari dell’imputato e di LIPARI Giuseppe; nonché la sentenza passata in giudicato il 3.02.2000, emessa dalla Prima Sezione della Corte d’Assise di Palermo nel processo a carico di GRECO Michele + 7, relativo ad alcuni omicidi commessi ai danni di presunti affiliati al clan BADALAMENTI: atti che sono stati acquisiti con il consenso delle altre parti.
All’udienza del 5.03.2001, dopo una breve replica dell’avv. GERVASI e dell’avv. GULLO, sulle conclusioni formulate dal P.M. e dai difensori tutti come da verbali in atti, la Corte ha posto la causa in decisione e dopo aver deliberato in camera di consiglio, ha emesso la seguente decisione.
1. MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1. PREMESSA: SUL FATTO E SUL RITO
Alle prime luci dell’alba del 9 maggio 1978, in contrada Feudo di Cinisi -piccolo centro costiero a poche decine di chilometri da Palermo – venivano ritrovati i resti di un corpo umano, ridotto a brandelli, sparsi in un raggio di 300 metri intorno ai binari della strada ferrata Palermo-Trapani; e precisamente in prossimità del km. 180+30 di detta linea.
Le condizioni in cui era ridotto il cadavere, che appariva irriconoscibile potendosi dire solo che apparteneva ad un individuo di sesso maschile; l’ubicazione sparsa dei resti; l’esistenza di un buco a forma di un fosso del diametro di poco inferiore a mezzo metro, sito tra i binari della linea ferrata proprio in corrispondenza delle traverse che collegavano le rotaie; il fatto che proprio in quel punto uno dei binari era divelto mentre l’altro risultava tranciato per la lunghezza di metri 0,54 e i relativi frammenti (almeno tre repertati in apposito verbale di sequestro dai Carabinieri intervenuti sul posto) erano sparsi a distanza di cento metri da quello stesso punto: tutto ciò non consentiva alcun dubbio, fin dai primi accertamenti investigativi, circa il fatto che il corpo fosse stato dilaniato da una violentissima esplosione. Inoltre, a poche decine di metri dal punto in cui i binari risultavano così danneggiati, nello spazio antistante un casolare semidiroccato, veniva rinvenuta un’auto Fiat 850, dal cofano della quale fuoriusciva un cavo telefonico con due fili, uno di colore rosso e l’altro trasparente, già sguainati all’estremità e ancora collegato ai morsetti della batteria. (cfr. Relazione di servizio del 9.05.78, a firma del vice brigadiere dei C.C. SARDO Domenico, artificiere, fg. 86 del vol. 891 degli atti contenuti nel fascicolo del P.M. e relativi al procedimento condotto secondo il “vecchio rito”). Sul lunotto dell’auto, ispezionata alla ricerca di eventuali esplosivi o di trappole esplosive, si rinveniva una matassa di cavo telefonico della lunghezza di m. 28 circa e dello stesso tipo di quello (lungo circa m. 2,80) che fuoriusciva dal cofano.
In esito al sopralluogo effettuato dai Carabinieri giunti dalla locale Stazione di Cinisi e dal vicino centro di Partinico, nonchè dal primo magistrato intervenuto sul posto (il Pretore di Carini, dott. Giancarlo TRIZZINO), il cadavere, o meglio ciò che ne restava, grazie alla immediata identificazione della persona che aveva in uso l’auto predetta, e con l’ausilio decisivo dei resti di indumenti ed altri effetti personali, sottoposti a ricognizione da parte di alcuni prossimi congiunti del possessore dell’auto (BARTOLOTTA Fara e VITALE Felicia, rispettivamente zia e cognata: v. verbale di ricognizione del 9.05.78, aperto alle ore 12.15, fg. 12-17, vol. 891), veniva identificato in quello di Giuseppe IMPASTATO: giovane militante del partito di Democrazia Proletaria, residente a Cinisi e candidato nelle liste del suddetto partito alle elezioni per il rinnovo del Consiglio Comunale di Cinisi, che si sarebbero tenute di lì a pochi giorni (erano state indette per il 14 maggio).
Quello stesso giorno, a seguito della segnalazione trasmessa con fonogramma delle ore 9.45 dal Pretore di Carini, l’Ufficio di Procura di Palermo apriva un fascicolo iscritto al nr. 1670/78/C, rubricato come “Atti relativi al decesso di IMPASTATO Giuseppe“. (Cfr. fg. 8 del vol. 891 degli atti contenuti nel fascicolo del P.M. e relativi al procedimento condotto secondo il “vecchio rito”). Il testo del fonogramma, d’altra parte, conteneva solo la rappresentazione nuda e cruda dei dati essenziali, oggettivamente rilevati sul posto, senza azzardare alcuna ipotesi di qualificazione del fatto: “Informo la S. V. che in contrada Feudo, territorio di Cinisi, in zona adiacente alla linea ferrata Palermo-Trapani, km 30+180, è stato rinvenuto cadavere irriconoscibile di persona di sesso maschile che allo stato sembra identificarsi con IMPASTATO Giuseppe, nato a Cinisi il 15.1.1948. Il cadavere è stato dilaniato da esplosione; pezzi si rinvengono in un raggio di 300 metri dalla linea ferrata. Indagini in corso. Intervenuto sul posto ho proceduto agli atti di rito e disposto trasporto resti obitorio di Carini. Resto in attesa delle disposizioni che la S. V. vorrà impartirmi”. (Cfr. fg. 1 del vol. n. 891).
Dopo 181 giorni di istruzione sommaria, il P.M. dott. SIGNORINO disponeva l’iscrizione del “processo contro ignoti” (al nr. 3379/78B) per i reati di “omicidio premeditato di Giuseppe IMPASTATO e di detenzione e porto in luogo pubblico di esplosivo”. E trasmetteva gli atti al Giudice Istruttore, perché formalizzasse l’istruttoria e cioè “per il formale procedimento contro ignoti, cui darà carico: a) del delitto previsto e punito dagli artt. 110, 575, 5777 n. 3 C. P., per avere, in concorso tra loro, cagionato mediante esplosione di dinitrotoluene la morte di IMPASTATO Giuseppe, commettendo il fatto con premeditazione; b) del reato previsto e punito dagli artt. 2 e 8 della L. 4.10.1974 n. 474, per avere detenuto e portato illegalmente in luogo pubblico materiale esplosivo (In Cinisi, il 9.05.1978)”. (Cfr. fg. 199 del vol. 891).
1.2. Le peculiarità del rito
Questo processo è il primo che, a distanza di oltre vent’anni di distanza dal fatto, si è celebrato a carico di uno dei presunti mandanti dell’omicidio del giovane militante di Democrazia Proletaria. E si è celebrato nella forma forse meno appropriata per fare piena luce sui molti punti oscuri di questa dolorosa e intricata vicenda.
Il rito abbreviato, nonostante le profonde modifiche introdotte dalla legge 16 dicembre 1999 n. 479 (c.d. “Legge Carotti”) è un giudizio che si definisce “allo stato degli atti”. Esso non si presta per sua natura a specifici approfondimenti istruttori che possano intralciarne la finalità essenziale di assicurare una sollecita definizione del processo, dovendosi la decisione fondare sulle risultanze già acquisite e sul materiale e le fonti di prova raccolte nel corso delle indagini espletate prima (e al di fuori) del dibattimento. Restano salve le limitate possibilità di integrazione probatorie concesse dal comma 5 dell’art. 441 come modificato appunto dall’art. 29 della L. 479/99, ai sensi del quale “quando il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti assume, anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione”.
Tali possibilità, che questa Corte non ha mancato di sfruttare, sono ancora più limitate nella disciplina transitoria appresta dai commi 2 e 3 dell’art. 223 D.L. vo n. 51 del 1998.
Ed invero lo speciale rito adottato per la definizione di questo processo a seguito della richiesta di giudizio abbreviato avanzata dall’imputato è proprio quello delineato dal disposto dell’art. 223 del D.L. vo n. 51 del 1998, come modificato dall’art. 56 della L. 16 dicembre 1999 n. 479 (c.d. “legge Carotti”). Tale disposto ha reso possibile una parziale applicazione della disciplina del giudizio abbreviato, che è stata profondamente rinnovata dalla legge Carotti, limitatamente ai processi in corso alla data del 2 giugno 1999.
L’art. 223 cit., infatti, al fine di accelerare la definizione di processi giunti alla fase del giudizio per il mancato ricorso ai riti alternativi, e segnatamente al giudizio abbreviato, e comunque in vista di un obiettivo di deflazione del carico di lavoro del giudice dibattimentale, ha operato una sorta di rimessione in termini a favore degli imputati dei processi nei quali alla data del 2 giugno 1999 era già intervenuto il rinvio a giudizio, consentendo di formulare la richiesta di giudizio abbreviato fino all’effettivo inizio dell’istruzione dibattimentale (cfr. art. 223, comma 1). Si trattava in realtà di un giudizio abbreviato anomalo, nel quale venivano anticipati solo alcuni tratti della rinnovata disciplina apprestata dalla c.d. Legge Carotti. In particolare, si consentiva al giudice di indicare alle parti temi nuovi ed incompleti, e di acquisire d’ufficio i mezzi di prova ritenuti necessari ai fini della decisione (v. comma 2). Venivano inoltre richiamati gli artt. 442 e 443 C.P.P., nonché l’art. 441: ma quest’ultimo limitatamente al comma 2, che concerne gli effetti della costituzione di parte civile avvenuta dopo la conoscenza dell’ordinanza che ha disposto il giudizio abbreviato. (V. comma 3).
Nell’originaria formulazione dell’art. 223, l’instaurazione del giudizio abbreviato era ancora subordinata al consenso del pubblico ministero. Questo presupposto è stato però eliminato dall’art. 56 della L. n. 479 del 1999. Inoltre, dopo l’entrata in vigore di quest’ultimo provvedimento legislativo, l’espresso richiamo all’art. 442 c.p.p., contenuto nell’art. 223 del D.L. vo n. 51 del 1998, ha reso ammissibile il giudizio abbreviato anche nei processi in corso per reati puniti con la pena dell’ergastolo. L’art. 30 comma 1 lett. b) della L. 16 dicembre 1999 n. 479 ha infatti integrato il secondo comma dell’art. 442 C.P.P., stabilendo che “Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta”.
(Successivamente è intervenuto il D.L. 24 novembre 2000 n. 341, conv. con modif. in L. 19 gennaio 2001 n. 4, che ha ulteriormente integrato l’art. 442 cpv., precisando che l’espressione “pena dell’ergastolo” ivi contenuta deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno; mentre “alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo”: sul punto si tornerà nel paragrafo relativo al trattamento sanzionatorio).
Conseguentemente, in forza della normativa transitoria apprestata dall’art. 223 D.L. vo n. 51/98 e succ. modificazioni, dopo il 2 gennaio 2000 è stato possibile accedere al rito abbreviato, anche senza il consenso del P.M., per tutti gli imputati rinviati a giudizio prima del 2 giugno 1999, a condizione che la richiesta di instaurazione del procedimento speciale fosse formulata prima dell’inizio dell’istruzione dibattimentale, come è appunto avvenuto nel caso di specie.
Ricorrendo tali presupposti, la richiesta dell’imputato assume i connotati di un vero e proprio diritto potestativo essendo insindacabile da parte del giudice fatta eccezione per il caso – che non ricorreva nella fattispecie – di una richiesta condizionata all’espletamento di un’attività di integrazione probatoria, a norma dell’art. 438
Ma quel che preme qui ribadire è che anche nell’ipotesi di cui al citato art. 223, il giudizio abbreviato rimane un rito alternativo al dibattimento che conduce ad una decisione sostanzialmente “allo stato degli atti”: si è ritenuto che nei procedimenti soggetti alla disciplina transitoria, benché non ci si trovi più nella fase dell’udienza preliminare, le finalità di rapida definizione proprie del giudizio abbreviato possano utilmente perseguirsi mediante l’eccezionale instaurazione di esso davanti al giudice del dibattimento, comportando comunque la richiesta dell’imputato l’accettazione di una decisione fondata su tutti gli elementi probatori acquisiti nel corso delle indagini, ivi compresi quelli frutto di eventuale attività integrativa svolta dopo il deposito della richiesta di rinvio a giudizio o dopo l’emissione del decreto di rinvio a giudizio. E a tal riguardo nessuna preclusione può venire dalla disposizione di cui al comma 3 dell’art. 433 C. P. P., che sembrerebbe subordinare l’inserimento della documentazione relativa all’attività prevista dall’art. 430 – ossia l’attività integrativa di indagine successiva all’emissione del decreto che dispone il giudizio – alla duplice condizione che “di essa le parti si sono servite per la formulazione di richieste al giudice del dibattimento e quest’ultimo le ha accolte”. Tale condizione limitativa infatti ha ragion d’essere in una prospettiva processuale, come quella in cui si colloca appunto il terzo comma dell’art. 430, nella quale, superata la fase dell’udienza preliminare con il rinvio a giudizio dell’imputato, le risultanze dell’attività integrativa d’indagine debbano servire da materia, presupposto e fonte di impulso all’istruzione dibattimentale.
Nella prospettiva delineata dall’art. 223 D.L. vo 51/98, invece, quella istruzione è inibita dall’adozione di un rito modellato su quello del giudizio abbreviato, e non c’è alcuno spazio per l’ipotizzata sequenza: formulazione di richieste al giudice del dibattimento, sulla base degli elementi raccolti in esito all’attività integrativa d’indagine-relativo accoglimento da parte del medesimo giudice. Ne segue che la disposizione in oggetto non appare applicabile alla fattispecie; e, al contrario, la logica che pervade e conforma un rito anomalo ma pur sempre ispirato al giudizio abbreviato è quella di una decisione “allo stato degli atti”, espressione che non può che intendersi come comprensiva di tutto il materiale probatorio e di cognizione che sia stato legittimamente raccolto e validamente acquisito nel corso delle indagini svolte fino al momento in cui è stata avanzata rituale richiesta di procedere nelle forme del rito abbreviato.
Nel caso di specie, la documentazione relativa all’attività integrativa d’indagine svolta dopo l’emissione del decreto di rinvio a giudizio del PALAZZOLO era stata in parte acquisita al fascicolo del p. m., già anteriormente alla prima udienza (cfr. atti depositati in data 5.10.99, vol 17); e, per la parte residua (v. atti di indagine e amministrativi relativi alla morte di Giuseppe IMPASTATO in possesso dell’Arma dei Carabinieri e già richiesti dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul casi IMPASTATO), è stata depositata in data 4.04.2000, ossia un mese prima dell’udienza fissata per la decisione su eventuali integrazioni probatorie; e in pari data trasmessa per essere unita al fascicolo del P.M. già depositato in vista della celebrazione del giudizio abbreviato. Inoltre, già all’udienza del 26.01.2000, il P.M., nell’assicurare che avrebbe ottemperato all’invito a depositare il proprio fascicolo “dopo l’udienza in cancelleria”, ha precisato che avrebbe depositato appunto il fascicolo già depositato contestualmente alla richiesta di rinvio a giudizio, “ed è quello che noi porteremo, con l’attività integrativa di indagine che abbiamo svolto successivamente, all’attenzione di questa Corte” (cfr. pag. 42 del verbale di trascrizione udienza del 26.01.2000).
E all’udienza del 4.05.2000, la difesa dell’imputato ha formulato le proprie richieste a sollecitazione dei poteri di integrazione probatoria della Corte, nulla eccependo in ordine all’ammissibilità della documentazione prodotta dal P.M. che è stata quindi ritualmente acquisita ad integrazione del fascicolo già depositato.
1.3. Il materiale probatorio tra specialità del rito, pregressi depistaggi e rinnovata lealtà processuale
1. Resta il fatto che, come già detto, lo speciale rito con cui si è celebrato il presente giudizio si pone per definizione in alternativa al dibattimento. Esso non offre né le garanzie né le opportunità – che sono invece tipiche dell’istruzione dibattimentale, mediante cui la prova si forma effettivamente nel contraddittorio delle parti – di un metodo di progressione nella conoscenza dei fatti e nell’accertamento della verità attraverso un vaglio critico delle fonti di prova, qual può essere assicurato solo dal confronto diretto tra le ragioni dell’accusa e le contro-deduzioni della difesa, e un approfondimento delle loro risultanze, nell’atto stesso in cui la prova va ad assumersi. Un metodo che non è sempre e solo funzionale all’interesse sostanziale e alle garanzie dell’imputato; ma è, prima di tutto, il più proficuo al fine di accertare la verità dei fatti e individuare le eventuali responsabilità.
L’impraticabilità di questo metodo, ovvero il fatto che gran parte del materiale probatorio si è formato al di fuori del contraddittorio e del controllo diretto del giudice chiamato poi a valutarne le risultanze a distanza anche di vent’anni, non è un limite di poco conto, nel caso di specie, ove si consideri che una parte cospicua di quel materiale – e segnatamente gli elementi raccolti e, in misura forse ancora più incisiva, quelli omessi nei primi accertamenti investigativi effettuati nell’immediatezza del fatto e in quelli che seguirono nelle settimane e nei mesi successivi – risulta confezionato nel corso di indagini su cui grava l’intollerabile sospetto di un sistematico depistaggio o comunque di una conduzione delle stesse viziata da uno sconcertante coacervo di omissioni negligenze ritardi mescolati ad opzioni investigative preconcette che ne avrebbero condizionato ed alterato la direzione e lo sviluppo.
Un sospetto tutt’altro che remoto e pretestuoso se è vero che esso ha portato alla costituzione, nell’ambito dei lavori della “Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari” istituita con legge 1° ottobre 1996 n. 509, di un “Comitato di lavoro sul caso IMPASTATO”, con il compito di “condurre un’approfondita indagine sulle vicende connesse alla morte di Giuseppe IMPASTATO, militante di Democrazia Proletaria”. E la seconda e la terza parte della relazione depositata dal Comitato a conclusione dei propri lavori sono dedicate proprio ad una “minuziosa ricostruzione delle indagini dei carabinieri della stazione di Cinisi e del reparto operativo del gruppo di Palermo, intervenuti sul luogo dove fu trovato il corpo dilaniato di Peppino IMPASTATO e dei magistrati che diressero le indagini”: ciò al fine di “comprendere se, a partire dalle prime fasi delle indagini, ci siano state anomalie nel comportamento degli Inquirenti che abbiano determinato sottovalutazioni o incomprensioni di quanto in realtà era accaduto oppure se vi fossero state deviazioni e depistaggi” (cfr. pag. 6 della Relazione in atti).
Al di là delle conclusioni cui è pervenuta la Commissione parlamentare d’inchiesta, che non compete a questa Corte di valutare, quel sospetto, come si vedrà, ha trovato più d’una conferma all’esito di un accurato esame degli atti riservati in possesso dell’Arma dei Carabinieri e del compendio degli atti relativi, in particolare, alla fase delle indagini espletate dal reparto operativo dei Carabinieri sotto la diretta direzione dell’allora magg. SUBRANNI, che ne compendiò i risultati nei due rapporti giudiziari datati 10 e 30 maggio 1978. In essi si esprime e ribadisce il convincimento che “IMPASTATO Giuseppe si sia suicidato compiendo scientemente un attentato terroristico, così come si ritiene che non sia emerso alcun elemento che conduca ad una diversa conclusione”.
In realtà, già alla data di stesura del primo rapporto erano emersi elementi che smentivano o quanto meno ponevano seriamente in dubbio l’attendibilità di quell’ipotesi: peraltro, fondata esclusivamente sul rinvenimento di una lettera autografa in cui l’IMPASTATO sembrava esprimere propositi suicidi legati ad una profonda frustrazione per il fallimento del suo impegno politico e della sua stessa concezione della politica. In particolare, le testimonianze e i circostanziati esposti di amici compagni di partito e stretti congiunti dell’IMPASTATO, oltre ad escludere, anche sulla base di una dettagliata ricostruzione dell’impegno e del fervore profusi negli ultimi frenetici giorni di campagna elettorale, nonché dei suoi progetti immediati che lo stesso potesse nutrire propositi suicidi; e a fornire elementi che consentivano di datare ad almeno sette mesi prima del fatto, e cioè a novembre ’77, la lettera; mettevano l’accento sulla campagna di appassionata contro-informazione e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui temi della lotta alla mafia e al ripristino della legalità; sul tenore delle sue implacabili denunzia di speculazioni edilizie e collusioni tra amministratori locali ed esponenti mafiosi ben identificati; e sulle minacce che per questo suo appassionato impegno politico e civile l’IMPASTATO aveva ricevuto negli ultimi tempi. Elementi che avrebbero dovuto quanto meno indurre gli Inquirenti a sondare la possibilità di una causale alternativa a quella del suicidio, mentre nessun concreto atto di indagine venne compiuto in direzione della c.d. “pista mafiosa”, per tutto il corso dell’istruzione sommaria.
2. Detto questo, si deve tuttavia alle peculiarità del rito e allo spirito di leale e fattiva collaborazione tra tutte le parti – a anche a chi, come il Centro Siciliano intestato alla memoria di Giuseppe IMPASTATO, dal processo è stato estromesso per difetto di legittimazione all’azione risarcitoria; ma un prezioso contributo ha dato, nel corso degli anni, alla raccolta sistematica di un prezioso materiale informativo – la possibilità che al processo abbiano avuto accesso le fonti più disparate e comunque utili a fornire elementi di conoscenza dei fatti: dalle cassette contenenti l’audioregistrazione di alcune trasmissioni radiofoniche concernenti il programma “Onda Pazza”, ideato e condotto dallo stesso IMPASTATO (e relative trascrizioni); al Pro-memoria a cura della redazione di Radio Aut, che fu consegnato al G.I. Dott CHINNICI; al dossier “Notissimi Ignoti” a cura del Centro Siciliano di documentazione (e allegata documentazione giornalistica, in essa compresa gli articoli di giornale che fotografano i momenti salienti delle prime indagini sul caso IMPASTATO; o notiziano delle vicende relative alla catena di delitti che insanguinarono Cinisi e dintorni, tra il 1981 e il 1984, nell’ambito della c.d. “guerra di mafia”; ma documentano altresì lo sviluppo delle indagini su alcuni casi di abusivismo edilizio a Cinisi, esplosi a seguito o nell’ambito delle indagini sul delitto IMPASTATO); alla testimonianza di Felicia BARTOLOTTA (madre di Giuseppe IMPASTATO) raccolta il 1° dicembre 1984 in forma di libro-intervista (“La mafia in casa mia”, a cura di Anna PUGLISI e Umberto SANTINO, ed. LA LUNA, Palermo 1986).
Parimenti deve darsi atto alla pur puntigliosa e talora pungente Difesa dell’imputato di avere accettato, senza pretestuose riserve o eccezioni di inammissibilità della documentazione prodotta ex adverso, di confrontarsi apertamente anche sulle risultanze delle fonti processualmente meno ortodosse, come quelle sopra richiamate. Si tratta peraltro di atti ammissibili come prove documentali, nella parte in cui ricostruiscono rapporti e conservano memoria di fatti e circostanze assurti a dignità di notorio in ambito locale, ovvero oggetto di conoscenza diretta da parte di chi ne ha riferito; o utili a ricostruire, alla stregua di una fonte storiografica, e attraverso il racconto dei suoi prossimi congiunti o degli amici e compagni di partito che ne avevano condiviso passione politica ed impegno civile, sia la personalità della vittima che il retroterra familiare (e, non ultimo, il clima di tensione e crescente preoccupazione e sfiducia con cui venne seguita la prima fase delle indagini)
3.- Ancora in via preliminare, non ci si può esimere da un’ulteriore considerazione.
Secondo la prospettazione accusatoria, di cui fa fede il tenore stesso dell’imputazione di cui al capo a), quello di Giuseppe IMPASTATO è un omicidio di stampo mafioso per la logica in cui si inscrive, per la sua specifica causale e per l’identità di mandanti ed esecutori. Più precisamente, esso “fu voluto da Gaetano BADALAMENTI da Vito PALAZZOLO e da altri soggetti rimasti ignoti, per eliminare uno strenuo “oppositore delle strategie mafiose sul territorio di Cinisi e su territori a questo limitrofi”; e per far tacere una voce che aveva avuto l’impudenza di accusare ripetutamente Gaetano BADALAMENTI, nella sua qualità di boss riconosciuto di Cinisi, di vari crimini, tra cui il traffico di droga, giungendo anche a dileggiarlo con una satira dissacrante nel corso di numerose puntate del programma radiofonico “Onda Pazza”, trasmesso dai microfoni di Radio Aut (e ciò nel quadro di una campagna di denunzie mirate e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica locale condotta attraverso comizi in piazza, diffusione di volantini o ciclostilati, mostre fotografiche, articoli di stampa, interviste a radio locali ma anche programmi radiofonici a carattere satirico).
Questo processo, dunque, nasce mutilato della presenza e della partecipazione del suo principale imputato. Sarebbe infatti Gaetano BADALAMENTI, secondo la prospettazione accusatoria testè richiamata, il principale artefice della deliberazione criminale – cui PALAZZOLO Vito avrebbe concorso nella sua qualità di braccio destro dello stesso boss di Cinisi – di uccidere il giovane militante di Democrazia Proletaria. E ciò per la sua autorità di capo della famiglia mafiosa di Cinisi; ma anche perché era proprio lui il principale bersaglio della campagna di denunzie e istigazioni alla ribellione civile (contro un ordine costituito basato sulla connivenza tra pubblici poteri e prepotenza mafiosa) condotta anche con lo strumento di una satira dissacrante.
In effetti, in data 27 maggio 1997 l’Ufficio di Procura aveva avanzato richiesta di rinvio a giudizio congiuntamente nei riguardi di Gaetano BADALAMENTI e di Vito PALAZZOLO. Ma lo stralcio della posizione del primo per la sua condizione di detenzione nelle carceri statunitensi, assunta a legittimo impedimento alla sua partecipazione all’udienza preliminare (v. verbale di udienza del 10 marzo ’99, vol. 16, fascicolo degli atti relativi all’udienza preliminare); e poi, dopo che lo stesso BADALAMENTI aveva chiesto il giudizio immediato (effettivamente disposto dal G.U.P. con decreto del 23.11.99), la scelta processuale del PALAZZOLO in favore del rito abbreviato – scelta non ripetuta dal coimputato BADALAMENTI- hanno determinato l’impossibilità di una trattazione congiunta delle due posizioni. Posizioni che restano però inscindibilmente connesse, nella prospettiva sopra delineata, con la conseguenza che diventa inevitabile la rilevanza e talora la pregiudizialità di accertamenti e valutazioni che involgono la responsabilità dell’imputato nei cui confronti si procede separatamente per il medesimo fatto.
È anche vero, però, che, paradossalmente, la scelta del rito abbreviato, che per sua natura comunque minimizza gli spazi per l’instaurazione del contraddittorio nella formazione della prova, elevando al rango di fonti di prova anche gli atti compiuti e le risultanze acquisite nella fase delle indagini, finisce per fugare le ombre o i rischi che da quell’assenza potrebbero discendere ai fini di un più compiuto e corretto svolgimento della dialettica processuale.
Né appare secondaria, per ovvie ragioni, la circostanza che il difensore del BADALAMENTI è lo stesso che ha qui egregiamente difeso il PALAZZOLO.
1.4. Un delitto di mafia: risvolti umani e implicazioni politico-istituzionali della vicenda umana.
La morte di Giuseppe IMPASTATO è il tragico epilogo di una vicenda che presenta anche dolorosi risvolti umani per l’insanabile contrasto che opponeva, con effetti laceranti per l’intero nucleo familiare, lo stesso Giuseppe al padre. Luigi IMPASTATO, come si evince dalle sofferte testimonianze dei suoi più stretti congiunti – prima ancora che dalle dichiarazioni convergenti di numerosi collaboratori di Giustizia – era infatti pienamente inserito nei circuiti mafiosi locali, in forza dei suoi rapporti di conoscenza, di abituale frequentazione, e di personale amicizia (oltre a vincoli di parentela o affinità) con diversi personaggi legati a Cosa Nostra o accreditati addirittura di ruoli di spicco nell’ambito di quell’organizzazione criminale (da Cesare MANZELLA, suo cognato, e ritenuto il capo mafia di Cinisi fino al momento della sua morte, avvenuta per l’esplosione di un auto-bomba, a Gaetano BADALAMENTI). Ed è emerso come egli osteggiasse le concezioni e scelte di vita che ponevano il figlio Giuseppe su di una sponda opposta: quella cioè di un impegno civile e di una militanza politica incentrata sul tema della lotta alla mafia, e che non risparmiava strali e accuse pubblicamente rivolte a parenti, conoscenti e amici personali del padre. Un contrasto, peraltro, che rende ancora più toccante la disperata testimonianza d’affetto che si ricava da alcune frasi attribuite allo stesso Luigi da una cugina americana (BARTOLOTTA FELICIA, intesa Vincenzina) cui egli avrebbe esternato, in occasione di un viaggio per far visita ad alcuni parenti residenti negli Stati Uniti, tutta la sua angoscia e preoccupazione per la sorte del figlio, insieme al fermo proposito di difenderlo anche a costo della propria vita.
Il delitto IMPASTATO è stato anche un caso politico: per la personalità della vittima, che era un attivo militante di estrema sinistra nonché candidato alle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale di Cinisi per il partito di Democrazia proletaria; e per le polemiche e le recriminazioni seguite al disorientamento e alle contrastanti reazioni che i dubbi e gli interrogativi sulla sua morte avevano provocato in seno all’opinione pubblica e alle formazioni politica della stessa sinistra (parlamentare e non), complice anche una certa iniziale subalternità degli organi di stampa alle notizie e valutazioni a senso unico fatte filtrare fin dai primi giorni successivi al fatto dagli Inquirenti, che accreditavano con decisione l’ipotesi del suicidio legato ad un attentato terroristico, quando invece le prime risultanze investigative (v. le deposizioni di numerosi amici e compagni di militanza dell’IMPASTATO, oltre a quelle dei suoi familiari; e l’esito negativo delle massicce perquisizioni domiciliari a casa IMPASTATO e nell’abitazione della zia, BARTOLOTTA Fara, presso cui la vittima dimorava, nonché nei riguardi degli stessi militanti o presunti appartenenti al suo gruppo politico) e la necessità di intraprendere alcuni basilari e preliminari accertamenti rendevano quanto meno prematura ed azzardata qualsiasi conclusione.
È stato ed è anche un caso non scevro da co-implicazioni istituzionali, come dimostra il fatto stesso che sia stata istruita un’apposita indagine parlamentare, per la necessità di far luce su inspiegabili ritardi e vistose omissioni e lacune nella conduzione delle indagini (almeno sino alla formalizzazione dell’istruttoria) ed il tremendo sospetto, insinuatosi via via che nuovi elementi di conoscenza e spezzoni di verità affioravano a corroborare l’ipotesi del delitto di stampo mafioso, che i probabili responsabili possano aver goduto di coperture o connivenze omertose o atteggiamenti altrimenti compiacenti all’interno delle forze dell’ordine e degli apparati dello Stato preposti alle indagini.
Ebbene, dei risvolti umani della vicenda e delle implicazioni predette questa Corte ha tenuto conto al limitato fine di sceverarne per quanto possibile elementi di conoscenza e di comprensione dei fatti, con particolare riguardo alla personalità della vittima, alla sua vicenda personale e politica e al contesto storico e ambientale in cui questa si è snodata; e quindi anche alla possibile causale del delitto, nonché, preliminarmente, alla qualificazione (come tale) del fatto. Ma tutto ciò avendo cura, al contempo, di bandire dal proprio orizzonte valutativo qualsiasi condizionamento o suggestione che potesse preludere alla formazione di un pregiudizio, in un senso o nell’altro, nella valutazione delle responsabilità individuali e, prima ancora, in ordine alla stessa configurazione del fatto.
2. ITER DELLA VICENDA GIUDIZIARIA: dall’ipotesi del suicidio alla certezza dell’omicidio.
2. 1. Il fatto e le risultanze dei primi accertamenti
Ma il caso IMPASTATO è stato anzitutto oggetto di una storia giudiziaria complessa e travagliata quant’altre mai, delle quale vanno ripercorse le tappe salienti, a partire dal suo primo capitolo, che è consacrato nella sentenza ordinanza emessa dal Consigliere Istruttore Dr. Antonino CAPONNETTO il 19.05.1984.
La sentenza contiene un’accurata ricostruzione dei fatti e delle indagini espletate fino ad allora: la più puntuale possibile sulla scorta delle risultanze dei primi accertamenti investigativi e di fonti del tutto autonome e distinte dalle successive rivelazioni dei collaboratori di Giustizia (e relative indagini a riscontro) e dagli ulteriori particolari e retroscena disvelati dai congiunti della vittima.
Essa dichiarava non doversi procedere in ordine ai delitti di omicidio premeditato in danno di Giuseppe IMPASTATO e di detenzione e porto illegali di esplosivo per esserne rimasti ignoti gli autori, con ciò ponendo come punto fermo e acclarato che di omicidio si era trattato.
Nella parte motiva, e con argomenti fondati sull’esito degli accertamenti tecnici espletati – e segnatamente, consulenza medico legale e indagine balistica – sulle risultanze delle numerose deposizioni testimoniali e su stringenti considerazioni logiche, viene decisamente disattesa l’ipotesi di un suicidio o di un incidente comunque legato ad un attentato terroristico messo in atto dallo stesso IMPASTATO; e si perviene piuttosto alla conclusione che questi “è rimasto vittima di un efferato omicidio, attuato con modalità tali da far attribuire la morte ad un deliberato atto omicida o ad un’accidentale esplosione, e comunque nel quadro di un attentato dinamitardo, e da farne quindi derivare discredito, al tempo stesso, al movimento politico di cui la vittima era il principale esponente della zona”.
Inoltre, dalla premessa parimenti acclarata che il giovane IMPASTATO aveva “incentrato il suo impegno di lotta contro le prevaricazioni, gli abusi e gli illeciti di taluni amministratori, e – soprattutto – di ben individuati gruppi e personaggi mafiosi”, si ricava, per logica induzione, il più che ragionevole convincimento che “proprio in questi ambienti sia stata decisa e attuata la soppressione di un così irriducibile accusatore”.
Orbene, dalle ragioni e dalle argomentazioni su cui si fondavano simili conclusioni, che questa Corte ritiene di dover condividere, occorre prendere le mosse, con il conforto, se del caso, di testuali richiami alla motivazione della stessa sentenza, posto che si tratta pur sempre di una sentenza istruttoria di non doversi procedere e come tale inidonea a dispiegare efficacia di giudicato pure in ordine a quanto accertato in punto di fatto; e considerato che la difesa dell’odierno imputato ha rimesso in discussione anche il punto che si dava per definitivamente assodato, riproponendo in pratica l’ipotesi del suicidio o, in subordine, dell’esplosione accidentale comunque legata ad un progetto di attentato dinamitardo.
Va detto subito che tale ipotesi, consacrata nei due rapporti datati 10 e 30 maggio 1978 a firma dell’allora maggiore SUBRANNI, Comandante del reparto Operativo dei Carabinieri che personalmente diresse le prime indagini, tramonta definitivamente, come già ricordato, a conclusione dell’istruzione sommaria. E lo stesso maggiore SUBRANNI, che ne era stato il più strenuo sostenitore, nelle deposizioni rese all’A.G. in data 25.12.80 e 16.07.82, ammise l’erroneità del suo iniziale convincimento, riconoscendo che gli elementi emersi dallo sviluppo delle successive indagini comprovavano che non si era trattato di suicidio, bensì di un vero e proprio omicidio premeditato:
“Nella prima fase delle indagini, si ebbe il sospetto che l’Impastato morì nel momento in cui stava per collocare un ordigno esplosivo lungo la strada ferrata. Questi sospetti, però, vennero meno quando, in sede di indagini preliminari, svolte da Magistrati della Procura, emersero elementi che deponevano più per l’omicidio dell’Impastato che per una morte accidentale cagionata dall’ordigno esplosivo. Dalle indagini a suo tempo svolte, emerse in maniera certa che l’ Impastato era seriamente e concretamente impegnato nella lotta contro il gruppo di mafia capeggiato da Gaetano Badalamenti che l’Impastato accusava di una serie di illeciti, anche di natura edilizia. In ordine a quest’ultima circostanza, muoveva anche accuse ad un certo Finazzo da lui ritenuto mafioso e legato al Badalamenti”. (v. fg. 110, vol. II).
In realtà, gran parte degli elementi emersi dalle indagini dei magistrati della Procura e dell’Ufficio Istruzione di Palermo, cui allude l’Ufficiale sunnominato, erano già stati acquisiti nel corso dei primi accertamenti investigativi e figuravano agli atti in possesso degli Inquirenti già alla data di stesura del primo rapporto SUBRANNI o, quanto meno, all’epoca del suo secondo rapporto. Essi però scontarono una sorta di avversione preconcetta degli stessi Inquirenti a dare credito a causali del fatto diverse e alternative all’ipotesi dell’attentato terroristico, che fu formulata nell’immediatezza del fatto, e cioè la stessa mattina del 9 maggio ’78, prima ancora di attendere l’esito degli accertamenti preliminari e quando ancora era in corso la pietosa raccolta dei resti del povero IMPASTATO. Lo prova il fonogramma urgente a firma del dott. Gaetano MARTORANA (allora procuratore aggiunto) trasmesso al Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo appunto il 9 maggio. Non vi è indicato l’orario, ma dal suo contesto si evince che non era stato ancora formalizzato il riconoscimento del cadavere che avvenne, come sappiamo, alle 12.15 di quella stessa mattina. Dalle testimonianze rese alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso IMPASTATO abbiamo appreso che, in effetti, quella mattina fu tenuto un summit presso il Comando della Stazione dei carabinieri di Cinisi, alla presenza di alti ufficiali dell’Arma e dei magistrati della Procura di Palermo investiti del caso, mentre erano in corso le operazioni di rito – tra cui appunto il riconoscimento del cadavere – cui era stato delegato il Pretore di Carini (cfr. stralcio del verbale di audizione del dott. TRIZZINO in data 25 novembre 1999, pagg. 43-44 e pag. 107, nt. 180 della Relazione in atti).
I risultati di quella riunione, e quale fosse l’atteggiamento degli Inquirenti che vi presero parte, sono ben riflessi e condensati nel testo del fonogramma a partire dalla sua titolazione:
“OGGETTO: Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda- Morte di persona allo stato ignota, presumibilmente identificatesi in IMPASTATO Giuseppe, nato a Cinisi il 15.01.1948”.
“A norma dell’art. 233 c.p.p. informo l’E. V. di quanto segue:
Verso le ore 0. 30- 1 del 9.05.1978, persona allo stato ignota, ma presumibilmente identificatesi in tale IMPASTATO Giuseppe, in oggetto generalizzato, si recava a bordo della propria autovettura FIAT 850 all’altezza del km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo, che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore”.
“La ricognizione dei luoghi effettuata dal Pretore di Carini accertava che il cadavere, di cui rimangono due tronconi degli arti inferiori ed una mano, è stato dilaniato dall’onda d’urto dell’esplosivo, spandendo i resti nel raggio di 300 metri dalla linea ferrata, che rimaneva danneggiata”.
“Sul luogo, ad una distanza di circa 50 metri dalla linea ferrata, veniva rinvenuta l’autovettura dell’IMPASTATO con un cavo telefonico applicato alla batteria e, nel punto posteriore, una trentina di metri dello stesso filo, presumibilmente da collegare alla carica esplosiva per chiudere il circuito e provocare l’esplosione”.
“I CC del Reparto operativo del Gruppo di Palermo, prontamente intervenuto, procedevano a perquisizione domiciliare presso l’abitazione dell’IMPASTATO, rinvenendo, tra l’altro, una lettera con la quale il predetto IMPASTATO manifestava propositi suicidi”.
“Di conseguenza, le indagini del caso vengono espletate tenendo presente sia l’ipotesi del suicidio che quella dell’attentato dinamitardo”.
“È da tenere presente che dalle informazioni raccolte sul posto da questo Ufficio, intervenuto prima in persona del Sost. Procuratore della repubblica dr. Domenico SIGNORINO e poi in persona del sottoscritto, l’IMPASTATO risulta appartenente al movimento di estrema sinistra “Democrazia proletaria”, di cui peraltro era segretario politico e candidato alle prossime elezioni amministrative”.
“Mi riservo ulteriori notizie”.
2.2. Le suggestioni del clima storico politico e l’ipotesi dell’attentato terroristico.
Da questo documento si evince che la tesi del suicidio legato ad un attentato terroristico viene subito sposata dagli Inquirenti come unica spiegazione plausibile del fatto, e quindi con accenti di certezza. L’unico dubbio che sembra residuare attiene alla sussistenza del proposito suicida, lasciandosi intravedere la possibilità di una morte accidentale del presunto attentatore. E si evidenziano altresì gli elementi da cui traeva origine quel convincimento, che sarà poi ribadito nei rapporti giudiziari del magg. SUBRANNI, ma soprattutto la componente di tacito pregiudizio politico-ideologico che ne faceva un atteggiamento preconcetto: 1)il potente esplosivo il cui scoppio ha dilaniato “lo stesso attentatore” era stato collocato sulla linea ferrata; 2) il meccanismo di innesco della carica esplosiva appariva riconducibile al cavo di tipo telefonico applicato alla batteria dell’auto dell’IMPASTATO, dal cui cofano fuoriuscivano appunti dei fili; 3) il rinvenimento a casa della zia, BARTOLOTTA Fara, presso cui lo stesso IMPASTATO dimorava, di una lettera in cui egli manifestava propositi suicidi.
Ma particolare risalto veniva conferito alla collocazione e al ruolo politici di Giuseppe IMPASTATO, qualificato come militante ed elemento di spicco di una formazione politica di estrema sinistra. Per comprendere come questo dato assumesse una precisa connotazione indiziaria, tanto da essere segnalato a coronamento di un quadro ricostruttivo tutto incentrato sull’ipotesi dell’attentato terroristico; e quanto possa aver pesato nel determinare gli Inquirenti a dare un peso preponderante a quell’ipotesi, bisogna riportarsi alla drammatica temperie storico-politica di quegli anni, anzi di quei giorni.
Proprio la mattina del 9 maggio 1978, il Paese è scosso dalla notizia del rinvenimento del cadavere dell’on. MORO, trucidato dalle Brigate Rosse: si concludeva così nel modo più cruento la tragica vicenda iniziata circa due mesi prima, e precisamente il 16 marzo 1978, del sequestro del presidente del partito di maggioranza relativa (e della strage della sua scorta) che segnò il punto culminante della strategia di attacco terroristico allo Stato – intrapreso con l’omicidio del procuratore generale di Genova COCO nel giugno 1976 – ad opera delle Brigate Rosse e di altri gruppi armati, sedicenti avanguardie di una vagheggiata rivoluzione proletaria. (Una vicenda che angosciò e divise l’opinione pubblica e le forze politiche, che dilaniò le coscienze, costringendo a scelte impietose; e che pesò in modo decisivo sugli equilibri e i successivi sviluppi del quadro politico e istituzionale.).
Già l’anno precedente si era chiuso con l’assassinio del vice-direttore de “La Stampa” Carlo CASALEGNO (ferito a morte il 16 novembre), cui era seguita l’uccisione il 29 dicembre a Bari dello studente della Federazione Giovanile Comunista Italiana, PATRONE, ad opera di neo-fascisti. In precedenza, le Brigate Rosse avevano assassinato il presidente dell’ordine degli avvocati di Torino (28 aprile) e ferito alle gambe diversi e autorevoli personaggi del mondo dell’informazione (il 1° giugno a Genova il vice-direttore del Secolo XIX, BRUNO; il 2 giugno,a Milano, il direttore del Giornale Nuovo, MONTANELLI; e il giorno dopo a Roma, il direttore del TG1, ROSSI). Ma va sottolineato,soprattutto, che nel 1977, complessivamente, si registrarono 2.128 attentati, e cioè il doppio di quelli compiuti l’anno precedente; e la ripresa delle attività terroristiche (di sinistra, ma anche di destra: compaiono nuove sigle ed organizzazioni clandestine del terrorismo nero, come i N. A. R. e Terza Posizione), nel contesto di una generale radicalizzazione degli antagonismi sociali sotto i colpi di una pesante crisi economica e di un’inflazione galoppante, si salda, proprio in quell’anno con una nuova esplosione della protesta studentesca: nasce il movimento c.d. del ’77 che inizialmente teorizza la necessità di riappropriarsi della sfera dei bisogni personale e di valorizzare la dimensione privata, ma presto sviluppa, nelle sue frange più organizzate, l’inclinazione allo scontro e alle violenze di piazza. Tra il 7 e l’11 marzo, Bologna è sconvolta dalla guerriglia urbana: nel corso di scontri con la polizia, muore uno studente di Lotta Continua, LORUSSO. Nella manifestazione di protesta che ne seguì a Roma, il 12 marzo, ancora violenti scontri e il 21 aprile sempre a Roma da un corteo di autonomi sono esplosi colpi d’arma da fuoco e muore l’Agente di Polizia PASSAMONTI. Le eccezionali misure di ordine pubblico adottate danno la misura della gravità della tensione: per il periodo 22 aprile-31 maggio 1977, su disposizione del Ministro degli Interni, è vietata su tutto il territorio nazionale qualsiasi manifestazione di piazza. Ma nonostante il divieto, il 12 maggio, su iniziativa dei radicali, si svolge a Roma una manifestazione per celebrare l’anniversario della vittoria abortista: durante una carica della polizia, la studentessa Giorgiana MASI rimane uccisa per un colpo d’arma da fuoco. Il 1° ottobre, una manifestazione antifascista seguita all’uccisione dello studente di Lotta Continua Walter ROSSI degenera in atti di violenza: viene incendiato un bar frequentato da giovani neofascisti, e uno di loro muore.
Anche il 1978 si apre nel segno di una recrudescenza della violenza terroristica e squadrista, che si avvia ormai ad essere una variabile indipendente delle vicende politiche nazionali ed un fattore abituale di malessere e angoscia, fino al limite dell’assuefazione, nella coscienza e nel sentire diffuso. Il 4 gennaio viene assassinato il capo dei sorveglianti della FIAT di Cassino e l’omicidio è rivendicato da un gruppo denominato “Operai armati per il comunismo”. Il 7 gennaio, extraparlamentari di sinistra uccidono a Roma due militanti del Fronte della Gioventù, Franco BIGONZETTI e Francesco CIAVATTA. Negli scontri che seguono con la polizia (e con gruppi di “autonomi”), resta ucciso lo studente missino Stefano RECCHIONI. (Né mancano pesanti implicazioni politiche del clima di radicalizzazione della conflittualità sociale: il 12 gennaio il Dipartimento di Stato americano invita i “leaders democratici” dell’Occidente ad evitare alleanze con i comunisti; il 16 gennaio il Presidente del Consiglio in carica, G. ANDREOTTI, rassegna le dimissioni. Su impulso dell’on. MORO vengono avviate difficili trattative per la formazione di una maggioranza programmatica favorevole ad un governo monocolore a guida democristiana, ma con l’appoggio esterno del P. C. I.).
Ed ancora, il 20 gennaio le “Unità comuniste combattenti” uccidono a Firenze un poliziotto. Il 14 febbraio tornano in scena le Brigate Rosse, uccidendo a Roma il consigliere di cassazione Riccardo PALMA. E il 10 marzo a Torino, dove si è finalmente aperto il primo storico processo alle stesse Brigate Rosse, uccidono un testimone, Rosario BERARDI, Maresciallo di Polizia. Indi il 16 marzo, sequestrano l’on. MORO trucidando i cinque uomini della sua scorta. (Proprio quella mattina la Camera era riunita per ascoltare le dichiarazioni programmatiche e votare la fiducia al nuovo Governo ANDREOTTI).
Anche nelle settimane e nei mesi che seguono la tragica mattina del 9 maggio ’78, la violenza terroristica proseguirà, peraltro, a scandire con lugubre puntualità le cronache del tempo.
Le B.R. uccidono: il 21 maggio, il capo dell’antiterrorismo della questura di Genova, Antonio ESPOSITO; il 6 giugno, ad Udine, un maresciallo delle guardie carcerarie; e il 10 ottobre, a Roma, il Direttore degli Affari penali del Ministero di Giustizia, Girolamo TARTAGLIONE. L’8 novembre, a Patrica, presso Frosinone, vengono assassinati, in un agguato rivendicato dalle “Formazioni comuniste combattenti”, il Procuratore capo della Repubblica, Fedele CALVOSA, un agente e l’autista.
Infine, il 15 dicembre, a Roma, “guerriglia comunista” uccide (per sbaglio) un giovane.
(Cfr. cronologia degli avvenimenti in “L’Italia Contemporanea”, Storia d’Italia a cura di G. SABBATUCCI e V. VIDOTTO, LATERZA 1999, pagg. 623-626; e, a cura di Luca PES, in S. LANARO, Storia dell’Italia Repubblicana, pagg. 522-525, ED. MARSILIO 1992).
Così un autorevole storico riassume il clima di tensione e di esasperata conflittualità sociale ideologica che percorre e lacera l’inquieta società italiana in quegli anni, modificandone anche costumi e mentalità:
“Nel tempo si consolidarono alcuni rituali: il vocabolario elementare erano le occupazioni, i cortei e le manifestazioni, più o meno militanti, ossia più o meno violente. Seguirono gli espropri proletari, il gesto delle armi e le armi stesse. Il terrorismo codificherà la cospirazione, la setta, la clandestinità, il gesto estremo.
“Nessun paese europeo conobbe una stagione così insistita e prolungata di conflitti sindacali e non, una così ricca varietà di forme e di livelli di protesta. Nessun paese europeo conobbe un terrorismo politico, di destra e di sinistra, attivo per un periodo così lungo e con un costo in vite umane così elevato. Solo l’Italia conobbe un’area così ampia di indulgenza per le forme di violenza sovversiva e un così lungo consenso, o tolleranza di fatto, per il terrorismo di sinistra: agli occhi di molti militanti i terroristi compivano errori teorici e ideologici, di strategia e di tattica, ma non erano percepiti come avversari, né condannati per la minaccia portata alla convivenza politica della collettività. Erano i “compagni che sbagliano”. Del resto lo slogan “né con lo Stato né con le B. R. ” che ricordava il “né aderire né sabotare”dei socialisti durante la prima guerra mondiale, dimostrava una diffusa alterità, non limitata ai soli settori della nuova sinistra, rispetto alle ragioni della Repubblica” (Cfr. V. VIDOTTO, “La Nuova società”, in L’Italia Contemporanea, cit. pagg. 68-69).
In effetti, a larghi settori dei partiti e delle formazioni della sinistra, o almeno dei gruppi riconducibili all’area della c.d. sinistra extra-parlamentare, si rimproverava un atteggiamento diffuso di eccessiva indulgenza e comprensione nei riguardi dei militanti del Partito armato, e l’ambiguità di una condanna del metodo della lotta armata non disgiunta da condivisione o giustificazione delle sue finalità rivoluzionarie.
Ciò posto, non deve stupire che l’etichetta di militante dell’estrema sinistra, nonché proveniente dalle fila di Lotta Continua, ricavata dalle informazioni assunte in loco nei riguardi del giovane IMPASTATO, si prestasse a ad essere utilizzato come elemento unificante di una serie di elementi indiziari che sembravano convergere a delineare l’ipotesi che egli fosse rimasto vittima di un attentato terroristico da lui stesso ordito e messo in atto.
2.3. La personalità della vittima: modi e contenuti di una militanza politica e civile
1. In realtà, le informazioni raccolte già nei primi giorni di indagine sul conto della personalità, del tenore e dei contenuti dell’impegno politico dell’IMPASTATO – e segnatamente le testimonianze rese dai prossimi congiunti, dagli amici e dai compagni di partito e la documentazione acquisita in esito alle perquisizioni domiciliari – ne fornivano un’immagine addirittura antitetica rispetto agli stereotipi del militante del partito armato qual era già all’epoca consegnato dalle cronache giudiziarie (Il 9 marzo ’78 era iniziato a Torino il primo storico processo alle Brigate Rosse, dopo un rinvio di quasi un anno per il clamoroso rifiuto dei giudici popolari sorteggiati di accettare l’incarico).
Giuseppe IMPASTATO non aveva alcun tratto in comune con la figura del terrorista che nasconde la sua vera identità o i suoi illeciti disegni dietro l’apparenza di un’anonima quotidianità, perfettamente integrato nel corpo sociale per tessere nell’ombra le sue trame di morte, sfuggendo all’attenzione e all’azione di contrasto e prevenzione delle forze di polizia.
Al contrario, egli professava apertamente le sue idee rivoluzionarie e, oltre ad essere l’elemento di punta del gruppo di giovani militanti di sinistra che si riconoscevano nelle posizioni e nei programmi del partito di Democrazia Proletaria (v. tra gli altri, LA FATA Pietro, 10.05.78, fg. 77 vol. 891: “All’interno del gruppo di Democrazia Proletaria Giuseppe IMPASTATO era un punto di riferimento concreto in quanto aveva alle spalle un bagaglio di esperienza politica superiore a tutti gli altri. Con ciò non voglio dire che egli fosse il capo perché un simile concetto è estraneo alla nostra ideologia, ma debbo soggiungere che egli era un personaggio di maggiore suggestività”; cnf. anche BARBERA Giuseppe e CARLOTTA Francesco, fg. 126-127) aveva assunto cariche di vertice, almeno in ambito locale, nelle formazioni politiche della sinistra c.d. extra parlamentare in cui aveva militato in precedenza, come risulta dalla documentazione che già all’epoca era in possesso dell’Arma (in particolare, era stato segretario delle sezioni di Cinisi e Terrasini della “Unione Comunisti Italiani Marxista-Leninista”; e nel 1976 era stato il candidato di Lotta Continua nella lista per le elezioni regionali presentata da Democrazia Proletaria, riportando peraltro in quella competizione elettorale un brillante successo personale).
E infatti egli fu oggetto di costante attenzione da parte dei carabinieri che avevano aperto un fascicolo a lui intestato fin dal dicembre del 1968, quando veniva segnalato come militante del P.S.I.U.P. di “ideologia filocinese” e quindi “pericoloso per l’ordine pubblico”, pur non avendo – alla data di uno dei primi di numerosi rapporti riservati sul suo conto – “pregiudizi penali, politici, né psicopatologici agli atti degli uffici giudiziari competenti di Palermo” (cfr. vol. 3, fg. 689 e segg. della documentazione relativa all’attività integrativa d’indagine del 4.04.2000. Ivi l’estensore del rapporto datato 17.01.69 si premura di aggiungere che “Comunque è di ideologia estremista di sinistra”).
Ma a dire quanto il giovane IMPASTATO fosse estraneo a qualsiasi forma di violenza – ed in particolare alla violenza come strumento di lotta politica – e quindi alieno dal compire atti terroristici non sono solo le prime testimonianze in tal senso rese dal fratello Giovanni o dalla cognata VITALE Felicia o dai suoi amici e compagni di partito e poi ribadite e approfondite nel corso dell’istruzione formale. Ve n’è traccia anche nei pochi reperti documentali agli atti che, in qualche modo, fanno luce sui contenuti e il modo di far politica dell’IMPASTATO.
Prezioso si rivela, sotto questo profilo, l’esito delle perquisizioni domiciliari effettuate a casa IMPASTATO ed anche presso l’abitazione della zia, BARTOLOTTA Fara.
Tale esito non fu solo negativo, come recitano i relativi verbali, rispetto alla ricerca di armi munizioni, materiale esplosivo o qualunque altra traccia di coinvolgimento in attività terroristiche. In realtà, fu rinvenuto e informalmente sequestrato materiale cartaceo (opuscoli volantini ciclostilati ecc.) rivelatosi inconsistente o inconducente ad asseverare, nei riguardi di Giuseppe IMPASTATO, l’etichetta di terrorista, ma utilissimo a lumeggiarne la personalità ed il modo di intendere e di vivere l’impegno politico. (Cfr. fg. 745 e segg. del vol. 4 della documentazione relativa all’attività integrativa d’indagine del 4.04.2000: atti contenuti nel fascicolo riservato in possesso dei Carabinieri e di cui la Commissione di inchiesta parlamentare aveva chiesto la trasmissione al Comando provinciale di Palermo della Regione Carabinieri “Sicilia”).
Ed invero, non si trovò traccia di pubblicazioni clandestine, di volantini o altro tipo di documentazione che incitasse o inneggiasse alla lotta armata; e tanto meno di progetti di attentati o atti di sabotaggio o peggio manuali di istruzione per un “fai da te” del terrorismo armato. (A meno che non si spaccino per tali due testi del professore padovano Toni NEGRI, pubblicati nella collana “Opuscoli marxisti” edita da FELTRINELLI: testi-icona, in quel tempo, per gran parte dei militanti della c.d. sinistra extraparlamentare e opera di un “cattivo maestro” che però all’epoca figurava tra i più gettonati maitre à penser nel non esaltante panorama offerto dalla pubblicistica di sinistra).
Spiccavano piuttosto documenti quali: lo Statuto nazionale dell’A.R.C.I. ; una fotocopia dello Statuto e dell’atto costitutivo di una sezione territoriale della stessa associazione; un documento che illustra in modo dettagliato costituzione, oggetto, finalità e iniziative di una serie di organismi e associazioni che oggi si definirebbero “no profit”, sorte a Partinico ed operanti anche nei territori limitrofi (un consorzio di acque irrigue, cooperative agricole ed artigianali ecc.); un programma di iniziative teatrali che illustra anche la concezione artistica del gruppo teatrale “Living Theatre”; l’elenco nominativo dei tesserati ai due cicli di abbonamento del Cineforum di cui lo stesso IMPASTATO era organizzatore e responsabile per il biennio 1976/77 e relativa contabilità. (Fa un certo effetto constatare come, nel biennio in cui divampava la violenza di piazza e la nuova protesta giovanile si saldava con la recrudescenza del terrorismo, Giuseppe IMPASTATO si occupava con il massimo rigore della gestione di un cineforum, come può evincersi dallo scrupolo con cui risultano annotati i movimenti in entrata e in uscita di cui si componeva il modestissimo bilancio dell’iniziativa; o progettava di costituire una sezione territoriale dell’ARCI).
Ed ancora: un volantino (ciclostilato in proprio) di sostegno alle ragioni della legalizzazione dell’aborto nel quadro di una più complessiva campagna per i diritti civili; e un volantino in cui si censura la strumentalizzazione dell’eccidio di due carabinieri, avvenuto nel gennaio del 1976, in una caserma di Alcamo come pretesto per criminalizzare e perseguitare i gruppi di estrema sinistra e le voci di opposizione, e si denunzia invece la matrice mafiosa del crimine.
Tra il materiale cartaceo oggetto questa volta anche di sequestro formale figurano poi 5 lettere (due indirizzate a Giuseppe IMPASTATATO, due a LA FATA Gianfranco ed una ai “Comunisti” di Cinisi), contenenti minacce nei confronti di Giuseppe IMPASTATO ed altri componenti del suo gruppo, tra i quali MANIACI Roberto e LA FATA Gianfranco): lettere anonime, ovvero a firma, una, senza data, di un gruppo denominatosi “Avanguardia S. M. A. ” e, le altre, spedite in date comprese tra novembre e dicembre del 1973, a firma di un fantomatico gruppo di “muratori” di Cinisi. Tutte si riferivano all’impegno profuso dal gruppo facente capo all’IMPASTATO nell’organizzare la protesta degli edili a Cinisi, in occasione delle agitazioni sindacali verificatesi nei primi anni ’70 e intimavano di desistere dall’intraprendere ulteriori vertenze, vantando “appoggi da certe autorità politiche”, e minacciando, in caso contrario, pesanti ritorsioni (“Noi agiremo con la forza appena sappiamo che voi fate le vertenze…”. “… E tu Giuseppe IMPASTATO sarai il primo a pagarla cara”. E in una delle due missive spedite al LA FATA: “Anche tu devi finirla. Noi abbiamo mandato delle lettere a i tuoi amici comunisti di Cinisi, per dirvi a voi tutti che dovete finirla con i picciotti muratori… Anche ai tuoi amici abbiamo detto che siete controllati, se continuate vi possiamo fare saltare pure la casa. Abbiamo informatori che ci dicono tutto, perciò dovete stare attenti. Dovete finirla a fare diventare comunisti i muratori di Cinisi”).
Figura altresì la famosa lettera che fu interpretata come una sorta di testamento spirituale del giovane IMPASTATO, che in essa avrebbe esternato il proposito di suicidarsi poi messo in atto, legandolo ad un gesto eclatante come un attentato terroristico, secondo la tesi sposata nei due rapporti SUBRANNI.
Con riserva di tornare nel merito, per dimostrare la fallacia di quel ragionamento e la clamorosa svista che lo inficiava nella datazione della lettera, val qui rammentare un brano che non è riportato in nessuno dei due rapporti citati, ma che si rivela quanto mai utile a fotografare il percorso morale e intellettuale dell’IMPASTATO, e la distanza che lo separava dalla psicologia criminale del terrorista. Ne emerge, invero, più che un giudizio politico di disapprovazione, addirittura un personale ed interiore disgusto per la piega assunta dalle vicende della lotta politica a partire proprio dal 1977:
“Ricordo molto bene che, quel giorno, (NdR: poco prima aveva indicato la data del 13 febbraio, vigilia della prima manifestazione studentesca cittadina) trascrissi su una parete del circolo una famosa canzone del ’68 in cui si parla di compagni e compagne, di operai e studenti e di facce sorridenti.
“In quel gesto, volevo esprimere il mio desiderio di tornare a vivere e sorridere come nel ’68 e fino a tutto il ’76.
“Si trattava solo di una pietosa aspirazione e ne avevo piena coscienza”.
Ora è piuttosto evidente, nelle frasi sopra riportate, il disagio e il rimpianto per come, nei nuovi scenari delineatisi tra la fine del 1976 e i primi mesi del ’77, fossero andati smarriti il senso e la dimensione di giocosa vitalità che si poteva ancora respirare appunto “fino a tutto il 1976”: e i nuovi scenari politici sono quelli segnati dalla recrudescenza del terrorismo, in cui all’iniziale folclore contestatario dei “creativi” (come i c.d. “indiani metropolitani”) si mescola e sovrappone il plumbeo nichilismo estetizzante dei seguaci della lotta armata.
Non è facile, in verità, rinvenire manifestazioni altrettanto convinte e convincenti di un’accorata ed interiore presa di distanze dalla psicologia criminale del terrorismo brigatista, in cui “il nulla non deriva dall’ablazione di sé delle persone, ma dalla totale mancanza di senso delle relazioni che intrattengono, delle azioni che commettono, degli ambienti che frequentano: un mondo dove non esistono confini tra il bene e il male, ma dove sono banditi anche i sentimenti e dove capire e osservare la realtà è solo noioso, superfluo, fuorviante. Conta solo piace re a se stessi, e magari riempire le ore di spleen spegnendo nel nulla le vite altrui” (Cfr. S. LANARO, op. cit. pag. 427).
È agli atti la trascrizione di alcuni brani o di intere puntate del programma radiofonico di satira politica “Onda Pazza”, ideato e condotto da Giuseppe IMPASTATO e diffuso dai microfono di Radio-Aut: le relative bobine furono consegnate da IMPASTATO Giovanni al G.I. dott. CHINNICI il 7.12.78 (l’ultima puntata del programma fu trasmessa tre giorni prima della sua morte: la relativa bobina, nell’etichetta intitolata “Commissione elettorale. Situazione pre-elettorale – Mafia-D.C. “, porta infatti la data del 5/05/78).
Ebbene, nonostante la veemente carica di polemica politica e anche ideologica che pervade la dissacrante satira che l’IMPASTATO rivolge contro esponenti di partito e vari personaggi delle istituzioni locali, in nessun passo si registra il minimo cedimento a simpatia o comprensione per le ragioni della lotta armata. Semmai, egli spende parole di solidarietà in favore di chi, a suo giudizio, era ingiustamente accusato di attività terroristiche o di appartenenza a gruppi eversivi, e sul presupposto che le accuse fossero infondate: così nel caso dell’appello in favore di Petra Kraus, che figura in uno degli scorci non umoristici, ma di riflessione e dibattito su temi di attualità della trasmissione.
D’altra parte, sotto tutte le latitudini, storico-ideologiche e geo-politiche, il terrorista, per definizione e per vocazione, non crede al valore della politica, o, almeno, della politica intesa come strumento di organizzazione e mediazione degli interessi, o anche di rottura degli assetti di potere, ma pur sempre attraverso il libero confronto-scontro delle idee e la ricerca (non violenta) del consenso e della persuasione. A questi valori egli sostituisce la ricerca di obbiettivi da distruggere materialmente e di individui da eliminare fisicamente, e persegue un suo disegno escatologico senza curarsi di aggregare consensi e tanto meno di sviluppare (anche) un’azione finalizzata a risultati più o meno immediati di utilità sociale.
Giuseppe IMPASTATO, per quanto può desumersi non solo dalle testimonianze di parenti e compagni di partito ma anche da dati oggettivi della sua biografia, vive la politica come una passione ed un impegno quotidiani che lo spingono a produrre e confrontare idee ed iniziative socializzanti. Del repertorio politico utilizza tutti gli strumenti tradizionali, dal volantinaggio, alla partecipazione a dibattiti ed assemblee, alla diffusione di opuscoli e ciclostilati; alla vendita di quotidiani e periodici a scopo di autofinanziamento, ai comizi; e vi associa anche strumenti più prossimi alle nuove forme di creatività individuale e collettiva: mostre e spettacoli in piazza, interviste e programmi radiofonici.
La stessa scelta della satira, sempre come strumento di lotta politica, è rivelatrice, al contempo, di una sincera vocazione libertaria e di un impegno politico concepito e mirato a scuotere le coscienze e stimolare la critica e il confronto delle idee.
E deve altresì presumersi che egli intendesse condurre la sua battaglia politica all’interno e non contro le istituzioni, posto che, dopo aver riportato un brillante successo personale nelle elezioni regionali del 1976 – riuscendo il più votato della sua lista, a Cinisi: v. esposto in data 16 maggio ’78 presentato da IMPASTATO Giovanni e da sua madre BARTOLOTTA Felicia – stava ripetendo l’esperienza, candidandosi alle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale del suo paese. Al riguardo, è emerso da innumerevoli testimonianze come egli conducesse in prima persona la campagna elettorale, tenendo comizi e rilasciando interviste, ma anche girando con la sua auto per le vie del paese per la più classica delle forme di propaganda elettorale (Cfr. BARTOLOTTA Andrea, LA DUCA Vito, LA FATA Pietro, DI MAGGIO Andrea).
Nel complesso, può dirsi acclarato che egli poneva al centro del suo impegno e del suo modo di far politica un capillare lavoro di contro-informazione, mirato a sensibilizzare le coscienze sui temi del ripristino della legalità attraverso l’incessante denunzia di speculazioni illecite e collusioni politico mafiose, e ad incitare alla ribellione contro il potere mafioso, ma anche ad aggregare consensi intorno ad obiettivi concreti di interesse comune e di forte impegno civile. (v. infra).
Il problema, che si trascinava da più di dieci anni, dell’insabbiamento del porto di Terrasini, fonte di rendita sicura per le ditte appaltatrici dei relativi ed eterni lavori di sbancamento e oggetto, da ultimo, di un faraonico stanziamento pari a un miliardo e duecento milioni (dell’epoca); il disinteresse dell’amministrazione comunale per le condizioni fatiscenti dell’edificio che ospitava la scuola comunale di Terrasini; i prezzi esorbitanti imposti dalle ditte locali, facenti capo a personaggi ben identificati, per le forniture alle imprese impegnate nei lavori di costruzione della vicina autostrada per Mazara del Vallo (un metro cubo di bitume costa un milione solo nel comune di Mafiopoli); lo scandalo delle assunzioni facili di centinaia di (presunti) invalidi civili al Comune di Cinisi; la spartizione tra i vari gruppi politici degli scrutatori reclutati per i vari seggi elettorali in occasione delle imminenti elezioni comunali; il malcontento dei commercianti locali per la mancata o insufficiente valorizzazione delle risorse turistiche a fronte della creazione di vere e proprie isole del turismo organizzato, come il villaggio-comunità “Citta del Mare”, a pochi chilometri da Terrasini; gli intrallazzi e le speculazioni intuibili sullo sfondo di alcuni discussi e controversi progetti di riassetto urbanistico o di ristrutturazione edilizia (come il progetto di ampliamento del cimitero comunale; l’appalto per i lavori di restauro del palazzo municipale, il cui costo sarebbe lievitato a 54 milioni e 479 mila lire, a fronte di un preventivo stimato per circa la metà; l’ampliamento della zona destinata ad attrezzature sportive; il progetto di realizzazione di una strada panoramica tra Punta Raisi e Isola delle Femmine, praticamente a ridosso della battigia); alcune puntate quasi esclusivamente dedicate alle più recenti riunioni del Consiglio Comunale di Cinisi in cui era in discussione l’approvazione del nuovo piano regolatore (e si dà conto al riguardo di malumori e dissensi che serpeggiavano all’interno dei gruppi rappresentativi della sinistra storica, paventandosi una cementificazione selvaggia della circostante zona litoranea); la denunzia e la polemica, particolarmente ricorrenti nelle ultime puntate del programma, concernenti alcune speculazioni edilizie cui erano interessati personaggi vicini a Gaetano BADALAMENTI, ribattezzato gran capo Tano seduto, in spregio al suo onore e alla sua fama di boss incontrastato di Cinisi (e segnatamente, l’approvazione del progetto relativo al Camping Z10, e il progetto, già approvato dalla Commissione Edilizia, per la costruzione di un palazzo di cinque piani nel centro urbano di CINISI, in violazione di limiti legali di altezza e cubatura: progetto presentato dal costruttore Giuseppe FINAZZO, indicato come socio in affari o addirittura prestanome del boss BADALAMENTI): questo è solo un sintetico campionario dei temi e degli argomenti trattati – per lo più attraverso una rappresentazione parodistica di vicende e personaggi che nulla toglie alla loro serietà e al contenuto di denunzia rigorosamente documentata – nelle puntate del programma Onda Pazza, ideato e condotto da Giuseppe IMPASTATO. Ma su tutti campeggia, al di là dei toni e contenuti satirici, l’amarezza e lo sdegno per lo stato di sudditanza di un’intera comunità descritta come ostaggio del potere mafioso che impone il proprio ordine, incarnato nella subalternità ai voleri e agli interessi di Don Tano (“Per Don Tanu non esistono ostacoli”; “Non si muoverà foglia senza il nostro consenso…Se Tanu non voglia”) a suon di lupara, e cioè con la sopraffazione e la forza dell’intimidazione (“…alcuni nostri argomenti li hanno regolarmente dissuasi”: e sullo sfondo si ode un rumore di spari, a proposito del modo in cui Don Percialino, nomignolo affibbiato al FINAZZO, avrebbe soffocato le voci di dissenso circa l’approvazione del progetto di costruzione del palazzo di cinque piani); ma grazie anche all’arrendevole condiscendenza di amministratori e politici imbelli o collusi (“Don Tano Seduto, nostro padre ispiratore”).
E Gaetano BADALAMENTI è a sua volta indicato come il garante di un ordine costituito che, in cambio dell’assoluta subalternità ai suoi voleri, assicura che non ci siano morti ammazzati, dispensa favori e procura o favorisce lucrosi affari, si presenta come patrono e ispiratore di accordi proficui tra gruppi politici, amministratore locali e imprenditori. Ma è anche accusato di arricchirsi con il traffico della droga e di progettare, per un traffico con paesi oltre-oceano, l’apertura di nuovi canali, utilizzando come base logistica uno dei complessi turistici in via di realizzazione, qual era appunto il Camping Z10 (che nella rappresentazione parodistica di Onda Pazza è ribattezzato con una sigla non molto diversa, e cioè Z11, sponsorizzato, a dire dell’IMPASTATO, dal BADALAMENTI attraverso suoi prestanome o fiduciari: “…Potremo sistemare le nostre veloci canoe che porteranno al di là del mare la sabbia bianca, le nostre canoe cariche di eroi…che merci”; “…potremo fumare in pace il calumet con tabacco… bianco come la neve. Veramente, lo faremo fumare agli altri il calumet della pace, il tabacco bianco”).
2. Alcuni dei temi e argomenti sopra cennati ricorrono in altri reperti documentali attribuiti o riferibili a Giuseppe IMPASTATO e testimoniano, per la diversa epoca a cui risalgono, della continuità e centralità del suo impegno contro la mafia.
In uno dei volantini già citati, datato 31 gennaio 1976, si lamenta come le indagini seguite all’eccidio dei due carabinieri avvenuto qualche giorno prima in una caserma di Alcamo si fossero indirizzate su una pista del tutto erronea, quella del delitto politico, traducendosi in perquisizioni a tappeto in “centinaia di abitazioni di compagni della sinistra rivoluzionaria e del P.C.I.” dopo che una telefonata anonima ne aveva rivendicato la paternità ad un fantomatico NAS III (Nucleo Armato Siciliano), presunta filiazione isolana delle Brigate Rosse. E nel denunziare, di contro, la matrice mafiosa di quel delitto, si sottolinea come esso sia stato consumato “in una zona che è, senza ombra di dubbio, campo d’azione incontrastato della mafia: sofisticazione del vino (Partitico), traffico degli stupefacenti (Cinisi, Alcamo), speculazione edilizia mascherata da sviluppo turistico (Cinisi Terrasini), sequestri di persona (Alcamo-Salemi), taglieggiamenti ed estorsioni a danno di ditte appaltatrici di lavori pubblici, controllo del collocamento della forza lavoro e degli enti locali, imposizioni di ogni genere, lotte tra le cosche e una valanga di miliardi ricavato da loschi intrallazzi, riciclati e immessi nel traffico degli stupefacenti.
Ma la mafia non c’entra, dicono i carabinieri, bisogna cercare a sinistra, e via a tutto fiato nelle case dei compagni…” (Difficile sfuggire alla suggestione di leggere in queste parole una tragica e inconsapevole predizione di quanto sarebbe avvenuto, poco più di due anni dopo, all’indomani della morte del loro estensore, con riferimento alla piega che avrebbero inizialmente assunto le indagini).
In altro volantino – su cui dovrà tornarsi per la rilevanza delle reazioni che ne seguirono nella cerchia familiare dello stesso IMPASTATO, e la loro refluenza su di un momento topico della vicenda sfociata nella sua morte – che era stato diffuso per iniziativa del giovane militante di Democrazia Proletaria nell’aprile del 1977, si denunziavano con forza, tra le altre speculazioni in atto con la complicità o la colpevole inerzia dei gruppi consiliari dei partiti della sinistra storica, quelle concernenti la costruzione di due strade: 1) la strada Siino-Fondo Orsa, dal nome delle località che doveva attraversare, per cui era stato deciso un ulteriore finanziamento pubblico destinato ad arricchire il solito FINAZZO; 2) la strada “Purcaria”, sempre dal nome della contrada che avrebbe attraversato.
Quel volantino si apriva peraltro con la denunzia del parere favorevole della Commissione edilizia all’approvazione del progetto per la costruzione di un palazzo a cinque piani “presentato dal famigerato FINAZZO, strascina-quacina di Gaetano BADALAMENTI, viso pallido esperto in lupara e traffico d’eroina” e si sottolineava che “il lavoro di scavo per la posa delle fondamenta è già iniziato e chiunque può vederlo (in zona Mulino)”.
Tale volantino venne consegnato all’A.G. solo in allegato all’esposto datato 16 giugno 1986 con cui veniva reclamata la riapertura delle indagini, dopo la prima archiviazione: ma del suo contenuto e delle pubbliche denunzie formulate da Giuseppe IMPASTATO avevano riferito diversi suoi amici e compagni di partito nelle testimonianze rese già nel corso dell’istruzione sommaria e poi dinanzi al G.I. dott. CHINNICI (Cfr. LA FATA Pietro e BARTOLOTTA Andrea). I passi salienti del volantino sono citati anche nel c.d. Pro-memoria, che fu consegnato allo stesso magistrato dai responsabili di Radio-Aut. Ma i medesimi argomenti ricorrono pure in un brano di un intervista radiofonica di Giuseppe IMPASTATO, registrata ai microfoni di Radio Terrasini Centrale alcuni giorni prima della sua morte e trasmessa proprio Lunedì 8 maggio: trasmissione che fu oggetto di commenti polemici da parte dello stesso IMPASTATO che si dolse con i suoi compagni del collettivi di Radio-Aut del fatto che fossero stati censurati alcuni passaggi in cui esprimeva giudizi spezzanti nei riguardi della Democrazia Cristiana, che accusava espressamente di collusioni con la mafia locale. (Cfr. deposizione di MANIACI Giosuè, 9.12.78, Fg. 783531 del vol. 892; e, in allegato all’attività integrativa d’indagine del 4.04.2000, verbale di trascrizione del brano menzionato, effettuata dai CC di Cinisi a seguito delle S.I. rese da VITALE Salvatore il 3.03.1999, nonché S.I. di CUCINELLA Giuseppe del 14.05.78: il CUCINELLA, che aveva raccolto l’intervista, aveva consegnato la cassetta contenente la registrazione al mar. TRAVALI già in data 14 maggio ’78, rendendo in quella circostanza dichiarazioni piuttosto prudenti ed evasive sul contenuto dell’intervista; si limitò infatti a riferire che IMPASTATO aveva espresso un duro giudizio critico nei confronti dell’amministrazione comunale di Cinisi e si era detto certo che la sua lista avrebbe conquistato almeno un seggio).
3. Altri volantini scritti da Giuseppe IMPASTATO e riportati nel bollettino dal titolo “10 anni di lotta alla mafia” edito dalla Cooperativa CENTOFIORI riguardano pure alcune speculazioni edilizie sponsorizzate da esponenti mafiosi (Se ne dà conto al punto 9 del citato Pro-memoria, ma il bollettino in questione fu consegnato da Giovanni IMPASTATO al G I. CHINNICI in occasione delle ommarie Informazioni (S.I.) rese il 7.12.78).
Nella documentazione consegnata dal fratello Giovanni al G.I., figurano altresì otto fogli manoscritti dello stesso Giuseppe IMPASTATO che “riguardano speculazioni edilizie e mafiose”. (Cfr. ancora verbale di S.I. 7.12.78).
Nell’ultimo comizio, tenuto la Domenica del 7 maggio ’78, Giuseppe IMPASTATO aveva ancora una volta reiterato pubblicamente le sue denunzie su una serie di speculazioni affaristico-mafiose. E tra le altre aveva parlato di forniture imposte ai cantieri MAZZI e ROMAGNOLI per la costruzione dell’autostrada per Mazara, forniture cui erano interessati i fratelli D’ANNA e il solito FINAZZO. (Cfr. punto 16 del Pro-Memoria consegnato al G.I. CHINNICI e fg. 32 del Dossier curato dal Centro Siciliano di Documentazione, in vol. 894).
Nell’esposto presentato da IMPASTATO Giovanni e BARTOLOTTA Felicia già in data 16 maggio ’78 si segnalava tra l’altro che nel corso di quel comizio, cui aveva partecipato una folla numerosissima e non solita, Peppino non aveva mancato di proclamare il suo proposito di condurre fino in fondo la lotta al malaffare, una volta eletto al Consiglio comunale: “Giuseppe aveva assicurato che, entrando in consiglio comunale, avrebbe potuto sapere più cose, approfondire con maggiori dati quelle che conosceva già, e comunicava alla cittadinanza di (voler)condurre meglio e con più forza la battaglia sua e dei suoi compagni”. Si rimarcava altresì che “Giuseppe è stato l’ispiratore e il conduttore delle campagne di denuncia contro i BADALAMENTI e contro tanti altri presunti mafiosi”. E se ne ricordava la condanna esplicita del terrorismo, che lo aveva indotto a “opporsi con forza e meditata convinzione alle azioni criminali compiute dalle Brigate Rosse”. (fg. 137-138. vol. 891).
Anche il teste DI MAGGIO Faro, nelle S.I. rese al P.M. SIGNORINO il 17.05.78, esclude l’ipotesi dell’attentato dinamitardo “perché l’IMPASTATO condannava anche pubblicamente la violenza” (v. fg. 151, vol. 891; cnf. Anche IACOPELLI Fara, fg. 157)
L’ultimo comizio era stato corredato da una mostra fotografica sul tema”Mafia e Territorio”, che illustrava la devastazione del territorio circostante e del vicino litorale, frutto di speculazioni selvagge e di asserite collusioni tra imprenditori rampanti ed amministratori corrotti, con il suggello di esponenti mafiosi che venivano espressamente menzionati. (Foto e didascalia della mostra figurano tra i documenti che furono consegnati da IMPASTATO Giovanni al G.I. dott. CHINNICI, in occasione delle S.I. rese il 7.12.78).
La mostra aveva avuto un tale successo che l’IMPASTATO aveva espresso il proposito di ripeterla, parlandone con i suoi compagni del collettivo di Radio-Aut proprio la sera dell’8 maggio ’78, poco prima di andar via. (Cfr. sul punto, verbale di S.I. rese da MANIACI Giosuè al G.I. CHINNICI il 9.12.78, fg. 28-30 vol. 892).
Anche il teste CARLOTTA Francesco, escusso a S.I. il 15.05.78, ha riferito che l’IMPASTATO, in occasione di una riunione politica tenuta al Policlinico di Palermo circa un mese prima, gli aveva parlato di analoghe iniziative, e più precisamente di una manifestazione che aveva intenzione di organizzare a Cinisi o a Terrasini sui temi delle centrali nucleari e delle scelte energetiche in Sicilia.
Ulteriore traccia della tenacia con cui il giovane militante di D.P. coltivava il suo impegno politico e civile sul versante della lotta alla mafia, facendone anche uno dei temi conduttori della sua campagna elettorale, si rinviene in una testimonianza dello scrittore Michele PANTALEONE, riportata in un articolo a stampa. In particolare, nell’articolo pubblicato sul quotidiano “Giornale di Sicilia” dell’11.12.78, ove si dà conto di un dibattito svoltosi il giorno prima al Liceo palermitano “Garibaldi” che faceva il punto anche sullo stato delle indagini relative alla morte di Giuseppe IMPASTATO, vengono riportate alcune dichiarazioni rese in quella sede dallo scrittore. Questi avrebbe riferito che, qualche tempo prima di morire, l’IMPASTATO lo aveva invitato ad andare a Cinisi per partecipare ad un dibattito sulla mafia: “Ero impegnato – ha aggiunto lo scrittore – e lo pregai di rinviare. Ci incontrammo più volte e, alla fine, concordammo una mia visita a Cinisi per dopo le elezioni. (Lui era candidato e non volevo dare l’impressione di parteggiare per una lista in particolare). Sapevo comunque che da tempo Peppino IMPASTATO indagava sul traffico di droga. E sono convinto che è questa la strada da battere se si vuole scoprire chi l’ha ucciso”. (Cfr. fg. 233 vol. 1 del fascicolo riservato in possesso dell’Arma, trasmesso con la doc. integrativa del 4.04.2000).
Ed invero, non risulta che Michele PANTALEONE abbia poi saputo fornire informazioni effettivamente utili alle indagini volte a far luce sul movente e sui responsabili del delitto. Ma quella testimonianza conferma che l’impegno anti-mafia era uno dei temi conduttori delle iniziative e delle manifestazioni pubbliche attuate e/o programmate da Giuseppe IMPASTATO, e, pur connotandone la stessa campagna elettorale, si proiettava oltre quella scadenza immediata.
Anche le testimonianze dei prossimi congiunti e degli amici e compagni di partito, seppur con accenti diversi e da diversa angolazione, sono assolutamente univoche e concordi nel sottolineare questo aspetto dell’impegno politico di Peppino, nonché la concretezza delle sue pubbliche e reiterate denunzie, sempre circostanziate e corredate da nomi e cognomi delle persone accusate.
Nelle S.I. rese al G.I. dott. CHINNICI in data 7.12.78, Giovanni IMPASTATO – ribadendo peraltro la convinzione espressa già nell’immediatezza del fatto, e cioè che suo fratello fosse rimasto vittima di un agguato e che i suoi assassini avessero voluto dissimulare l’omicidio dietro le apparenze di un attentato terroristico: v. S.I. del 9 maggio ’78 – dichiara:
“D. R. Tra me e mio fratello c’era un rapporto vivo di amicizia. Mio fratello con me si apriva e spesso parlavamo della sua attività. Tale attività era caratterizzata da una lotta a fondo contro il potere mafioso della zona. Di questo lui non faceva alcun mistero e nei pubblici comizi denunciava apertamente i nomi di coloro i quali lui riteneva esponenti del potere mafioso della zona. I nomi erano di Gaetano Badalamenti, Finazzo Giuseppe e di certo Palazzolo.
In particolare al Badalamenti mio fratello dava carico di essere esponente di vere attività illecite: traffico di droga, specificamente di eroina e mandante di delitti mafiosi, e inserito anche alla illecite attività edilizia. A Finazzo in particolare dava continuamente carico di essere uno speculatore nel campo dell’edilizia e della attività delle cave.
Debbo dire che nelle trasmissioni di “Onda pazza” di Radio aut ridicolizzava tali persone chiamandoli per nomignoli. A Finazzo attribuiva il nomignolo di “percialino” e a Badalamenti quello di “grande Capo Tano seduto”, circostanze queste che suscitavano l’ilarità nella cittadinanza.
Però l’attività di mio fratello non si limitava ad una propaganda fatta di parole, egli agiva concretamente, tant’è che riuscì ad ottenere che fossero sospesi i lavori di costruzione di un palazzo a cinque piani che pare sia del Finazzo.
Inoltre mio fratello riuscì a non fare approvare il cosiddetto piano “Z 10” che consisteva nella realizzazione di un campo turistico nella zona di Cinisi. A tale proposito per quanto io so erano interessati un certo Lipari, geometra dell’ANAS, figlioccio di un noto mafioso defunto Rosario Badalamenti; un certo Caldara di Palermo; e un certo Cusimano di Cinisi, costruttore edile, non mafioso ma forse in buoni rapporti con elementi mafiosi. Non risultava che Badalamenti fosse personalmente interessato a questa opera, però Lipari era in buoni rapporti con Badalamenti. Il progetto fu approvato prima della morte di mio fratello e mio fratello denunciò pubblicamente questa approvazione fatta in modo quasi clandestino. L’opera è stata realizzata.
Mio fratello denunciò anche pubblicamente attraverso la radio le imposizioni nei confronti delle società che costruivano l’autostrada le quali erano costrette ad acquistare il materiale necessario dal Finazzo e dai D’Anna, elementi mafiosi di Terrasini”.
Da ultimo, in sede di attività integrativa d’indagine, è stato escusso a S.I. il prof. Salvatore VITALE in relazione ad alcune sue affermazioni pubblicamente fatte in occasione della presentazione del libro L’assassinio e il depistaggio, avvenuta il 12 dicembre 1998 presso l’Auditorium della Scuola Media Statale di Cinisi.
Premesso che, per sua esplicita asserzione, era stato “intimo amico di Giuseppe IMPASTATO con il quale militavamo insieme nella stessa corrente politica”; e che fin dal 1977 anche lui aveva iniziato a frequentare gli studi di Radio Aut, siti in Terrasini, nei pressi della sua abitazione, il VITALE, mai sentito in precedenza dagli Inquirenti, ha dichiarato tra l’altro:
“Ricordo che Giuseppe IMPASTATO, in quel periodo, aveva denunciato pubblicamente che la commissione edilizia, in una seduta del mese di marzo-aprile 1978, aveva approvato il progetto per la realizzazione di un immobile per civile abitazione, in deroga a tutti i vincoli quali quello aeroportuale, in altezza poiché erano previsti ben sette piani ed altre clausole che non ricordo, da sorgere in Cinisi, di proprietà di tale FINAZZO Giuseppe, detto ‘u parrineddu’. Successivamente e solo dopo la morte di Peppino la costruzione che di fatto era iniziata, veniva bloccata. Lo steso FINAZZO, ricordo, che era stato oggetto di una specifica accusa in quanto avrebbe costruito in Contrada Siino Orsa una via per un appalto di circa 1.500.000 con la complicità dell’allora sindaco di quel periodo febbraio marzo del 1978. Allora, il FINAZZO Giuseppe, unitamente al fratello Emanuele, gestivano una cava di pietra sita in contrada Ciciritto, e ricordo inoltre che, durante una mostra fotografica sullo scempio del territorio di Cinisi avvenuta il 5 maggio 1978, il FINAZZO Emanuele è stato notato e fotografato mentre guardava il pannello con le fotografie delle cave, foto riportata a pagina 126 del libro Nel cuore dei coralli. Altro bersaglio delle accuse di Peppino era l’allora realizzazione del villaggio turistico ‘AZ/10’ del quale erano titolari il geometra LIPARI Giuseppe, tecnico dell’ANAS, un costruttore tale CALDARA e tale CUSUMANO dei quali non sono i grado di precisare ulteriori elementi identificativi. Altra persona bersaglio delle accuse di Peppino erano tale Salvatore CUSUMANO, consigliere comunale del Partito repubblicano, del quale egli diceva che era titolare di un deposito di carburanti nel porto di Genova, del quale era convinto che fosse dedito a traffici illeciti per come risulta dalla registrazione di una trasmissione radiofonica del 28.04.1978 e riportata a pag. 102 del libro Nel cuore dei coralli, nonché il prof. Leonardo PANDOLFO, già sindaco di Cinisi, che lo indicava essere ‘consiglieri’ di Gaetano BADALAMENTI. Tale salvatore CUSUMANO è soltanto omonimo al CUSUMANO dell’AZ/10”.
In effetti, oltre ai ripetuti riferimenti alle vicende e i personaggi predetti che si leggono in alcuni brani di trascrizione delle puntate del programma satirico “Onda Pazza”, anche in un passo dell’intervista sopra citata, che fu trasmessa da Radio Terrasini Centrale il 7 maggio ’78, Giuseppe IMPASTATO si sofferma sulla scandalosa lievitazione del costo dell’appalto per la costruzione dell’ultimo tratto di strada dello svincolo per Torre dell’Orsa (“…chi ha costruito quella strada, tutti sanno chi effettivamente l’ha costruita s’è beccati undici milioni per 150 metri di strada…”); e sui contrasti che avrebbero lacerato l’amministrazione comunale di Cinisi – costando la poltrona a ben due sindaci – a cause di due speculazioni edilizie e segnatamente quelle concernenti la realizzazione del villaggio AZ10, già noto come progetto PA2, e la costruzione del famoso palazzo a cinque piani: speculazioni che sarebbero state bloccate, a dire dell’intervistato, per merito della controinformazione e dell’opera di denuncia della sinistra rivoluzionaria (Cfr. dal verbale di trascrizione del 10.03.1999: “…Mi riferisco appunto alla bruciatura di Stefano IMPASTATO che è caduto sul progetto PA/2 e alla bruciatura di Nino BARTOLOTTA, che è caduto sul famoso progetto o sulla approvazione del famoso progetto…di palazzo a cinque piani che doveva sorgere, essere costruito…sotto la 113. Anche in quella occasione, un’ultima annotazione e concludo, anche in quella occasione il progetto è stato bloccato solo ed esclusivamente per merito della controinformazione e dell’opera di denuncia della sinistra rivoluzionaria”).
2.4. Le testimonianze di congiunti, amici e compagni di Peppino IMPASTATO: prime smentite all’ipotesi del suicidio.
Nella sua toccante testimonianza raccolta nel libro intervista La mafia in casa mia, Felicia BARTOLOTTA ricorda che proprio i discorsi di Peppino sulla e contro la mafia, oltre che causa di crescente preoccupazione da parte sua e di suo marito, erano stati all’origine dei contrasti esplosi tra padre e figlio. In pratica, Luigi IMPASTATO non condivideva affatto le idee politiche di Peppino, ma poteva ancora tollerare che fosse comunista; quello che gli riusciva intollerabile era la sua avversione e i pubblici attacchi ad un ambiente che era sempre stato anche il suo e a personaggi cui era ancora legato (cfr. pag. 35: “Lui glielo diceva in faccia a suo padre: Mi fanno schifo, ribrezzo, non li sopporto. Così diceva a me: Non li sopporto, no. L’ingiustizia, fanno abusi, si approfittano di tutti, al Municipio comandano loro”). Per due volte Giuseppe cacciato fuori di casa dal padre – nel senso che questi gli intimò di non mettere più piede a casa sua, poiché già egli abitava dalla zia Fara BARTOLOTTA, come la stessa Felicia ha precisato – e tutte e due le volte a seguito di litigi causati dal fatto che Giuseppe parlava contro la mafia. (cfr. pagg. 34-35).
L’intervista è pubblicata nel dicembre del 1984 e quindi in epoca successiva alla sentenza CAPONNETTO. Ma è significativo che sulla stessa lunghezza d’onda si collochi la testimonianza resa proprio da Fara BARTOLOTTA a caldo, cioè la stessa mattina in cui fu rinvenuto il cadavere di Giuseppe IMPASTATO, e mentre erano ancora in corso le operazioni di identificazione. La sorella di Felicia ha confermato che fin da piccolo suo nipote viveva con lei e suo marito, deceduto sette mesi prima. Sapeva che faceva attività politica, che era candidato nella lista di Democrazia Proletaria, e che frequentava una radio privata di Terrasini insieme ad altri suoi amici che ne condividevano le idee politiche; ma non poteva aggiungere altro, anche perché Giuseppe in casa “non ha mai parlato di politica” e non vi aveva mai portato nessuno dei suoi compagni di partito (circostanza quest’ultima ribadita anche dinanzi al P.M. SIGNORINO il 17.05.78, fg. 147 vol. 891). Una cosa però, un solo frammento è stata in grado di riferire dei discorsi politici di suo nipote: “Mio nipote spesso nominava la parola mafia, senza comunque specificare cosa intendesse dire anche perché io sono ignorante politicamente” (cfr. verbale S.I. del 9.05.78, aperto alle ore 08.00). Dunque pur nella sua dichiarata ignoranza di politica; e sebbene suo nipote non parlasse di politica a casa, ciò che, nondimeno, la zia Fara ha percepito e più le è rimasto impresso dei suoi discorsi è il fatto che parlava – evidentemente anche a casa – di mafia. Ed è importante sottolineare la spontaneità di questa testimonianza resa quando ancora non era stata informata della morte di suo nipote. Nella successiva deposizione, resa a distanza di qualche mese dinanzi al G.I. CHINNICI, la stessa Fara renderà dichiarazioni molto più articolate sull’impegno politico del nipote contro la mafia, ammettendo però di esserne stata informata dai parenti e dai compagni di partito di Giuseppe. (V. verbale di S.I. 7.12.78, fg. 22 del vol. 892 “Insisto nell’affermare che mio nipote, per non darmi preoccupazioni, non mi parlava mai del suo programma politico, quello che ho detto circa gli attacchi contro i mafiosi di Cinisi l’ho saputo dagli amici di mio nipote e da tutto il paese”).
Quanto alle testimonianze degli amici e dei compagni di partito, tutti escludono che l’IMPASTATO potesse nutrire propositi suicidi (e tanto meno il proposito di compiere un attentato terroristico), sottolineando come egli stesse vivendo piuttosto un momento di fervido impegno e di rinnovato entusiasmo per la politica, atteso anche l’andamento gratificante della campagna elettorale che lo vedeva impegnato in prima persona in molteplici e coinvolgenti iniziative pubbliche, sempre connotate da un forte impegno di denunzia contro il malaffare e gli illeciti intrecci politico-mafiosi. (Cfr. IACOPELLI Fara, IACOPELLI Graziella, VITALE Felicia, VITALE Maria Fara, ANDRIOLO STAGNO Marcella, BARTOLOTTA Andrea, FANTUCCHIO Giuseppe, CAVATAIO Benedetto, LO DUCA Vito, LA FATA Pietro, DI MAGGIO Faro, CARLOTTA Francesco, VITALE Salvatore.).
E alcuni di loro, in particolare, confermano che quelle del loro amico e compagno Giuseppe erano denunzie mirate e accuse circostanziate. Al riguardo, oltre alla testimonianza del prof. VITALE, che sarà resa solo molti anni dopo, si segnalano le dichiarazioni che furono rese già nell’immediatezza del fatto e nel corso dell’istruzione sommaria, prima, e di quella formale poi, da LA FATA Pietro, LO DUCA Vito e ANDRIOLO STAGNO Marcella.
Quest’ultima in particolare, nelle S.I. rese il 10 maggio ’78 dichiara che “L’IMPASTATO Giuseppe era un giovane alquanto sensibile e da un certo tempo aveva impostato la sua linea politica nella denuncia pubblica della mafia locale e delle speculazioni che tali organizzazioni effettuavano. In particolare, egli indicava Gaetano BADALAMENTI quale capo della mafia locale, nonché in privato asseriva che lo stesso fosse un corriere della droga. Aveva pubblicamente citato un tale FINAZZO costruttore edile del luogo, uno speculatore in materia edilizia riferendosi alla costruzione di un palazzo a cinque piani…” (Cfr. verbale di S.I. a fg. 61, vol. 891).
Lo stesso giorno, BARTOLOTTA Andrea, dopo aver asserito che l’IMPASTATO “era molto sensibile, aperto e che perseguiva una linea politica ben precisa e cioè la lotta aperta alla mafia locale”, precisa che “per linea politica mi riferisco a quella anticapitalista, antimperialista e contro ogni forma di repressione. Per lotta alla mafia mi riferisco a quella rivolta alla mafia locale sul piano della informazione e controinformazione consistente nella pubblica denunzia dei danni derivanti al territorio dalla speculazione edilizia. Come riferimenti precisi, egli si riferiva a Gaetano BADALAMENTI nonché a due ex sindaci del Comune di Cinisi, nelle persone di ORLANDO e PANDOLFO. Questi ultimi due sono compresi nella mostra già esposta domenica scorsa in questo corso Umberto”. (Cfr. fg. 71, vol. 891).
Nelle S.I. rese il 9 maggio (fg. 77-80), LA FATA Pietro (che apparteneva anche lui al collettivo di Radio Aut ed era candidato nella stessa lista di Democrazia Proletaria) si dice convinto che “IMPASTATO Giuseppe sia stato ucciso volontariamente e poi da parte dei responsabili sia stato simulato un incidente come se fosse avvenuta la sua morte in conseguenza dello scoppio accidentale di una bomba. Ritengo che sia stato ucciso perché IMPASTATO Giuseppe rappresentava l’uomo di punta di una controinformazione sostanziata di denunce di speculazioni varie come lottizzazioni edilizie, cave, scempio delle coste, del litorale. Tutto ciò ne faceva carico alla mafia locale che attaccava pubblicamente in linee generali. L’anno scorso invece in un volantino denunciò apertamente che tale FINAZZO Giuseppe di Cinisi, legato al mafioso Gaetano BADALAMENTI, esperto in lupara e traffico di eroina, aveva presentato un progetto per la costruzione di un edificio di cinque piani in aperta violazione della legge. In seguito a tale denunzia il progetto non fu approvato. Per questi motivo ritengo che IMPASTATO Giuseppe sia stato ucciso ad opera della mafia locale”.
(Per completezza e obbiettività, va rammentato che, dopo essere stato edotto dagli stessi Ufficiali di P. G. che lo stavano esaminando di alcuni passi della lettera-testamento attribuita all’IMPASTATO, e segnatamente di quelli in cui si manifestano propositi suicidi, il LA FATA, esplicitamente sollecitato a rivedere le proprie affermazioni, ha dichiarato: “Non mi sento di dare una risposta organica. Sono sorpreso. Sono stupito e non mi aspettavo una cosa del genere. Non posso non tenere conto delle frasi di cui mi è stata data testè lettura e onestamente debbo dire che ne sono rimasto influenzato e forse è il caso che io riveda anche la mia primitiva convinzione sulle cause del decesso di IMPASTATO Giuseppe”. Ma sul punto, e sull’effetto depistante della famosa lettera, si tornerà in prosieguo).
LO DUCA Vito, al P.M. SIGNORINO, conferma che “l’IMPASTATO aveva denunciato alla cittadinanza di Cinisi la costruzione di due strade e di un villaggio turistico improduttivo per Cinisi stessa. In particolare, una strada costruita con i soldi del Comune in contrada ‘Purcaria’ che serviva per l’uso di due sole persone di cui non so i nomi, ma ho sentito dire essere mafiosi e del villaggio turistico in realtà non so particolari precisi. Il villaggio turistico si chiama Z 10” (Cfr. verbale di S.I. del 19.05.78, fg. 154).
Nelle S.I. rese al G.I. CHINNICI il 9.12.78, VITALE Maria Fara, che faceva parte del collettivo di Radio Aut “da circa un anno e mezzo”, dopo aver ribadito la sua convinzione che Peppino fosse stato ucciso per mano mafiosa (“io pensai subito che Peppino era stato ammazzato e ciò perché Peppino da dieci anni a questa parte a Cinisi faceva un certo tipo di lavoro politico che lo portava a contrastare il potere mafioso”), aggiunge di aver pensato all’assassinio anche “perché Peppino IMPASTATO aveva ideato la trasmissione ‘Onda Pazza’ nella quale, in chiave satirica, attaccava mafiosi chiamandoli per nome e attribuendo nomignoli: chiamava Gaetano BADALAMENTI ‘Tano Seduto’, o ‘il Grande Capo’, FINAZZO lo chiamava ‘Don Peppino Percialino’. ‘Onda Pazza’, la trasmissione ideata da Peppino IMPASTATO si occupava di speculazioni mafiose.
“In un pubblico comizio Peppino IMPASTATO denunciò il FINAZZO perché lo stesso aveva iniziato la costruzione di un palazzo a cinque piani. A seguito della denuncia dello IMPASTATO i lavori furono sospesi.
“In un altro comizio Peppino denunciò l’iniziativa di un complesso turistico che fu realizzato su parere favorevole della Commissione edilizia”. (Cfr. fg. 34-35 vol. 892).
Questa sommaria rassegna suggerisce un’ulteriore considerazione sul ruolo e sul tipo di azione politica esercitati da Giuseppe MPASTATO all’interno del gruppo di giovani militanti di D.P. e del Collettivo di Radio Aut: egli non solo era, in pratica, il vero artefice e ispiratore di un’incessante campagna di denuncia contro il malaffare e le “speculazioni edilizie e mafiose”; ma con tutta probabilità era anche il più scrupoloso nella ricerca dei dati e delle informazioni a corredo delle sue pubbliche denunce, nonché, conseguentemente, l’unico in possesso di tali dati e a conoscenza di particolari e retroscena, sulle vicende e sugli illeciti intrecci oggetto di quelle denunce, che restavano ignoti ai più, compresi i suoi stessi compagni di partito.
2.5. Ancora dubbi e insinuazioni: i “precedenti” di Peppino IMPASTATO.
La difesa dell’imputato insinua il dubbio che le testimonianze dei prossimi congiunti dell’IMPASTATO e quelle dei suoi amici e/o compagni di partito non siano attendibili, soprattutto nella parte in cui tendono ad accreditarne l’immagine di una persona aliena da qualsiasi forma di violenza e pervasa da un rigore morale e un fervore ideale che traduceva in un’appassionata militanza politica. Le prime, per comprensibile e umana pietas verso il congiunto scomparso, farebbero prevalere le ragioni dell’affetto e del dolore (o del risentimento contro i presunti assassini) sulla serenità di giudizio. Le altre sarebbero offuscate anche dall’intento degli stessi dichiaranti di fugare qualsiasi sospetto di contiguità a gruppi o attività terroristiche o eversive, e dal timore di poter essere a loro volta attinti dai gravi sospetti avanzati dagli Inquirenti sul conto di Giuseppe IMPASTATO fin dai primi atti successivi al rinvenimento del cadavere.
Di contro va ribadito che, insieme ai più stretti congiunti, gli amici e i compagni di partito rimangono le principali e più attendibili fonti cui attingere elementi di conoscenza della personalità, delle idee, degli interessi, delle inclinazioni e delle abitudini di vita dell’IMPASTATO, in quanto gli unici in grado di interloquire sul suo vissuto familiare, e sulla sua formazione politica per averne direttamente condiviso o conosciuto vicende ed esperienze personali e di lotta politica.
D’altra parte, è fin troppo ovvio che il rilievo processuale di quelle testimonianze non sta nei giudizi sulla personalità di Giuseppe IMPASTATO o nei convincimenti espressi sulle cause della sua morte, bensì nei riferimenti che se ne ricavano a fatti specifici e a circostanze di vita vissuta, e nelle informazioni (riscontrate o verificate) e quant’altro, di obbiettivamente rilevabile o riscontrabile nella vita e nella condotta della vittima, possa giovare a far luce sulle cause della sua morte. E sotto questo profilo, al di là della convergenza e concordanza che le testimonianze predette registrano fin dal primo giorno d’indagine, la messe di reperti documentali di cui s’è fatto cenno fornisce eloquenti riscontri, ove ve ne fosse bisogno, alla loro attendibilità.
Se è vero poi, come pure si dirà, che il rapporto di collaborazione con gli Inquirenti è stato turbato, per tutta una prima fase delle indagini, da un pesante clima di sospetto e di avversione pregiudiziale alla matrice politica e ideologica del gruppo di militanti di cui faceva parte lo stesso Giuseppe IMPASTATO – ne sono traccia evidente le massicce perquisizioni effettuate anche a casa di molti di loro, alla ricerca di armi esplosivi o altro materiale compromettente; e il modo in cui taluno venne escusso, in termini più prossimi all’interrogatorio di un inquisito – non è men vero che tale clima provocò piuttosto, per reazione, un atteggiamento di sfiducia e di diffidenza che si tradusse a sua volta in reticenza o indisponibilità a rivelare fin dall’inizio circostanze e particolari di sicuro interesse investigativo (Scrive in proposito il giudice CAPONNETTO che fu proprio questo “senso di sfiducia che indusse amici, compagni e parenti del giovane, come risulta dalle sopramenzionate dichiarazioni di costoro, a rivelare in un momento successivo, e soltanto al Giudice Istruttore, circostanze di indubbia rilevanza al fine di accertare modalità e causa del tragico episodio”).
Ma la difesa dell’imputato, a confutazione delle risultanze emerse in ordine alla personalità dell’IMPASTATO e per accreditare l’opposto assunto di una sua inclinazione alla violenza, ne cita i precedenti penali e le valutazioni espresse nei rapporti riservati sul suo conto contenuti nel fascicolo riservato in possesso dei Carabinieri.
Ora, tralasciando quelle valutazioni, che si fondano esclusivamente sulla pregiudiziale riprovazione delle idee politiche professate dall’IMPASTATO – come si evince dall’ apodittico giudizio di pericolosità sociale motivato dalla professione di ideologie estremistiche e di sinistra – dalla scheda informativa allegata al fascicolo riservato cat. “P” in possesso dell’Arma (v. fg. 737 vol. 4) risulta che Giuseppe IMPASTATO riportò:
– una condanna a £ 15.000 di ammenda, per violazione dell’art. 16 della legge sulla stampa, successivamente amnistiata;
– una seconda condanna, con sentenza del Pretore di Carini del 22.12.1969, a £ 50.000 di ammenda (pena sospesa) per disturbo di spettacolo pubblico;
– e infine, con rapporto giudiziario dei Carabinieri di Cinisi in data 11.07.1973, fu deferito a piede libero alla Pretura di Carini per lesioni personali lievissime, aggressione e violazione di domicilio in persona dell’esponente della Giovane Italia di Cinisi, MALTESE Salvatore, ma non risulta che in ordine a tale fatto sia intervenuta sentenza di condanna. (Dell’episodio – che fu oggetto di una contro-denunzia in un volantino diffuso dal Centro di Informazione Democratica che figura tra gli atti informalmente sequestrati nell’abitazione dell’IMPASTATO – Giovanni IMPASTATO ha dato questa versione nella deposizione resa all’udienza del 25.10.2000 nel procedimento nr. 41/99 a carico di BADALAMENTI Gaetano: “Un’altra denuncia l’ha subita non perché lui ha aggredito i fascisti, ma perché i fascisti hanno aggredito lui e lì ci sono delle testimonianze precise, ci sono degli atti giudiziari che sicuramente qualche persona non è andata guardare o a leggersi attentamente. Ha partecipato a quegli scontri anche mia mamma, perché i fascisti lo stavano uccidendo a Peppino IMPASTATO. Cioè si vadano… andiamo a rileggere un po’ quegli atti”. Cfr. stralcio del verbale d’udienza prodotto dalla Difesa dell’imputato in allegato alla memoria del 15.02.2001).
Nessuna condanna quindi per danni a cose o a persone.
Ciò posto, l’entità di simili precedenti, avuto riguardo anche alla loro causale e alla lontananza nel tempo, appare a dir poco risibile a fronte del clima instauratosi in tutto il Paese a partire dalla seconda metà degli anni ’70: un clima di esacerbata conflittualità sociale, di tensione strisciante e di violenza diffusa, che si è cercato di riassumere attraverso la cronologia degli avvenimenti più significativi, sotto questo profilo, occorsi nel biennio 77/78 (v. supra). Erano, come si è visto, anni in cui non solo gli attentati terroristici, ma anche gli scontri di piazza mietevano vittime con cadenza quasi giornaliera e provocavano ondate di arresti e denunzie con imputazioni ben più gravi della violazione della legge sulla stampa o del disturbo della quiete pubblica. E i movimenti dell’IMPASTATO erano oggetto di particolare attenzione, se è vero che in una nota riservata trasmessa al Comando Gruppo Operativo dei Carabinieri di Palermo in data 23.05.78, si conferma che egli aveva effettuato svariati viaggi a Palermo, Roma e Bologna per partecipare a manifestazioni di piazza e di protesta. Deve quindi presumersi che non sarebbe passato inosservato un suo coinvolgimento in scontri o violenze di piazza. (Cfr. fg. 287, vo. 1 del fascicolo ult. citato).
Del tutto inconducente appare poi l’episodio, pure rievocato dalla difesa del PALAZZOLO, del litigio familiare nel corso del quale l’IMPASTATO sarebbe venuto alle mani con suo zio Giuseppe, inteso SPUTAFUOCO, che era una persona anziana (oltre settanta anni) oltre che un prossimo congiunto.
Ed invero, l’assoluta occasionalità dell’episodio e la peculiare cornice psicologica in cui si verificò non consentono affatto di inferirne un temperamento aggressivo e una spiccata familiarità nel ricorrere alla violenza fisica da parte del giovane militante di D.P. Di tale episodio, occorso la stessa sera della morte di Luigi IMPASTATO, padre di Peppino, ha riferito il fratello Giovanni nell’esame dibattimentale cui è stato sottoposto all’udienza del 25.10.2000 nell’ambito del processo parallelo a carico di BADALAMENTI Gaetano (il relativo verbale è stato acquisito su richiesta della difesa dell’imputato, per comprovare la storicità del fatto).
Ebbene, il teste ha spiegato che il fatto avvenne mentre “c’era il morto a casa” e che suo fratello Giuseppe, raggiunto dalla notizia che suo padre era rimasto vittima di un incidente stradale, ne fu sconvolto non solo per l’ovvio dolore che l’improvvisa perdita di un genitore può cagionare ai figli, e per il particolare stato d’animo indotto dai lacerato contrasti che lo avevano allontanato dalla casa paterna, ma anche perché era convinto che non si fosse trattato di un incidente, bensì di un assassinio ordito da quella stessa cerchia di personaggi mafiosi o vicini a esponenti mafiosi, cui apparteneva anche lo zio SPUTAFUOCO, per eliminare l’ostacolo che impediva loro di uccidere lo stesso Giuseppe (“…Dice ora chiaramente avete ucciso lui ora … per … per uccidere me successivamente”). E fu proprio questo il motivo del litigio:
“Dunque mio fratello era molto addolorato del fatto che improvvisamente viene a sapere della morte del padre. Era molto addo…poi viveva in una situazione terribile, perché non…. non era a casa, era fuori casa insomma… Poi c’è stato il fatto del viaggio che lo ha un po’ sorpreso pure lui ed era… aveva delle convinzioni. Credo che ognuno di noi può anche avere delle proprie convinzioni. Lui era convinto che praticamente mio padre fosse stato ucciso, che non si trattava di un incidente stradale. Anche perché non…non conosceva lui la dinamica del fatto. Improvvisamente gli dicono c’è tuo padre morto in un incidente stradale. Chiaramente lui si scaglia verbalmente contro questo zio, lo zio risponde e lo rimprovera…insomma gli va incontro, lui pure va incontro a lui. Insomma…. e vengono quasi alle mani. Non è che c’è stato un atto di violenza nei confronti di mio fratello, sia di mio fratello sia dello zio. Vengono quasi alle mani, cioè il fatto che…. insomma abbia 70 anni (N.d.R.: in realtà erano 77, come precisato dall’avv. GULLO), diciamo che… 77, 76, è una persona che merita rispetto ma non che… poi c’era il figlio accanto, Jack, non era soltanto questo zio mio.”
2.6. Ancora sulle risultanze obbiettive dei primi accertamenti investigativi: ulteriori smentite all’ipotesi dell’attentato.
1. Gli elementi fin qui esaminati – e con riserva di tornare su alcuni di essi – debbono un sicuro valore indiziario al fatto di concorrere, nel loro insieme, a delineare un quadro valutativo, in ordine alla personalità di Giuseppe IMPASTATO, al tenore e ai contenuti del suo impegno politico, al suo percorso morale e intellettuale, del tutto dis-metrico e incongruo rispetto all’ipotesi dell’attentato terroristico. Molti di essi, noti o acquisiti già nella fase d’avvio delle indagini, offrivano spunti investigativi che avrebbero dovuto indurre gli Inquirenti a sondare, quanto meno, la possibilità di causali del fatto diverse e alternative a quell’ipotesi, senza escludere a-priori alcuna pista, e segnatamente quella mafiosa. Né può obbiettarsi che le modalità e circostanze del fatto apparivano del tutto estranee al copione e ai rituali tipici dell’omicidio di stampo mafioso – come pure teneva a ribadire il col. SUBRANNI anche nel rapporto datato 30. 05.1978 – poiché già nel corso delle S.I. raccolte tra il 9 e il 10 maggio, e poi ancora nell’esposto a firma dei congiunti dell’IMPASTATO presentato in data 16 maggio, si ventilava apertamente l’ipotesi di un depistaggio: ossia che si fosse trattato di un omicidio artatamente dissimulato dalla macabra messinscena di un attentato terroristico proprio per sviare le indagini dalla vera natura e causale del delitto e occultare la provenienza della mano omicida. E se si fosse subito scavato con il dovuto rigore – e senza pregiudiziali politico-ideologiche – in direzione della personalità della vittima, del suo retroterra familiare e del contesto ambientale in cui si era innestato il suo peculiare modo di far politica, ne sarebbero scaturiti (come si dirà) elementi di conoscenza e di valutazione dei fatti sufficienti e idonei a rendere più che plausibile, e quindi degna di approfondimento, l’ipotesi del depistaggio.
Tuttavia, da quegli stessi elementi non poteva e non può venire una risposta esauriente e definitiva ai numerosi interrogativi sulla morte di Giuseppe IMPASTATO, a partire proprio dal nodo cruciale sulla configurazione del fatto (omicidio, suicidio, o morte dovuta all’esplosione accidentale di un ordigno che lo stesso IMPASTATO avrebbe tentato di piazzare tra i binari della ferrovia).
Ma ben altre risultanze, anch’esse emerse peraltro fin dalle prime battute investigative, valgono a confutare l’attendibilità del costrutto indiziario imbastito inizialmente sull’ipotesi dell’attentato terroristico.
Intanto, dall’esame degli atti, a fronte degli accenti di certezza con cui si esprimeva il fonogramma a firma del dott. MARTORANA nel prospettare quell’ipotesi, risaltano la prudenza e la cautela che ispirano invece le due (pressoché contestuali) comunicazioni a firma del dott. TRIZZINO, primo magistrato intervenuto sul posto nella sua qualità di Pretore di Carini: non solo nel fonogramma già citato delle ore 9.45, ma anche nella “Comunicazione di morte” successiva all’identificazione del cadavere non viene avanzata né si lascia trapelare alcuna ipotesi sulla causale del fatto. Dalla testimonianza resa dallo stesso dott. TRIZZINO alla Commissione parlamentare di inchiesta apprendiamo che quella prudenza era imposta anzitutto dal fatto che non gli competeva formulare ipotesi, dal momento che la direzione delle indagini era stata già assunta, quella stessa mattina, dal competente Ufficio di Procura.
Ma c’era dell’altro:
“Ricordo l’estrema complessità e difficoltà del sopralluogo, proprio perché – come ho già detto – non vi era un cadavere da identificare, da sottoporre a ricognizione, m solo brandelli sparsi – una scena veramente raccapricciante – oserei dire a centinaia di metri, alcuni dei quali furono trovati anche sui fili della luce; sulle prime non si riuscì a reperire una parte consistente del corpo. Ricordo anche un particolare. Mentre stavo ultimando il sopralluogo, proprio perché non c’era più nulla da fare, mi posi il seguente interrogativo: può il corpo di una persona ridursi in quel modo senza la possibilità di trovare una sua parte più consistente?Mi rivolsi quindi ad un ufficiale superiore dei carabinieri che stava sul posto, pregandolo di attivarsi per far intervenire un gruppo di militari per scandagliare la zona al fine di trovare un qualcosa di più considerevole. Proprio nel momento in cui stavo per andare via da quel luogo, fui richiamato perché fu trovata una gamba intera. (…) La ferrovia era interrotta perché alcune traversine dei binari erano saltate. In prossimità della ferrovia vi era una macchina, una Fiat 850 o qualcosa del genere, che mi fu segnalata come appartenente all’IMPASTATO. Dal cofano anteriore di tale macchina fuoriusciva una specie di filo elettrico. Proprio in relazione al ritrovamento della gamba intera – non ricordo se a posteriori o sul momento – supposi che l’IMPASTATO si trovasse in posizione curva o prona sui binari e che l’esplosivo fosse collocato sotto il torace, cosa che poteva dare adito a perplessità sulle reali causali del fatto“. (Cfr. dall’audizione del 25 novembre 1999 dinanzi al Comitato di Lavoro sul caso IMPASTATO, pag. 44 della relazione in atti).
In effetti, la scena che si presentava agli occhi dei Carabinieri e del pretore TRIZZINO appena intervenuti sul posto era a dir poco raccapricciante, per quanto è dato desumere dal verbale di ricognizione dei luoghi a firma dello stesso Pretore (e del mar. TRAVALI) in cui sono minuziosamente ricostruiti la sequenza e i luoghi di rinvenimento dei poveri resti con la cruda descrizione del loro stato, poi integrata dai rilievi di cui al verbale autoptico redatto (a cura del dott. PROCACCIANTI) quella stessa mattina all’obitorio del cimitero comunale: brandelli di carne e tessuti vari, frammenti ossei e di pelle di cui riesce difficile allo stesso medico legale stabilire a quale organo o parte del corpo appartenessero e sparsi nel raggio di trecento metri.
Le gambe, invece, erano integre, con l’ulteriore particolarità che presentavano una netta diversione o strappamento dei tendini della coscia; e che erano state proiettate a grande distanza dal cratere dell’esplosione. Più esattamente, si legge nel verbale di ricognizione, che viene rinvenuto un pezzo d’arto troncato, con insieme delle parti muscolari e ricoperto in parte dal resto di un calzone bleu e al piede una calza dello stesso colore, tolta la quale “si accerta che trattasi dell’arto inferiore destro”; tale arto “appare integro dal terzo superiore in giù”. Prosegue poi il verbale che “alla distanza di quasi cento metri dal primo arto si rinviene ulteriormente il resto dell’arto di sinistra pure integro dal terzo superiore della coscia fino al piede e alla radice dilaniato, con visione di parti molle e della testa del femore scoperchiata. Al piede la calzetta colore blu”. Nel verbale di sopralluogo a firma TRAVALI (fg. 44-45 vol. I e 891) si legge che i due arti furono trovati a circa trecento metri dal punto dell’esplosione. Ma sull’ubicazione e la distanza a cui essi furono rinvenuti, dichiarazioni assai dettagliate ha reso l’app. PICHILLI, autore, insieme al necroforo comunale BRIGUGLIO Giuseppe, di quel rinvenimento (v. infra).
In sede di ispezione cadaverica, il medico legale osserva che i due arti inferiori appaiono “ricoperti da un abbondante peluria di un soggetto di sesso maschile, con unghie che oltrepassano le estremità delle dita. Tali arti risultano irregolarmente disarticolati in corrispondenza delle anche. Il rivestimento cutaneo è irregolarmente frastagliato ed affumicato sulla fascia anteromediale delle cosce stesse. L’affumicatura si estende alla cute integra per una decina di centimetri ed ai muscoli della radice delle cosce per un’estensione pressoché analoga. Sulla fascia mediale della coscia sinistra la pelle presenta delle lacerazioni a forma di V con apice in basso. In corrispondenza della lacerazione più interna (delle due anzidette) si rinviene una parte dello scroto, un testicolo e il pene lacerati ed affumicati. Integre le parti restanti delle cosce, delle gambe e dei piedi”. Ed ancora ribadisce. “Integre le ossa delle cosce, delle gambe e dei piedi” (cfr. fg. 19, vol. I e 891).
In pratica, le gambe sono state tranciate di netto dal resto del corpo, rimanendo pressoché intatte (piedi compresi), mentre il resto del corpo è stato letteralmente sbriciolato dall’esplosione. Basti rammentare che i frammenti più grossi erano costituiti da parti dell’osso iliaco e frammenti di teca cranica della lunghezza di pochi centimetri. Ancora dal verbale autoptico del 9.05.78: “…si notano altresì frammenti di cuoio capelluto, di ossa craniche (ogni frammento di forma triangolare, quadrangolare o pentagonale, ha il diametro massimo di 6-8 centimetri). E tra gli ulteriori resti si evidenziano “frammenti di muscoli, di rachide cervicale, di ossa tra cui è riconoscibile solo un largo frammento di osso iliaco destro, di cute, di encefalo e di intestino”.
Ciò fa supporre che gli arti inferiori non siano stati investiti direttamente né dallo scoppio né dall’onda d’urto dell’esplosione, e quindi dovevano trovarsi poco al disotto – e non al di sopra o allo stesso livello – della carica esplosiva e parzialmente al riparo della massicciata, avvalorando l’ipotesi che il corpo di IMPASTATO fosse disteso per terra con la parte superiore del tronco, ovvero la parte compresa tra il bacino e lo sterno a diretto contatto della carica esplosiva (come ipotizzato anche dagli artificieri LONGHITANO e SARDO). Questa considerazione, come vedremo, è ripresa ed evidenziata nella relazione PELLEGRINO di consulenza balistica.
Ma c’è un altro dato che balza evidente già dal macabro elenco dei reperti di cui al verbale di ricognizione dei luoghi e agli altri atti sopra citati: uno dei pochi frammenti riconoscibili e di maggior consistenza dopo gli arti inferiori, è costituito da una porzione della mano destra, e precisamente “dagli ultimi tre metacarpi e dalle ultime tre dita a confine assai irregolare”. (Nel verbale autoptico si precisa che “la superficie palmare è interamente affumicata e decisamente nerastra sui polpastrelli”).
Valgono per questo reperto considerazioni analoghe a quelle relative agli arti inferiori. Attesa la potenza dell’esplosione, la mano destra doveva trovarsi su di un piano diverso rispetto a quello su cui era dislocata la carica esplosiva, o comunque in una posizione tale da non essere investita in pieno e direttamente dalla tremenda onda d’urto dell’esplosione. A fortori è ragionevole supporre che essa non fosse a diretto contatto con la carica medesima, ché altrimenti sarebbe stata sbriciolata.
Né vale obbiettare, in contrario, che le evidenti tracce di polveri piriche sulla superficie palmare sono compatibili ed anzi avvalorano l’ipotesi che l’esplosivo potesse trovarsi tra le mani della vittima: è questa, come si vedrà, la conclusione formulata, in termini interlocutori, nella relazione di consulenza medico-legale a firma CARUSO-PROCACCIANTI. Ma nella medesima relazione si evidenzia che analoghe tracce di esplosivo vennero rinvenute anche nei frammenti della camicia di lana indossata dalla vittima; e praticamente tutti i frammenti di cute recuperati e riconoscibili presentano tracce di affumicatura.
Al riguardo il perito balistico formula una considerazione addirittura troncante: “Su questi resti anatomici sono stati individuati tracce di nitrati, ma questa risultanza è di scarsa utilità in quanto che è oltremodo evidente che l’epidermide delle parti esposte del corpo della vittima sia stata direttamente investita dalla violenza dell’esplosione”. (Cfr. Relazione PELLEGRINO, fg. 190, vol. I).
Ed invero, se l’esplosione di un semplice colpo d’arma da fuoco entro il limite delle brevi distanze, ossia fino a 50 centimetri, provoca il deposito di nitrati sulla cute della persona che ne sia attinta, è lecito supporre che le polveri sprigionate dall’esplosione di 4 o 6 chili di tritolo investano ben oltre quel limite la cute non solo delle mani ma di qualsiasi altra porzione del corpo che vi sia esposta. E se, in ipotesi, il corpo di IMPASTATO era disteso per terra con il tronco a contatto diretto con l’esplosivo, la mano destra (così come la sinistra) non poteva certo trovarsi ad una distanza tale da porla al riparo dal deposito di nitrati e polveri sprigionate dall’esplosione: senza che per questo si debba concludere che, al momento dell’esplosione, la bomba stava addirittura tra le mani della vittima. (Si noti peraltro che la prova c.d. della paraffina ha dato esito positivo per la ricerca di nitrati anche sulla parte dorsale e non solo su quella palmare della mano destra: cfr. pag. 10 della relazione CARUSO).
D’altra parte, la conclusione formulata al riguardo nella relazione CARUSO-PROCACCIANTI è dichiaratamente interlocutoria. Gli stessi periti infatti ammettono che i dati relativi all’affumicamento del frammento di mano dx e delle estremità superiori delle cosce, tenuto conto anche delle lacerazioni sulla faccia interna della coscia sx – dati che farebbero ritenere verosimile che al momento dell’esplosione l’ordigno si trovasse all’altezza del bacino, probabilmente tra le mani della vittima – “permettono di stabilire soltanto la posizione dell’ordigno rispetto alle parti anatomiche del soggetto, ma non permettono di far luce su quale fosse in quel momento l’esatta posizione del corpo dell’IMPASTATO rispetto al suolo (o alla strada ferrata), né, invero, disponiamo di altri dati idonei a risolvere tale quesito” (cfr. pagg. 20 e 21). Questa precisazione tradisce, ci sembra, insieme all’incertezza sulla posizione del corpo, il dubbio sul ruolo attivo o passivo delle mani rispetto alla carica esplosiva.
Resta il fatto che, soprattutto a paragone di tutte le altre parti del corpo, la mano destra riportò danni minori o almeno fu una delle porzioni corporee più risparmiate dall’esplosione; e resta il dubbio che anche la mano sinistra fosse stata risparmiata. Infatti, il prof. DEL CARPIO consegnò ai periti i frammenti e poveri resti che aveva ricevuto in data 12 maggio da uno dei giovani compagni di IMPASTATO (che li avevano rinvenuti sul luogo della tragedia lo stesso giorno o il giorno prima); ed ha sempre indicato uno di tali frammenti come appartenente alla mano sinistra. Invece, nella relazione CARUSO-PROCACCIANTI si attribuisce tale identificazione dell’arto ad un errore, perché “in effetti era un brandello di cute a contorni assai frastagliati, privo di qualsiasi caratteristica anatomica tipica della mano”.
Sul punto, non ci si può esimere dal rilevare che il prof. DEL CARPIO, unanimemente reputato come clinico valente e medico legale di valore indiscusso, ebbe modo di visionare il frammento corporeo in questione appena tre giorni dopo la data del decesso e non appena lo ebbe in consegna lo ripose nella cella frigorifera (come ha dichiarato), insieme agli altri resti. Invece, i periti predetti, quando hanno esaminato gli stessi reperti, e in particolare il presunto frammento della mano sx, li hanno trovati “già in preda a putrefazione” e questo stato di degrado potrebbe averne ostacolato l’identificazione.
Tuttavia, la Corte non può che limitarsi a registrare il contrasto di valutazioni anatomiche tra il prof. DEL CARPIO e i consulenti CARUSO e PROCACCIANTI, sicché non v’è alcuna certezza che quel frammento appartenesse effettivamente alla mano sinistra della vittima.
Val comunque ribadire che se, effettivamente, l’ordigno si fosse trovato, al momento dello scoppio, tra le mani dell’IMPASTATO, queste sarebbero state le prime parti del corpo ad essere investite dalla violenza dell’esplosione. Invece, proprio le mani, o almeno la mano destra, risulta essere la parte del corpo che ha riportato i danni meno devastanti, dopo gli arti inferiori.
2. Dubbi e ovvietà
Ma al di là dei ragionevoli dubbi scaturiti da una prima sommaria valutazione dei poveri resti del corpo del giovane militante di D.P., già nei primi giorni di indagine, e più precisamente nel periodo compreso tra il primo e il secondo dei due rapporti giudiziari a firma del magg. SUBRANNI, andò facendosi strada, tra i magistrati inquirenti, una considerazione logica che contribuì a minare le iniziali e frettolose certezze sulla causale del fatto.
Ne ha riferito proprio il dott. MARTORANA nel corso della sua audizione in data 15.12.99 dinanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta, parlando appunto dei primi dubbi che indussero il suo Ufficio a verificare piuttosto l’ipotesi che si fosse trattato di omicidio: “…Io ritenni strano che un soggetto, con l’intenzione di compiere un attentato, avesse collocato un esplosivo su un tratto di binario ferroviario lontano 500 o 600 metri. Cosa voleva dimostrare? Questa fu la mia riflessione.” (A domanda del Presidente, lo stesso MARTORANA risponde che, però, “ufficialmente non fece nulla” per verificare la fondatezza di quei dubbi). E aggiunge: “Una persona che compie un attentato deve mirare a qualcosa di particolare e non era particolarmente grave far saltare un tratto di binario ferroviario, peraltro di una linea di scarsa percorrenza”.
Ma, ricorda l’ex procuratore aggiunto, il rinvenimento della lettera in cui IMPASTATO esternava propositi suicidi “fuorviò tutte le indagini perché effettivamente sembrò che la morte fosse dovuta ad un atto disperato, ad un suicidio” (Cfr. pag. 85 e nt. 58 della relazione in atti). Tuttavia, qualche giorno dopo, alcuni giovani di Democrazia Proletaria o di Radio Aut “rinvennero una pietra su cui c’era qualche macchia di sangue e la portarono all’Istituto di Medicina Legale, non ai Carabinieri, perché credo che ci fosse qualche prevenzione per quanto riguardava le stazioni dei carabinieri. … L’Istituto di medicina legale in quel periodo era retto da un eccellente medico legale, il Professor Ideale DEL CARPIO sul quale credo non si possa avanzare alcuna ombra. Egli informò immediatamente l’autorità giudiziaria. Venne dato ad un secondo collega l’incarico di andare a fare un’ispezione e controllare da dove fosse spuntata questa pietra”. Ma solo dopo che furono presentati degli esposti (“alcuni di questi furono fatti proprio dai compagni di Democrazia Proletaria”) e furono pubblicati sulla stampa alcuni articoli in cui si cominciava a profilare l’ipotesi dell’omicidio, solo allora “convocai i colleghi SIGNORINO e SCOZZARI e organizzai una riunione, nel corso della quale dissi al dottor SIGNORINO che era necessario che invitasse i carabinieri ad approfondire le indagini proprio su quell’aspetto.”.
3. Le pietre insanguinate, i sopralluoghi al casolare e i reperti- fantasma.
In effetti, quello delle pietre insanguinate trovate all’interno del casolare poco distante dal luogo in cui era esploso l’ordigno che fece a pezzi il corpo di IMPASTATO è uno dei capitolo più oscuri nel tormentato iter delle indagini e poi della vicenda processuale che ci occupa: per le incertezze sull’effettivo numero delle pietre in questione e sulle modalità del loro rinvenimento; ma anche per l’ostinazione, da parte di chi conduceva le indagini sul campo, nel negare o minimizzare la rilevanza di questo elemento indiziario fino a quando fu possibile farlo, e cioè fino all’esito degli accertamenti medico-legali che appurarono trattarsi di sangue umano e dello stesso gruppo sanguigno di Giuseppe IMPASTATO (Cfr. conclusioni certe, sul punto, nella relazione PROCACCIANTI, pag. 25: “Le macchie di sangue prelevate sulla camicia indossata dal soggetto al momento del fatto appartengono al gruppo “0 CD”. Le stesse proprietà gruppo-specifiche (0 CD) caratterizzano la macchia di sangue umano esistente sulla pietra repertata durante il sopralluogo giudiziale del 13.05.78″).
E valga il vero.
– In data 12 maggio ’78, il prof. Ideale DEL CARPIO – che sarà nominato consulente tecnico di parte nell’interesse dei prossimi congiunti e legittimi eredi dell’IMPASTATO – riceve una pietra con tracce verosimilmente ematiche e un sacchetto contenente resti umani tra cui una mano: glieli consegna uno studente di Medicina, tal CARLOTTA, specificandogli che la pietra era stata asportata dal casolare vicino al luogo dell’esplosione, e i resti umani erano quelli del corpo di IMPASTATO, raccolti nei dintorni.
In particolare, nelle S.I. rese al P.M. dott. SCOZZARI il 13 maggio, lo stesso DEL CARPIO ricorda di aver subito contestato al giovane che sarebbe stato opportuno consegnare quei reperti ai Carabinieri. Ma gli fu risposto che i carabinieri erano stati informati del rinvenimento di tracce di sangue all’interno del casolare, ma non si erano attivati. La stessa sera il prof. DEL CARPIO provvide ad informare l’A.G. e per il giorno seguente venne disposta un sopralluogo con ispezione del casolare: atti che furono effettuati dal P.M. dott. SCOZZARI, con la partecipazione dello stesso DEL CARPIO, di alcuni dei giovani che avevano scoperto le tracce di sangue (LO DUCA Vito e LA FATA Giampietro), oltre a vari ufficiali (compreso il magg. SUBRANNI) e sottufficiali (tra i quali il mar. TRAVALI) dei Carabinieri, esperti della Polizia Scientifica e i due consulenti tecnici già incaricati dei necessari accertamenti medico-legali. E, come si evince dal verbale d’ispezione, proprio su indicazione dei giovani predetti vengono effettivamente rinvenute, repertate ed asportate due pietre con macchie verosimilmente di sangue.
– La testimonianza di DEL CARPIO trova preciso riscontro in quella di Felicia VITALE: al G.I. dott. CHINNICI aveva dichiarato di essere stata proprio lei, insieme ad altri compagni a trovare le pietre insanguinate all’interno del casolare e di averne subito informato i Carabinieri. (v. S.I. del 21.12.78, vol. II, fg. 71).
Nel corso della sua audizione dinanzi alla commissione parlamentare d’inchiesta ha poi spiegato che il carabiniere a cui si erano rivolti, non diede corso ad alcun accertamento. E fu questa la ragione per cui decisero di asportare loro stessi una delle pietre insanguinate e di farla avere – insieme ad alcuni resti del cadavere parimenti rinvenuti sul luogo dell’esplosione – al prof. DEL CARPIO.
– Analoga spiegazione era stata resa già nel corso dell’istruzione formale da Giovanni IMPASTATO, che l’ha poi ribadita dinanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta: “Debbi dire a questo proposito che, a quello che ho saputo, i ragazzi amici di mio fratello avevano notato tali macchie fin dal primo momento: in tal senso informarono il Maresciallo, il quale però solo a distanza di giorni accettò la richiesta di accedere sul posto” (Cfr. S.I. del 7.12.78 cit.).
Qui il teste allude ad un distino sopralluogo effettuato personalmente dal mar. TRAVALI, di cui ora si dirà, e in esito al quale furono rinvenute altre pietre con macchie di sangue.
– Secondo quanto riferito dalla teste VITALE, il primo rinvenimento delle pietre insanguinate risalirebbe ad un sopralluogo effettuato da amici e compagni di Giuseppe IMPASTATO (tra i quali la stessa VITALE) uno o due giorni dopo la scoperta del cadavere. In effetti, dal riscontro incrociato delle testimonianze rese nel corso dell’istruzione sommaria dai compagni di IMPASTATO che parteciparono a quel sopralluogo e alla susseguente decisione di far avere il materiale rinvenuto al prof. DEL CARPIO, è lecito ricavare che quel sopralluogo avvenne o il giorno precedente alla materiale consegna a mani dl prof. DEL CARPIO, e quindi l’11 maggio; oppure lo stesso 12 maggio.
Sul punto, il 13 maggio ’78 sono stati sentiti direttamente dal P.M. SCOZZARI sia LO DUCA Vito che LA FATA Pietro. Entrambi hanno confermato di aver ispezionato insieme ad altri compagni (tra i quali pure MANZELLA Benedetto, come ricorda la teste VITALE) il casolare e di avervi rinvenuto ed asportato una pietra sporca di sangue che poi qualcuno di loro aveva fatto pervenire al prof. DEL CARPIO. Ed entrambi collocano l’episodio al “primo pomeriggio di ieri”, e cioè quel 12 maggio in cui il prof. DEL CARPIO ricevette il reperto in questione.
Ma dal verbale di S.I. in atti a fg. 113 si evince che quello stesso 13 maggio – giorno dell’ispezione SCOZZARI e dell’escussione dei due testi menzionati – viene sentito dal mar. TRAVALI anche MANZELLA Benedetto, il quale fa risalire l’episodio in questione ad “avantieri, giorno 11 maggio”. Ed è pacifico che si riferisca al medesimo episodio: “<Avantieri giorno 11 maggio 1978,in compagnia di altri giovani miei compagni mi sono recato il località ‘Feudo’ di Cinsi ove era avvenuta l’esplosione in cui trovò la morte Giuseppe IMPASTATO allo scopo di ispezionare il luogo al fine di trovare qualche traccia. Verso le ore 16 circa del predetto giorno ho visto una macchia che a mio avviso poteva essere macchia di angue, per cui unitamente ai miei compagni ho deciso di asportare unitamente alla pietra sulla quale si trovava. Preciso che detta pietra fa parte del pavimento di una stalla con ingresso che si affaccia verso Cinisi e che fa parte del fabbricato rurale di una casa abbandonata distante pochi metri dalla strada ferrata. La sera dello stesso giorno era venuto in Cinisi il giovane che conosco solo di vista, ma non ricordo il nome, al quale ho consegnato la pietra con sopra la macchia di sangue. Io consegnai detta pietra al giovane con l’incarico di farla recapitare al prof. DEL CARPIO per gli accertamenti”
– Lo stesso MANZELLA fu protagonista però di un altro sopralluogo al casolare con il conseguente rinvenimento di altre quattro pietre con macchie verosimilmente di natura ematica. Di tale episodio non si parla nel citato verbale delle S.I. rese dal MANZELLA. Ma di esso hanno riferito al G.I. Giovanni IMPASTATO (de relato) e DI MAGGIO Faro, che ne fu anche lui protagonista.
Il primo ha dichiarato in particolare che Faro DI MAGGIO faticò a convincere il mar. TRAVALI a recarsi all’interno del casolare in cui lo stesso DI MAGGIO e altri compagni avevano rinvenuto delle tracce di sangue: “e fu solo allora che lui repertò un sasso che conteneva le macchie”.
Secondo il racconto di Faro DI MAGGIO (v. verbale di S.I. rese al G.I. il 7.12.78, vol. II, fg. 23-27) la pietra insanguinata poi recapitata al prof. DEL CARPIO fu rinvenuta e estratta dal pavimento del casolare “non ricordo se lo stesso giorno o il giorno successivo al rinvenimento del cadavere, ovvero al giorno in cui lui e gli altri compagni erano stati interrogati dai carabinieri. Nella circostanza erano presenti anche LO DUCA Vito, Pino MANZELLA e Paolo CHIRCO. Furono fatte delle fotografie sia alle macchie che al pavimento e in particolare alle macchie sulla panchina in muratura all’angolo della parete. Quindi, loro stessi staccarono dal pavimento una pietra sporca di sangue, e corsero a chiamare i Carabinieri. Insieme a loro, prosegue il DI MAGGIO “abbiamo rotto con martello e scalpello parte della panchina in muratura sulle quali si trovavano le macchie di sangue e parte del pavimento, consegnando sia le parti in muratura staccate, che lo straccio e un telo di sacco imbevuto di sostanza solidificata argentata ai carabinieri. Subito dopo in caserma abbiamo verbalizzato tutto”.
L’episodio, che si riferisce evidentemente ad un sopralluogo fatto al casolare dal mar. TRAVALI in un momento e in circostanze diverse dall’ispezione effettuata la mattina del 13 maggio dal P.M. SCOZZARI, è confermato dalle dichiarazioni rese al G.I. dott. CHINNICI dall’app. PICHILLI e dallo stesso TRAVALI.
Il primo ha dichiarato che, dopo l’ispezione condotta dal Pretore la mattina in cui fu rinvenuto il cadavere di IMPASTATO, lui non partecipò ad ulteriori ricerche sul posto: “Soltanto qualche giorno dopo, assieme al Maresciallo, mi recai al casolare su segnalazione di alcuni giovani che vennero in caserma ad avvisarci che in un casolare vicino al luogo dello scoppio avevano visto delle macchie di sangue.
Fui io che assieme al Maresciallo asportai un tratto del sedile in muratura e una pietra dove si notavano appena delle macchie” (v. verbale di S.I. 28.12.78, fg. 84-85).
Il TRAVALI a sua volta riferisce che, qualche giorno dopo l’ispezione curata dal dott. SCOZZARI – che lui colloca dubitativamente al pomeriggio del 9 maggio o nelle ore antimeridiane del giorno dieci – “un gruppo di ragazzi, tra cui MANZELLA e DI MAGGIO, presentarono in caserma pezzi di stoffa ed alcune pietre con delle macchie nerastre. Il tutto io repertai e trasmisi alla Procura della Repubblica” (cfr. fg. 46 verbale di S.I. del 19.12.78).
Ma molto più preciso e dettagliato dell’approssimativa ricostruzione fatta al G.I. sia dal PICHILLI che dal TRAVALI e il verbale in atti (v. fg. 116, vol. I e 891) datato 13 maggio ’78, a firma dello stesso TRAVALI, che fornisce puntuali riscontri al racconto del DI MAGGIO, sollevando però non pochi interrogativi.
Nel verbale predetto, che ha ad oggetto la “ricezione di numero due pezzi di stoffa” esibiti da DI MAGGIO Faro, MANZELLA Benedetto e CUSUMANO Gaetano (tutti e tre compiutamente generalizzati nel medesimo atto) si attesta che “Avanti a noi, M.C. TRAVALI Alfonso, comandante della Sazione predetta, carabiniere PICHILLI Carmelo è presente DI MAGGIO Faro, MANZELLA Benedetto e CUSUMANO Gaetano, i quali spontaneamente ci esibiscono numero due pezzi di stoffa sotto descritti che a loro dire sono stati rinvenuti nello spiazzo antistante la casa rurale di contrada Feudo.
– un pezzo di stoffa a fiorellino fantasia blè, bianco viola e verde che presenta numero tre piccoli buchi prodotti probabilmente da bruciature ed un pelo attaccato all’orlo del buco; numero otto piccolissime macchioline carcerate da un apposito cerchio a matita di colore rosso così anche i buchi. Detta stoffa appartenga ad indumento per abito da donna.
– un pezzo di stoffa di colore nocciola sporco delle dimensioni cm. 40×60 circa che presenta attaccature di materiale solido come piombo ad un angolo ed in altre parti due macchie nere probabilmente di catrame e con una certa quantità di catrame attaccata. Detta stoffa a dire dei giovani è stata rinvenuta nello spiazzo antistante alla predetta e dove poco più avanti era stata lasciata parcata l’autovettura appartenente ad IMPASTATO Giuseppe.
I predetti, nella circostanza, facevano presente di avere notato alcune macchie probabilmente di sangue che si trovano sulla panca in muratura nell’interno della stalla con ingresso verso Cinisi. In considerazione di quanto sopra lo scrivente, in compagnia dei predetti, si recava sul posto ove, con l’ausilio di scalpello provvedeva ad asportare sul masso di tufo le macchie sotto segnate:
– due macchie di probabile sangue rinvenute sopra una pietra, ai piedi della panca del pavimento della stalla la pietra è stata asportata e repertata;
– numero tre pezzi di tufo facente parte della panca, ciascuno dei quali presenta macchie rossastre con delle sbavature.
Le macchie sono state carcerate con matita color rosso. Quanto…. (illeggibile)sarà repertato e trasmesso all’Autorità Giudiziaria per gli accertamenti di competenza.
Detto materiale è stato rinvenuto dai predetti alle ore 17 del 13.5.1978″
La lettura del verbale fuga qualsiasi dubbio, ove mai potessero esservene, circa il fatto che le pietre con macchie di sangue effettivamente asportate dal mar. TRAVALI insieme al PICHILLI dopo che il loro intervento era stato sollecitato dal DI MAGGIO e dagli altri compagni summenzionati, provenivano effettivamente dallo stesso casolare dinanzi al quale era parcata l’auto di Giuseppe IMPASTATO e che fu oggetto anche dell’ispezione curata dal dott. SCOZZARI.
Ora è singolare che di questo episodio non vi sia traccia nel verbale delle S.I. rese lo stesso 13 maggio (appena venti minuti dopo, stando all’orario di apertura del medesimo verbale) proprio da MANZELLA Benedetto e concernente il rinvenimento di tracce di sangue all’interno del casolare e l’asportazione della pietra fatta pervenire al prof. DEL CARPIO. Eppure, il MANZELLA era stato diretto protagonista anche di questo secondo episodio (cioè dell’asportazione di altre pietre ad opera del C. te della Stazione di Cinisi): lo ricorda il DI MAGGIO, lo conferma il TRAVALI e lo attesta il verbale a firma di quest’ultimo sopra riportato.
È a dir poco singolare che il mar. TRAVALI abbia intrapreso quell’iniziativa, sia pure su sollecitazione dei giovani amici e compagni di IMPASTATO, senza previamente informare i suoi superiori che pure erano direttamente impegnati nelle indagini e che, stando alla data riportata nel verbale in questione, avevano effettuato una delicata ispezione quella stessa mattina in quel casolare alla ricerca di eventuali tracce di sangue. Né si preoccupò di informarli subito dopo, benché il (nuovo?)sopralluogo avesse avuto esito positivo.
Ma è di inaudita gravità che quel materiale, compresi i pezzi di stoffa che verosimilmente recavano tracce non solo dell’esplosione, ma anche dell’esplosivo utilizzato, non sia mai stato oggetto di alcun accertamento e non se ne abbiano avuto più notizie (v. infra).
Con riserva di tornare tra breve su questi punti oscuri della vicenda, va intanto segnalato che l’indagine della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso IMPASTATO ha messo in luce un’altra circostanza, se possibile ancora più inquietante, relativa alla possibilità che gli stessi Carabinieri si siano accorti, o siano stati informati della presenza di tracce di sangue all’interno del casolare già la mattina del 9 maggio 78.
Agli atti della Commissione figura invero una copia (e relativa trascrizione) della registrazione di una intervista contenente le dichiarazioni di Giuseppe BRIGUGLIO, inteso Liborio, necroforo comunale di Cinisi, che partecipò alle operazioni di ricerca e raccolta dei resti del povero IMPASTATO, la mattina del 9 maggio ’78. Tali dichiarazioni furono raccolte da Felicia VITALE IMPASTATO (la VITALE ha sposato Giovanni IMPASTATO) ed una copia della registrazione è stata acquisita (dalla Commissione) presso il Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe IMPASTATO, dove era custodita (cfr. pag. 67 e nt. 135 della relazione in atti).
È opportuno quindi riportare il testo dei passi salienti di quella intervista, come trascritti alle pagg. 67 e 68 della relazione in atti:
“F. Che mestiere fai?
L. Il mio mestiere è… di spostare i cadaveri.
F. Cioè sei necroforo comunale?
L. Sì, sì. Giusto.
F. Da quanto tempo fai il necroforo?
L. Quarant’anni.
F. Conoscevi Peppino Impastato?
L. Sì, conoscevo Poppino Impastato. Quannu c’era d’appizzari [appendere] i manifesti… U venerdì, mi retti [diede] i manifesti pi essiri pronti u sabatu, chi c’era u fattu du comiziu, si purtava Pippinu Impastato. Perciò… Poi sintivi stu fattu, mi vinniru a chiamari… là… u dutturi…
F. Parli del 9 maggio?
L. Il 9 maggio, quannu fu… Pippinu Impastato…
E. Quando fu assassinato Peppino Impastato…
L. Sì, e mi vinniru a chiamari, u dutturi Di Bella, compreso il Comune di Cinisi, pi spustari… “Sai, ci fu stu buottu”. Poi di chiddu c’era sei chila di robba, sei chila…
E. Cioè del corpo di Peppino hai recuperato…
L. L’occhiale e compreso chiddu chi c’era vicino ai zabbari [alle agavi], giustu? Nu murettu c’era una amma [gamba] di Pippinu Impastato.
Pu fattu di chiavi, truvai nella ferrovia, ‘nsemmula [insieme] cu maresciallu, chi era e… truvammu sti chiavi nella ferrovia.
F. Le hai trovate tu o ti ha detto…?
L. U maresciallu mi rissi: “Amu a truvari sti chiavi”. E circammu ‘nsinu chi truvammu sti chiavi nella ferrovia. A ferrovia era già staccata, du scoppiu [per lo scoppio].
F. Ti ha indicato lui il posto dove cercare?
L. Sì, sì, pi circari sti chiavi, ca i chiavi un si putevanu truvari unni eranu e i truvammu na ferrovia. Tuttu bellu… I truvammu e ci retti all’autorità. “Ccà ci sunnu i chiavi”. Poi arrivannu na cosa. Truvammu sta pietra. Sta pietra era… E si la purtaru iddi…
F. Dove?
L. Ni lu casularu.
F. Dentro il casolare…
L. Dentro il casolare e truvammu sta pietra e s’a purtaru iddi ‘n Palermu, pi i fatti soi, pi indagini.
F. La pietra era sporca di sangue?
L. Sì inchiappata [sporca] di sangue era.
F. Era sporca di sangue…”
Secondo questa testimonianza (che fu raccolta, val ripeterlo, da Felicia VITALE per conto del Centro siciliano di documentazione) un grosso ciotolo sporco di sangue fu rinvenuto proprio dal necroforo Liborio già la mattina del 9 maggio all’interno del famoso casolare; e fu consegnato ai carabinieri che la conservarono in un sacchetto e la portarono via. E questa è anche l’unica circostanza, tra tutte quelle riferite nel corso della intervista, di cui non si fa menzione nelle S.I. che lo stesso BRIGUGLIO rese al G.I. dott. CHINNICI, in data 2.12.78, ossia la prima e unica volta in cui venne sentito nel corso delle indagini sull’omicidio (dopo la formalizzazione della relativa istruzione). Ma è anche vero che in quella sede il punto relativo alla presunta ispezione del casolare e alla scoperta delle tracce di sangue non fu oggetto di specifico approfondimento. Certo è che di quel reperto non v’è traccia agli atti.
D’altra parte, il ricordo del necroforo non può che essere legato all’unica circostanza in cui egli fu presente sul luogo: il giorno appunto del rinvenimento del cadavere e in occasione della pietosa raccolta dei resti del corpo. Difficile che possa essersi sbagliato: dovremmo ipotizzare che abbia confuso la sua esperienza personale e diretta, legata a quel macabro sopralluogo, con notizie apprese successivamente (magari apparse sulla stampa o comunque divenute di pubblico dominio) circa il rinvenimento di pietre insanguinate all’interno del casolare.
Il racconto del BRIGUGLIO, però, sembra trovare conferma nelle dichiarazioni rese dal mar. TRAVALI nel corso della sua audizione dinanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta in data 11 novembre 1999. E ciò almeno su due punti essenziali: a) il casolare fu ispezionato già la mattina del 9 maggio ’78; b) furono effettivamente rinvenute, in esito a tale ispezione delle tracce di sangue su alcune pietre del pavimento. (“Mi sembra di ricordare che all’interno di quel casolare disabitato e fatiscente rinvenimmo qualche pietra”).
L’argomento viene ripreso e messo a fuoco nel seguente passo della citata audizione che di seguito si riporta:
“RUSSO SPENA COORDINATORE. Che cosa avete trovato nel casolare?
TRAVALI. Poche cose, quasi niente. Ripeto, ricordo che non abbiamo trovato niente, poi non so se nel verbale. . .
RUSSO SPENA COORDINATORE. Non avete osservato dei segni di violenza, ad esempio delle pietre insanguinate?
TRAVALI. Credo che sia stata rinvenuta qualche pietra con tracce di sangue. A proposito del casolare torno a ripetere che si trattava di un edifìcio malandato disabitato da molto tempo.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Maresciallo Travali, precedentemente, a mia precisa domanda, lei ha risposto che il casolare era stato perquisito e che non avevate rinvenuto nulla, adesso però afferma che in quell’edifìcio vi erano delle pietre insanguinate. . .
TRAVALI. Mi sembra di ricordare che all’interno di quel casolare disabitato e fatiscente rinvenimmo qualche pietra con tracce di sangue.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Avete dato importanza al fatto di aver trovato queste pietre insanguinate nel casolare? Inoltre ci può descrivere il casolare?
TRAVALI. Era un edifìcio con mura fatiscenti, senza porte e quindi accessibile a tutti, forse veniva utilizzato come ricovero da qualche pastore dal momento che era completamente aperto.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Il sopralluogo nel casolare l’avete effettuato immediatamente, non appena compresa la gravità dei fatti verifìcatisi?
TRAVALI. Certamente, nella stessa mattinata e siamo rimasti sul posto fino a tardi.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Quindi presumo che il sangue sulle pietre fosse ancora fresco?
TRAVALI. Questo non lo so dire.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Immagino che abbiate esaminato queste pietre, non sa dirmi quindi se si trattasse di sangue fresco?
TRAVALI. Noi abbiamo rinvenuto delle pietre con qualche schizzo di sangue.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Non avete toccato le pietre per verifìcare se si trattasse di sangue fresco?
TRAVALI. No, non l’abbiamo fatto perché toccandole avremmo potuto alterare delle prove. Successivamente, provvedemmo a comporre in una cassa i frammenti del cadavere dell’Impastato che rinvenimmo nei dintorni, addirittura sugli alberi considerato che la deflagrazione era stata di una certa violenza. A quel punto tornammo in paese dove altri gruppi stavano effettuando indagini, accertamenti e perquisizioni a cui non partecipai perché – ripeto- rimasi sul posto dove stilai il verbale di sopralluogo”.
La questione è ulteriormente approfondita nel prosieguo dell’audizione:
“RUSSO SPENA COORDINATORE. Lei ha parlato poco fa di reperti e vorrei sapere qualcosa sulle pietre insanguinate e sulle tracce di sangue trovate nel casale.
TRA VALI. Anche le pietre venivano repertate.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Lei ha detto che non bisognava alterare le pietre perché avevano macchie di sangue. Poche-ore dopo l’avvenimento, quindi quando ha albeggiato, lei è entrato nel casolare e ha trovato pietre con macchie di sangue, tant’è vero che ha detto che non bisognava alterarle (verbo che lei ha usato e che risulta dai nostri resoconti stenografici). Agli atti non vi è traccia di reperto sulle pietre insanguinate. E sicuro che sono state repertate?
TRAVALI. Tutto quello che veniva rinvenuto sul luogo o che ci veniva portato dai giovani di Cinisi. . .
RUSSO SPENA COORDINATORE, Mi riferisco a quello che avete rinvenuto nel casolare; i giovani svolgevano attività di volontariato nelle indagini le quali però spettano alla stazione dei
carabinieri. Avete repertato le pietre con macchie di sangue rinvenute nel casolare?
TRAVALI. Tutto ciò che veniva rinvenuto veniva repertato e quindi anche queste pietre.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Il ritrovamento di pietre insanguinate nel casolare sarebbe stato utile anche per le vostre indagini.
TRAVALI. Tutto quello che veniva rinvenuto veniva repertato e consegnato presso la cancelleria della procura.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Lei ha detto di aver visto pietre insanguinate e tutto ciò che è stato rinvenuto sul posto veniva repertato. Di conseguenza, anche le pietre insanguinate sono state reperiate. Quale ufficiale di PG curava la repertazione?
TRAVALI. Lo facevo io con altri militari della stazione. Dopo vent’anni non mi ricordo i loro nomi ma mi facevo dare una mano a repertare da chi era presente; i reperii venivano poi portati alla procura di Palermo. RUSSO SPENA COORDINATORE. Lei ha parlato poco fa di reperti e vorrei sapere qualcosa sulle pietre insanguinate e sulle tracce di sangue trovate nel casale.
TRAVALI. Anche le pietre venivano reperiate.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Lei ha detto che non bisognava alterare le pietre perché avevano macchie di sangue. Poche ore dopo l’avvenimento, quindi quando ha albeggiato, lei è entrato nel casolare e ha trovato pietre con macchie di sangue, tant’è vero che ha detto che non bisognava alterarle (verbo che lei ha usato e che risulta dai nostri resoconti stenografici). Agli atti non vi è traccia di reperto sulle pietre insanguinate. E sicuro che sono state repertate?
TRAVALI. Tutto quello che veniva rinvenuto sul luogo o che ci veniva portato dai giovani di Cinisi.
RUSSO SPENA COORDINATORE, Mi riferisco a quello che avete rinvenuto nel casolare; i giovani svolgevano attività di volontariato nelle indagini le quali però spettano alla stazione dei carabinieri. Avete repertato le pietre con macchie di sangue rinvenute nel casolare?
TRAVALI. Tutto ciò che veniva rinvenuto veniva repertato e quindi anche queste pietre.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Il ritrovamento di pietre insanguinate nel casolare sarebbe stato utile anche per le vostre indagini.
TRAVALI. Tutto quello che veniva rinvenuto veniva repertato e consegnato presso la cancelleria della procura.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Lei ha detto di aver visto pietre insanguinate e tutto ciò che è stato rinvenuto sul posto veniva repertato. Di conseguenza, anche le pietre insanguinate sono state reperiate. Quale ufficiale di PG curava la repertazione?
TRAVALI. Lo facevo io con altri militari della stazione. Dopo vent’anni non mi ricordo i loro nomi ma mi facevo dare una mano a repertare da chi era presente; i reperii venivano poi portati alla procura di Palermo. “.
(Cfr. pagg. 69-71 della relazione in atti).
Ma è anche vero che del rinvenimento e della conseguente repertazione di una pietra con macchie di sangue all’interno del casolare, che sarebbero avvenuti già la mattina del 9 maggio, non v’è traccia né nel verbale di ricognizione a firma del Pretore TRIZZINO (e redatto dallo stesso TRAVALI), né nel contestuale verbale di sopralluogo a firma del solo TRAVALI.
Ora, è possibile che, nel rievocare dinanzi alla Commissione quei primi frenetici giorni di accertamenti investigativi il mar. TRAVALI si sia confuso e abbia sovrapposto il ricordo di momenti ed episodi diversi, facendo risalire alla mattina del 9 maggio la scoperta delle tracce di sangue nel casolare. Del resto, già nelle S.I. rese al G.I. oltre vent’anni prima aveva collocato l’episodio dell’ispezione effettuata con il P.M. SCOZZARI, in esito alla quale era stata appunto rinvenuta nel casolare, repertata ed asportata una pietra con macchie di sangue, nel pomeriggio del 9 maggio o “nelle ore antimeridiane del dieci…”.
Colpisce però come, nelle dichiarazioni rese alla Commissione parlamentare d’inchiesta, il Sottufficiale sia stato molto attento a precisare che le pietre con tacce di sangue rinvenute quella stessa mattina del 9 maggio all’interno del casolare non furono toccate, per non pregiudicare delle prove. E con altrettanta sicurezza colloca questa scoperta in un momento antecedente alla composizione dei resti nella cassa di legno dentro la quale poi furono trasportati all’obitorio. Sicchè sembrerebbe proprio riferirsi, con certezza, ad un episodio diverso da quello dell’Ispezione SCOZZARI, avvenuta la mattina del 13 maggio; e diverso altresì dall’episodio occorso il pomeriggio dello stesso giorno, allorché si recò ancora al casolare su sollecitazione di DI MAGGIO e compagni, per asportare (con martello e scalpello) altre pietre con probabili macchie di sangue.
Inoltre, di una sommaria ispezione effettuata la mattina del 9 maggio, contestualmente alla prima ricognizione dei luoghi e alla raccolta dei resti del corpo di IMPASTATO, il mar. TRAVALI aveva riferito anche al G.I. dott. CHINNICI, quando i suoi ricordi dovevano essere sicuramente più freschi, con ciò fornendo, su questo punto, ulteriore conferma alle rivelazioni del BRIGUGLIO. In quella sede però il TRAVALI afferma di non aver trovato alcuna traccia utile e precisa di aver ispezionato il casolare “unitamente al Pretore”: il dott. TRIZZINO invece ha negato dinanzi alla Commissione parlamentare tale circostanza. Anzi del casolare non serbava neppure il ricordo ed è certo che non gli fu fatta alcuna segnalazione particolare al riguardo. In effetti, come già si è visto, nel verbale di ricognizione del 9 maggio è contenuto solo un fuggevole e incidentale cenno al casolare predetto, laddove si fa riferimento al luogo in cui era parcata l’auto dell’IMPASTATO. E lo stesso BRIGUGLIO, nella sua intervista, non fa cenno della presenza del Pretore all’atto del presunto sopralluogo all’interno del casolare. (E alla domanda se avesse consegnato la pietra sporca di sangue “alle autorità”, risponde di averla consegnata “ai carabinieri chi c’eranu”).
– Sta di fatto che l’11 maggio, o al più tardi il 12 maggio, e comunque ancora prima della consegna della pietra recapitata al prof. DEL CARPIO, i Carabinieri di Cinisi erano stati avvisati (se non ne erano già informati fin dalla mattina del 9 maggio) della scoperta di tracce di sangue all’interno del casolare. Lo ricaviamo dal riscontro incrociato delle testimonianze di VITALE Felicia e dello stesso prof. DEL CARPIO, oltre che dalle dichiarazioni di MANZELLA Benedetto e, soprattutto, di Faro DI MAGGIO, secondo il quale lui stesso si sarebbe premurato di avvisare Carabinieri della scoperta e ciò sarebbe avvenuto lo stesso giorno in cui fu prelevata la pietra recapitata a DEL CARPIO.
– E veniamo al punto più oscuro e inquietante dell’intera vicenda relativa al rinvenimento frazionato di reperti di (verosimile) sangue all’interno del casolare.
Secondo la ricostruzione che precede, basata sulle risultanze di deposizioni testimoniali e di verbali di atti istruttori, il mar. TRAVALI avrebbe personalmente effettuato insieme al carabiniere PICHILLI (che lo ha confermato), un secondo sopralluogo dopo quello effettuato insieme al P.M. SCOZZARI, la mattina del 13 maggio ’78. E questo secondo sopralluogo sarebbe avvenuto il pomeriggio dello stesso giorno, a seguito delle pressanti richieste di alcuni giovani che si erano presentati in caserma esibendo dei “pezzi di stoffa” con varie macchie e imbevuti di una sostanza argentata (secondo DI MAGGIO) o come di piombo (secondo quanto recita il verbale di ricezione in atti).
Tutto ciò risulta, come si è visto, dal verbale di ricezione datato 13 maggio a firma del mar. TRAVALI, in cui non si fa cenno dell’altro sopralluogo che sarebbe avvenuto la mattina dello stesso giorno.
Ora, è singolare che siano state trovate ulteriori tracce di sangue all’interno del casolare dopo che questo era stato oggetto dell’accurata ispezione condotta dal P.M. dott. SCOZZARI, con la partecipazione di periti e di esperti della polizia scientifica (rectius, della Squadra Scientifica del Reparto Operativo dei Carabinieri), come si evince dal verbale in atti in cui è contenuta una minuziosa descrizione dello stato dei luoghi e di tutte le operazioni effettuate.
Ma ancora più singolare, ed anzi inquietante, è il fatto che il mar. TRAVALI non abbia dato alcun peso alla cosa: non abbia cioè ritenuto di doverlo segnalare tempestivamente all’Autorità Giudiziaria, o almeno ai suoi superiori, che pure quella stessa mattina avevano compiuto un delicatissimo atto istruttorio concretatosi in un analogo sopralluogo mirato proprio alla ricerca di eventuali tracce di sangue all’interno di quel casolare.
Poiché delle due l’una: o i tre giovani avevano inscenato un maldestro tentativo di simulazione o contraffazione di prove di un (possibile) reato; oppure, alla pur accurata ispezione del P.M. erano clamorosamente sfuggite tracce ancora più numerose e cospicue di quelle rinvenute in esito alla medesima ispezione. Se a ciò si aggiungono le indicazioni desumibili dalla testimonianza del DI MAGGIO e della VITALE, nonché il fatto che il verbale di S.I. di MANZELLA Benedetto non contenga alcun cenno a quel secondo sopralluogo con asportazione di pietre, ve ne è abbastanza per avanzare il dubbio che le operazioni descritte in quel verbale di ricezione non siano avvenute, in realtà, lo stesso giorno, ma il pomeriggio precedente.
Ma una cosa è certa perché documentalmente provata: per dieci giorni l’ottimo TRAVALI si tenne i reperti acquisiti e cioè sia quelli ricevuti in consegna alla caserma di Cinisi dai tre giovani summenzionati; sia le pietre che lui stesso provvide ad asportare. Soltanto con Nota in data 23/05/78 (v. fg. 112, vol. I), egli trasmise il verbale di ricezione dei pezzi di stoffa in cui si dava conto del rinvenimento delle pietre con le macchie di probabile sangue; e lo trasmise unitamente al verbale di S.I. di MANZELLA Benedetto e ad altri atti istruttori che riguardavano reperti ed accertamenti affatto diversi (così per il verbale di S.I. e ricezione del nastro consegnato da CUCINELLA Giuseppe e relativo all’intervista di Radio Terrasini Centrale a Giuseppe IMPASTATO; ed anche per il verbale di ricezione di “alcuni frammenti di resti umani presentati da CHIRCO Francesco”, con la precisazione, per quest’ultimo, che “i frammenti di organo sono stati consegnati dal Signor Procuratore SCOZZARI ai periti”).
Va segnalato ancora che nella Nota si parla genericamente di “alcuni reperti presentati da DI MAGGIO Faro, MANZELLA Benedetto e CUSUMANO Gaetano”, senza specificarne la natura. E solo alla fine del testo si precisa che “con reperto a parte saranno depositate presso la Cancelleria di codesta Procura i seguenti reperti…” Si parla però in termini generici dei pezzi di stoffa senza precisare nulla in ordine alle tracce di bruciatura e alla sostanza di cui uno di essi sarebbe imbevuto; e dei quattro pezzi di pietra repertati si dice solo che “presentano alcune macchie nerastre”, mentre è scomparso qualsiasi riferimento a tracce di sangue.
Francamente, non si poteva fare (e dire) di meglio per dissimulare la vera natura di quei reperti e per minimizzarne la rilevanza a fini investigativi. E infatti:
1°) il pezzo di stoffa contenente, probabilmente, tracce dell’esplosivo utilizzato per far saltare in aria il corpo di IMPASTATO non è mai stato sottoposto a perizia; anzi, i periti ne hanno persino ignorato l’esistenza.
2°) Le pietre con alcune macchie nerastre, che nel verbale di ricezione del 13 maggio ’78 (v. fg. 116)venivano indicate dallo stesso verbalizzante come “macchie di probabile sangue” non sono mai state sottoposte a perizia.
La Nota predetta, a firma del Comandante della Stazione CC Di Cinisi è indirizzata alla Procura della Repubblica di Palermo, ma non risulta che sia mai stata presa in esame. È altresì indirizzata, per conoscenza, al R. O. dei Carabinieri, all’epoca comandato dal magg. SUBRANNI: che ne accusa in effetti conoscenza nell’epigrafe del rapporto datato 30 maggio ’78, a sua firma, laddove è scritto che il rapporto fa seguito, tra le altre, alla Nota n. 4304/22-3 del 23.5.1978 della Stazione CC di Cinisi, che è appunto la Nota di trasmissione dei reperti in questione.
Quanto alla sorte di detti reperti, apprendiamo solo dalla relazione della Commissione parlamentare che, tra gli atti acquisiti dalla stessa Commissione presso gli uffici del Reparto Operativo dei Carabinieri di Palermo e nell’ambito della corrispondenza tra quel Reparto e la Stazione dei CC di Cinisi, figura anche una missiva a firma SUBRANNI, datata 25 maggio 1978 e concernente la trasmissione all’Ufficio reperti dei due famosi pezzi di stoffa e di “n. 4 frammenti di pietre che presentano tracce nerastre”. E figura anche la nota 25/9 in pari data, afferente “n. 2 ricevute relative ai reperti versati in data odierna presso la cancelleria del locale Tribunale”. (Cfr. pag. 63 della Relazione in atti).
Orbene, si è fatto cenno dei dubbi sorti sulla data di redazione del verbale di ricezione dei reperti predetti che vennero consegnati dai tre giovani alla Caserma di Cinisi; o meglio sul fatto che il giorno in cui vennero effettivamente compiute le operazioni descritte in quel verbale (che le riporta al pomeriggio dello stesso giorno 13 maggio, data di redazione del verbale medesimo) corrisponda alla data in esso indicata. Ma anche volendo sorvolare su tali dubbi, è perfino superfluo sottolineare l’inaudita gravità della leggerezza in cui è incorso l’allora Comandante della Stazione CC di Cinisi:
a) per avere trattenuto presso di sé reperti concernenti un punto assolutamente decisivo per orientare il corso delle indagini in quel momento; e ciò dopo che lui stesso aveva avuto diretta contezza, per avervi partecipato personalmente, di uno specifico atto di indagine mirato proprio ad accertare (con esito positivo, peraltro) l’eventuale presenza di tracce di sangue all’interno del casolare prossimo al luogo dell’esplosione.
b) Per non avere messo in risalto, nella citata Nota di trasmissione del 23.05.78, l’effettiva natura ed il contenuto dei reperti che si riservava di depositare presso la cancelleria della Procura.
Ma non meno gravi appaiono le responsabilità al riguardo del Mag. SUBRANNI, estensore del rapporto datato 30 maggio 1978, al quale la citata nota di trasmissione era stata inviata, sia pure solo per conoscenza.
Nel rapporto infatti non si fa alcun cenno di quei reperti e in particolare delle pietre o frammenti di pietra con macche di probabile sangue, che avrebbero dovuto aggiungersi ai reperti già in possesso dei periti, essendo già in corso gli accertamenti medico-legali sulle tracce di sangue rinvenute sia sulla pietra a suo tempo consegnata a DEL CARPIO, sia sulle pietre asportate in occasione dell’ispezione SCOZZARI.
Eppure, sarà lo stesso SUBRANNI – nel corso della sua audizione dinanzi alla commissione parlamentare d’inchiesta ma prima ancora nelle deposizioni rese nel corso dell’istruzione formale – a riconoscere che la scoperta di tracce di sangue e l’esito della perizia nel senso della loro compatibilità con il gruppo sanguigno dell’IMPASTATO avrebbero avuto un peso decisivo nell’imprimere una svolta alle indagini, accreditando con forza l’ipotesi dell’omicidio.
In effetti, la formalizzazione dell’istruzione per questa ipotesi di reato avviene pochi giorni dopo il deposito della relazione CARUSO-PROCACCIANTI, e cioè appena acquisito l’esito di quegli accertamenti. Ed anche dal carteggio riservato contenente la corrispondenza intercorsa tra il Reparto Operativo dei CC e gli Alti Comandi dell’Arma – che sollecitarono ripetutamente a compiere i necessari approfondimenti investigativi e invitavano comunque il C. te del Reparto predetto a fornire, con cadenza mensile, tempestivi ragguagli su ogni eventuale sviluppo delle indagini, con ciò manifestando – emerge la consapevolezza che quella svolta fu determinata proprio dall’esito degli accertamenti sulle macchie di sangue. (Cfr. Nota 30. 11.78 trasmessa dal C. do del R. O. al C. do del Gruppo Carabinieri di Palermo, fg. 234 del vol. I della documentazione relativa ad attività integrativa d’indagine depositata in data 4.04.2000).
E allora, anche qui delle due l’una: o il magg. SUBRANNI non si peritò di appurare in cosa consistessero i reperti sommariamente indicati nella nota di trasmissione del 23 maggio; o, ancora peggio, ne era perfettamente consapevole ed ha intenzionalmente taciuto una circostanza che avrebbe gravemente indebolito la tesi del suicidio-attentato.
Non è possibile, in questa sede, andare oltre la constatazione che, nella migliore delle ipotesi, autorevoli esponenti delle Forze dell’Ordine direttamente impegnati nello svolgimento delle indagini sono incorsi in gravi e inescusabili negligenze.
Ma il dato che qui più importa rilevare è che le tracce di sangue rinvenute all’interno del casolare sono molto più cospicue delle poche goccioline sulle pietre esaminate dai periti, e cioè quelle asportate in occasione dell’ispezione SCOZZARI: anche se, non essendo stati esaminati i reperti acquisiti dal mar. TRAVALI, non si può affermare con certezza che le macchie presenti su quelle pietre fossero anch’esse di sangue umano e dello stesso gruppo sanguigno di IMPASTATO.
Riassumendo, le pietre insanguinate sono almeno sei o sette:
– una è quella che sarebbe stata asportata dal casolare e consegnata dal necroforo ai carabinieri già la mattina del 9 maggio: ma come detto, dell’esistenza di questo reperto, desumibile solo dalla intervista di Giuseppe BRIGUGLIO (raccolta da Felicia VITALE) e dalle dichiarazioni rese dal mar. TRAVALI alla Commissione parlamentare d’inchiesta, non v’è traccia agli atti;
– una seconda pietra è quella asportata tra l’11 e il 12 maggio dai compagni di IMPASTATO e recapitata al prof. DEL CARPIO;
– la terza è quella asportata in occasione dell’ispezione condotta dal P.M. SCOZZARI (fg. 107, vol. I);
– altre quattro sono le pietre o i frammenti di pietra asportate, sempre dall’interno del casolare, dallo stesso TRAVALI, in occasione dell’ulteriore sopralluogo effettuato su richiesta di DI MAGGIO Faro e compagni (fg. 116, vol . I).
Ve n’è abbastanza per rendere credibili le affermazioni fatte da VITALE Felicia dinanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta, laddove ha riferito della traccia di un rivolo di sangue che dallo spigolo della panchina in muratura scendeva fino al pavimento di uno dei due vani del famoso casolare (Cfr. pagg. 75-76 della relazione in atti: “Quando siamo entrati nel casolare c’era un sedile in pietra. Nello spigolo del muro c’era una traccia di sangue, una macchia con delle gocce di sangue sul pavimento tutto in pietra”. E poi, alla domanda se fosse visibile un rivolo di sangue precisa ancora: “Nello spigolo c’era una macchia di sangue che scendeva a terra [….] Era giorno ed era sufficiente aprire la porta per vedere questo rivolo di sangue”.
È anche vero che l’unico reperto utilmente esaminato è il terzo tra quelli sopra elencati, poiché anche le macchie sulla pietra recapitata al prof. DEL CARPIO non erano sufficienti, a parere dei periti, per una valutazione attendibile sulla loro natura.
È certo, però, che tutti i reperti in questione contenevano macchie simili, per quanto può evincersi dalle descrizioni contenute nei relativi verbali; e provenivano dallo stesso sito e cioè dall’interno di uno dei (due) vani del casolare, e più precisamente dal sedile di pietra intagliato nella parete in cui si apriva l’ingresso, o dal pavimento pure in pietra nelle immediate adiacenze del medesimo sedile.
Detto questo, deve anche convenirsi che le macchie di sangue rinvenute all’interno del casolare non hanno un valore probatorio assoluto, poiché come hanno precisato i periti, il gruppo sanguigno cui appartengono è sì lo stesso di Giuseppe IMPASTATO (“0-CD”) ma si tratta di un tipo comune, statisticamente, al 30% circa della popolazione. Sicchè non v’è la certezza che quel sangue non appartenesse ad altri che Giuseppe IMPASTATO (e una simile certezza basterebbe di per sé a provare l’omicidio).
Esse conservano però un innegabile valore indiziario, deponendo per l’ipotesi dell’omicidio, se inserite e valutate nel coacervo delle risultanze processuali, e segnatamente quelle desumibili già dai dati e dai reperti raccolti nel luogo e nell’immediatezza del fatto, come ora si vedrà. In ogni caso, sono, di per sé, quanto meno compatibili con l’ipotesi che IMPASTATO, all’interno di quel casolare, sia stato ucciso o anche solo picchiato prima di essere trascinato fino al punto in cui l’esplosione dell’ordigno previamente apprestato ne avrebbe sbriciolato il corpo; ma compatibili anche con l’ipotesi affine che sia stato ivi segregato il corpo già privo di vita in attesa del momento propizio per trascinarlo fino ai binari nel punto in cui era piazzata la carica esplosiva. E questa compatibilità è sufficiente, nel quadro di una valutazione unitaria e complessiva di tutti gli elementi raccolti, a fondare il valore indiziario del reperto ematico.
Non depone in contrario l’esiguità delle tracce di sangue. A parte la difficoltà, per le ragioni già specificate, di quantificare tali tracce (che comunque parrebbero molto più cospicue di quelle che i periti hanno avuto la possibilità di esaminare), l’ipotesi dell’omicidio non postula affatto né che esso si sia consumato all’interno del casolare (poiché, come detto, il corpo avrebbe potuto esservi trascinato già privo di vita o gli assassini essersi limitati a picchiare la vittima per ridurla all’impotenza); nè che la morte sia stata provocata da colpi d’arma da fuoco o da taglio che comunque abbiano cagionato alla vittima ferite profonde (con conseguente copiosa perdita di sangue), non potendosi affatto escludere, in tale ipotesi, una modalità meno cruenta come lo strangolamento.
Va invece disattesa, siccome priva di qualsiasi fondamento logico prima ancora che non suffragata da adeguati riscontri la prospettazione difensiva secondo cui le macchie di sangue potrebbero essere state originate da gocce di sangue proiettate dalla forza dell’esplosione fino al casolare e quindi incuneatesi negli interstizi delle travi di sostegno del soffitto o delle tegole di copertura del casolare; ovvero, gocciolate da frammenti di carne sanguinolenti scagliati dalla forza dell’esplosione fino a raggiungere il tetto del casolare, da dove il sangue sarebbe appunto gocciolato all’interno.
Ora, è vero che nel verbale dell’ispezione SCOZZARI si dà atto che l’intero casolare appare fatiscente e lo è in particolare la copertura in tegole (“tale copertura è palesemente dissestata tanto che dall’interno si intravvede l’esterno”: cfr. pag. 3 del verbale in atti e fg. 109, vol. I). Ma non v’è dubbio che l’accurata ispezione, che non ha risparmiato neppure l’esame della copertura in tegole, almeno per quanto poteva vedersi guardando dall’interno verso l’esterno, non avrebbe mancato di rilevare l’eventuale presenza, negli interstizi tra una tegola e l’altra, di frammenti di carne umana, sia pure ormai essiccati: così come due frammenti identificati come di budella ormai essiccate sono stati rilevati “sui fili della rete elettrica ad alta tensione che costeggia la strada ferrata”.
Ma soprattutto, appare inverosimile che dei frammenti del corpo del povero IMPASTATO possano essere stati proiettati fino al casolare, raggiungendone il tetto, quando nessuna traccia è stata rilevata né sulle pareti esterne del casolare medesimo, né nelle sue immediate adiacenze o nello spiazzo antistante in cui era parcata l’auto dello stesso IMPASTATO; e neppure, per quanto può evincersi dalla testimonianza del buon TRAVALI, nel viottolo che dal casolare conduceva fino al punto dell’esplosione. Frammenti e resti sono stati rinvenuti persino sugli alberi, nella zona circostante la linea ferrata: ma sempre in prossimità di questa e prevalentemente verso la zona monte e non nella zona intorno al casolare. Così è stato anche per le gambe, come si evince dal verbale di sopralluogo a firma TRAVALI e per gli altri resti recuperati dai compagni di IMPASTATO. Se ne dà atto anche nel verbale dell’ispezione SCOZZARI: “Prima di procedere alla ispezione del caseggiato, dai predetti testi ci viene indicato lo spazio nel quale è stata rinvenuta la mano ed i frammenti organici, che è posto oltre la strada ferrata, guardando questa verso monte”.
Ancor meno verosimile è poi l’ipotesi che delle semplici gocce di sangue, originate dallo spappolamento del corpo, ma disgiunte dai relativi frammenti di carne e provenienti da punti imprecisati, possano essere schizzate all’interno del casolare, incuneandosi con precisione chirurgica, a distanza di decine e decine di metri, attraverso gli interstizi della copertura in tegole del fabbricato o attraverso la piccola feritoia praticata in una delle pareti del vano in cui vennero trovate le tracce di sangue.
Piuttosto, deve convenirsi ancora una volta con quanto è scritto nella sentenza CAPONNETTO, circa il fatto che l’ipotesi dell’omicidio, alla luce delle complessive risultanze processuali in parte anticipate e di cui ora si dirà, “non deve ritenersi necessariamente collegata all’attribuzione all’IMPASTATO Giuseppe delle macchie di sangue riscontrate sulla pietra di cui s’è detto. Nulla esclude infatti di ritenere che ilo corpo della vittima sia stato trasportato già inanimato a bordo della autovettura da lui usata, sul luogo ove il veicolo venne lasciato e di qui sia stato poi trasportato sulla rotaia, ed ivi adagiato proprio sull’ordigno esplosivo (come confermano le perizie in atti)”.
4. Altri reperti rinvenuti sul posto: chiavi, occhiali e sandali.
Ma, come già anticipato, ulteriori considerazioni logiche potevano ricavarsi, generando interrogativi non meno inquietanti, sulla base del mero rilevamento di altri dati oggettivi e dei reperti raccolti sul luogo e nell’immediatezza del rinvenimento del cadavere.
Sia nel verbale di ricognizione dei luoghi a firma del pretore TRIZZINO che nel contestuale verbale di sopralluogo a firma del (solo) mar. TRAVALI si dà atto del rinvenimento di un chiavino tipo Yale in un cespuglio di agave distante circa cinque metri dal punto dell’esplosione. Si accertò poi che la chiave era quella, in possesso dell’IMPASTATO, che apriva la porta di ingresso dei locali di radio AUT.
È a dir poco singolare, però, che i Carabinieri fossero già a conoscenza dell’esistenza di quella chiave, mentre era ancora in corso la ricerca e raccolta dei resti del cadavere e dovevano ancora iniziare le conseguenti operazioni di identificazione.
Di quella chiave hanno infatti parlato diversi testi. Anzitutto, lo stesso mar. TRAVALI, che, nelle S.I. rese al G.I. il 19.12.78, precisa che detto chiavino “era perfettamente pulito”; e che “fu trovato sul lato destro della rotaia, rispetto alla direzione Trapani, nei pressi di un cespuglio tra la parte sterrata e la massicciata” (cfr. fg. 44-45, vol. 2 e 892).
Poi, RIGGIO Giovanni, all’epoca Maresciallo capo del Nucleo Informativo dei Carabinieri, che giunse sul posto nella tarda mattinata del 9 maggio insieme al maggiore FRASCA, dello stesso reparto (mai escusso, per quanto consta), quando già il Pretore era andato via, insieme agli altri Ufficiale e Sottufficiali che avevano eseguito il sopralluogo (“lì trovammo soltanto una Giulia dei carabinieri…. “). Ebbene, il mar. RIGGIO nelle S.I. rese al G.I. il 19.12.78, ha dichiarato di avere partecipato quella stessa mattina alla perquisizione della sede di Radio-AUT a Terrasini, insieme a numerosi altri militari (“Ricordo che eravamo in parecchi ad eseguire la perquisizione…”); e ha precisato che “La porta fu aperta con la chiave che ci fu data alla caserma dei CC Di Cinisi. Nel momento in cui il Maresciallo Comandante la Stazione ci consegnò la chiave ci disse che probabilmente detta chiave era quella della sede di Radio-AUT”. (Cfr. fg. 48, vol. II cit.).
In effetti, il mar. TRAVALI appena terminata l’ispezione effettuata insieme al Pretore, si era recato in Caserma, ossia alla stazione di Cinisi; e l’unica chiave di cui ha parlato e che risulta ufficialmente rinvenuta e repertata sul luogo dell’esplosione quella mattina, è proprio il chiavino tipo Yale: verosimilmente attribuibile ad IMPASTATO, attese le circostanze ed il luogo in cui fu rinvenuto. Il fatto poi che lo stesso TRAVALI ipotizzasse, nel consegnarla al collega RIGGIO, che probabilmente quella era anche la chiave della sede di Radio-Aut torna a grande merito delle capacità intuitive di questo Sottufficiale.
Ma l’intuizione c’entra poco con le circostanze che emergono dalla testimonianza di BRIGUGLIO Carmelo, inteso Liborio. Si tratta del necroforo comunale di Cinisi, che partecipò alla pietosa raccolta dei resti del povero IMPASTATO, seguendo il pretore e i militari impegnati nella relativa ispezione. E fu lui, insieme all’app. PICHILLI, a trovare importanti reperti come la mano e anche gli occhiali di IMPASTATO (v. infra e S.I. dello stesso PICHILLI, il quale ricorda che, sempre insieme al BRIGUGLIO, trovò anche le gambe). In effetti, veniva spesso chiamato dai carabinieri “per rimuovere cadaveri che si trovavano nelle strade in occasione di incidenti stradali o altri avvenimenti delittuosi”. E anche “quando vengono a fare le autopsie, io pulisco i cadaveri”. Quella mattina era stato il mar. TRAVALI a incaricarlo di recarsi sul posto, dicendogli “dobbiamo andare a prendere quello che è rimasto di un picciotto che è scoppiato nella ferrovia”. Al suo arrivo, vi trovò il pretore e l’ufficiale sanitario.
Orbene, al G.I. dott. CHINNICI il suddetto Liborio ha dichiarato. “Mentre io cercavo i resti di IMPASTATO, il brigadiere dei CC di Cinisi mi disse di cercare una chiave. Io trovai tre chiavi vicino alla macchina di IMPASTATO e precisamente accanto alla portiera di destra, cioè accanto al posto di chi si trova vicino al guidatore. Le tre chiavi erano l’una vicina all’altra”. (Cfr. verbale di S.I. del 20. 12.78, fg. 55, vol. II).
Dunque, furono trovate altre tre chiavi e in un sito che non lascia troppi dubbi sulla loro riferibilità all’IMPASTATO, almeno quanto il chiavino tipo Yale. Ma di esse non c’è traccia agli atti. Eppure, il BRIGUGLIO è certo non solo di averle trovate, ma anche di averle subito consegnate al brigadiere, che dovrebbe identificarsi nel brigadiere Carmelo ESPOSITO, il quale, secondo la concorde testimonianza del mar. TRAVALI e dell’app. PICHILLI, era presente sul posto quella mattina. (TRAVALI, in particolare, ricorda che il Brig. ESPOSITO rimase sul posto insieme al PICHILLI e all’app. ABRAMO, mentre lui andava a prendere il Pretore a Cinisi).
Ma la circostanza più singolare ed inquietante, che ci riporta al chiavino tipo Yale, emerge dal prosieguo della deposizione del BRIGUGLIO: “Il brigadiere, dopo che io trovai le tre chiavi, mi disse: ‘Ma se ne deve trovare un’altra!’. Io allora cercai altri pezzi del corpo di IMPASTATO perché il brigadiere mi disse che la chiave la cercava lui. Difatti poco dopo il brigadiere trovò la chiave a circa tre metri, un poco più avanti di dove ci fu lo scoppio. La chiave la prese il brigadiere e se ne andò subito alla caserma”.
Ora non c’è dubbio che la chiave che a dire del Liborio, fu trovata a poca distanza dal luogo dell’esplosione – e che, si badi, fu subito portata in caserma – si identifica appunto con il chiavino tipo Yale che venne formalmente repertato. E su questo punto il ricordo del teste, che è molto preciso, trova pieno conforto nei verbali in atti. Difficile credere che possa essersi inventato l’altra circostanza relativa al rinvenimento delle tre chiavi, o che possa avere sovrapposto il ricordo di un altro episodio occorso in una occasione diversa da quella del rinvenimento del cadavere di IMPASTATO, perché anche su quella circostanza il suo ricordo appare nitido e sicuro. Ma l’unica persona che potrebbe (o dovrebbe) confermare o smentire il BRIGUGLIO, e cioè il brigadiere ESPOSITO, non è mai stato sentito nel corso delle indagini; e neppure la Commissione parlamentare d’inchiesta ha potuto dare corso all’audizione che pure aveva disposto perché il Sottufficiale predetto risultava impegnato in una non meglio precisata missione all’estero.
Stando dunque alle rivelazioni del BRIGUGLIO, coordinate alla testimonianza del mar. RIGGIO, dovremmo concludere che i carabinieri intervenuti sul posto nell’immediatezza del fatto sapevano già: a) che lì intorno doveva trovarsi una certa chiave; b) che questa chiave era di pertinenza di IMPASTATO; c) che serviva ad aprire la sede di Radio-AUT.
Resta il fatto, ed è ciò che preme qui evidenziare, che tre chiavi di pertinenza verosimilmente dell’IMPASTATO vengono trovate per terra in prossimità della portiera della sua auto, ma dal lato opposto a quello di guida; e che il chiavino Yale, viene trovato a pochi metri (circa tre, secondo BRIGUGLIO; circa cinque, secondo TRAVALI) dal cratere formato dall’esplosione, intatto e addirittura, come precisa il mar. TRAVALI, “perfettamente pulito”. Neppure le tracce di affumicamento che sono la nota costante che accomuna i brandelli di abbigliamento dell’IMPASTATO e i suoi poveri resti. E sì che, se davvero, come sembra, la chiave apparteneva ad IMPASTATO, essa doveva trovarsi, al momento dello scoppio, nella tasca dei suoi pantaloni, o comunque addosso allo stesso. Eppure era intatta.
Come pure intatti sono stati trovati, sempre nelle immediate adiacenze del luogo dell’esplosione, altri accessori sicuramente di pertinenza dell’IMPASTATO, e segnatamente: i suoi sandali (tipo scholl’s), uno dei quali rinvenuto quasi a contatto con il binario, nel tratto danneggiato dall’esplosione, mentre l’altro giaceva dal lato opposto “quasi nel tratto in cui mancava il binario” (cfr. PICHILLI); e i suoi occhiali. Di questi ultimi, PICHILLI non ricorda se fossero del tutto intatti o se mancasse una lente. Il teste Liborio, invece, ancora una volta molto preciso, ricorda che fu rinvenuta la montatura (intatta) senza le lenti. E in effetti è in questo stato che vengono descritti nel verbale di ricognizione di cose in esito al quale si procedette all’identificazione del cadavere. (È curioso che nel verbale di ricognizione dei luoghi curato dal Pretore TRIZZINO non si dia atto del rinvenimento degli occhiali, benché siano stati trovati in prossimità di uno dei sandali che sono invece descritti nel medesimo verbale. Ma ciò può spiegarsi con il fatto che il rinvenimento fu successivo alla ricognizione predetta; e in effetti, il PICHILLI, che trovò gli occhiali, ha precisato di avere partecipato alle ricerche dei poveri resti di IMPASTATO subito dopo l’ispezione condotta dal Pretore: durante l’ispezione, invece, egli era rimasto a guardia dell’auto di servizio).
Quella montatura presentava poi un elemento individualizzante che la rendeva inconfondibile: una delle stanghette era attaccata con del nastro adesivo perché in precedenza si era rotta, come ricordato da Fara BARTOLOTTA in sede di riconoscimento del cadavere. Eppure, quella stessa montatura, ancorché già lesionata e assistita da una riparazione di fortuna, è uscita indenne dalla violenta esplosione che fece a pezzi il corpo di IMPASTATO e il capo in particolare, se è vero che ne rimasero solo pochi frammenti di teca cranica e di cuoio capelluto, come si evince dal verbale autoptico già citato. Non è superfluo rammentare, in proposito, la testimonianza dell’allora brigadiere Carmelo CANALE, in forza alla Compagnia CC di Partitico, che, nel rievocare gli accertamenti espletati sul luogo la mattina del 9 maggio, ha dichiarato di avere partecipato personalmente alla raccolta dei poveri resti e ricorda che particolare attenzione e impegno furono profusi nella ricerca proprio della testa, al fine di rendere possibile l’identificazione del cadavere. Ma la ricerca, benché mirata e accurata, risultò vana (Cfr. dal verbale di S.I. del 20. 12.78, pagg. 57-58, vol. II: “Io personalmente ispezionai un tratto della strada ferrata e tutta la zona circostante alla ricerca della testa dello sconosciuto per potergli dare un nome. Rinvenni diversi frammenti di cadavere sparsi per un raggio di 30-40 metri e più. Null’altro io vidi”).
Ciò già rende poco verosimile che gli occhiali si trovassero, al momento dello scoppio, lì dove avrebbero dovuto trovarsi in condizioni normali. Inoltre, la montatura è stata ritrovata ad una distanza così prossima al cratere formato dall’esplosione, da far apparire qualsiasi ipotesi alternativa molto più credibile di quella. Infatti, secondo il ricordo del carabiniere PICHILLI – particolarmente nitido perché fu proprio lui a trovarli, insieme al necroforo, che lo conferma – gli occhiali giacevano “a tre metri di distanza circa dal sandalo che si trovava nel punto in cui mancava il binario”, e quindi a circa tre metri dal punto esatto dell’esplosione. Dalla testimonianza di NEGRELLI Antonino, casellante accorso sul posto dopo l’allarme dato dall’operaio specializzato delle ferrovie EVOLA Andrea, apprendiamo infatti che uno dei due sandali rinvenuti- ed evidentemente si tratta proprio di quello cui allude il PICHILLI – giaceva “quasi nel punto in cui il binario era interrotto” e quindi sul lato sinistro “rispetto alla direzione verso Trapani” (Cfr. verbale delle S.I. rese al G.I. in data 28.12.78, fg. 80-81 vol. II).
L’altro sandalo, invece, fu avvistato (per primo) dal suddetto EVOLA, dal lato opposto, vicino al binario di destra “rispetto alla direzione di Trapani” e precisamente a circa 60-70 centimetri dal medesimo binario. (Cfr. verbale di S.I. del 28.12.78, fg. 78-79 vol. II). E fu avvistato, peraltro, mentre albeggiava, quando cioè lo stesso EVOLA fece ritorno sul posto insieme ai carabinieri e al sorvegliante NIGRELLI. (In precedenza egli aveva constatato solo l’interruzione della linea ferrata e il cratere formato dall’esplosione: “Al lume della lanterna avevo visto soltanto il binario divelto per circa 55 centimetri ed un fosso profondo circa 30 centimetri e largo non più di 30 centimetri”).
Questa singolare dislocazione dei due sandali (o zoccoli, come si esprime EVOLA), che giacevano da parti opposte rispetto alla linea ferrata, ma entrambi praticamente a ridosso del cratere formato dall’esplosione, trova conferma nelle citate testimonianze del TRAVALI del PICHILLI. “…quasi nel tratto in cui mancava il binario, notai un sandalo del tipo farmacia di colore bianco; un altro era nel lato opposto, e quasi a contatto con il binario”(Cfr. PICHILLI, loc. ult. cit.).
È una circostanza singolare ove si consideri che gli arti inferiori furono trovati, invece, a quasi trecento metri dal punto dell’esplosione ed entrambi dal medesimo lato, come ci conferma, nella deposizione resa al G.I., il mar. TRAVALI. In pratica, l’impressionante onda d’urto dell’esplosione avrebbe avuto l’effetto di proiettare a grande distanza, ma da uno stesso lato, gli arti inferiori, che sarebbero poi piombati al suolo. I sandali invece, sarebbero rimasti pressoché sul posto, senza restare minimamente danneggiati dallo scoppio, e con l’ulteriore particolarità di essere allocati (dal medesimo scoppio che aveva proiettato le gambe a così grande distanza) uno a sinistra e l’altro a destra dello stesso tratto di linea ferrata.
Si aggiunga ancora che, sebbene nulla sia precisato al riguardo nel verbale di ricognizione e in quello di sopralluogo a firma del mar. TRAVALI, i due sandali non erano coperti da terriccio, tant’è che furono avvistati quando ancora albeggiava, e non dovevano neppure presentare tracce di bruciature o di affumicamento, nonostante la estrema prossimità al punto in cui si verificò lo scoppio. Infatti, PICHILLI ne indica il colore, come lo percepì all’atto del loro rinvenimento: erano bianchi. Ed altrettanto precisa appare la rievocazione del mar. TRAVALI: “la nostra attenzione fu attratta da un paio di sandali del tipo del dott. Scholl che solitamente calzava lo IMPASTATO” (cfr. fg. 41).
5. Prime ragionevoli conclusioni.
Ebbene, tutti questi reperti, per lo stato ed il luogo in cui furono rinvenuti, orientano verso la medesima (e duplice) conclusione. Essi sono perfettamente compatibili con l’ipotesi dell’omicidio; e in particolare, con l’ipotesi che siano stati perduti mentre il corpo di IMPASTATO veniva trascinato fino ai binari e nel punto in cui era piazzata la carica esplosiva che l’avrebbe fatto saltare in aria; o, ancora più plausibilmente, confortano l’ipotesi che gli assassini, dopo l’esplosione, li abbiano disseminati nei dintorni del punto in cui era scoppiato l’ordigno, per completare la messinscena dell’attentato e per non lasciare dubbi sull’identificazione del cadavere. (Poiché è di tutta evidenza che se gli assassini, in ipotesi, vollero dissimulare l’uccisione dell’IMPASTATO dietro le apparenze dell’attentato, essi vollero altresì che non vi fossero dubbi sull’identità del simulato attentatore).
Di contro, una spiegazione diversa non è altrettanto plausibile. Anzi, appare francamente inverosimile che gli accessori personali di cui s’è detto (occhiali, sandali e chiavi) fossero portati o indossati dall’IMPASTATO al momento dello scoppio.
Ad analoghe conclusioni inducono altresì gli inquietanti interrogativi che suscitano le strane lesioni riscontrate ad entrambi i piedi del povero IMPASTATO.
Si legge infatti nel verbale autoptico redatto dal medico legale alle ore 13.50 del 9 maggio 1978 presso l’obitorio del cimitero comunale di Cinisi: “Sulla faccia destra dei piedi e delle dita rispettive, piccole ferite lacero contuse a lembo, il cui bordo libero è rivolto verso l’alto (verso la tibiotarsica)”. Il verbale prosegue poi ribadendo che erano “integre le ossa delle cosce, delle gambe e dei piedi”.
Ora, che cosa può aver provocato lesioni di quel genere? Se si considera che i piedi erano integri e ricoperti da calzini, anch’essi sostanzialmente indenni (come risulta dal verbale a firma del Pretore TRIZZINO) è quanto meno lecito dubitare che siano effetto diretto dell’esplosione: nel senso che, se questa avesse investito direttamente gli arti inferiori, avrebbe provocato danni ben più devastanti di quelle lesioni.
Si può ipotizzare, piuttosto, che gli arti predetti, dopo essere stati proiettati verso l’alto dall’onda d’urto dell’esplosione, siano pesantemente ricaduti a terra, magari rotolando o rimbalzando sul terreno sassoso. Ma allora non si spiegherebbe come mai le lesioni si siano prodotte tutte e solo dal lato destro di entrambi i piedi e delle dita di ciascun piede.
Pertanto, pur senza alcuna pretesa di fornire una risposta certa ed esauriente, deve concludersi che anche questo dato sia quanto meno compatibile con l’ipotesi di un trascinamento (per le braccia) del cadavere o del corpo sul terreno, ad opera di una o più persone che facesse(ro) leva appunto sulle braccia, mentre i piedi, inerti o immobilizzati nella stessa posizione e inclinati sul lato destro, strisciavano sul terreno.
Tale dato, invece, resta oscuro o comunque difficilmente spiegabile con altre ipotesi ricostruttive.
La stessa conclusione vale anche per uno dei reperti fantasma di questo processo, e cioè le tre chiavi che il necroforo BRIGUGLIO ricorda nitidamente di avere trovato (e consegnato ad uno dei sottufficiali insieme ai quali era intento a cercare e raccogliere i resti del corpo o altre tracce utili) in prossimità della portiera dell’auto di IMPASTATO, ma dal lato opposto a quello di guida. Se le chiavi appartenevano allo stesso IMPASTATO, si può ipotizzare che gli siano cadute accidentalmente da una tasca, mentre usciva dall’auto: ma in questo caso avrebbero dovuto trovarsi dal lato del guidatore, a meno che non si vogliano prefigurare improbabili scenari (e cioè che il giovane sia giunto liberamente sul posto, altri essendo però alla guida della sua auto).
Anche di questo dato deve dunque dirsi che è quanto meno compatibile con l’ipotesi che Giuseppe IMPASTATO sia stato condotto sul posto già esanime o comunque contro la sua volontà; e che le chiavi siano cadute da una sua tasca mentre il suo corpo veniva trascinato a forza o di peso fuori dall’auto, appunto dal lato opposto a quello di guida. Ciò spiegherebbe altresì, e in modo ben più convincente, il fatto che le tre chiavi possano essere cadute di tasca nell’atto di uscire dall’auto.
La verità è che l’avere subito sposato la tesi dell’attentato terroristico fu al contempo effetto e causa di un atteggiamento preconcetto che ha inevitabilmente predisposto:
1. Ad una sequela sconcertante di omissioni, ritardi, negligenze e approssimazioni nella raccolta delle prove, nell’individuazione e nella conservazione delle tracce e dei reperti, nell’espletamento dei necessari approfondimenti istruttori.
2. A generare un clima di diffidenza, di sospetto e di sfiducia in quanti (familiari, conoscenti, amici e compagni di lotta e di partito della vittima) avrebbero potuto fornire un contributo prezioso alle indagini; e che solo quando percepirono che quel clima era effettivamente mutato si decisero a fornire importanti rivelazioni su circostanze ed aspetti della vicenda di sicuro interesse investigativo (cfr. pagg. 23 e segg. della sentenza CAPONNETTO).
3. Ad un sistematico travisamento dei dati di fatto e delle informazioni raccolte nel corso dei primi accertamenti investigativi, nonché ad ignorare o sottovalutare molteplici e convergenti indicazioni che avrebbero potuto e dovuto orientare verso altre possibili causali.
2.7. Omissioni, ritardi e negligenze nella raccolta e nella conservazione delle prove
1. Sconcerta anzitutto la mancata evasione alla richiesta del magistrato procedente di accertare la provenienza del materiale esplodente, di cui al punto 2 della delega di indagini conferita (con nota a firma del P.M. SIGNORINO) già in data 11 maggio ’78 al Comandante del Reparto Operativo dei carabinieri (e cioè al magg. SUBRANNI). Tale richiesta non poteva certo ritenersi superata o assorbita dall’incarico di “perizia tecnica d’ufficio” che lo stesso P.M. avrebbe conferito, appena otto giorno dopo, al perito balistico Pietro PELLEGRINO, cui vennero posti tre quesiti: “1) Tipo di esplosivo usato nella morte di IMPASTATO Giuseppe; 2) La ricostruzione della dinamica della morte; 3) Quant’altro risulta utile alle indagini. (Il perito depositerà la propria consulenza solo il 28 ottobre 1978).
È evidente che l’indagine peritale non si sovrapponeva all’oggetto dell’accertamento espressamente richiesto ai carabinieri, ma avrebbe dovuto trarne semmai elementi utili alle valutazioni che competevano al perito balistico. E il sollecito conferimento dell’incarico peritale dimostrava piuttosto, ove mai ve ne fosse bisogno, la rilevanza che nell’economia complessiva delle indagini assumevano gli accertamenti in ordine all’esplosivo “usato nella morte di IMPASTATO Giuseppe”.
È addirittura inquietante, quindi, che nel rapporto giudiziario del 30 maggio ’78, che pure doveva dar conto delle ulteriori indagini espletate in evasione alla delega dell’11 maggio, non venga spesa neppure una parola in ordine al punto 2 di detta delega, salvo evidenziare, in relazione all’escussione del prof. DEL CARPIO che “sul luogo dell’esplosione e all’esterno della buca formatasi per effetto dell’esplosione stessa non era stata rilevata o notata alcuna traccia di miccia combusta”.
Ma su questo punto gravissime omissioni si sono registrate fin dai primi necessari accertamenti. Ed invero, gli unici elementi acquisiti come certi già nell’immediatezza del primo sopralluogo – lo ha spiegato il gen. SUBRANNI nel corso della sua audizione dinanzi alla commissione parlamentare d’inchiesta – erano appunto l’assenza di tracce di miccia combusta e la presenza di polvere di cava che faceva presumere l’impiego di esplosivo del tipo di quello utilizzato nelle cave. (Cfr. pag. 9 dell’allegato alla Relazione in atti, concernente l’audizione dell’11 novembre 1999: “Gli elementi tecnici erano questi: l’assenza di una traccia di miccia che andasse oltre la buca formatasi per effetto dell’esplosione; in secondo luogo, la dinamite usata era quella comune delle cave, e lì ci sono tantissime cave. Questi sono i pochi aspetti tecnici, il resto era tutto legato alle indagini…”).
In effetti questo dato relativo al tipo di esplosivo, che si identificherebbe con quello comunemente usato nelle cave, troverà conferma nell’esito degli accertamenti chimici di cui alla Relazione CARUSO-PROCACCIANTI, ribaditi anche dal perito balistico PELLEGRINO, grazie agli esami effettuati sulle polveri ricavate dal frammento della mano destra e dal frammento di stoffa repertato sul luogo, che evidenziarono tracce di binitrotoluene o DNT-dinitrotoluene. E, scrive il PELLEGRINO, “Gli esplosivi a base di binitrotoluene fanno parte dei cosiddetti esplosivi dirompenti o da mina, e quindi vengono utilizzati anche nelle nostre cave”.
Ma il dato in questione emerge processualmente già dalle relazioni di servizio redatte in data 9 maggio ’78 dagli artificieri LONGHITANO Salvatore, Sergente maggiore dell’11° Artiglieria, e SARDO Antonio, brigadiere in forza al reparto Operativo dei Carabinieri di Palermo.
Entrambi sono convocati sul posto, si badi bene, solo per ispezionare l’autovettura dell’IMPASTATO, nel timore che i fili che fuoriuscivano dal cofano facessero parte di un congegno esplosivo (v. Relazione SARDO) e per accertare eventuali tracce di esplosivi all’interno della stessa auto (v. LONGHITANO, che ha ispezionato l’auto dopo che questa era stata già portata alla Stazione CC di Cinisi). Ed entrambi esprimono analoghe valutazioni in ordine al tipo e alla quantità di esplosivo che aveva fatto a pezzi il corpo di IMPASTATO, danneggiando anche la linea ferrata, sulla scorta di quanto loro riferito dagli stessi Carabinieri di Cinisi.
In particolare, si legge nella Relazione SARDO, (giunto sul posto alle ore 10.00) che “Da quanto riferito dai Carabinieri della Stazione CC di Cinisi, per quanto riguarda gli effetti prodotti dall’esplosione, perché sono giunto sul posto dopo che la linea ferrata era stata già riattivata e tutto riportato allo stato normale, si suppone che la carica esplosiva fosse composta da esplosivo ad elevato potere dirompente, verosimilmente esplosivo da mina comunemente impiegato nelle cave di pietra e per sbancamento di terreno quantitativamente rappresentato da kg 4-6 circa” (Cfr. fg. 86, vol. I).
Anche LONGHITANO, constatato che, al momento del suo sopralluogo, nel punto in cui era avvenuto lo scoppio non v’era alcuna anomalia nei binari e nella massicciata “perché rimessi in efficienza da personale delle Ferrovie dello Stato”, si limita a rilevare che “stante quanto riferitomi dai carabinieri, presumo che l’esplosivo fosse ad elevato potere dirompente, verosimilmente esplosivo da mina comunemente impiegato nelle cave di pietra e per sbancamento terreni. La carica esplosiva, considerato gli effetti dirompenti, poteva essere di kg. 4-6 circa”. (cfr. fg. 85, vol. I).
Ora, non si comprende – se non ipotizzando in effetti la presenza sul luogo di consistenti tracce di polvere di cava – su quali elementi, evidentemente forniti dai carabinieri di Cinisi, si fondasse questa valutazione concorde, sia pure presuntiva, espressa dai due artificieri. Né gli stessi hanno saputo precisare la fonte delle loro informazioni. Ma è certo che entrambi furono convocati per ispezionare l’auto e non per espletare accertamenti urgenti sulle modalità e le cause dell’esplosione o sul tipo di ordigno impiegato; e comunque, prima del loro arrivo, non venne compiuto alcun accertamento o adottata alcuna cautela in ordine alle tracce dell’esplosivo verosimilmente ancora presenti sul terreno.
In particolare, per quanto consta, non si è proceduto a setacciare il terreno per reperire eventuali tracce dell’innesco, dell’ordigno e della sostanza esplosiva. Né si è proceduto a prelievi di inerti dal cratere dell’esplosione, e cioè all’asportazione di terra, pietrame e quant’altro potesse essere utile ad eventuali analisi chimiche per individuare qualità e quantità dell’esplosivo o il tipo di innesco.
Anche per quanto concerne le caratteristiche e le dimensioni (che non vennero misurate) del cratere, o i danni alla linea ferrata, che pure dovevano apparire elementi preziosi per ricostruire la forza e la quantità dell’esplosivo, se non anche la traiettoria dell’onda d’urto sprigionata dall’esplosione, ci si deve accontentare (fatto salvo quanto si dirà per la relazione ispettiva dei funzionari delle FF. SS.) delle testimonianze rese dai soggetti che a vario titolo presero parte ai primi sopralluoghi, che scontano inevitabili imprecisioni e discordanze. Neppure i resti del binario vennero misurati (nel verbale di sequestro in atti si parla soltanto di “3 pezzi”), né vengono allegate fotografie. E non si procedette ad un’accurata descrizione dei pezzi di rotaia divelti, o dello stato e della lunghezza delle traverse di legno.
Così nel verbale di sopralluogo a firma del mar. TRAVALI si legge di una rotaia divelta e mancante per circa 30-40 cm. E di un “fosso sottostante da cui manca la traversa in legno”. Lo stesso TRAVALI è invece molto più preciso nelle S.I. rese al G.I. dott. CHINNICI: “per un tratto di circa 30-40 cm. mancava la rotaia. In corrispondenza del punto in cui mancava la rotaia c’era un piccolo buco del diametro di 30-40 cm, profondo circa 10-15 cm”.
Sempre al G.I. il Brig. CANALE riferisce invece di un cratere del diametro di circa mezzo metro e della profondità di circa 30-40 cm.
Ed ancora PICHILLI: “Ivi notammo la mancanza di un tratto di binario per circa 50 centimetri e in corrispondenza una fossa profonda circa 20 centimetri circa”.
A sua volta l’operaio EVOLA riferisce al G.I. di avere constatato che il tratto interrotto era lungo circa 55 centimetri e di aver notato, in corrispondenza, “un fosso profondo circa 30 centimetri e largo non più di 30 centimetri”. E gli fa eco NIGRELLI, che parla di “un fosso profondo circa 20 centimetri e largo circa 40 centimetri”.
Mancano inoltre rilievi fotografici o altro tipo di documentazione idonea a fornire un’esatta rappresentazione dei luoghi. In particolare, le immagini del luogo dell’esplosione e i particolari del cratere, del binario interrotto, dell’auto, dei singoli reperti (frammenti umani e resti di abbigliamento) nel punto esatto del rinvenimento e quant’altro. Ciò appare tanto più singolare perché dal verbale di sopralluogo a firma del mar. TRAVALI si evince che era presente sul posto personale addetto ai rilievi fotografici e che furono scattate numerose foto. E anche il perito balistico PELLEGRINO riferisce di avere esaminato le foto scattate dai carabinieri sul posto: ma tali foto non risultano allegate alla relazione di consulenza.
Infine, la Commissione parlamentare d’inchiesta dà atto di avere acquisito ed esaminato copia di un “fascicolo fotografico a seguito della morte di Impastato Giuseppe classe 1948 da Cinisi”, realizzato dal Nucleo operativo della Compagnia dei carabinieri di Partinico. Ma questo fascicolo, a firma “II Maresciallo Ordinario Comandante del Nucleo Operativo Francesco Di Bono”, privo di indice e di relazione, consta di sole 9 (nove) fotografìe, tutte prive di legenda e mancanti di qualsiasi elemento descrittivo, che ritraggono da più posizioni i resti degli arti inferiori di Impastato Giuseppe”.
Ma ivi si precisa anche che “In questo fascicolo fotografico non vi è alcuna inquadratura del binario interrotto dall’esplosione, dei frammenti di rotaia (v. sub a) della posizione degli altri reperti individuati e descritti nei verbali di sopralluogo (chiavi, zoccoli, ecc.), né dell’autovettura fìat 850 parcheggiata in uno spiazzo poco distante dal luogo dell’esplosione, nei pressi di una casa disabitata. “Tantomeno risultano presenti in questo fascicolo (trasmesso anche all’A.G.) fotografìe di campo largo, idonee a documentare l’area dell’evento e dell’intervento della polizia giudiziaria, che ordinariamente vengono effettuate in occasione di qualsiasi sopralluogo”. (Cfr. pagg. 60-61 della Relazione in atti).
In generale, non risulta che siano mai stati effettuati rilievi planimetrici: per circoscrivere anzitutto il luogo in cui fu trovata l’auto e la sua distanza rispettivamente dal casolare e dal luogo dell’esplosione. Particolare che invece aveva la sua importanza al fine di vagliare l’ipotesi, che pure fu ventilata, di un incidente occorso mentre l’IMPASTATO si accingeva a piazzare l’ordigno esplosivo, poiché, in tale ipotesi, sarebbe stato a dir poco imprudente parcheggiare l’auto a poca distanza dal luogo prescelto per piazzare l’ordigno. Lo evidenziò anche il prof. DEL CARPIO nelle S.I. rese al magg. SUBRANNI in data 16 maggio ’78, laddove, nel ricapitolare gli argomenti logico-critici che smentivano l’ipotesi dell’attentato, ribadisce “la scarsa importanza dell’obbiettivo” e aggiunge che “rimane la inspiegabile imprudenza commessa dall’attentatore, nel caso dell’ipotesi dell’attentato, di avere lasciato l’autovettura a breve distanza dal luogo dell’esplosione, distanza che non è di cento metri, come mi era stato prima indicato ma intorno ai trenta metri”.
Apprendiamo così che la distanza era di circa trenta metri: una valutazione attendibile, perché lo stesso DEL CARPIO era reduce dal sopralluogo effettuato appena tre giorni prima con il P. M: SCOZZARI. E lo stesso dato figura anche nel verbale di sequestro dell’auto predetta, datato 9 maggio ’78.
Ma in altri atti processuali figurano dati differenti:
a) alcuni dei compagni e amici di IMPASTATO, come già si è visto, parlano di 10-15 metri, con riferimento alla distanza del casolare dal luogo dell’esplosione;
b) nel verbale di sopralluogo a firma del mar. TRAVALI si legge solo che la FIAT 850 si trovava nel piazzale antistante un casolare nei pressi della linea ferrata;
c) nel fonogramma datato 9 maggio ’78 a firma del dott. MARTORANA si dice che l’autovettura dell’IMPASTATO si trovava ad una distanza di circa 50 metri;
d) Nel rapporto 10 maggio a firma SUBRANNI la distanza scende a 20 metri (più o meno la lunghezza del cavo elettrico rinvenuto al suo interno);
e) Nelle S.I. del mar. TRAVALI si parla ancora di una stalla o casolare “a circa 50 metri dal punto in cui mancava la rotaia”.
Né sono mai stati effettuati rilievi planimetrici per misurare le distanze tra i vari reperti rinvenuti o altri manufatti che potevano avere interesse investigativo (in particolare al fine di ricostruire, con la massima esattezza possibile, intensità e traiettoria dell’esplosione).
Infine, non vennero rilevate le impronte sull’auto, che avrebbero potuto quanto meno accreditare o smentire l’ipotesi che IMPASTATO fosse solo o in compagnia di altri.
2. Reperti scomparsi o mai esaminati.
Tra le ombre e le lacune istruttorie più gravi figurano poi i reperti misteriosamente scomparsi o comunque mai esaminati, di cui già si è detto.
Del “cucculuni i mari” sporco di sangue che sarebbe stato trovato all’interno del casolare e consegnato dal necroforo ai carabinieri la mattina del 9 maggio non è neppure certi che sia mai esistito, perché ne ha parlato il BRIGUGLIO solo nell’intervista raccolta da VITALE Felicia. Ma non v’è traccia agli atti neppure della sommaria ispezione che il mar. TRAVALI avrebbe effettuato, sempre quella mattina, all’interno del casolare, senza trovarvi alcuna traccia utile, come lui stesso ha riferito al G.I.
Le pietre con macchie di probabile sangue, trovate dai compagni di IMPASTATO e asportate dal sedile e dal pavimento all’interno del medesimo casolare invece esistevano e sono state repertate, ma mai esaminate. Come non fu mai sottoposto ad accertamenti il pezzo di stoffa color nocciola sporco, come è descritto nel verbale di ricezione del 13 maggio, trovato nei pressi del casolare e intriso di sostanza gelatinosa, come la definisce Faro DI MAGGIO nella sua deposizione al G.I., o con “attaccature di materiale solido colore piombo”, come è scritto nel verbale predetto: materiale che forse avrebbe potuto fornire lumi per l’identificazione del tipo di esplosivo. Tutti reperti che sono passati pressoché inosservati, anche grazie alla disattenzione di chi avrebbe dovuto segnalarne il rinvenimento, al ritardo con cui furono depositati presso la cancelleria dell’ufficio di Procura e al modo evasivo con cui ne venne annotato il contenuto nell’apposita nota di trasmissione (v. supra).
Né agli atti v’è traccia delle tre chiavi che il necroforo trovò, nel corso delle operazioni di ricerca e raccolta dei poveri resti di IMPASTATO, proprio accanto alla portiera dell’auto ma dal lato opposto a quello di guida, come lo stesso BRIGUGLIO ha dichiarato al G.I. dott. CHINNICI: con l’ovvia conseguenza che neppure queste chiavi sono mai state oggetto di accertamenti per rilevare eventuali impronte, o tracce di sangue o anche solo per appurare se appartenessero davvero a Giuseppe IMPASTATO, come pure parrebbe stando al luogo in cui il BRIGUGLIO le avrebbe rinvenute.
Certo è che queste omissioni o disattenzioni appaiono accomunate dall’effetto che hanno oggettivamente prodotto di sottrarre alle indagini elementi che avrebbero potuto imprimere ad esse, fin dai primi giorni, un diverso indirizzo, accreditando l’ipotesi dell’omicidio piuttosto che quella dell’attentato.
E resta il mistero delle modalità di rinvenimento del chiavino tipo Yale, che si rivelò essere la chiave di accesso a Radio-Aut, effettivamente in possesso di Giuseppe IMPASTATO, ma che fu oggetto di una ricerca mirata, quando ancora neppure si sapeva con certezza che il cadavere fosse proprio quello dell’ IMPASTATO.
3. Omessa o tardiva raccolta di informazioni
Solo il 20 dicembre 1978 è stato sentito (dal Giudice Istruttore) il necroforo comunale di Cinisi, quel Giuseppe BRIGUGLIO che partecipò attivamente alla raccolta dei resti del corpo di IMPASTATO e che, come si è visto, era a conoscenza di circostanze di notevole interesse investigativo.
E solo dalle S.I. rese sempre al G.I. dott. CHINNICI dal Carabiniere PICHILLI (il quale ricorda che “il Pretore eseguì l’ispezione insieme al maresciallo e al brigadiere Antonio ESPOSITO”) e dal mar. TRAVALI si è potuti risalire all’identità del brigadiere di Cinisi che era stato indicato dal necroforo come quello che lo aveva incaricato di cercare la chiave poi rinvenuta presso un cespuglio di agave. Ma Antonio ESPOSITO non è stato mai sentito e quando la Commissione parlamentare ne ha disposto l’audizione, egli “è risultato in missione all’estero”. (Cfr. pag. 49 della relazione in atti).
Francamente inspiegabile – se non alla luce di una convinta opzione per l’ipotesi del suicidio o dell’attentato – è poi il fatto che gli Inquirenti non si siano preoccupati di sentire subito i due casellanti di turno tra l’8 e il 9 maggio ’78.
Solo a distanza di otto mesi viene esaminato uno dei due, e precisamente il casellante montato in servizio a partire dalle 22.00 dell’8 maggio ’78. SALAMONE Benedetto infatti viene escusso a S.I. il 9 gennaio ’79 dal mar. TRAVALI (ma il verbale reca la firma anche del Brig. ESPOSITO) e per iniziativa dello stesso Sottufficiale (non risulta infatti alcuna delega di indagine al riguardo), ma appena qualche settimana dopo che il TRAVALI era stato a sua volta sentito dal G.I. dott. CHINNICI.
Invece, la casellante smontante quella sera, identificata in VITALE Provvidenza, risulta (dalla nota con cui lo stesso TRAVALI trasmette al G.I. il verbale di esame del SALAMONE) emigrata negli USA; e per quanto consta se ne sono perse le tracce, anche se nella Nota di trasmissione al G.I. datata 9.01.79 il verbalizzante si riservava di assumere a S.I. la stessa VITALE, “il cui rientro in Cinisi è previsto fra 20 giorni” (Cfr. fg. 251, Vo. I).
Ora, posto che il casello ferroviario, sito al km 30+745, distava poco più di 500 metri dal punto (sito al km 30+180 della stessa linea ferrata) in cui era esploso l’ordigno, nella notte tra l’8 e il 9 maggio ’78, i due casellanti avrebbero potuto riferire circostanze utili al fine di appurare se quella sera vi fosse stato un movimento insolito di persone e/o di auto in prossimità del passaggio a livello verosimilmente attraversato da chi avesse voluto raggiungere la trazzera di Feudo Orsa da cui si accedeva al famoso casolare, o da chi se ne fosse allontanato (in auto) dopo l’esplosione.
Ebbene, la deposizione del SALAMONE non è affatto immune dal sospetto di reticenza.
Egli ricorda che fino alla mezzanotte non erano stati segnalati inconvenienti di sorta; ed erano transitati due treni, rispettivamente alle 22.30 e alle 24 circa. Precisa inoltre che “al passaggio dei suddetti treni uscivo fuori dal casello, chiudevo le sbarre stesse in attesa che venissero riaperte. Io provvedo alla chiusura delle sbarre circa 7 minuti prima del transito di ogni treno all’avviso che mi giunge da Carini; fatto ciò ritorno nel casello e non appena ricevo comunicazione dal casellante del passaggio a livello del km. 27+628, mi munisco di torcia elettrica, esco fuori ed attendo il transito del treno. Quanto sopra avvenne anche per il transito del locomotore delle ore 01,35 del 9/05/78 Palermo-Trapani. Detto locomotore teneva un’andatura normale e dopo aver superato il mio casello per circa 50 metri, si fermava e ritornava indietro…”. Il SALAMONE prosegue rammentando di essere stato informato dal conducente che doveva esservi qualcosa di anormale sulla linea ferrata e allora personalmente provvide ad ispezionare i binari al lume della lanterna per circa 100 metri senza notare alcunché. Solo intorno alle 3.30 l’operaio RANDAZZO Vito, da lui allertato, lo informò di avere constatato la mancanza di un pezzo di rotaia lungo circa 50 cm.
A precisa domanda dei verbalizzanti, il casellante risponde di non avere udito alcun rumore di esplosione e di non aver visto “aggirarsi nei paraggi del casello o sulla strada vicina (comunale) ove sono ubicate le sbarre del passaggio a livello, persone di Cinisi, di Terrasini o estranei“. Poi, forse resosi conto di quanto potesse apparire poco verosimile la sua affermazioni di non aver udito alcun rumore “da attribuire a qualche esplosione”, spontaneamente aggiunge: “Faccio presente che quella notte, sino alle ore 01.00 circa, vi era un forte vento di scirocco che soffiava da Trapani verso Palermo e quindi, rispetto alla mia posizione ed al punto nel quale avveniva l’episodio di IMPASTATO Giuseppe, trasportava l’eco o altri rumori in direzione opposta alla mia”.
In effetti, non è verosimile che non abbia udito il rumore di un’esplosione provocata dallo scoppio di 4 o 6 kg di tritolo, considerato che il suo casello distava circa 500 metri dal punto dello scoppio; che era notte fonda; e che il luogo (aperta campagna, distante diversi chilometri dal centro abitato più vicino) si prestava alla propagazione del più debole rumore. Quanto alla scusante addotta, a parte la singolarità di un vento di scirocco che si sarebbe protratto solo fino alle ore 01.00, giusto in tempo per disperdere il rumore dell’esplosione che sarebbe avvenuta appunto tra le ore 0. 16 e le ore 01.15 o 01.30, dell’asserito forte vento non esiste agli atti alcun riscontro; ed anzi un riscontro negativo è costituito dall’accertamento che quella notte non si verificò alcun ritardo apprezzabile o inconveniente di sorta nelle partenze e negli atterraggi degli aerei del vicinissimo aeroporto di Punta Raisi (Cfr. riepilogo analitico del traffico aereo dello scalo palermitano tra l’8 e il 9 maggio, allegato al verbale di S.I. rese il 20 dicembre 1978 al G.I. dott. CHINNICI da SORO Ugo, all’epoca Direttore del predetto aeroporto, fg. 51 vol. II).
4. Un’indagine a senso unico.
Non può poi sottacersi – perché costituisce una circostanza che concorse non poco a generare e alimentare un clima di reciproco sospetto e diffidenza e ad avvelenare, nella fase delle prime indagini, i rapporti tra gli Inquirenti e gli amici e i compagni di Giuseppe IMPASTATO (ma anche i suoi prossimi congiunti) – che fin dal primo giorno furono effettuate sistematiche perquisizioni domiciliari alla ricerca di armi esplosivi o tracce utili a far luce sulla vicenda: ma solo presso le abitazioni dei giovani che appartenevano al collettivo di Radio Aut o comunque al gruppo politico che si assumeva capeggiato dall’IMPASTATO. Non anche presso le abitazioni di personaggi legati ad ambienti della mafia locale, che pure erano notoriamente, e comunque sulla scorta delle prime concordi testimonianze raccolte, da sempre oggetto dell’impegno di lotta dello stesso IMPASTATO e che anche negli ultimi giorni della campagna elettorale da lui condotta in prima persona erano stati il bersaglio principale delle sue accuse e di denunzie mirate, formulate anche nel corso di comizi o altre pubbliche manifestazioni. Eppure tra quei personaggi ve ne erano alcuni che risultavano proprietari o interessati alla gestione di alcune cave della zona tra Cinisi e Terrasini. E fin dal primo sopralluogo gli stessi Carabinieri di Cinisi avevano manifestato, nei termini di cui s’è detto, la convinzione che l’esplosivo fosse del tipo comunemente impiegato nelle cave.
Non si vuole con ciò insinuare, ragionando con il senno di poi, che fin dal primo giorno si sarebbe dovuta imboccare con decisione la c.d. “pista mafiosa”; ma è innegabile che quel contegno investigativo di per sé lasciava trasparire quale fosse l’orientamento (se non il convincimento) degli Inquirenti ed era un segno evidente del fatto che le indagini, lungi dall’essere a 360 gradi, come s’usa dire, si svolgevano in un’unica direzione.
Del resto ulteriore riprova – addirittura documentale – dell’atteggiamento di sospetto con cui si guardava, anche in relazione alle indagini sulla morte di IMPASTATO, ai giovani militanti dei collettivi e altri gruppi politici di sinistra presenti in quel di Cinisi e Terrasini, viene dalla documentazione riservata in possesso dell’Arma, che è stata acquisita dalla Commissione parlamentare d’inchiesta e poi depositata anche agli atti di questo processo.
In particolare, agli atti del fascicolo “P” del R. O. dei CC di Palermo figura un cospicuo elenco di materiali e documenti vari di pertinenza di Giuseppe IMPASTATO che furono oggetto di sequestro informale presso la sua abitazione.
L’intestazione dell’indice di cui al vol. II recita: “Elenco degli atti non protocollati contenuti nel fascicolo permanente nr. 029542 (VOLUMI I E II) intestato a Giuseppe IMPASTATO, nato a Cinisi il 05.01.1948″. e al nr. 01 dell’indice predetto, sotto la rubrica “OGGETTO DEL DOCUMENTO” si legge testualmente: “Elenco del materiale informalmente sequestrato in occasione del decesso di IMPASTATO Giuseppe nella di lui abitazione”.
In effetti si tratta di una cospicua documentazione di cui non v’è traccia nei verbali di perquisizione e di sequestro formalmente redatti nella stessa occasione in cui quella documentazione fu di fatto (cioè illegalmente) acquisita.
Ora, tra gli altri documenti figurano anche dei fogli manoscritti contenenti l’elenco nominativo di oltre cento persone che, con apposita Nota in data 1° giugno a firma del magg. Enrico FRASCA, del Nucleo Informativo del Gruppo Carabinieri di Palermo, viene trasmessi alle Stazioni CC di Cinisi e Terrasini e al Comando Compagnia di Partitico per opportuni accertamenti e per la completa identificazione “delle persone in esso indicate”. (Nella Nota si parla, testualmente, di un “elenco sequestrato informalmente nell’abitazione di Giuseppe IMPASTATO nel corso delle indagini relative al suo decesso”).
Tale richiesta viene puntualmente e sollecitamente evasa. Infatti, con Nota del 26 giugno 1978 il C.te della Stazione di Cinisi trasmette un elenco nominativo di 110 persone che indica come “giovani appartenenti a Democrazia Proletaria i cui nominativi sono stati rinvenuti nell’abitazione di IMPASTATO Giuseppe nel corso delle indagini svolte in ordine al decesso del predetto”; nonché un distinto elenco nominativo di 23 persone che indica come “iscritte od orientate verso il P.C.I.” e i cui nominativi furono rinvenuti nella medesima circostanza. Nella nota si precisa inoltre che “Le persone sono state identificate, molte delle quali già conosciute da questo ufficio, mediante l’elenco pervenuto con il foglio a riferimento”.
Ma già con precedenti note in data rispettivamente 9 e 10 giugno ’78, lo stesso Comando aveva trasmesso altri tre nominativi di persone indicate, ciascuna, come “politicamente orientato per il partito radicale”. (Uno dei tre è altresì identificato come “facente parte della radio AUT di Terrasini quale collaboratore”).
Ebbene, tutte e tre le note menzionate riportano come oggetto: “Controllo di persone sospettate di appartenere a gruppi eversivi”. (Cfr. fg. 633-644 del vol. 3 della produzione documentale depositata il 4.04.2000).
Ma ancora più sconcertante, perché indicativa di un inesausto accanimento investigativo nei riguardi del gruppo di giovani militanti di cui aveva fatto parte IMPASTATO, appare la Nota datata 7.10.1978 a firma del magg. Antonio SUBRANNI e indirizzata al Comando Compagnia Carabinieri di Monreale. Con l’asettico stile di un mero atto d’ufficio ad uso interno, “Si comunicano, qui di seguito, le generalità degli intestatari delle autovetture notate nei pressi della Cattedrale di Monreale in occasione del matrimonio di IMPASTATO Giovanni (nato a Cinisi il 26.6.1953, ivi residente), fratello di IMPASTATO Giuseppe (nato a Cinisi 5.1.1948), già noto esponente di Democrazia Proletaria di Cinisi.”. La nota è firmata dal magg. SUBRANNI nella sua qualità di comandante del Reparto Operativo e indica (piuttosto laconicamente) il proprio oggetto come “Indagini di P.G.” Ma non è difficile arguire a quale tipo di indagine essa alluda.
Difficile è invece sfuggire ad una sensazione di obbiettivo disagio nel constatare come venissero attenzionati financo gli invitati al matrimonio del fratello di Giuseppe IMPASTATO, mentre nulla si era fatto e nulla si sarebbe in seguito fatto per appurare la provenienza dell’esplosivo utilizzato per l’attentato in cui aveva perso la vita lo stesso IMPASTATO, benché il punto avesse formato oggetto di una specifica delega di indagine da parte dell’A.G. procedente; ovvero, per accertare, per esempio, eventuali anomalie nei registri di depositi o di carico e scarico delle partite di esplosivo impiegate nelle (note) cave in attività, all’epoca, nei dintorni di Cinisi e Terrasini, benché si fosse certi fin dal primo giorno che anche quello utilizzato per l’attentato era esplosivo da cava.
Ma per comprendere con quale pervicacia si persistesse nella difesa dell’originaria ipotesi investigativa, ad onta di nuove emergenze processuali che la smentivano, o, quanto meno, ne mettevano in dubbio la fondatezza, è ancora più utile riportare il contenuto saliente della Nota datata, si badi bene, 15 febbraio 1979, a firma del ten. col. Salvatore RIZZO, Comandante del Gruppo Carabinieri di Palermo e indirizzata alla locale Prefettura.
In questa Nota correttamente si fa il punto dell’iter della vicenda processuale, rammentandosi che il P.M. titolare dell’inchiesta, in data 8.11.78, aveva trasmesso gli atti al Consigliere Istruttore aggiunto CHINNICI con richiesta di procedere contro ignoti per l’ipotesi di omicidio volontario; e che il G.I. dott. CHINNICI aveva emesso mandato di cattura nei riguardi di AMENTA Giuseppe per il reato di falsa testimonianza “per non avere confermato la circostanza, riferita da un congiunto dell’IMPASTATO, secondo cui avrebbe suggerito, tramite una terza persona, allo stesso IMPASTATO di non recarsi a Cinisi il 21.1.1978 (data in cui morì) perché sarebbe successo un fatto gravissimo”; ed aveva altresì emesso una comunicazione giudiziaria nei confronti di FINAZZO Giuseppe, “costruttore da Cinisi”, in quanto indiziato di essere mandante dell’omicidio di IMPASTATO Giuseppe.
L’estensore della Nota precisa che l’AMENTA “risulta estraneo ad ambienti mafiosi”; indica invece lo stesso FINAZZO come “indiziato mafioso del gruppo di BADALAMENTI Gaetano”, soggiungendo però, con evidente tono dubitativo: “Pare che l’indizio a suo carico consista nel fatto che nel 1975 presentò una proposta per la costruzione di un edificio di cinque piani nel corso Umberto di Cinisi, che non venne approvato dal Comune proprio per l’intervento di IMPASTATO Giuseppe”.
Ma soprattutto l’informativa si apre con una perentoria riaffermazione della validità dell’iniziale ipotesi investigativa avanzata dai responsabili dell’ARMA, nei termini che seguono:
“Le risultanze investigative acquisite dall’Arma in ordine al decesso di IMPASTATO Giuseppe e le conclusioni alle quali si pervenne sono tuttora valide in quanto dall’istruzione formale non è fin qui emerso alcun elemento contrario di egual valore”.
In realtà la Nota prosegue citando proprio due dei principali indizi emersi in contrasto con quelle conclusioni e cioè l’episodio per cui si contestò all’AMENTA il reato di falsa testimonianza (v. infra) e le tracce di sangue rinvenute all’interno del casolare prossimo al luogo dell’evento, risultate in esito alla perizia dello stesso gruppo sanguigno dell’IMPASTATO. Ma di quest’ultimo indizio l’estensore si sforza di minimizzare la rilevanza, precisando che si trattava solo di due macchie di sangue e che il casolare era “in disuso e lasciato da tempo aperto”. E ritiene doveroso “soggiungere che in quello stesso locale furono trovate evidenti tracce di precorsi ricoveri di persone, di bivacchi e di incontri sessuali, quali stoviglie di plastica, residui di cibi, escrementi anche di animali, residui di legname combusto, assorbenti igienici intrisi di sangue, profilattici, scritte murali di contenuto osceno ecc.”.
È dunque netto e stridente lo scollamento che, alla data della Nota sopra riportata, si era delineato tra l’indirizzo ormai definitivamente impresso alle indagini dall’AG. procedente e i responsabili dell’Arma direttamente impegnati nelle indagini, ma evidentemente indifferenti a qualsiasi nuova emergenza che non si inserisse nel solco scavato attorno all’ipotesi dell’attentato terroristico.
Per dovere di completezza e onore di verità storica va anche detto che quello scollamento, a leggere attentamente la corrispondenza riservata intercorsa all’epoca tra i vari Comandi dell’Arma, era interno alla stessa Arma dei Carabinieri. Ne fanno fede i reiterati inviti rivolti (in particolare a giugno e a dicembre del 1978) dagli Ufficiali comandanti della Legione di Palermo ai Comandi competenti ad approfondire le indagini e a ricercare ed acquisire ulteriori risultanze che facessero “definitiva luce sull’episodio”, con ciò eloquentemente significando di non essere affatto paghi delle conclusioni cristallizzate nei due rapporti giudiziari a firma del magg. SUBRANNI. (Cfr. Note 13 maggio ’78 e 7 giugno ’78 a firma del col. Mario SETARIALE; e Nota 7 dicembre 1978 a firma dello stesso Comandante della Legione Carabinieri di Palermo).
Ma alla luce di tali risultanze non stupisce che il sospetto e la diffidenza nutriti dagli Inquirenti e dai carabinieri (dell’epoca) nei riguardi dei giovani militanti di sinistra, amici o compagni di partito dell’IMPASTATO, fossero debitamente ricambiati traducendosi in atteggiamenti di scarsa collaborazione, dichiarazioni reticenti, ritardi o incertezze nella consegna di preziosi reperti, o difficoltà a rivelare circostanze che avrebbero potuto aiutare a far luce sui fatti.
1. Vi si soffermano diffusamente MANZELLA Benedetto, IMPASTATO Giovanni e RICCOBONO Giovanni nel corso delle loro audizione dinanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta. Ma ne avevano riferito già al G.I. dott. CHINNICI gli stessi testi e anche altri amici e compagni del Collettivo di Radio Aut, come DI MAGGIO Faro, IACOPELLI Fara, LO DUCA Vito e VITALE Maria Fara. E tutti imputano, tra l’altro, il non aver riferito la circostanza appresa dal RICCOBONO, circa l’avvertimento datogli dal cugino AMENTA Giuseppe di non recarsi a Cinisi in quei giorni perché “sarebbe successo qualcosa di grosso”, proprio a questo clima di sfiducia. Un clima ingenerato, a loro dire, dal fatto che le indagini sembravano svolgersi a senso unico, essendo gli Inquirenti convinti della tesi secondo cui Giuseppe IMPASTATO si era suicidato o era rimasto vittima di un’esplosione accidentale mentre comunque stava mettendo in atto un attentato terroristico. E la sfiducia si accompagnava anche alla paura di poter essere ritenuti in qualche modo corresponsabili, come si evince, in particolare, dalle deposizioni rese al G.I. da DI MAGGIO Faro (“…fummo presi dalla paura, dal momento che i CC erano orientati alla tesi dell’attentato”) e da IACOPELLI Fara (“… dopo il fatto fummo presi tutti dalla paura, anche perché le indagini furono volte alla tesi della morte accidentale a seguito di attentato”).
Altrettanto esplicito il teste MANIACI Giosuè laddove confessa (al G.I.) di non aver fatto parola dell’episodio raccontato dal RICCOBONO neppure al P.M. SIGNORINO “perché nei giorni che seguirono la morte di Peppino a Cinisi avevamo tutti paura e finii anch’io come gli altri miei compagni per sentirmi estraniato ed allontanato da tutti perché fu detto subito che Peppino morì mentre stava compiendo un attentato”.
Ben si comprende quindi per quale ragione il teste LO DUCA non abbia subito rivelato la circostanza del pedinamento che lui stesso aveva subìto la sera dell’8 maggio in pieno centro di Cinisi, in coincidenza con la scomparsa dell’IMPASTATO, circostanza di cui riferì nel corso dell’istruzione formale. E si spiega, alla luce di quel clima di sfiducia e diffidenza, la scelta di consegnare al prof. DEL CARPIO, invece che ai Carabinieri, la pietra insanguinata ed alcuni resti del corpo di IMPASTATO, raccolti tra l’11 e il 12 maggio ’78 sul luogo del misfatto. E solo nella tarda mattinata del 13 maggio, ossia dopo che si era conclusa l’ispezione SCOZZARI, che altri poveri resti, oppure rinvenuti il pomeriggio precedente, vengono consegnati ai Carabinieri da Paolo CHIRCO e da altri giovani. Come pure (si spiega) la decisione di Giovanni IMPASTATO di consegnare solo nel corso dell’istruzione formale e a mani direttamente del G.I. dott. CHINNICI alcuni preziosi reperti, come le cassette contenenti la registrazione di sette puntate del programma radiofonico ideato e condotto dal fratello Peppino e alcuni fogli manoscritti contenenti appunti dello stesso su vicende di speculazione edilizia e illeciti vari, oltre ai fogli dell’agenda in cui era annotata la scaletta di un intervento che Peppino avrebbe verosimilmente effettuato in occasione del comizio di chiusura della campagna elettorale.
Particolarmente toccante è poi la testimonianza di RICCOBONO Giovanni sul disagio provato per il modo, incalzante e tendenzioso, con cui vennero condotti i primi interrogatori cui lui stesso e gli altri giovani militanti del Collettivo di Radio Aut furono sottoposti all’indomani del fatto:
“All’indomani della morte di Peppino, gli Inquirenti portarono me e altri amici di Giuseppe in caserma dove fummo tutti tartassati e trattati da terroristi”. Poi spiega: “Ho usato il termine tartassati perché una stessa domanda ci fu rivolta frequentemente ed è la seguente: “Perché stavate facendo l’attentato?” Noi dovevamo affermare per forza che avevamo fatto l’attentato o che lo stavamo facendo e che era andata male, avendo Peppino perso la vita. Questo è il senso. La domanda venne rivolta parecchie volte”.
Ed ancora:
“C’era la sensazione che non si volesse cercare la verità, almeno come primo tentativo. Anche noi l’abbiamo notato subito. Ripeto che nessuna domanda è stata fatta su altre cose, si diceva solo che noi eravamo attentatori e basta.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Lei intende dire che non hanno posto domande sulla mafia locale?
RICCOBONO. L’unica domanda sulla mafia è stata fatta quando il carabiniere voleva i nomi.
RUSSO SPENA COORDINATORE. In sostanza solo quando lei ha affermato che poteva trattarsi di un attentato di stampo mafioso le hanno chiesto di dire i nomi
RICCOBONO. Io – come tutti gli altri – feci loro presente che Peppino aveva diffuso volantini, presentato denunce e fatto comizi contro la mafia. In qualche modo tutti noi invitavamo gli inquirenti ad indagare in quella direzione. Fu allora che il carabiniere che svolgeva l’interrogatorio, piuttosto arrabbiato e sbattendo una mano sulla scrivania, ci chiese di fare i nomi.
MICCICHÈ. Quindi si passò immediatamente alla tesi di un attentato da parte del vostro gruppo e poi a quella del suicidio. Da quel momento aveste la sensazione che la pista della vendetta mafiosa fosse del tutto accantonata e non venisse neppure sfiorata come ipotesi?
RICCOBONO. Sì.
FIGURELLI. Ricorda qualche testimonianza di quei giorni circa le perquisizioni effettuate in paese? In sostanza, ricorda se, quanto e in quale direzione, subito dopo la morte di Impastato, la stazione dei Carabiniere indagò tra i mafiosi o tra quelli che in paese erano ritenuti fiancheggiatori della mafia o comunque uomini legati ai capi mafia?
RICCOBONO. Le uniche perquisizioni furono fatte in casa mia, in quella di La Fata, di Giovanni Impastato e nella casa in campagna di Manzella Benedetto. Sull’altro versante non furono fatte perquisizioni. Furono perquisite solo le case dei compagni di Peppino”. (cfr. pag. 98).
Di analogo tenore le dichiarazioni rese da LA FATA Pietro sul clima in cui si svolse il suo interrogatorio:
“C’erano SUBRANNI e BASILE, il capitano che poi è stato ucciso ed era l’unico che ascoltasse, l’unico con cui sono riuscito a dialogare. Dicevo che non si trattava di un attentatore, ma di una persona che portava avanti una battaglia ed era stato ucciso. Dissi che c’era stata una simulazione. Mi fu chiesto in che modo potessi dimostrarlo, ma io risposi che non potevo dimostrare niente. Però erano dieci anni che lo frequentavo. Mi si contestò che lì c’erano i fili, c’era la macchina, c’erano i cavetti telefonici, ma erano quelli che servono per attaccare le trombe all’amplificatore e al megafono. L’unico che avesse dei dubbi era il capitano BASILE”.
“Si diceva solo che noi eravamo attentatori e basta”. (cfr. pag. 95).
2. Relazioni pericolose.
Ma dalle audizioni dinanzi alla Commissione parlamentare sono emersi ulteriori particolari sulle cause e le origini della diffidenza nei riguardi delle Forze dell’Ordine e segnatamente dei graduati in forza alle stazioni dei CC di Cinisi e Terrasini: motivata, a dire dei testi sunnominati, da ambigui contatti e una preoccupante consuetudine di tolleranza o di benevolenza nei confronti di soggetti ritenuti vicini alla criminalità mafiosa.
Pur con la dovuta cautela, se ne deve qui far cenno perché una eco inquietante di simili riferimenti a presunti contatti o e rapporti di natura ambigua tra affiliati mafiosi e singoli esponenti locali dell’Arma si ritrova non solo nelle rivelazioni di alcuni collaboratori di Giustizia (v. MUTOLO e PALAZZOLO Salvatore), ma persino nelle allusioni e insinuazioni di cui sono intessuti alcuni passaggi degli interrogatori cui è stato sottoposto Gaetano BADALAMENTI nell’ambito delle indagini sull’omicidio IMPASTATO.
Così si esprime, in particolare, il MANZELLA, nel corso della sua audizione del 27 luglio 2000, a proposito della denuncia sporta contro ignoti per le strane effrazioni alla sua casa di campagna nella notte del 12 maggio ’78:
“MANZELLA: Devo essere sincero: malgrado non avessi. . . allora non avevo nessuna fiducia nei carabinieri; oggi ho un atteggiamento molto diverso, anche perché oggi i carabinieri a Cinisi sono molto. . . io sono amico del maresciallo. È un’altra cosa rispetto a ventidue anni fa. Ma allora, malgrado non avessimo nessuna fiducia, più che altro era per mettere…
RUSSO SPENA COORDINATORE:. Perché non aveva fiducia allora?
MANZELLA: Perché vedevo questi carabinieri che molto spesso – ed era una cosa che a me dava un fastidio enorme – andavano a prendere il caffè con i mafiosi. Si dice “ma non vuoi dire niente”, però per me era una cosa palese, rispetto anche alla gente, questo fatto di andare a prendere il caffè al bar assieme ai mafiosi, persone che tutti sapevano che erano mafioso, i Trapani, i Finazzo e compagnia.” (Cfr. pag. 82 della relazione in atti).
È curioso che questa immagine dei caffè presi insieme, quasi come gesto simbolico e rivelatore di una consuetudine di “relazioni pericolose” di autorevoli esponenti delle Forze dell’Ordine ricorra nelle dichiarazioni di un collaboratore di Giustizia del calibro di DI CARLO Francesco, ma anche in un passaggio dell’interrogatorio reso da Gaetano BADALAMENTI il 5 dicembre 1995 nell’ambito del procedimento iscritto al nr. 1872/95, avente ad oggetto il suicidio del mar. dei Carabinieri Antonino LOMBARDO.
In particolare, il DI CARLO, a proposito dei rapporti tra alcuni noti affiliati alla famiglia mafiosa di Cinisi e i Carabinieri delle Stazioni di Terrasini e Cinisi, ha dichiarato che tali rapporti erano dei migliori, “a questo livello tanto che io li vedevo là non camminavano di nascosto al buio, camminavano…. ci siamo presi qualche caffè anche, pur essendo latitanti loro. Io non ero latitante ancora” (Cfr. verbale di interrogatorio del 28.02.97 in atti).
Il BADALAMENTI ha dichiarato, a sua volta, che conosceva bene il mar. LOMBARDO, fin da quando, prima di assumere il comando della Stazione dei CC di Terrasini, prestava servizio alla compagnia di Partitico. Lo aveva incontrato l’ultima volta circa un anno prima, quando lo stesso LOMBARDO si era recato a trovarlo al carcere di Memphis per sondare la sua disponibilità a tornare in Italia per collaborare con la Giustizia.
Ebbene, dopo aver espresso pieno apprezzamento per la correttezza e la dirittura del Sottufficiale (morto suicida nel ’95) e per lo scrupolo con cui era solito condurre le indagini (“una persona per bene che faceva il suo servizio e nel suo servizio filava dritto…”), maliziosamente soggiunge che “Sicuramente faceva un po’ troppo il binocolista, un po’ troppo…prendere caffè…quando qualcuno andava a prendere un caffè…. lui aveva desiderio di un caffè, pagando solo lui però, non faceva pagare a nessuno, ma credo che faceva il suo lavoro onestamente. Non mi risulta che il maresciallo LOMBARDO abbia scritto cose che non rispondevano a verità”.
Ora, nel suo linguaggio colorito ed allusivo, l’anziano boss sembra adombrare uno scenario non improbabile, secondo cui il maresciallo LOMBARDO non era alienano da contatti o frequentazioni pericolose, e cioè con soggetti malavitosi, allo scopo, però, di ricavarne informazioni o comunque risultati utili alle indagini e all’espletamento dei propri compiti istituzionali.
Poi, in un passo successivo del medesimo interrogatorio, dopo aver fornito risposte elusive a specifiche domande in ordine ai rapporti tra il mar. LOMBARDO e la famiglia (intesa anche come sodalizio mafioso) dei D’ANNA di Terrasini, ribadisce che “come le ho detto il maresciallo LOMBARDO era uno che ho accennato al binocolo, era uno che gli faceva piacere fare appostamenti con il binocolo per guardare, difatti l’ho detto a lui… E mi ha chiesto ‘come faceva lei a sapere’, ma come, prima mi dice che tutti mi volevano bene e mi dicevano tutto, e poi mi domanda come facevo a sapere quando lei faceva appostamenti per guardare me. Il maresciallo LOMBARDO era uno che faceva il suo lavoro, se vedeva una persona sospetta entrare in un caffè, lui entrava e si prendeva il caffè, non è che entrava per guardare quello che parlava con qualcuno o quello che facevano, comunque si prendeva il caffè… era normalissimo… credo che lo faceva anche con i D’ANNA, lo faceva con i D’ANNA quando io mi trovavo con i D’ANNA. Altri rapporti non credo che…anzi credo che il maresciallo LOMBARDO sia stato il primo a boicottare i D’ANNA con la cava”. (E quindi allude a misteriose attività di interesse investigativo facenti capo alla cava gestita dai D’ANNA: “Io credo che quando lui è venuto a Terrasini ha cominciato a cercare, a controllare la cava, che cosa si svolgeva nella cava credo che è stato il primo… Se questa mia conferma vi serve, il maresciallo LOMBARDO non faceva un mistero di andare a controllare nella cava, faceva il suo lavoro, se doveva chiedere qualche cosa, se doveva verificare quello che si svolgeva nella cava lo faceva apertamente, non faceva cose…”. Cfr. ff. 249-251).
Su questo delicato tema, ancora più esplicito del RICCOBONO è stato Giovanni IMPASTATO nella sua audizione del 31 marzo 2000 (sempre dinanzi alla Commissione parlamentare), laddove rammenta:
“…In quel periodo c’era un buon rapporto tra i mafiosi locali e i carabinieri della caserma di Cinisi.
Pare che lo stesso Badalamenti fosse molto stimato dai carabinieri in quanto persona precisa, tranquilla, che amava il dialogo. Sembrava quasi che facesse loro un favore giacché a Cinisi non succedeva mai niente e poteva ritenersi un paese tranquillo. Semmai eravamo noi i sovversivi che rompevano le scatole. Era questa l’opinione dei Carabinieri. Quando mi capitava di parlare con qualcuno di loro – cosa che non accadeva spesso perché non avevo troppa fiducia – mi rendevo conto che l’opinione diffusa era che Tano Badalamenti fosse un galantuomo e che noi invece fossimo quelli che rompevano le scatole.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Perché non aveva fiducia in loro?
IMPASTATO. Perché determinati fatti non mi portavano ad avere fiducia nei loro confronti.
Vedevo che spesse volte andavano sotto braccio con Tano Badalamenti e i suoi vice. Non si può avere fiducia nelle istituzioni quando si vedono i mafiosi a braccetto con i carabinieri.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Praticamente i Carabinieri camminavano nel corso del paese a braccetto con Badalamenti.
IMPASTATO. Sì, lo posso confermare. Non so se posso portare delle foto. Forse esiste qualche foto di Peppino che lo confermi. In ogni caso i rapporti con la caserma dei carabinieri erano molto evidenti. Lo dicevano loro stessi. Badalamenti aveva rapporti diretti con il capitano dei carabinieri Russo, perciò si figuri se un maresciallo non doveva stimare Badalamenti. Desidero solo chiarire la situazione. Ma anche Peppino denunciava questi fatti nei comizi. Affermava che esistevano rapporti diretti fra mafia e carabinieri anche a Cinisi”. (Cfr. pag. 96 della relazione in atti).
In effetti, nel corso dell’interrogatorio sopra citato, lo stesso BADALAMENTI, pur negando o glissando sull’esistenza di contatti diretti tra lui e il col. RUSSO, ha ammesso in pratica che questi aveva un’alta considerazione della sua persona; e che fu proprio il col. RUSSO a suggerire ad uno dei fratelli SALVO – i potenti esattori siciliani – e precisamente a Nino SALVO, di rivolgersi al BADALAMENTI perché intercedesse presso i responsabili del sequestro del suocero CORLEO, al fine di fargli ottenere, quanto meno, la restituzione del corpo. (Cfr. ff. 152-153 e 216-217 vol. 7).
E dopo essersi incontrato effettivamente con Nino SALVO in quel di Sassuolo, ove era confinato al soggiorno obbligato nel ’74, lo stesso BADALAMENTI, come ha dichiarato, ebbe conferma dal Comandante della locale Stazione di CC – che si scusò con lui dei modi bruschi usati nei suoi confronti in occasione di una precedente convocazione in caserma – che un alto Ufficiale dell’Arma si era adoperato per favorire quell’incontro (“Dopo la venuta di SALVO mi ha detto: ‘Sa, quando è successa quella cosa io non sapevo che lei era tenuto in buona considerazione… in questa considerazione dalla più alta autorità dei carabinieri che noi abbiamo in Sicilia’” (fg. 238).
Come già accennato, sul tema dei presunti contatti tra la famiglia mafiosa di Cinisi, all’epoca in cui era retta da Gaetano BADALAMENTI, ed esponenti delle Forze dell’Ordine operanti in quel territorio ha reso inquietanti dichiarazioni, tra gli altri, il collaboratore di Giustizia DI CARLO Francesco (già reggente della famiglia mafiosa di Altofonte e poi fiduciario di Bernardo BRUSCA, capo del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato). In particolare, nell’interrogatorio del 28.02.97, ha confermato che numerosi latitanti e affiliati a Cosa Nostra aveva trascorso indisturbati la loro latitanza nei territori di Cinisi e Terrasini, potendo contare sull’indifferenza dei Carabinieri del posto ed anche sulla benevolenza di qualche alto ufficiale dell’Arma (che indica proprio nella persona del col. RUSSO):
“Mi risulta che erano… anche Ciccio DI TRAPANI era pure latitante, a parte Nino BADALAMENTI che mi sembra che era solo latitante in quel periodo per il confine, sorveglianza, cosa era…ma anche il fratello, quand’era vivo… Cesare, fratello di Nino, lo chiamavano ‘Sarino’; perché allora la stazione dei Carabinieri non li disturbava, facevano finta di niente perché c’avevano fatto parlare il Colonnello RUSSO, va bene? Che al Colonnello RUSSO c’avevano parlato i SALVO e Tanino BADALAMENTI, e si comportavano bene. Questi i rapporti, di altri non lo so”. (cfr. verbale di trascrizione integrale in atti e pag. 88 della richiesta di OCC in vol. 14).
Di analogo tenore le dichiarazioni rese dal collaboratore di Giustizia ONORATO Francesco – reo confesso dell’omicidio dell’on. LIMA e già reggente fino al suo arresto della famiglia di Partanna-Mondello – nell’interrogatorio del 31.05.97. In particolare, sempre a proposito dei presunti contatti fra Gaetano BADALAMENTI e le Forze dell’ordine operanti nei territori di Cinisi e Terrasini, il collaborante ha dichiarato:
“Si, là a Terrasini, Cinisi avevano loro le caserme nelle mani. “. Ed ancora: “mi ha raccontato Saro RICCOBONO che faceva la latitanza a Cinisi, tempo d’estate certe volte e che era tranquillo, perché là non lo cercava nessuno, neanche quelli…quelli della zona stessa erano…. Diciamo d’accordo che non…” (cfr. verbale di trascrizione integrale in vol. 15).
Sul medesimo argomento, Giovanni BRUSCA, nel corso dell’interrogatorio reso al P.M. in data 30.05.97, ha dichiarato di essere a conoscenza di rapporti tra il Col RUSSO e Gaetano BADALAMENTI, ma di non poter precisare se tali rapporti fossero diretti o solo mediati dagli esattori SALVO (cfr. verbale riassuntivo in vol. 15).
Anche il collaboratore PALAZZOLO Salvatore ha più volte dichiarato – ed anzi è stato uno dei primi a farlo, per quanto consta – che il territorio di Terrasini, Balestrate e Partinico era noto a noi della “famiglia” come un luogo sicuro per i latitanti, e ciò da moltissimo tempo (cfr. verbale di interrogatorio del 16.07.96).
Lo stesso collaboratore, nel primo interrogatorio in cui manifesta la propria volontà di collaborare con la Giustizia, riferisce, in particolare, di avere appreso da PALAZZOLO Vito, odierno imputato, e da RIMI Leonardo che era proprio il mar. LOMBARDO, di cui a suo dire era nota la vicinanza ai D’ANNA di Terrasini, ad avvisare i soggetti affiliati o vicini alla stessa famiglia mafiosa, quando fossero destinatari di provvedimenti restrittivi, per consentire loro di sfuggire all’esecuzione (cfr. verbale di interrogatorio del 18/09/93).
Certo è che, a prescindere dalla loro fondatezza, tutta da verificare, i sospetti e le voci circa rapporti amichevoli o di benevola tolleranza se non addirittura di compiacenza da parte delle Forze dell’Ordine locali (o di singoli rappresentanti di esse) nei riguardi di presunti mafiosi circolavano con una certa insistenza nei paesi interessati, già all’epoca dei fatti per cui è processo. Tanto da formare oggetto di uno specifico esposto denunzia che il Comitato di contro-informazione “Peppino IMPASTATO” indirizzò nel giugno del ’79 al Comandante della IX Brigata CC, lamentando che alcuni noti appartenenti alle cosche mafiose dei DI TRAPANI e dei BADALAMENTI, benché colpiti da provvedimenti restrittivi, continuavano a girare impunemente per le vie del paese di Cinisi, sotto gli occhi di tutti con lussuosissime macchine continuando a imporre soprusi e angherie. Salvo sparire dalla circolazione quando venivano organizzate, con grande spiegamento di uomini e mezzi, vistose operazioni di polizia finalizzate, senza esito, alla cattura dei latitanti. Nell’esposto si avanzava quindi il sospetto che gli interessati fossero tempestivamente preavvertiti di simili operazioni da provvidenziali telefonate che forse partivano proprio dalla Stazione CC di Cinisi.
Ebbene, dalla documentazione riservata che è contenuta nel fascicolo “P” in possesso dell’Arma, ed acquisita nell’ambito dell’attività integrativa d’indagine più volte citata, risulta che, in merito a tale esposto, il Comando predetto, con nota del 4 giugno ’79 indirizzata al ten. col. SUBRANNI, n.q. di Comandante del R.O. dei CC, dispose di svolgere “rigorosi accertamenti, riferendone – nel caso dovessero emergere estremi di calunnia in danno di nostri militari – all’autorità giudiziaria”. (v. f. 194: ivi anche l’invito a fornire notizie sulla composizione e sulle attività del sedicente Comitato di contro-informazione).
Non conosciamo l’esito di questa indagine interna all’Arma; e se, in particolare, essa sia sfociata nell’accertamento di responsabilità individuali e in conseguenti trasferimenti d’ufficio o in provvedimenti di carattere disciplinare o di altra natura a carico di qualche militare. Ma per quanto consta, neppure furono sporte denunzie per calunnia nei riguardi dei componenti e dei responsabili del Centro IMPASTATO, che pure vennero compiutamente e sollecitamente identificati.
Dalla documentazione predetta risulta però che il giorno dopo la trasmissione della Nota citata, parte dal C.do del suddetto R.O. un fonogramma indirizzato alla Compagnia CC di Partinico con il quale si richiede di far conoscere i nominativi dei soggetti residenti in quel territorio colpiti dalla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno; e “a quali di essi il provvedimento non sia stato ancora notificato aut non abbiano raggiunto luogo soggiorno, chiarendone motivi”. Il fonogramma termina raccomandando l’urgenza delle informazioni ed è a firma dello stesso col. SUBRANNI (f. 193).
E in effetti il C.do della Compagnia di Partinico risponde prontamente, trasmettendo, con Nota datata 5 giugno ’79, l’elenco dei soggetti colpiti dai provvedimenti restrittivi in questione (e qualcuno anche da mandato di cattura) non eseguiti per irreperibilità degli stessi. Tra gli altri sono segnalati SAPUTO Domenico, DI TRAPANI Francesco e BADALAMENTI Antonino, quest’ ultimo allontanatosi arbitrariamente dalla sede del soggiorno obbligato (v. f. 192).
Con successiva nota datata 27.06.79 e indirizzata al Comando del Gruppo Carabinieri di Palermo (v. f. 190), il col. SUBRANNI, nel trasmettere le informazioni acquisite, precisa che il menzionato DI TRAPANI Francesco – che indica come il più noto esponente mafioso, cui era stata irrogata fin dal 1972 la misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per anni due nel Comune di Alanno (PE) – “è stato rintracciato nei giorni scorsi dall’Arma di Partinico ed avviato alla sede impostagli”.
Dunque v’è agli atti la prova documentale che un noto esponente mafioso fu effettivamente rintracciato, nel giro di venti giorni – quanti ne trascorsero tra la citata nota 5.06.79 della Compagnia di Partitico e l’informativa 27.06.79 a firma SUBRANNI – dopo che per sette anni era rimasto irreperibile. E poichè fu rintracciato ad opera (e per merito) dei Carabinieri di Partinico, deve presumersi che ciò avvenne nello stesso territorio di origine e residenza del ricercato.
Di lì a poco sarà la volta anche di SAPUTO Domenico – chiamato in correità proprio da PALAZZOLO Salvatore sia per la sua appartenenza al clan BADALAMENTI che per alcuni fatti omicidiari – e BADALAMENTI Antonino – cugino di Gaetano e indicato da numerosi collaboratori di Giustizia come reggente della famiglia mafiosa di Cinisi dopo che lo stesso Gaetano fu espulso dall’organizzazione – di essere avviati alle rispettive sedi di destinazione: il secondo, in particolare, quando viene ucciso (il 19 agosto 1981), aveva da poco finito di scontare il periodo di soggiorno obbligato (che era appunto di due anni). È allora legittimo il sospetto che questa ritrovata efficienza delle Forze dell’Ordine fosse frutto anche del prevalere di una volontà finalmente chiara e inequivoca di dar la caccia ai (presunti) mafiosi latitanti e di rintracciare i ricercati per dar corso alle misure restrittive pendenti nei loro confronti.
Del resto, un indizio del ripensamento o di un profondo mutamento in atto nelle convinzioni e nelle strategie dei vertici operativi in particolare dell’Arma dei Carabinieri trapela anche dall’informativa del col. SUBRANNI sopra citata. In essa si profila infatti uno scenario di cui non v’è traccia nei pregressi rapporti a firma dello stesso Ufficiale sullo stato delle indagini in relazione alla vicenda IMPASTATO: lo scenario di un paese e di un territorio ad alta densità mafiosa, quello di Cinisi appunto, teatro di uno scontro tra una cosca mafiosa emergente, il cosiddetto gruppo mafioso del “corleonese”, che fa capo all’ergastolano LIGGIO Luciano, e il gruppo legato alla mafia tradizionale, facente capo al noto Gaetano BADALAMENTI. E quest’ultimo viene testualmente indicato, senza perifrasi e mezzi termini, come il capo mafia di Cinisi.
Nella medesima informativa si evidenzia, inoltre, che “a cura di questo Reparto Operativo e sotto la personale direzione del sig. col. Comandante la Legione i maggiori esponenti dei due cennati gruppi di mafia sono stati denunciati all’A.G. per associazione a delinquere di tipo mafioso e per diversi altri gravi delitti”.
“L’A.G. ha adottato diversi provvedimenti restrittivi concernenti taluni delitti di omicidio e tra breve dovrebbe prendere analoghe decisioni per quanto riguarda il delitto di associazione per delinquere”.
(Per inciso, una sorprendente prudenza ispira le parole con cui l’ottimo Ufficiale, omettendo qualsiasi riferimento all’ipotesi del suicidio o dell’incidente comunque legato ad un attentato terroristico, richiama le circostanze della tragica morte di Giuseppe IMPASTATO, che egli indica come “il giovane attivista di detto partito – Ndr: Democrazia Proletaria – rimasto ucciso la notte tra l’8 ed il 9 maggio 1978 in località Feudo di Cinisi, sulla strada ferrata Palermo Trapani, in conseguenza dello scoppio di una carica esplosiva”: cfr. ancora Nota del 27.06.79, f. 191).
Ulteriori conferme, ma anche elementi per nuovi spunti di riflessione sulla questione vengono dalle dichiarazioni del collaboratore di Giustizia MUTOLO Gaspare. Questi, a sua volta, conferma che il territorio di (Cinisi e) Terrasini era considerato particolarmente tranquillo e idoneo ad ospitare latitanti anche di spicco, nella certezza che non sarebbero stati disturbati dalle Forze dell’Ordine locali (Lui stesso trascorse un periodo di latitanza a Cinisi, ospite di Nino BADALAMENTI). Ma riporta questo atteggiamento di tacita tolleranza o di benevole indifferenza ad un fenomeno più generale, per cui sarebbe sempre esistito un rapporto di reciproci favori tra i Comandanti delle Stazioni dei Carabinieri dei piccoli centri e i capi mafia dei territori interessati (cfr. verbale di interrogatorio del 6.10.95, ff. 163-167 vol. 8).
In particolare, nell’interrogatorio del 31.10.95, alla domanda del P.M. su quale fosse l’atteggiamento di Cosa Nostra nei riguardi “dei suoi componenti che avevano rapporti di frequentazione con uomini delle Forze dell’Ordine, carabinieri o altro”, il MUTOLO ribadisce l’esistenza di una sorta di tacito patto di pacifica convivenza, soprattutto con i comandanti delle Stazioni dei Carabinieri e imputabile in parte a quieto vivere, ma in parte a esigenze investigative o di mantenimento dell’ordine nel territorio:
“…cioè specialmente le caserme, insomma dato che le caserme erano assoggettate, e quello che comandava di solito era il Maresciallo, nelle piccole caserme, diciamo tra il maresciallo e il mafioso, anche perché il mafioso non è che dava fastidio diciamo nel territorio, anzi poteva servire ad eliminare diciamo, a quello che andava rubando, a quello che faceva rapine, quindi io posso dire con tutta tranquillità che purtroppo e io ho cercato anche di spiegarlo va bene che i Marescialli o subivano, per modo di dire, così, in una maniera pulita diciamo, questa invasione, diciamo, di questi mafiosi, oppure andavano via, oppure insomma male che andava, insomma, venivano uccisi, ma siccome i Marescialli erano quasi tutti sposati nelle… in queste piccole borgate, quindi cercavano di convivere, in parte si diceva che nei piccoli paesi quello che comandava era il mafioso, il maresciallo e il Prete, insomma era una cosa, ora non è che voglio sparlare i preti, però era una cosa che almeno per noi mafiosi questo si sapeva” (cfr. verbale di trascrizione integrale dell’interrogatorio del 31.10.95, e ff. 72-73 vol. 8).
Detto questo, non si può escludere che vi siano state nel tempo deviazioni e abusi o addirittura collusioni da parte di uomini delle Istituzioni e delle Forze dell’Ordine in nessun modo riconducibili all’espletamento dei propri compiti o a fini di strategia investigativa. Ma forse la chiave di lettura più consona alla realtà (storica) dei fatti, e capace di legare insieme le allusioni del BADALAMENTI con le sgradevoli esperienze e impressioni rievocate dagli amici e compagni di lotta di Peppino IMPASTATO – e, forse, anche con le inquietanti rivelazioni di alcuni collaboratori di Giustizia – in uno spartito intelligibile e coerente, ci è offerta da un passaggio (riportato a pag. 134 della Relazione della Commissione Antimafia) delle dichiarazioni che, nell’ambito del proc. iscritto al nr. 1872/95 RGNR (è il procedimento contro ignoti in ordine al reato di cui all’art. 580 C.P., avente ad oggetto il suicidio del mar. LOMBARDO) sono state rese al P.M. il 16 marzo 1995 dal Colonnello dei Carabinieri (ora Generale) Mario MORI. In quella sede, nel confermare quanto diffusa fosse, almeno fino a quando non è iniziata la stagione dei collaboratori di Giustizia, la prassi investigativa dell’uso di confidenti anche nelle indagini in materia di criminalità organizzata, l’alto Ufficiale dell’Arma ha parlato di una “generazione di investigatori che, in considerazione dei tempi in cui si era svolto il loro operato, avevano fatto del rapporto confidenziale con personaggi mafiosi o vicini alla mafia lo strumento principe della loro attività. Queste tecniche investigative sono oggi da ritenere completamente superate ma in quell’ottica era assolutamente verosimile che questi rapporti confidenziali generassero nell’opinione pubblica delle voci, dei sospetti sulla trasparenza dell’operato” degli ufficiali di polizia giudiziaria.
2.9. L’iter processuale fino alla sentenza CAPONNETTO.
Per meglio comprendere l’incidenza che gli episodi e le circostanze di cui s’è narrato ebbero nell’orientare le indagini verso il loro sbocco finale, nonostante il clima conclamato di reciproco sospetto e diffidenza, è opportuno a questo punto riportare la dettagliata ricostruzione dell’iter processuale contenuta nella sentenza CAPONNETTO, a partire dal deposito della relazione di consulenza medico legale e della perizia balistica.
Tale ricostruzione, oltre a collocare gli episodi summenzionati nella giusta prospettiva diacronica, raccordandoli allo sviluppo delle indagini, consente di apprezzare il ruolo suppletivo che, a fronte non solo di omissioni e ritardi, ma anche della complessiva e sostanziale inerzia degli Inquirenti, finirono per svolgere amici, compagni di partito di Giuseppe IMPASTATO, i suoi prossimi congiunti e persino i legali della famiglia IMPASTATO e delle associazioni private che ambivano a costituirsi parte civile.
Un ruolo che non fu solo di impulso e di sollecitazione critica, ma si tradusse in un concreto apporto di reperti, informazioni ed elementi di conoscenza utili a far luce sui fatti.
“In data 28 ottobre 1978 venivano depositate le relazioni dei periti medico-legali (ff. 159-186) e del perito balistico (ff. 187-195) sulle cui conclusioni ci tratterremo più oltre.
Dopo avere raccolto, il 2/11/1978, le testimonianze della Maniaci Anna (la quale confermava la deposizione resa ai Carabinieri, ribadendo che “l’Impastato quella sera era normale” (f. 196) e del prof. Del Carpio (f. 197), il sost. procuratore della Repubblica trasmetteva, con nota 6/11/1978, gli atti a quest’Ufficio Istruzione per il procedimento a carico di ignoti in ordine ai reati di omicidio premeditato in danno dell’Impastato Giuseppe e di detenzione e porto illegali di materiale esplosivo.
Rispettivamente in data 10 novembre 1978 e 12 dicembre 1978 (ff. 200 e 242) si costituivano parte civile nel procedimento la madre ed il fratello della vittima.
Nel corso dell’istruttoria formale veniva acquisita – presso la Direzione compartimentale delle ferrovie dello Stato – copia della relazione, ed allegati verbali, relativa agli accertamenti amministrativi esperiti in merito all’esplosione in cui aveva trovato la morte l’Impastato (ff. 244 – 250); venivano altresì sentiti numerosi testimoni (v. ff. da 1 a 91 del vol. II), dalle cui deposizioni emergevano talune significative, nuove circostanze, e – in particolare – un colloquio avvenuto nel pomeriggio dell’8 maggio 1978 tra tale Riccobono Giovanni (amico dell’Impastato Giuseppe) e il suo cugino e datore di lavoro Amenta Giuseppe, e nel corso del quale il Riccobono, chiamato in disparte, era stato avvertito “di non andare in paese perché in questi giorni succederà qualcosa di grosso”; precisava il Riccobono (ff. 12-14 vol. II) di avere appreso dal cugino, nell’accennato colloquio, “che era stato suo fratello Amenta Carmelo Giovanni a incaricarlo di dargli tale consiglio”, e di averne – subito dopo – parlato con parecchi amici di Cinisi, tra cui il fratello dell’Impastato Giuseppe, ma di non averne potuto informare Giuseppe, benché questo fosse stato il suo primo, istintivo pensiero, perché, recatosi appositamente alla radio, lo aveva trovato impegnato in vista di un’assemblea fissata per le ore 21.
Le circostanze riferite dal Riccobono venivano confermate da numerosi testi (Impastato Giovanni, Di Maggio Faro, Maniaci Giosuè, Iacopello Fara, Vitale Maria Fara, Bartolotta Andrea, La Fata Pietro Giovanni, Cavataio Benedetto e Di Maggio Domenico).
Emergeva altresì, da talune delle testimonianze sopraricordate, che le circostanze riferite dal Riccobono avevano creato, nella stessa sera dell’8 maggio 1978, uno stato di apprensione tra gli amici dell’Impastato Giuseppe, alcuni dei quali (“circa otto persone”: f. 74 retro), non avendolo visto arrivare alla riunione fissata per le ore 21, si erano mossi – su tre autovetture – alla sua ricerca, protrattasi invano per quasi tutta la notte (cfr. ff. 24, 32 retro e 69 retro).
Precisavano concordemente i testi suindicati di non avere riferito prima, nemmeno al Magistrato, quanto avevano appreso dal Riccobono, a motivo della sfiducia in essi ingenerata dal deciso orientamento che sin dal primo momento gli investigatori avevano palesato verso la tesi dell’incidente o del suicidio.
I testi stessi, inoltre, fornivano particolari circa la battaglia politica condotta dall’Impastato Giuseppe contro il potere mafioso della zona, e in particolare, contro Gaetano Badalamenti, Finazzo Giuseppe ed un certo Palazzolo; personaggi che egli non esitava a ridicolizzare nelle trasmissioni di “Onda Pazza” dalla Radio Aut.
A tal riguardo l’Impastato Giovanni consegnava al Magistrato Istruttore, il 7/12/1978 (f. 15 vol. II), sette cassette di registrazione di dette trasmissioni, oltre a vari documenti, e precisava (f. 16 retro detto vol.) che suo fratello era riuscito, con l’intensa attività politica svolta, a far sospendere i lavori di costruzione di un palazzo a cinque piani (“che pare sia del Finazzo”) e si era battuto a fondo, con pubbliche denunce, contro l’approvazione “quasi clandestina” del cosiddetto piano “Z 10”, consistente nella realizzazione di un campo turistico nella zona di Cinisi, ed alla quale “erano interessati un certo Lipari … figlioccio di un noto mafioso defunto Rosario Badalamenti; un certo Caldara di Palermo; e un certo Cusimano di Cinisi, costruttore edile … forse in buoni rapporti con elementi mafiosi”.
Del resto già in data 19/5/1978 il Lo Duca Vito (f. 154 vol I) aveva riferito al Sostituto Procuratore della lotta condotta dall’Impastato Giuseppe contro la realizzazione del villaggio turistico Z 10 (nonché di una strada costruita, con soldi del Comune, in contrada “Purcaria”, e che, precisava il teste, “serviva per l’uso di due sole persone di cui non so i nomi ma ho sentito dire essere mafiosi”).
Riferiva – ancora – l’Impastato Giovanni, nella citata deposizione del 7/12/78, che suo fratello aveva denunciato “anche pubblicamente, attraverso la radio, le imposizioni nei confronti delle società che costruivano l’autostrada le quali erano costrette ad acquistare il materiale necessario dal Finazzo e dai D’Anna, elementi mafiosi di Terrasini”; e rivelava – infine – che (secondo quanto egli aveva appreso circa un mese dopo la morte del fratello e successivamente alla deposizione resa dinanzi al Sostituto Procuratore) il Vito Lo Duca, “il giovane più vicino a suo fratello”, era stato seguito, la sera dell’8 maggio 1978, mentre conduceva la propria autovettura, da un’altra persona, pure in macchina.
Questa circostanza veniva confermata, nella stessa giornata, dal Lo Duca (ff. 8 – 10 vol. II), il quale precisava di essere stato seguito “per circa 6 o 7 minuti” da un’autovettura condotta da tale Pizzo Salvatore, e che egli successivamente aveva più volte notato, con all’interno lo stesso Pizzo, “davanti all’abitazione di Gaetano Badalamenti noto mafioso di Cinisi”. Un’ultima circostanza di rilievo veniva riferita, in dep. 7/12/1978, dal Di Maggio Faro (f. 27 vol. II), e riguardava un colloquio avvenuto in Cinisi tra l’Amenta Carmelo ed il Finazzo Giuseppe (inteso “u parrineddu”), e riferitogli dal Riccobono Giovanni; la circostanza verrà poi confermata in dep. 17/3/1979 (ff. 90-91 vol. II) dal teste Di Maggio Domenico, il quale aveva notato, la Domenica precedente la morte dell’Impastato, un colloquio “appartato” tra il Finazzo e l’Amenta, davanti al municipio di Cinisi, e, la sera dell’ 8 maggio, appena erano cominciate le ricerche dell’Impastato Giuseppe, aveva riferito l’episodio al Riccobono Giovanni, collegandolo subito alla mancanza di “Peppino”.
I fratelli Amenta venivano interrogati (il Giuseppe il 21/12/1978: ff. 59 segg. vol. II, il Carmelo il 3/1/79: ff. 86 segg. vol. II) sulle circostanze emerse, nei loro confronti, dalle deposizioni più sopra ricordate, e che entrambi negavano; nè miglior esito aveva il confronto (f. 88 vol. II) tra l’Amenta Giuseppe e il Riccobono.
Sulla base delle risultanze acquisite veniva emesso in data 31/1/1979 – mandato di cattura per il delitto di cui all’art. 372 C. Pen. nei confronti dell’Amenta Giuseppe (f. 256 vol. II), mentre il giorno successivo veniva spedita comunicazione giudiziaria – per la stessa imputazione – all’Amenta Carmelo Giovanni (f. 257).
Sempre in data 1/2/1979 veniva inviata comunicazione giudiziaria al già nominato Finazzo Giuseppe, quale “indiziato” del delitto di omicidio volontario in pregiudizio dell’Impastato Giuseppe. Con Ordinanza di nomina 7/2/1979 (f. 261) e successivo verbale 14/2/1979 veniva affidato incarico di perizia fonica sulle sette cassette a suo tempo consegnate al Giudice Istruttore dell’Impastato Giovanni.
Interrogati dal Magistrato, rispettivamente il 14 e il 23/2/1979, sia l’Amenta Giuseppe (costituitosi il 14/2/1979) che il fratello Carmelo Giovanni insistevano nel negare le circostanze più sopra precisate, così come riferite dai testi menzionati e in particolare – dal Riccobono Giovanni e dal Di Maggio Faro; meno recisa – peraltro – risultava la smentita dell’Amenta Carmelo in ordine al suo colloquio col Finazzo qualche giorno prima la morte dell’Impastato (f. 14 retro fascicolo I atti ostensibili: “non ricordo, avrò potuto anche fermarmi a parlare un po’ nel senso che il Finazzo mi avrà rivolto l’invito ad andare con lui al circolo”).
All’Amenta Giuseppe veniva concessa la libertà provvisoria con Ordinanza in data 3/3/1979 (f. 285).
In data 14/4/1979 veniva depositata la relazione di perizia fonica (ff. da 21 a 231 del fascicolo I atti ostensibili), ossia la traduzione delle registrazioni effettuate sui nastri magnetici acquisiti al procedimento nelle circostanze più sopra riferite.
Il 20/6/1979 l’Impastato Giovanni denunciava a quest’ufficio (f. 305) di avere subìto – nella notte tra il 5 e il 6 giugno una chiara intimidazione mediante l’uccisione del proprio cane, abbattuto con due colpi di pistola; la circostanza veniva confermata in deposizione 7/7/1979 (ff. 92-94 vol. II) dall’Impastato, il quale consegnava al Magistrato i due bossoli ritrovati sul posto. Affermava l’Impastato nella sua denuncia di ritenere che l’atto intimidatorio fosse “un chiaro avvertimento per fare desistere la famiglia dalla battaglia… contro gli assassini di Giuseppe”.
Nella successiva deposizione 7/7/1979 il teste dichiarava: “non sono in grado di formulare sospetti a carico di esecutori materiali; posso comunque dire con assoluta certezza che mandanti dell’atto intimidatorio sono i capo-mafia della zona Badalamenti e Finazzo, i quali hanno attorno a sè numerosi giovani disposti ad eseguire la loro volontà. Nell’ambito di questi giovani, pur essendo io dispostissimo alla massima collaborazione, non posso fornire alcun nominativo; le indagini di P. G. però possono accertare la manovalanza mafiosa che è agli ordini dei capi-mafia che ho indicati”.
Con atto depositato il 26/6/1979 presso la Cancelleria di quest’ufficio si costituiva parte civile contro il Finazzo Giuseppe il sig. Nunzio Miraglia nella sua qualità di Procuratore Speciale di Silvano Miniati, membro dell’esecutivo nazionale di “Democrazia Proletaria”, in nome e per conto di quest’ultima (ff. 306-312).
Il difensore di detta parte civile presentava in data 12/12/1979 un dettagliato esposto nel quale, facendo espresso richiamo a taluni brani della trasmissione “Onda Pazza” (come desunti dalla trascrizione acquisita agli atti processuali) ed alle ripetute accuse lanciate dall’Impastato Giuseppe – anche con riferimento a ben individuate persone ed amministratori – contro gli illeciti e le connivenze che avevano portato, in violazione degli interessi della collettività, al rilascio di concessione relativamente ad un palazzo abusivo costruito nel centro di Cinisi dal Finazzo Giuseppe e ad un cosiddetto “Progetto Z 10” (precedentemente presentato sotto il nome di PA-2) approvato nel marzo 1978 in favore di Gaetano Badalamenti, chiedeva a quest’Ufficio Istruzione il sequestro di tutta la relativa documentazione, al fine di “stabilire le illegittimità riscontrabili nell’una e nell’altra concessione, gli autori di tali illegittimità, i motivi ed i beneficiari, le responsabilità per le eventuali omissioni nell’adozione di provvedimenti amministrativi, nella gestione dei doveri di controllo e di sorveglianza, nell’omissione dell’obbligo di rapporto all’Autorità Giudiziaria di eventuali illeciti penali” (ff. 313-316).
Nella stessa data del 12/12/1979 quest’Ufficio ordinava (f. 318) il sequestro, presso il Comune di Cinisi, di tutti gli atti riguardanti i sopraindicati progetti edilizi, sequestro eseguito il 20/12/1979 (come da verbale a ff. 17-20 del fascicolo I atti ostensibili) -.
Sulla base delle informazioni dei Carabinieri di Cinisi e trasmesse con nota del 17/4/1980 (cui venivano allegati verbali delle sedute 31/3/1978 e 4/4/1978 della Commissione Edilizia del Comune di Cinisi), il Magistrato Istruttore indiziava del reato di concorso in interesse privato in atti d’ufficio ai sensi degli artt. 112 e 324 C. P., con verbali del 18/4/1980 Di Stefano Calogero, Di Bella Salvatore, Pizzo Leonardo, Mangiapane Giuseppe, Mazzola Saverio, Pellerito Faro e Finazzo Emanuele e con successivo verbale del 14/5/1980 Maltese Giuseppe (ff. da 95 a 102 del vol. II): il Di Stefano quale Sindaco e Presidente della Commissione predetta nella seduta del 31/3/1978, il Pellerito quale vice Sindaco e Presidente della Commissione il dì 4/4/1978, il Finazzo Emanuele quale beneficiario (assieme al fratello Giuseppe) della licenza edilizia di cui al verbale 4/4/78, e gli altri cinque quali componenti della Commissione in entrambe le sedute.
Con verbali del 28 maggio e 6 giugno 1980 (ff. 19-33 del fascicolo II “Perizia” degli atti ostensibili) veniva conferito ai periti prof. Benedetto Colajanni e prof. Guido Umiltà l’incarico di accertare se fossero state violate le norme edilizie nella realizzazione del progetto Z 10 (già PA-2) e dell’edificio di cui alla concessione rilasciata ai fratelli Finazzo. Un’istanza di ricusazione dei periti presentata dal difensore dell’indiziato Pizzo Leonardo veniva rigettata dal Magistrato Istruttore con ordinanza in data 20/11/1980.
La relazione dei periti d’ufficio (sulle conclusioni ci soffermeremo più oltre) veniva presentata in cancelleria il 13/11/1981, e depositata il 16/11/1981.
Veniva altresì presentato in Cancelleria, in data 22/2/1982, un fascicolo contenente “rilievi del consulente di parte” Arch. Marta Garimberti (della cui nomina – peraltro – non è dato rinvenire traccia in atti).
A seguito di un esposto anonimo pervenuto il 15/4/1982 al Procuratore della Repubblica in Sede venivano disposte, con esito del tutto negativo, ulteriori indagini, dopodichè, acquisita agli atti – nel maggio 1983 – copia del rapporto giudiziario 10/2/1982 del Comando Compagnia Carabinieri di Partinico e relativo all’omicidio dell’indiziato Finazzo Giuseppe (avvenuto il 20/12/1981 in agro di Terrasini), Il P.M. formulava – in data 7/2/1984 – le proprie conclusioni, richiedendo non doversi procedere nei confronti dei fratelli Amenta per estinzione del reato di falsa testimonianza a seguito di intervenuta amnistia e nei confronti di ignoti per essere rimasti tali gli autori dell’omicidio in pregiudizio dell’Impastato Giuseppe.
Con successiva nota 22/3/1984, infine, il P.M. chiedeva dichiararsi l’improponibilità dell’azione penale in ordine agli episodi relativamente ai quali era stato elevato indizio di reato a carico delle persone più sopra nominate ai sensi dell’art. 324 Cod. penale”
2.10. Le prove dell’omicidio.
1. La sentenza CAPONNETTO riprende, ma solo in parte avalla, la giustificazione adombrata già nella richiesta di archiviazione del P.M. SIGNORINO circa l’effetto di oggettivo (cioè incolpevole) depistaggio prodotto dal rinvenimento della lettera in cui l’IMPASTATO esternava propositi suicidi.
Tale giustificazione sarà poi ripresa, in epoche successive e in varie sedi, da alcuni dei protagonisti dell’epoca, ma era stata addotta espressamente dallo stesso magg. SUBRANNI nelle S.I. rese al G.I. dott. CHINNICI.
In effetti, le apparenze obbiettive, ad una prima e sommaria valutazione in sede di sopralluogo, deponevano per l’ipotesi che fosse stato commesso un attentato ferroviario e che Giuseppe IMPASTATO avesse perso la vita nel corso e per effetto di tale attentato. La carica esplosiva che ne aveva fatto a pezzi il corpo, invero, era stata piazzata tra i binari, con ciò rivelando il chiaro proposito di farli saltare e comunque di danneggiare la linea ferrata.
Il rinvenimento della lettera quella stessa mattina radicò negli Inquirenti il convincimento che Giuseppe IMPASTATO, in preda a profondo e disperato sconforto, avesse deciso di togliersi la vita, legando la sua morte ad un gesto eclatante di protesta estrema e di rivolta armata: appunto un attentato.
Ma, come si è visto, una più attenta e serena valutazione degli inquietanti interrogativi suscitati dallo stato e dal luogo in cui furono rinvenuti taluni resti del corpo (gli arti inferiori e le lesioni ai piedi e alle dita; il frammento della mano destra ecc.) e taluni effetti personali di pertinenza della vittima (occhiali, zoccoli, chiavi), unitamente alle informazioni assunte tra il 9 e il 10 maggio presso i familiari, gli amici e i compagni di lotta dell’IMPASTATO, avrebbe dimostrato, come in effetti dimostra, l’assoluta inconsistenza, dal punto di vista indiziario, degli elementi evidenziati invece nel primo rapporto SUBRANNI (e prima ancora nel fonogramma a firma del dott. MARTORANA); o, quanto meno, la loro non conducenza rispetto all’ipotesi del suicidio e dell’attentato terroristico.
2. La lettera-testamento.
La lettera in questione viene trovata già la mattina del 9 maggio ’78 nel corso di una perquisizione effettuata dai Carabinieri a casa della zia dell’IMPASTATO, BARTOLOTTA Fara.
È singolare che il relativo verbale precisi non già l’ora di inizio della perquisizione – cui parteciparono diversi militari tra i quali il Brig. CANALE, autore del rinvenimento – bensì quella in cui fu trovata la lettera (le 08.00). Ma anche questa scrupolosa puntualizzazione è un segno evidente del rilievo assolutamente decisivo che in quel momento gli Inquirenti ritennero di dover attribuire al manoscritto, per ricavarne una chiave di lettura della tragica fine dell’IMPASTATO.
Di questo documento esisterebbe anche una seconda versione, ovvero una seconda copia autografa, che fu pubblicata nel libro di Salvatore VITALE, edito nel 1995 e dal titolo “Nel cuore del corallo”: una versione sostanzialmente identica alla lettera sequestrata, ma con alcune varianti significative. In particolare in essa si leggerebbe del proposito di abbandonare la politica, ma mancherebbe l’inciso “e la vita”. Tale versione è stata acquisita in copia agli atti della Commissione parlamentare, dinanzi alla quale lo stesso VITALE, richiesto di chiarire come ne fosse venuto in possesso, ha dichiarato che il documento non era affatto nascosto ma si trovava dentro uno dei cassetti dell’armadio della camera da letto in cui dormiva Giuseppe IMPASTATO, sempre nell’abitazione della zia Fara (v. audizione di VITALE Salvo del 28 settembre 2000).
Tale circostanza susciterebbe ovviamente, se rispondesse al vero, inquietanti interrogativi perché non si capisce come quel documento possa essere sfuggito alla perquisizione meticolosa effettuata dai carabinieri quella mattina. Ma, premesso che lo stesso documento non è stato acquisito agli atti del processo – e se ne ha notizia solo attraverso la Relazione della Commissione parlamentare – questa Corte non ha alcun elemento per verificarne o valutarne l’autenticità e tanto meno l’epoca di stesura.
Certo è che la lettera sequestrata quella mattina deve attribuirsi alla mano di Giuseppe IMPASTATO, perché il fratello Giovanni ne ha riconosciuto sia la firma che la grafia; ed anche la zia Fara ha ammesso che era a conoscenza dell’esistenza di questa lettera già prima che venisse sequestrata.
E in essa si leggono frasi che in effetti sembrano rivelare l’intento dell’autore di togliersi la vita.
In particolare egli proclama il suo “fallimento come uomo e come rivoluzionario”; e rivela “Sono nove mesi, quanti ne servono per una normale gestazione, che medito sull’opportunità, o forse sulla necessità, di “abbandonare” la politica e la vita”.
E dopo aver succintamente esposto le ragioni del suo travaglio, che riconduce sostanzialmente alla delusione per la perdita, intorno a lui, di un autentico fervore rivoluzionario e il prevalere, tra i suoi stessi compagni, di orientamenti votati alla prevalenza del personale sul politico, ovvero all’enfatizzazione della sfera dei bisogni personali a discapito di un’azione politica coerente e concreta, annuncia: “Non è stato un parto indolore, ma ormai la decisione è presa”. Poi chiude formulando le ultime volontà sulle sue stesse spoglie, abbandonandosi quasi al gusto di un umiliante annientamento: “Non voglio funerali di alcun genere. Dal punto di morte all’obitorio. Gradirei tanto di essere cremato e che le mie ceneri venissero gettate in una pubblica latrina della città, dove piscia più gente”.
È fin troppo evidente che simili frasi denunzino e siano frutto di uno stato d’animo di profondo sconforto e amarezza, misti a rabbia e delusione per quello che lo stesso IMPASTATO definisce il suo fallimento anche sul piano umano, oltre che su quello politico.
Ma ci si deve chiedere se si trattasse di una condizione e di una scelta irreversibili o non piuttosto di un momento di angoscia e prostrazione tanto profondi quanto transitori, perché legati ad una fase contingente della vicenda umana e politica di Giuseppe IMPASTATO, lontana nel tempo e ormai del tutto superata.
Ed è proprio questa l’interpretazione che univocamente si ricava dalle molteplici e concordi testimonianze dei suoi migliori amici e compagni di lotta, ossia di coloro che, soprattutto negli ultimi tempi, ne avevano condiviso, insieme alla militanza politica, l’inevitabile alternarsi di momenti di delusione ad altri di passione ed entusiasmo per la politica.
Ed invero, come già ricordato, tutti escludono, che, all’epoca della sua morte, l’IMPASTATO potesse nutrire propositi suicidi; e attribuiscono, al più, le frasi incriminate ad un momento del tutto transitorio e contingente di depressione (v. VITALE Maria Fara) o ad una crisi di sconforto non dissimile da quelle che saltuariamente affliggevano i membri del Collettivo di Radio Aut (v. MANIACI Giuseppe), o al frutto di uno sfogo puramente personale (IACOPELLI Fara).
I più informati (ANDRIOLO STAGNO, MANIACI Giuseppe e DI MAGGIO Faro) associano quel momento al periodo (risalente alla fine del 1977), in cui effettivamente l’IMPASTATO aveva dato le dimissioni da Direttore responsabile di Radio Aut ed era stato sostituito da CAVATAIO Benedetto, per contrasti (di linea politica) insorti in seno allo stesso Collettivo, contrasti però poi superati e seguiti da un ritrovato entusiasmo e fervore di attività ed iniziative politiche. Così ANDRIOLO STAGNO Marcella, pur negando che ci fossero effettivi screzi tra l’IMPASTATO e i compagni del Collettivo, spiega tuttavia che “Vi è stato un periodo in cui l’IMPASTATO era un po’ abbattuto, perché non si riusciva a fare delle cose concrete, ma in quest’ultimo periodo vi era molto entusiasmo per la campagna elettorale”.
A sua volta, il MANIACI non ha difficoltà a riconoscere negli sprezzanti giudizi contenuti nella lettera in questione e rivolti all’indirizzo di personalisti e creativi proprio il pensiero e la mano di Giuseppe IMPASTATO: “Ritengo la frase probabilmente autografa dell’IMPASTATO a causa della sua posizione critica, divenuta critica, allorché CAVATAIO Benedetto assunse la direzione di radio Aut”. Ma lo stesso MANIACI non dà molto credito alle frasi in cui l’autore evocano cupe immagini di morte o proclama il proprio fallimento, attribuendole ad una delle saltuarie crisi di sconforto comuni ai giovani militanti dell’epoca: “Nonostante le crisi di sconforto che l’IMPASTATO aveva non ritengo possano essergli addebitate queste ultime frasi che mi avete letto. Egli non mi sembrava fallito né come uomo né come rivoluzionario e mi pareva che come noi di Radio Aut avesse, saltuariamente, crisi idealistiche, anzi mi correggo, di equilibrio collettivo in seno all’area creativa del nostro gruppo”.
La lettura più persuasiva – anche perché corredata da ulteriori informazioni ed elementi di conoscenza frutto di una radicata consuetudine di rapporti di amicizia e frequentazione con Giuseppe IMPASTATO – è però quella offerta da DI MAGGIO Faro. Questi, dopo aver premesso che circa tre o quattro mesi prima (in realtà il fatto risaliva al dicembre ’77, come precisato dal CAVATAIO) IMPASTATO Giuseppe si era dimesso dalla carica di direttore responsabile di Radio Aut, spiega che fu lui a dimettersi perché “essendo lui animato da un interesse politico, non vedeva lo stesso entusiasmo per la questione politica da parte degli altri. Non gli andava giù che la sede della radio venisse frequentata più per motivo privati e del tutto personali e non per motivi politici che erano preminenti per IMPASTATO Giuseppe. Disse chiaramente e pubblicamente i motivi per i quali si era determinato a dimettersi. Alle rimostranze di IMPASTATO seguì qualche discussione ma la cosa fu superata perché ad un certo punto CAVATAIO Benedetto assunse la direzione della radio, direzione che in effetti non comporta particolari responsabilità”. Aggiunge il DI MAGGIO che per qualche tempo la Radio sospese le trasmissioni, “perché pensavamo di dare maggior contenuto politico alla funzione della radio”. Ma poi le polemiche si spensero e lo stesso IMPASTATO, “anche se ci rimase male, finì poi per riprendere a dare il contributo ai programmi della radio”.
Quanto poi alla lettera-testamento, il DI MAGGIO, che ben conosceva l’amico Peppino, non ne resta affatto turbato dopo che i verbalizzanti gliene danno lettura: “Non sono per nulla stupito dello scritto di IMPASTATO Giuseppe di cui mi avete dato lettura. Sono frasi che ha ripetuto più volte perché era in atteggiamento polemico con tutti noialtri o con gran parte di noi che intendevamo dare maggiore contenuto al personale, nel senso che intendevamo valorizzare prima la vita personale con tutte le sue esigenze di carattere individualistico e poi tendere alle finalità politiche che erano invece di carattere collettivistico. Laddove è detto riprendiamoci la vita è ancora un atteggiamento polemico di IMPASTATO Giuseppe perché egli aveva un senso esasperato della politica dove era molto preparato, mentre io ed altri intendevamo valorizzare anche la vita personale”. E prosegue riconoscendo che “effettivamente egli sentiva in quel periodo di essere fallito come uomo politico ed era ancora una volta (polemico?) con quanti altri proclamavano invece, e ad esempio, la cosiddetta creatività che stava a significare tutta una serie di iniziative ed inventive allegoriche alle quali IMPASTATO Giuseppe non credeva assolutamente”. Ma poi perentoriamente ribadisce che “Questo suo periodo di crisi risaliva a quando egli decidette di dimettersi dalla radio”.
Di segno ben diverso fu invece la reazione del LA FATA quando i verbalizzanti, a conclusione di un interrogatorio singolarmente proteso ad indurre il teste a desistere dal suo convincimento che l’amico Peppino fosse stato ammazzato – motivato sulla scorta della sua conoscenza non solo della personalità dell’IMPASTATO, ma anche di circostanze e fatti inerenti al suo impegno politico e alle sue mirate denunzie contro speculazioni edilizie e intrallazzi vari – gli contestano bruscamente alcune frasi, estrapolate dal testo della lettere, in cui lo stesso IMPASTATO annuncia il proposito di suicidarsi. Il LA FATA, richiesto di dare una spiegazione di quelle angosciate ed angoscianti esternazioni, si dice subito costernato ed appare colto da autentico smarrimento, tanto che sembra accedere alla pressante richiesta dei verbalizzanti di voler rivedere il suo atteggiamento (“…le chiediamo – ove le sia possibile – di tentare con noi una spiegazione di tali fatti che prescindono dall’attività di controinformazione di cui lei ha ampiamente parlato sollecitandolo anche se ritiene di dover rivedere la convinzione di cui abbiamo fatto cenno”).
Egli però non si sente di dare “una risposta organica”, limitandosi a dichiarare: “Sono sorpreso. Sono stupito e non mi aspettavo una cosa del genere. Non posso non tenere conto delle frasi di cui mi è stata data testé lettura e onestamente debbo dire che che ne sono rimasto influenzato e forse è il caso che io riveda anche la mia primitiva convinzione sulle cause del decesso di IMPASTATO Giuseppe”.
Tuttavia, proprio quello stupore e quel sentimento spontaneo e immediato di sorpresa misurano tutta la distanza tra l’ipotesi ventilata dagli Inquirenti, sia pure sulla scorta delle frasi teatralmente estrapolate da un documento autografo dello stesso IMPASTATO, ed un convincimento autonomo, quello del LA FATA, fondato su un vissuto comune e una conoscenza diretta dei fatti e della personalità del giovane militante di DP.
Piuttosto, tutte le testimonianze convergono nell’evidenziare il fervore appassionato e il rinnovato entusiasmo con cui, negli ultimi mesi di vita, l’IMPASTATO aveva vissuto la sua militanza politica; l’impegno con cui conduceva in prima persona la campagna elettorale per il rinnovo del consiglio comunale di Cinisi, rendendosi artefice e promotore di manifestazioni ed iniziative pubbliche; come pure la soddisfazione per l’andamento lusinghiero di quella campagna (v ANDRIOLO STAGNO, BARTOLOTTA Andrea, IACOPELLI Fara. Cfr. per tutti, DI MAGGIO Faro, S.I. 17.05.78 al P.M. SIGNORINO, f. 151 vol. I: “Ritengo che l’IMPASTATO non si sia suicidato perché entusiasta della campagna elettorale in corso”. E VITALE Maria Fara, nelle S.I. rese al P.M. SIGNORINO il 19.05.78, f. 156 vol. I: “Il pomeriggio del giorno 8 ebbi a parlare con l’IMPASTATO che mi sembrò abbastanza tranquillo anzi contento per come andava il periodo preelettorale”); il fatto che apparisse, nonostante la tensione per l’impegno elettorale, sostanzialmente sereno e tranquillo e di umore normale (sul punto così si esprime, oltre alla zia Fara, e alla citata VITALE Maria, anche la teste MANIACI Anna che fu probabilmente l’ultima persona a veder in vita il giovane IMPASTATO che nel suo locale si soffermò a sorseggiare un whisky proprio la sera dell’8 maggio).
Né vanno trascurati i preparativi per tanti altri appuntamenti e iniziative ulteriori (v. il fratello Giovanni, MANIACI Giuseppe, DI MAGGIO Faro e LA FATA Pietro), come quelle di cui il candidato di spicco del partito di DP aveva parlato con lo scrittore PANTALEONI; o la ripetizione della mostra già sperimentata con successo sulla devastazione del territorio in occasione dell’ultimo comizio tenuto proprio da Giuseppe IMPASTATO la Domenica del 7 maggio (Cfr. il teste MANIACI Giosuè); e soprattutto l’imminente comizio di chiusura della campagna elettorale, che lo stesso IMPASTATO con tutta probabilità avrebbe dovuto tenere come si evince dalla scaletta dell’intervento di cui ai fogli manoscritti consegnati dal fratello Giovanni al G.I. CHINNICI e dalla testimonianza di LA FATA Pietro, insieme al quale l’IMPASTATO preparò l’istanza per ottenere il rilascio dell’autorizzazione a tenere il comizio, curandone poi la presentazione di una copia ai Carabinieri e un’altra al Municipio.
Tutti elementi significativi perché attestano, in modo univoco, non solo condizioni psicologiche o stati d’animo, ma comportamenti concreti del tutto dissonanti rispetto al proposito e allo stato d’animo di chi si accinga ad un gesto estremo di disperazione qual è quello di togliersi la vita.
È quindi perfettamente inutile e fuorviante discettare se i motivi di contrasto insorti in seno al Collettivo di Radio Aut, che avevano a suo tempo indotto l’IMPASTATO a dimettersi dalla carica di Direttore responsabile, fossero talmente seri e gravi da implicare o nascondere una drammatica crisi esistenziale. E ci si deve chiedere, semmai, se la stesura della lettera risalisse a quell’epoca e si inquadrasse in quel contesto motivazionale, o fosse molto più prossima alla data della morte di Giuseppe IMPASTATO. Poiché è del tutto evidente che quella crisi, se mai ci fu, alla data predetta era ormai da tempo superata. Prova ne sia che, quando si spensero le polemiche seguite alle sue dimissioni, egli effettivamente riprese a partecipare con rinnovato entusiasmo alle trasmissioni della radio, curando in particolare il programma di satira politica “Onda Pazza” di cui fu ideatore e conduttore; come pure partecipò attivamente alle discussioni politiche e alle iniziative del gruppo. Anzi, proprio nell’ultimo periodo, la Radio era diventata uno dei centri di riferimento e dei principali supporti organizzativi dell’attività politico-propagandistica del gruppo di cui IMPASTATO era esponente di spicco e candidato alle imminenti elezioni.
Il suggello all’attendibilità di questa ricostruzione viene proprio dalla verosimile data di stesura della lettera.
Ed invero, la decisione dell’IMPASTATO di dimettersi dalla carica di direttore responsabile di Radio Aut matura e viene presa tra novembre e dicembre del 1977: lo conferma in particolare quel Benedetto CAVATAIO che all’epoca gli succedette in quella carica.
Ebbene, nella lettera si rinvengono almeno due riferimenti temporali che consentono di fissarne con ragionevole certezza proprio al mese di novembre del 1977 la data di stesura. Infatti, si parla di un travaglio che si protrae da nove mesi e se ne indica nel 13 febbraio la data di inizio. Ora, le cronache del tempo e l’illuminante testimonianza di DI MAGGIO Faro ci dicono che nel febbraio ’77 ci fu a Palermo (come in altre città d’Italia) una delle prime manifestazioni dei c.d. indiani metropolitani e altre frange creative del movimento studentesco che doveva dare l’avvio a forme colorite di protesta ma anche ad una stagione effimera di teorizzazioni ambigue e velleitarie sul tema appunto del “riprendiamoci la vita”, ovvero del primato del “personale” sulla politica, presto degenerate in manifestazioni violente e iniziative subalterne alla logica dello scontro sociale. E per chiarire quale fosse al riguardo l’opinione dell’IMPASTATO, il DI MAGGIO si dice convinto che egli fosse a conoscenza di quella manifestazione cittadina “che riteneva una ridicola mistificazione”.
Infine, BARTOLOTTA Fara ha dichiarato che sapeva dell’esistenza di questa lettera, scritta da suo nipote, già diversi mesi prima del suo rinvenimento. E fa risalire la sua stesura approssimativamente ad otto o dieci mesi prima della morte, fornendo come riferimento temporale l’epoca in cui era ancora in vita il padre di IMPASTATO (ff. 21-22 vol. II).
Nessun dubbio quindi sul fatto che i sentimenti e propositi espressi nella famosa lettera riflettevano un momento contingente ormai superato.
D’altra parte, anche i movimenti dell’ultimo giorno di vita di Giuseppe IMPASTATO, e gli impegni assunti per quella sera, ricostruiti attraverso le dettagliate testimonianze dei prossimi congiunti e di quanti lo incontrarono la mattina dell’8 maggio o addirittura trascorsero con lui tutto il pomeriggio, fino al momento in cui lasciò la sede di Radio Aut, depongono in senso decisamente contrario all’ipotesi che egli avesse in animo di togliersi la vita.
Ai compagni del collettivo di Radio Aut, nel lasciare la sede della radio aveva detto che doveva passare da casa dove era atteso a cena, anche perché doveva salutare alcuni parenti venuti dagli Stati Uniti: lo confermano anche i suoi prossimi congiunti (la madre Felicia e il fratello Giovanni e la cognata VITALE Felicia). Ma i suoi familiari lo attesero invano, quella sera.
Certo talora accadeva che non andasse a cena dai suoi senza neppure avvisarli (v. deposizione di IMPASTATO Giovanni del 7.12.78): ma quella sera aveva un motivo preciso per passare da casa e lo aveva esternato anche ai compagni di Radio Aut.
Inoltre, dopo cena doveva tornare alla sede della Radio per una importante riunione in cui si doveva fare il punto della campagna elettorale e deliberare sulle iniziative da intraprendere (di cui peraltro aveva discusso anche nel corso del pomeriggio): ed era stato proprio lui ad indire quella riunione (v. DI MAGGIO Faro) che poi non si tenne appunto per la sua inopinata assenza (v. per tutti le S.I. di LA FATA Pietro al P.M. SIGNORINO il 17.05.78, f. 147 vol. I: “La riunione non fu tenuta perché l’IMPASTATO non venne”).
Fin dalla mattina, poi, aveva curato la preparazione del comizio di chiusura discutendone con i compagni che aveva incontrato al bar MUNACÒ, luogo abituale di ritrovo del gruppo; e insieme al LA FATA aveva preparato e presentato alle Autorità competenti la domanda diretta al rilascio dell’autorizzazione di P.S. per quel comizio.
Insomma, se i comportamenti e i movimenti del giovane militante di DP in quella fatidica ultima giornata rivestono un minimo valore indiziario, ebbene questo è tutto nel senso che egli si apprestava a concludere la giornata dell’8 maggio esattamente come l’aveva cominciata e cioè con il pensiero rivolto ai successivi impegni della fase finale di una campagna elettorale del cui andamento, peraltro, era motivatamente soddisfatto.
3.Insinuazioni ed elucubrazioni ancora sul tema del suicidio.
Nessun serio fondamento rivestono i residui argomenti addotti dalla Difesa – oltre al subitaneo smarrimento del LA FATA – nel tentativo di accreditare la tesi che Giuseppe IMPASTATO non fosse alieno dal compiere gesti insani o inconsulti.
Così dicasi dell’insinuazione circa l’esistenza di tare ereditarie nella famiglia IMPASTATO. Essa trae origine da una Nota datata 23.05.78 a firma del mar. TRAVALI e diretta al Comando del R.O. dei CC in cui si fa presente che un pro-zio del predetto (NdR: cioè di Giuseppe IMPASTATO) a nome IMPASTATO Giuseppe, inteso Peppe u Foddi, era affetto da malattie mentali. L’ottimo TRAVALI segnala la notizia “per quanto possa essere utile” e aggiunge che quel soprannome “era stato trasferito all’IMPASTATO Giuseppe” e che “il soggetto era elemento poco socievole”. (Cfr. f. 287 del fascicolo riservato “P” depositato il 4.04.2000, vol. I)
In realtà, nel successivo fonogramma a firma dell’app. ABRAMO, datato 26.05.78 (e mai trasmesso per quanto consta, a differenza della Nota di TRAVALI, all’A.G.), si precisa che il pro-zio in questione non era un IMPASTATO, ma si chiamava DI MAGGIO Giuseppe: era cioè uno zio materno del padre di Giuseppe IMPASTATO, effettivamente internato all’ospedale psichiatrico di Palermo ove era deceduto nel lontano 9 agosto 1960. (Cfr. f. 286 loc. ult. cit.).
Non si segnalano invece altri casi di soggetti affetti da malattie mentali o comunque disturbi psichici – né prossimi né lontani nel tempo e nel grado di parentela – tra i consanguinei di Giuseppe IMPASTATO, sicché l’insinuazione dello zelante TRAVALI, fatta propria dalla Difesa dell’odierno imputato, resta e vale come tale.
Nella medesima Nota del 23.05.78, l’estensore riferisce altresì di avere appreso dal (non meglio nominato) medico curante che lo stesso aveva “apprestato le sue cure all’IMPASTATO circa sette mesi addietro per curargli un raffreddore. Nella circostanza ha riferito che trattavasi di soggetto piuttosto nervoso ed emotivo”.
Ora, non è chiaro se l’inciso “Nella circostanza” si riferisca alla visita cui il fantomatico medico curante confidò al TRAVALI – informalmente perché non risulta alcun verbale di S.I. – di avere sottoposto l’IMPASTATO (trovandolo nervoso ed emotivo); oppure si riferisca all’occasione in cui TRAVALI ricevette la confidenza medesima.
Ma in ogni caso, da un parere così generico e di assai discutibile rigore clinico – non fosse altro perché espresso da un medico che ricorda come episodio saliente della sua conoscenza clinica del paziente la visita cui lo aveva sottoposto circa sette mesi prima per un banale raffreddore – non può certo inferirsi che Giuseppe IMPASTATO fosse, oltre che nervoso, anche emotivamente instabile, il che è tutt’altra cosa.
Infine nel rapporto a firma SUBRANNI datato 10 maggio ’78 si dà risalto alla dichiarazione resa dalla zia di Giuseppe IMPASTATO, nella parte in cui la BARTOLOTTA, dopo avere affermato che suo nipote “era di carattere chiuso, alieno dal confidarsi in casa, senza concrete prospettive per il suo futuro, dedito totalmente all’attività politica, che costituiva il suo unico vero interesse,” soggiungeva che “negli ultimi tempi appariva deluso dalla stessa attività politica, per cui era diventato più taciturno da risentirne anche fisicamente” (v. pag. 3 del rapporto e f. 28 vol. I).
Trascura però l’estensore di precisare che la stessa BARTOLOTTA, nella prima dichiarazione resa ai CC circa due ore prima di quella riportata nel suo rapporto, aveva affermato che suo nipote in casa “non ha mai parlato di politica e l’unica cosa che posso dire è quella che lo stesso era candidato nella lista di democrazia proletaria per le elezioni comunali di Cinisi”; sicché sarebbe stato quanto mai opportuno chiederle, nel successivo atto istruttorio, opportuni chiarimenti su quel riferimento all’essere il nipote Giuseppe deluso dalla stessa politica. Invero, tutte le risultanze acquisite sul rinnovato fervore e l’appassionato impegno con cui il giovane candidato di DP conduceva la campagna elettorale per sé e per il suo gruppo politico smentiscono o contrastano con il sentimento di delusione per l’attività politica che in quella dichiarazione si attribuisce all’IMPASTATO. E in ogni caso, nella prima dichiarazione resa agli stessi CC, la BARTOLOTTA aveva precisato che il nipote “in questi ultimi giorni non ha espresso preoccupazione alcuna, anzi mi appariva sereno” (cfr. f. 47, vol. I). Ma nel citato rapporto non v’è traccia di tale affermazione, che certo non doveva apparire molto pertinente allo scenario ivi ipotizzato per ricostruire le cause della morte dell’IMPASTATO.
4. I fili elettrici
Quando viene rinvenuta l’auto di Giuseppe IMPASTATO nello spiazzo antistante il casolare, a poche decine di metri dal luogo dell’esplosione, il cavo che fuoriesce dal cofano socchiuso, essendo attaccato all’altra estremità agli elettrodi della batteria, fa temere agli Inquirenti appena intervenuti che l’auto possa essere imbottita di esplosivi; e legittima, prima facie, il sospetto che potesse essere stato utilizzato per azionare l’innesco dell’ordigno esplosivo.
Ma gli artificieri appositamente convocati non rinvengono alcuna traccia di esplosivi o di congegni esplodenti all’interno dell’auto che viene sottoposta ad una duplice ispezione (prima sul posto, a cura del brig. SARDO; e poi presso la Stazione dei CC di Cinisi, ad opera del serg. magg. LONGHITANO).
Quanto alla possibilità che il cavo in questione fosse stato utilizzato per provocare l’esplosione, il perito balistico perviene a conclusioni del tutto interlocutorie, nel senso di non poter escludere che esso “possa essere stato utilizzato per provocare l’accensione di un eventuale innescamento elettrico dell’ordigno”. Lo stesso perito però soggiunge: “Ciò anche se alcuni testimoni affermano che il suddetto cavo veniva utilizzato per alimentare con la batteria di questa vettura degli amplificatori portatili che venivano utilizzati in occasione di comizi”. (Cfr. Relazione PELLEGRINO, pag. 8 e f. 195 vol. I).
In effetti, già i primi accertamenti investigativi consentirono di appurare la natura, la provenienza e soprattutto l’uso cui quel cavo era destinato: ciò grazie alla dettagliata testimonianza sul punto del teste DI MAGGIO Faro, pienamente riscontrata dalle dichiarazioni di numerosi altri testi.
Scrive al riguardo il giudice CAPONNETTO:
“Il teste Di Maggio Faro, nella sua deposizione del 9/5/1978 (ff. 81 segg. vol. I), confermata con verbali in data 17/5/1978 (f. 151 vol. I) e 7/12/1978 (f. 23 vol. II), ha precisato – fin nei minimi particolari – come il predetto spezzone di cavo telefonico, da lui fornito (quale impiegato alla S.I.P. ed addetto alla riparazione dei telefoni), fosse stato utilizzato per alimentare, in occasione di un comizio elettorale tenuto nella giornata di domenica 7 maggio, un amplificatore poggiato sul sedile destro dell’autovettura e da lui stesso smontato dopo il comizio (‘ricordo di avere staccato i collegamenti’). Ha spiegato il teste che ‘il cavetto lungo serviva come prolungo per l’allacciamento dell’energia elettrica ad un bar di fronte e l’altro cavetto era proprio quello che era stato attaccato ai poli della batteria, di cui si notano ancora le spirali di attacco ed altra estremità era collegata all’amplificatore. Credo che il cavetto rimase attaccato alla batteria perché l’autovettura di Impastato Giuseppe veniva usata per i comizi della campagna elettorale’. Nello stesso senso hanno riferito anche i testi Andriolo Stagno Marcello, Lo Duca Vito, Fantucchio Giuseppe e Maniaci Giuseppe, rispettivamente a ff. 61, 69, 70 e 64 vol. I. Di fronte a così precise e concordanti deposizioni deve considerarsi una semplice ‘ipotesi’ quella formulata – e come tale definita – dal perito balistico, secondo cui (f. 195 vol. II) ‘non può escludersi che il cavo elettrico bipolare, fuoriuscente dal cofano della vettura…, rinvenuta in prossimità del centro dell’esplosione, possa essere stato utilizzato per provocare l’accensione di un eventuale innescamento elettrico dell’ordigno’ (ipotesi – peraltro – pienamente conciliabile anche con un disegno omicida).”
In realtà, la valenza indiziaria di questo elemento, quand’anche vi fosse fondato motivo di collegarlo al meccanismo di innesco della carica esplosiva, sarebbe a dir poco equivoca.
Anzi, come ha giustamente evidenziato il gen. SUBRANNI nel corso della sua audizione dinanzi alla commissione parlamentare, se si fosse raggiunta già allora la certezza che il cavo in questione era stato utilizzato per innescare l’ordigno, ebbene ciò avrebbe fornito la prova provata che IMPASTATO era rimasto vittima di un omicidio: altri, invero, avrebbe dovuto provvedere, in ipotesi, ad allacciare i contatti mentre lo stesso IMPASTATO si trovava nel punto in cui esplose l’ordigno che ne fece a pezzi il corpo.
D’altra parte, le conclusioni sul punto della relazione di consulenza balistica non potevano che essere interlocutorie: decontestualizzando questo elemento e in mancanza di qualsiasi traccia del tipo di innesco, non si può escludere che quei cavi siano stati utilizzati per innescare l’ordigno; ma, precisa lo stesso perito balistico, che “stante il mancato reperimento di elementi indicativi, non è possibile neanche dedurre come era stato innescato l’ordigno: se con detonatore elettrico o se con detonatore a miccia od a tempo”.
Almeno un dato è però emerso con certezza: in ogni caso, i cavi non furono apprestati per quel fine, nel senso che già da diversi giorni essi erano esattamente come sono stati trovati, compresi i fili che fuoriuscivano dal cofano dell’auto, perché servivano per attivare gli altoparlanti utilizzati per la propaganda elettorale e per i comizi. In proposito rammenta ancora il teste DI MAGGIO che anche in occasione dell’ultimo comizio tenuto a Cinisi domenica 7 maggio “usammo l’autovettura FIAT 850 di IMPASTATO Giuseppe. Fui io stesso, dopo il comizio, a smontare l’amplificatore e le trombe e credo che lo spezzone di cavo che era attaccato alla batteria, circa tre metri, fu messo dentro il cofano stesso. Anzi, preciso lo spezzone rimase attaccato alla batteria, anzi così ritengo che lo spezzone sia rimasto attaccato alla batteria e che dal cofano fuoriusciva un tratto di circa mezzo metro – un metro che era infilato nel deflettore dal lato destro della macchina e che serviva ad alimentare l’amplificatore che era collegato sul sedile destro”. Ribadisce poi che “il cavetto rimase attaccato alla batteria perché l’autovettura di IMPASTATO Giuseppe veniva usata per i comizi della campagna elettorale” (cfr. S.I. del 9.05.78, f. 83 vol. I).
Ed un preciso riscontro si rinviene nella deposizione resa da FANTUCCHIO Giuseppe “Domenica scorsa ho notato la FIAT 850 che abitualmente usava l’IMPASTATO, circolare per il paese. A bordo della stessa era collocato un altoparlante mediante il quale venivano lanciati slogans pubblicitari riguardanti la campagna elettorale in corso. Presumibilmente detto altoparlante doveva essere collegato alla batteria dell’autovettura”. (Cfr. verbale di S.I. del 10.05.70, f. 70 vol. I).
5. L’inconsistenza della pista terroristica
La difesa del PALAZZOLO ha qui riproposto l’ipotesi, per la verità mai accreditata dagli Inquirenti, che l’IMPASTATO fosse rimasto vittima di un “incidente sul lavoro” mentre tentava di compiere un attentato terroristico, magari pagando con la vita la sua scarsa dimestichezza con gli esplosivi.
a) Obbiezioni logiche e contro-indicazioni fattuali.
Contro questa ipotesi rimangono insuperabili le obbiezioni che, sul piano logico-critico furono formulate nei giorni immediatamente seguenti al fatto, non solo dai compagni di partito e dai familiari della vittima, ma anche dal prof. DEL CARPIO già nelle deposizioni del 13 e del 16 maggio.
Anzitutto, colpisce la scelta dell’obbiettivo, che è decisamente di importanza secondaria; e colpisce tanto più in considerazione del fatto che era a portata di mano, per così dire, un obbiettivo molto più appetibile nella logica di un attentato terroristico, come il vicinissimo aeroporto di Punta Raisi. (Questo argomento fece breccia tra gli stessi Inquirenti, come ha ricordato il dott. MARTORANA nel corso della sua audizione dinanzi alla Commissione parlamentare: v. supra).
Non si addice poi a quella logica, che è una logica di morte e di distruzione perché mira a seminare il terrore, procurando il maggior danno e conseguente massimo allarme, l’aver atteso il transito di non uno ma due convogli ferroviari, distanziati di quasi due ore (come si evince anche dalle S.I. dei rispettivi macchinisti e anche da quelle rese dal casellante SALAMONE Benedetto) prima di piazzare o tentare di piazzare la carica esplosiva sui binari: come se l’intento dell’attentatore fosse, al contrario, quello di provocare il minimo danno e soprattutto di evitare vittime, pur disponendo di un mezzo potenzialmente idoneo.
Anche la scelta di parcheggiare l’auto allo scoperto e ad una distanza di non più di trenta metri dal punto in cui fu effettivamente piazzato l’esplosivo, lascia perplessi perché avrebbe costituito una grave imprudenza, almeno da parte di chi non avesse una tale dimestichezza con gli esplosivi da essere certo che quella fosse una sufficiente distanza di sicurezza o che l’esplosione avrebbe avuto una traiettoria sicura.
Considerata poi la particolare temperie storico-politica, non si comprende davvero quale vantaggio, a pochi giorni dalle elezioni comunali, potesse derivare alla causa rivoluzionaria professata dall’IMPASTATO, o più prosaicamente alla sua parte politica, da un attentato terroristico consumato in un momento in cui l’intero Paese viveva l’incubo del sequestro MORO – di cui era imminente il tragico epilogo – mentre era al suo culmine il terrorismo rosso di marca brigatista.
Peraltro, dalle testimonianze non solo dei prossimi congiunti, ma anche delle persone che fino all’ultimo giorno erano state più vicine all’IMPASTATO e ne avevano condiviso i programmi e l’appassionato impegno di lotta emergevano, come già si è visto, indicazioni sicure e univoche sul fatto che egli fosse alieno da qualsiasi forma di violenza, ben altri essendo i metodi con cui conduceva la sua pur veemente battaglia politica.
E le informazioni fornite nell’immediatezza del fatto dai familiari, dagli amici e dai compagni di partito di Giuseppe IMPASTATO si incrociavano con quelle già in possesso o altrimenti acquisite dall’Arma.
In particolare, era notorio quali fossero i contenuti e i metodi di una battaglia politica e di una campagna di contro-informazione che da anni egli conduceva nel piccolo centro costiero di Cinisi. E le pur accurate perquisizioni domiciliari alla ricerca non solo di armi o esplosivi, ma di qualsiasi indizio di un possibile coinvolgimento dell’IMPASTATO in attività terroristiche o progetti di attentato avevano avuto esito negativo. Anzi, nel cospicuo materiale informalmente sequestrato presso la sua abitazione figuravano documenti che mettevano in luce aspetti della sua personalità e del suo itinerario politico-ideologico per nulla in accordo con il sospetto che potesse essere un terrorista (v. supra).
Ma il dato più significativo è costituito dal fatto che l’intero gruppo del quale l’IMPASTATO faceva parte era oggetto di particolare attenzione da parte dei Carabinieri di Cinisi e del Nucleo Informativo, almeno a far data dal 1976. Le indagini riservate nei loro confronti erano però approdate alla conclusione, consacrata in una relazione di servizio in data 16 dicembre 1977 e a firma del mar. TRAVALI, Comandante della Stazione CC di Cinisi, che quei giovani, benché professassero ideologie (ritenute) sovversive, non erano capaci di compiere attentati, né avevano dato vita a cellule terroristiche (v. infra e pag. 109 della Relazione della Commissione di inchiesta sul caso IMPASTATO).
Dell’esito di quelle indagini non v’è traccia nei rapporti del 10 e del 30 maggio ’78, e nelle successive note informative a firma del magg. SUBRANNI. Né la citata relazione TRAVALI figurava agli atti del processo. È stato merito del rigoroso lavoro di scavo della Commissione parlamentare di inchiesta aver portato alla luce questo documento (insieme a tanti altri, come già si è visto).
D’altra parte, se la pista terroristica fosse stata appena plausibile e avesse trovato minimo credito nelle risultanze dei primi accertamenti investigativi, la DIGOS, cioè l’Ufficio Politico della Questura non sarebbe stata estromessa dalle indagini, o meglio non se ne sarebbe disinteressata.
In realtà, abbiamo appreso, dagli atti della Commissione parlamentare di inchiesta sul caso IMPASTATO che non vi fu alcuna estromissione. Alcuni funzionari della DIGOS parteciparono ai primi accertamenti: ma proprio l’esito di tali accertamenti indusse i responsabili dell’epoca dell’Ufficio di Polizia più specializzato (in materia di indagini su delitti politici o attività terroristiche) a disinteressarsi del caso, per la semplice ragione che non era emerso alcun serio indizio di una causale di tipo terroristico.
b) Le rivelazioni del Questore VELLA.
Questa verità emerge dalle dichiarazioni rese dal dott. Alfonso VELLA (all’epoca Dirigente della DIGOS) nel corso della sua audizione dinanzi alla Commissione parlamentare il 25 novembre 1999 (cfr. pagg. 37-38 e 110 della relazione in atti).
Fu lo stesso VELLA – come ha dichiarato – a suggerire che si effettuassero una serie di perquisizioni domiciliari e di escutere alcune persone che i Carabinieri di Cinisi avevano indicato come amici e compagni dell’IMPASTATO.
Ora, fermo restando che “la competenza sulle indagini era ai carabinieri e a loro è rimasta”, precisa il dott. VELLA che “Siccome l’omicidio è avvenuto a Cinisi, i carabinieri hanno iniziato le indagini. Noi saremmo intervenuti se avessimo avuto delle notizie di natura diversa, ma su quello stesso fatto-continuavano ad indagare i carabinieri ed il magistrato colloquiava con loro”. E aggiunge: “Abbiamo cercato di cominciare a capire, anche dopo, se ci fossero state situazioni che portavano al terrorismo, ma a noi non è risultato niente”.
Precisa ancora il Dot. VELLA che il primo rapporto giudiziario fu redatto dai carabinieri, mentre “Gli atti firmati dai miei sono stati lasciati ai carabinieri, i quali li hanno trasmessi al magistrato”. Ammette inoltre di non aver più saputo nulla delle successive indagini, anche perché “successivamente non mi è stato mai chiesto niente al riguardo dalla Procura o da altri, neanche su fatti o situazioni d’altro tipo”. Ma poi spiega meglio questo passaggio oscuro – e allusivo – del suo discorso, dicendo che “anche se l’ufficio avesse voluto occuparsi di queste indagini, non avrei potuto seguirle, perché era implicata la mafia; io invece facevo parte della DIGOS, quindi ci occupavamo degli attentati e dei fatti politici”.
Una spiegazione davvero lineare e ineccepibile, se non fosse per il fatto che, ufficialmente, la pista mafiosa non era sta neppure presa in considerazione o almeno fu inizialmente scartata.
Ed invero, le parole del dott. VELLA lascerebbero piuttosto intendere che l’ipotesi di un coinvolgimento della mafia fosse non solo adombrata dagli Inquirenti, ma, fin dall’inizio, godesse di maggior credito che non la c.d. pista terroristica. Il che contrasta alquanto con il tenore delle conclusioni a cui i Carabinieri, sempre a dire del VELLA, erano giunti già nell’immediatezza del fatto: “Quando siamo arrivati là (NdR: cioè alla caserma dei carabinieri di Cinisi, dove era in corso una riunione operativa con alti ufficiali dei Carabinieri tra i quali il Colonnello comandante del Gruppo di Palermo e il Comandante del Nucleo Operativo, magg. SUBRANNI) i carabinieri erano già arrivati alle conclusioni. Si disse che era stata trovata la lettera, si parlò di ‘incidente sul lavoro’: tutto era già pianificato”.
Infine, a una specifica domanda della Commissione se la DIGOS fosse a conoscenza di attività terroristiche in quel di Cinisi, VELLA risponde e ribadisce che al suo Ufficio non risultava nulla. (Cfr. pag. 110 della Relazione in atti).
c) Le perquisizioni domiciliari e le risultanze di pregresse indagini.
Orbene, le “rivelazioni” del Questore VELLA circa l’assoluta carenza di indizi a favore della pista terroristica si incrociano perfettamente non solo con l’esito (negativo) delle accurate perquisizioni domiciliari effettuate presso le abitazioni di amici e compagni di Giuseppe IMPASTATO (oltre che a casa dello stesso IMPASTATO), ma anche, come già anticipato, con le risultanze parimenti negative di pregresse indagini.
Dalla documentazione acquisita è emerso infatti che l’IMPASTATO, ma anche i giovani militanti del gruppo politico che in qualche modo aveva in lui l’esponente più autorevole e conosciuto, era da tempo oggetto di speciale osservazione da parte dei Carabinieri propri in ragione del sospetto – peraltro, ingenerato unicamente dall’aperta professione di idee “rivoluzionarie” – che potessero fomentare o partecipare ad attività sovversive.
In particolare, questa “attenzione” si era intensificata negli ultimi due anni, e precisamente a partire dal gennaio del 1976, a seguito dell’eccidio alla caserma dei Carabinieri di Alcamo in cui avevano perso la vita due militari dell’Arma.
Ma le indagini non avevano dato alcun esito e si erano anzi concluse con il già citato rapporto a firma del mar. TRAVALI nel quale si escludeva che il gruppo capeggiato da Giuseppe IMPASTATO fosse implicato in trame o attività terroristiche o fosse comunque capace di compiere attentatati (testualmente: “non sono ritenuti capaci di compiere attentati terroristici”. Nello stesso documento, i giovani in oggetto vengono invece indicati come “capaci di trascinare e sobillare le masse”. (Deve quindi convenirsi con la valutazione espressa al riguardo nella relazione della Commissione parlamentare, laddove si sottolinea che “I Carabinieri dimostravano così di saper distinguere tra l’area del terrorismo e quella della contestazione praticata da gruppi della sinistra extraparlamentare”: cfr. pag. 109 della Relazione in atti).
6. Un assassinio dissimulato
Il dubbio che nondimeno la difesa dell’imputato ripropone sul fatto che IMPASTATO sia rimasto vittima di un omicidio trarrebbe origine, secondo l’assunto difensivo, anche dalle conclusioni della consulenza medico legale sulle cause della morte, che vengono univocamente indicate nella deflagrazione di una potente carica di esplosivo.
In effetti, se avessimo la certezza che IMPASTATO era già morto quando l’ordigno scoppiò, facendone a pezzi il corpo, il problema ovviamente non si porrebbe.
Ammettendo invece che potesse essere ancora in vita in quel momento, si può alternativamente ipotizzare, in astratto, che si trovasse su quei binari (o in prossimità di essi) di propria volontà; o che, al contrario, vi sia stato trascinato a forza dai suoi assassini.
Ma le conclusioni della consulenza medico legale sulle cause della morte non aggiungono nessun elemento di certezza o di conoscenza rispetto a quanto desumibile già all’esito del primo sopralluogo da parte degli Inquirenti. Esse si fondano infatti sulla pura e semplice constatazione che il corpo di IMPASTATO fu fatto a pezzi dall’esplosione di un potente ordigno. E questa è ovviamente una causa più che sufficiente e idonea a determinare la morte di qualsiasi individuo. Ma non fu effettuato – né era possibile farlo, atteso lo stato dei poveri resti – alcun accertamento autoptico specificamente mirato a verificare se l’IMPASTATO fosse già morto o ancora in vita al momento dello scoppio. E in assenza di qualsiasi dato tanatologicamente apprezzabile al riguardo, i periti non potevano che limitarsi a trarre quella ovvia conclusione, che, peraltro, non è affatto incompatibile con l’ipotesi che, comunque, IMPASTATO sia stato ucciso.
Piuttosto, scartata l’ipotesi del suicidio, perché priva di effettivi riscontri e non supportata da alcun plausibile fondamento anche alla luce delle molteplici e univoche testimonianze sul punto; archiviata anche l’ipotesi alternativa dell’incidente occorso nel tentativo di compiere un attentato terroristico, perché estremamente improbabile sul piano logico e addirittura smentita da tutte le risultanze acquisite; non resta che la pista omicidiaria.
Ma va subito ribadito che all’ipotesi dell’omicidio, anche se per comodità di esposizione viene (ri)esaminata per ultima, non si perviene solo per esclusione.
Al contrario, come si è detto, tutti i dati oggettivi e le risultanze acquisite in anni e anni di indagine, prima e a prescindere dal pur decisivo (ma per altri profili) apporto dei collaboratori di Giustizia convergono verso un medesimo esito: essi sono cioè del tutto compatibili con l’ipotesi che Giuseppe IMPASTATO sia stato assassinato e non ammettono una spiegazione diversa; o quanto meno una diversa spiegazione non è altrettanto plausibile.
Di alcuni reperti rinvenuti sul posto – e segnatamente gli zoccoli, gli occhiali e il chiavino Yale rinvenuti praticamente integri e a ridosso del cratere formato dell’esplosione, o a pochi metri di distanza – si è già detto ampiamente; come pure si è detto che una sola è la spiegazione plausibile che è possibile dare dello stato e del luogo in cui furono rinvenuti, soprattutto se questi dati vengono raffrontati con quelli concernenti lo stato e il luogo in cui furono trovati i resti corporei del povero IMPASTATO, e la forza devastante dell’esplosione. (Basti rammentare che, dopo le gambe, i frammenti più cospicui misuravano appena qualche centimetro; che il peso di quei resti complessivamente ammontava a circa tre chili, secondo il macabro ricordo del necroforo che personalmente provvide a riporli nella cassa utilizzata per trasportarli all’obitorio; che gli arti inferiori vennero trovati a circa trecento metri dal punto dello scoppio; e ad una distanza analoga furono scaraventati tre pezzi di rotaia).
Altrettanto dicasi per il reperto fantasma delle tre chiavi di cui ha riferito (al G.I.) il necroforo BRIGUGLIO; e per le strane escoriazioni riscontrate tutte sulla “faccia destra” dei piedi e delle dita di ciascun piede.
7. Le risultanze delle consulenze tecniche.
Vanno ora esaminate le risultanze della consulenza medico-legale e di quella balistica, con particolare riguardo ai seguenti tre aspetti, dei quali in parte si è già fatto cenno: A) la presumibile posizione del corpo di IMPASTATO al momento dello scoppio; B) il meccanismo di innesco dell’ordigno; C) il tipo di esplosivo.
Ma deve subito precisarsi che per tutti e tre questi aspetti – o almeno per i primi due – non è possibile andare oltre la formulazione di ragionevoli ipotesi da vagliarsi in termini di maggiore o minore compatibilità con i pochi dati oggettivi acquisiti o comunque disponibili.
A) Al riguardo, i dati da considerare per ricostruire la probabile posizione del corpo attengono: 1°) allo stato e al luogo in cui furono rinvenuti i resti, con particolare riguardo agli arti inferiori e al frammento della mano destra; 2°) al punto esatto in cui venne collocato l’ordigno esplosivo, almeno per quanto può evincersi dal cratere formato dall’esplosione e dallo stato delle traverse in legno collocate tra i binari.
Sotto questo profilo, le conclusioni della consulenza CARUSO-PROCACCIANTI (cfr. pag. 24 della relazione di consulenza in atti: “LA FRANTUMAZIONE DELLA PARTE SUPERIORE E MEDIA DEL CORPO E L’AFFUMICAMENTO DELLA MANO DX E DELLE ESTREMITA’ SUPERIORI DELLE COSCE, IN CONTRAPPOSIZIONE ALLA BUONA CONSERVAZIONE DEGLI ARTI INFERIORI, UNITAMENTE AGLI EFFETTI PRODOTTI DALL’ESPLOSIONE SULLA LINEA FERRATA, LASCIANO PRESUMERE CHE L’ORDIGNO SI TROVASSE ALL’ALTEZZA DEL BACINO DELL’IMPASTATO, PROBABILMENTE TRA LE MANI DELLO STESSO”) sono dichiaratamente interlocutorie proprio perché si limitano ad ipotizzare la verosimile posizione del corpo rispetto all’ordigno, per l’asserita mancanza di elementi sufficienti a ricostruire in quale posizione il corpo si trovasse rispetto al suolo o alla linea ferrata (cfr. ancora pag. 21: “Questi dati, però, permettono di stabilire soltanto la posizione dell’ordigno rispetto alle parti anatomiche del soggetto, ma non permettono di far luce su quale fosse in quel momento l’esatta posizione del corpo dell’IMPASTATO rispetto al suolo (o alla strada ferrata), né – invero – disponiamo di altri dati idonei a risolvere tale quesito”).
In realtà tali conclusioni sono altresì frutto di una lettura decontestualizzata dei reperti considerati, perché non tengono conto del luogo in cui furono rinvenuti – un particolare che invece riveste notevole importanza per apprezzare la potenza dell’esplosione – e non traggono le dovute conseguenze da una valutazione comparativa con lo stato degli altri resti e frammenti corporei: valutazione che pure è contenuta nella parte motiva della medesima relazione.
Ed invero, il fatto stesso che gli arti inferiori, come pure l’interno delle cosce e parte dell’apparato genitale (cfr. pag. 16 della relazione CARUSO-PROCACCIANTI: “Tra le due pagine della lacerazione più mediale vi erano incuneati una parte dello scroto, un testicolo e il pene, ampiamente lacerati ed affumicati”) fossero sostanzialmente indenni, dimostra di per sé che, al momento dello scoppio, il corpo non poteva trovarsi né in piedi, né accosciato, ovvero accovacciato sull’ordigno.
Se così fosse stato, proprio gli arti inferiori e l’apparato genitale non solo sarebbero stati investiti direttamente dall’esplosione, ma ne avrebbero risentito gli effetti devastanti prima e più di qualsiasi altra parte del corpo. Invece, il corpo di IMPASTATO è stato letteralmente sbriciolato nella parte superiore del tronco, ovvero dal bacino in su (capo compreso); ed è rimasto relativamente indenne dal bacino in giù.
D’altra parte, nel paragrafo delle “Considerazioni medico-legali”, la relazione predetta argomenta appunto che “stando alla frantumazione dell’estremità cefalica, degli arti superiori e del tronco, contrapposta alla buona conservazione degli arti inferiori, e considerati gli effetti lasciati dall’esplosivo sulla linea ferrata, è ammissibile che al momento dell’esplosione gli arti inferiori si trovassero su un piano più basso rispetto al resto del corpo”. E coerentemente rimarca che “l’onda d’urto prodotta dall’esplosione avrebbe investito in pieno la strada ferrata e la parte superiore e media del corpo dell’IMPASTATO, mentre gli arti inferiori – interessati dalla parte marginale dell’onda – sarebbero rimasti pressoché integri” (cfr. pag. 20).
Orbene, è certo che i dati concernenti la posizione della carica esplosiva sono univoci e concordanti perché tutte le fonti, a partire dalla consulenza CARUSO-PROCACCIANTI, depongono nello stesso senso: l’esplosivo doveva trovarsi sotto lo sterno, ovvero tra lo sterno e l’addome, e più esattamente all’altezza del bacino. Su questo punto concordano anche l’artificiere SARDO (cfr. la deposizione resa al G.I. dott. CHINNICI il 21.12.78. ff. 63-65 vol. II: “… dalla localizzazione dei resti del corpo, si desume che al momento dell’esplosione la carica doveva trovarsi sotto lo sterno o meglio tra lo sterno e la regione addominale, solo così si spiega il fatto che i pezzi furono trovati in un raggio di circa m. 150″), gli esperti impegnati nell’indagine tecnico-amministrativa interna alle FF. SS e il perito balistico PELLEGRINO.
Inoltre, si è accertato – ad onta della prudente riserva che sul punto mantengono le conclusioni della consulenza CARUSO-PROCACCIANTI – che l’esplosivo doveva trovarsi collocato sullo stato di pietrisco tra i due binari, e precisamente a contatto o quasi con il lato interno di quello rimasto tranciato (binario di sx, direzione Trapani). Lo confermano sia il perito balistico che le conclusioni dell’indagine ferroviaria. (In particolare, la relazione PELLEGRINO, sul punto conclude che “l’ordigno doveva essere stato collocato tra i due binari ferroviari, a contatto, o quasi, con quello rimasto tranciato; doveva trovarsi inoltre collocato sullo stato di pietrisco tra le due traverse di legno contigue, laddove si è creata la soluzione di continuo del binario”).
Non si vede allora come esso potesse trovarsi altresì all’altezza del bacino, se non ipotizzando che il corpo fosse disteso con le gambe penzoloni sulla massicciata e, dal bacino in su, a contato diretto con il binario e le traverse fra le quali era collocato l’esplosivo. Infatti, se si rapportano i dati anatomici con gli effetti della deflagrazione da un lato, e, dall’altro, con la più che probabile collocazione dell’ordigno sul piano della strada ferrata, è d’uopo concludere che il corpo fosse (al momento dello scoppio) disteso sui binari e con le gambe al di sotto del piano ad essi corrispondente.
Lo stesso prof. PROCACCIANTI, nel corso della deposizione resa all’udienza del 20. 02.2001 nel parallelo processo a carico di Gaetano BADALAMENTI ha ribadito che gli arti inferiori dovevano trovarsi su un piano inferiore rispetto a quello in cui era collocato l’esplosivo; e ha ammesso che l’ipotesi più plausibile resta quella che il soggetto non fosse in piedi al momento dello scoppio: “… perché l’onda d’urto se… io faccio un’ipotesi, se l’individuo fosse stato in piedi l’onda d’urto e l’ordigno diciamo ad altezza di bacino o di stomaco, di addome, quanto meno avrebbe avuto la stessa possibilità di deflagrare e quindi di distruggere sia gli arti superiori come gli arti inferiori…” (cfr. pagg. 15-16 del verbale di trascrizione della deposizione PROCACCIANTI, acquisita sul consenso delle parti all’udienza del 5 marzo 2001).
Ed è proprio questa, sostanzialmente, la conclusione – non dissimile, in verità, da quella desumibile già dalla consulenza medico-legale – alla quale, sia pure con la dovuta prudenza, pervengono il perito balistico e i tecnici delle Ferrovie.
Così scrive il PELLEGRINO nella parte conclusiva della sua Relazione: “Il corpo di IMPASTATO Giuseppe doveva trovarsi al momento dell’esplosione nelle immediate vicinanze dell’ordigno, o, addirittura, adagiato sopra di esso”. (Cfr. pag. 6 e f. 195).
E parimenti si legge nella relazione tecnica a cura della Direzione compartimentale delle Ferrovie dello Stato, depositata presso la Procura di Palermo l’11/01/79 (ossia quasi tre mesi dopo il deposito delle consulenza medico-legale): “Deve presumersi che il corpo dell’IMPASTATO fosse disteso sulla rotaia e che la carica esplosiva si trovasse interposta tra il corpo medesimo e la rotaia” (cfr. f. 244 vol. I).
È di tutta evidenza che una simile conclusione mal si concilia con l’ipotesi del suicidio (e tanto meno con quella di un’esplosione accidentale), mentre è del tutto compatibile e coerente rispetto all’ipotesi che il corpo di IMPASTATO sia stato trascinato fino ai binari ed ivi adagiato, già esanime o legato.
Per quanto concerne invece le tracce di polveri sul palmo della mano, non può che rinviarsi alle considerazioni già svolte in precedenza. Il dato non è di per sé significativo e non può inferirsene che l’ordigno stesse tra le mani dell’IMPASTATO, perché, data la violenza dell’esplosione, tutte le parti scoperte del corpo e la cute che le rivestiva, al pari dei brandelli di vestiti rinvenuti sul luogo, presentavano vistose tracce di bruciatura o affumicamento. E non lo dicono solo i testimoni oculari che parteciparono alla raccolta dei poveri resti (cfr. per tutti DI MAGGIO Faro, f. 25 retro vol. II: “I resti del corpo di Peppino erano tutti bruciacchiati ed erano misti a parti di indumenti”). È troncante, sul punto, la considerazioni del perito balistico secondo cui “su questi resti anatomici sono state individuate tracce di nitrati, ma questa risultanza è di scarsa utilità in quanto che è oltremodo evidente che l’epidermide delle parti esposte del corpo della vittima sia stata direttamente investita dalla violenza dell’esplosione” (cfr. pag. 3 della Relazione di consulenza PELLEGRINO, f. 140 vol. I).
Del resto, quando al prof. PROCACCIANTI, in sede di contro-esame e nel corso della stessa deposizione sopra citata, è stato chiesto di spiegare in che senso l’ordigno si trovasse probabilmente tra le mani dell’impastato, come si legge nella relazione di consulenza a sua firma, l’illustre clinico non ha potuto fare altro che ribadire il dato relativamente all’affumicamento, che però era comune a molti altri resti rinvenuti sul posto. (Cfr. ancora pag. 28 del verbale di trascrizione in atti: “Ma… cioè il fatto che la mano fosse affumicata, chiaramente significa che era in vicinanza a questo ordigno. Che lo tenesse o non lo tenesse questo non è che lo posso dire, nel senso che lo teneva… cioè posso dire che c’era questo ordigno che era in prossimità della…delle cosce, dove c’era questa zona affumicata della mano…dell’altra mano, la sinistra era completamente… non c’era più, della mano destra c’erano soltanto questi frammenti… cioè frammenti, c’erano frammenti di mano e in questi frammenti di mano vi era… c’era questo affumicamento”.).
Semmai vale per la mano destra la medesima conclusione formulata per gli arti inferiori. Poiché essa è uno dei frammenti corporei più consistenti residuati dalla tremenda esplosione (mancavano solo due dita), deve presumersi che non fosse a diretto contatto con l’ordigno e che, anzi, non fosse tra le parti (del corpo di IMPASTATO) più prossime ad esso.
B) Dal fatto che non siano state trovate tracce di miccia combusta e segnatamente di una miccia a lenta combustione, la Difesa ricava elementi argomentativi contrari all’ipotesi dell’omicidio. Se, si argomenta, IMPASTATO fosse stato ucciso, i suoi assassini avrebbero impiegato una miccia lunga e a lenta combustione per avere il tempo di mettersi al riparo prima dell’esplosione.
L’argomento, per quanto suggestivo, non può però condividersi perché dà per scontate alcune premesse in punto di fatto che tali non sono; e perviene ad una conclusione che proverebbe troppo e che non è affatto così stringente, sul piano logico, come si prospetta.
Anzitutto, non abbiamo alcuna certezza sul meccanismo di innesco dell’ordigno e non è possibile neppure attribuire all’ipotesi di un innesco del tipo a miccia un’attendibilità percentualmente superiore a ipotesi alternative. Le conclusioni sul punto della consulenza balistica sono disarmanti, ma anche inequivocabili: “stante il mancato reperimento di elementi indicativi, non è possibile neanche dedurre come era stato innescato l’ordigno, se con detonatore elettrico o se con detonatore a miccia od a tempo“ (cfr. relazione PELLEGRINO, fg. 192, vol. I).
Tali conclusioni possono apparire tutt’altro che soddisfacenti, anche per il metodo di lavoro seguito dal perito PELLEGRINO, che, sostanzialmente, si è limitato ad una sorta di perizia sugli atti. (Non risulta infatti dalla relazione alcun riferimento a rilievi tecnici in loco o analisi su reperti di interesse per i necessari accertamenti chimico-balistici).
In particolare, circa le caratteristiche tecniche dell’esplosivo impiegato, egli si limita a rilevare, con argomentazioni peraltro ineccepibili, che “Dalla documentazione fotografica si evince inoltre che un tratto di binario ferroviario è stato divelto dall’esplosione e asportato di netto, tra le due traverse di legno. Dalle modalità di come il binario è stato tranciato e dalle tracce che si possono osservare sulla fiancata di una delle traverse di legno, si può dedurre che doveva trattarsi di esplosivo ad alto potere dirompente e ad elevata velocità di detonazione”.
D’altra parte al perito balistico non vengono segnalati e tanto meno consegnati altri reperti utili per eventuali accertamenti all’infuori di quelli che furono esaminati dal chimico (CARUSO) che affiancò il consulente medico-legale, e alle cui conclusioni, infatti, il PELLEGRINO si riporta anche per l’identificazione del tipo di esplosivo.
In ogni caso, quelle conclusioni, così dichiaratamente interlocutorie, sono l’unico dato tecnico-valutativo di cui disponiamo processualmente. Esso ci dice che non può affatto escludersi che siano stati impiegati, per innescare l’ordigno, congegni diversi dalla miccia a lenta o rapida combustione, come appunto un detonatore elettrico, un congegno a tempo, oppure, aggiungiamo oggi, un comando a distanza, del tipo di quello con cui fu azionata la bomba che cinque anni più tardi fece saltare in aria il dott. CHINNICI insieme alla sua scorta.
Né può obbiettarsi che di simili congegni non fu trovata traccia, perché lo stesso vale per un’ipotetica miccia (lunga o corta che fosse).
Sotto questo profilo, semmai, è assorbente la considerazione che la mancanza di tracce di un qualsiasi meccanismo o congegno di innesco avrebbe potuto di per sé costituire, forse, un dato apprezzabile per inferirne la maggiore attendibilità di una ipotesi rispetto alle altre, se il terreno, quanto meno intorno al punto in cui scoppiò l’ordigno, fosse stato accuratamente setacciato. Abbiamo invece la certezza che così non fu.
Intanto, non risulta che il personale presente sul posto abbia fatto una ricerca specificamente mirata a rinvenire eventuali tracce dell’innesco, essendo piuttosto l’attenzione e l’impegno dei partecipanti assorbito dalla ricerca dei resti del corpo e altri effetti personali e soprattutto quelli che potessero agevolare l’identificazione del cadavere (v. PICHILLI, BRIGUGLIO e CANALE). Inoltre, la ricognizione si consumò in meno di tre ore. Il verbale a firma del Pretore indica come data di inizio delle operazioni le ore 6,45; e tre ore dopo viene trasmesso dalla Caserma dei CC a Cinisi il primo fonogramma a firma dello stesso Pretore, segno evidente che le operazioni si erano già concluse. Inoltre, il dott. VELLA ha dichiarato che quando giunse sul posto, qualche minuto prima delle 9.00, il Pretore stava terminando di redigere il verbale e non c’era alcuna attività in corso sui luoghi. E il mar. TRAVALI al G.I. dichiarò che “L’ispezione, che era iniziata verso le ore 7, durò circa due ore” (v. fg. 44 retro, vol. II).
Infine, il brigadiere CANALE ha dichiarato di avere partecipato personalmente alla ricerca e alla raccolta dei poveri resti di IMPASTATO, insieme a personale della Compagnia di Partitico. Ma alle 08.00 di quella stessa mattina egli si trovava già a Cinisi, impegnato nella perquisizione dell’abitazione di Fara BARTOLOTTA (Fu a quell’ora infatti che venne trovata la famosa lettera-testamento); mentre altro personale fu impegnato in analoghe operazioni di perquisizione.
Ma la migliore riprova del fatto che il terreno non fu setacciato con l’ attenzione che sarebbe stata necessaria per rinvenire tracce specifiche dell’esplosivo o del meccanismo di innesco, anche per l’esiguità del personale a disposizione (dalle S.I. del TRAVALI si evince che inizialmente, erano presenti solo l’app. PICHILLI, che però in un primo tempo rimase di guardia all’auto di servizio,; l’app. ABRAMO e il brigadiere ESPOSITO, tutti della Stazione CC di Cinisi, oltre allo stesso TRAVALI, al necroforo comunale e al medico condotto, dott. Salvatore DI BELLA; poi si aggiunse un numero imprecisato di militari della Compagnia di Partinico) e la mancata convocazione di tecnici esperti (infatti, gli artificieri SARDO e LONGHITANO non vennero impegnati in accertamenti e rilievi tecnici sul posto, come si è visto) viene dalla circostanza che, ancora per diversi giorni dopo il rinvenimento del cadavere, altri resti del povero IMPASTATO e frammenti di abbigliamento vennero trovati nella zona, grazie all’impegno profuso dai giovani del suo gruppo nella ricerca di ulteriori tracce.
Ove poi, in via di mera congettura, si volesse privilegiare l’ipotesi di un innesco del tipo a miccia, deve convenirsi che il concetto di miccia lunga o corta è assai relativo.
Ed invero, in ipotesi, anche una miccia di una decina di metri poteva bastare per dare agli assassini il tempo di guadagnare quello spazio di venti o trenta metri necessario e sufficiente al fine di raggiungere una distanza di tutta sicurezza e di mettersi al riparo (magari rifugiandosi proprio dentro al famoso casolare). In questo caso, l’ipotetica miccia si sarebbe trovata ad una distanza così prossima al punto in cui esplose l’ordigno da essere verosimilmente investita in pieno dalla forza d’urto dell’esplosione. Con la conseguenza che sarebbe stato comunque difficile rinvenirne tracce apprezzabili.
C) Molto più significativo, sul piano indiziario, è invece il dato acquisito – con certezza, questa volta – in ordine al tipo di esplosivo che fu utilizzato: appartenente alla famiglia dei nitroderivati aromatici della serie dinitrotoluene (DNT), è caratterizzato, come si è detto, da un alto potere dirompente e un’elevata velocità di detonazione. Le indicazioni già contenute sul punto nelle relazioni di servizio del 9 maggio ’78 a firma del serg. magg. LONGHITANO e del brig. SARDO, hanno trovato conferma negli accertamenti chimico-balistici. In pratica si tratta di un derivato del tritolo, del tipo “da mina”, comunemente impiegato nelle cave (cfr. Relazione CARUSO-PROCACCIANTI, fg. 186 e Relazione PELLEGRINO, fg. 191 e 194).
Il perito balistico non ha dubbi sul fatto che “L’esplosivo impiegato nell’ordigno che ha causato la morte di IMPASTATO Giuseppe era della famiglia dei nitroderivati aromatici della serie dinitrotolueni (DNT) – anche se “non è possibile stabilire di quali esplosivi si tratti, tra quelli della suddetta famiglia” – poiché tracce di questo composto sono state rinvenute su “un frammento di stoffa repertato sul luogo” che, a sua volta, proveniva dai resti della camicia (di lana) dell’IMPASTATO.
Ora, il rilievo indiziario di questo dato discende dal fatto che c’erano nella zona diverse cave in cui verosimilmente si faceva uso di esplosivo di quel tipo; e tra le altre, anche le come vengono definite nel rapporto giudiziario stilato in data 10.02.1982 dal nuovo Comandante della Compagnia CC di Partinico sull’assassinio di FINAZZO Giuseppe, che era interessato alla loro gestione: ossia proprio quel FINAZZO, inteso “Parrineddu” e soprannominato “Percialino” da Giuseppe IMPASTATO, che ne faceva un bersaglio ricorrente di pubbliche accuse per i suoi legami con il boss Gaetano BADALAMENTI e per alcune speculazioni edilizie consumate o tentate grazie alla complicità o all’ignavia di amministratori comunali compiacenti o conniventi.
Ma il rapporto citato – e in ciò, come giustamente evidenziato nella sentenza CAPONNETTO, si misura “” – va ben oltre nel delineare il quadro indiziario emerso a carico del defunto FINAZZO in relazione alla soppressione di Giuseppe IMPASTATO, dando risalto al legame fiduciario con il boss BADALAMENTI e al fatto che, grazie alla sua attività imprenditoriale, aveva avuto la possibilità di adoperare grossi quantitativi di esplosivo, presumibilmente impiegato anche “per favorire i vari mafiosi a lui associati nella consumazione di attentati dinamitardi”.
Questi i passi salienti, per la parte che qui interessa, del rapporto giudiziario a firma dell’allora Capitano dei CC Giuseppe ARENA:
“Finazzo Giuseppe, componente del clan mafioso capeggiato dal noto Gaetano Badalamenti da Cinisi, era l’uomo di fiducia più vicino al capo. …Ufficialmente imprenditore edile ed iscritto al n. 461 dell’elenco dei mafiosi aveva precedenti per reati contro il patrimonio. Inteso ‘Parrineddu’ ed anche ‘Percialino’, soprannome questo ultimo che gli affibbiò il defunto Impastato Giuseppe, noto esponente di democrazia proletaria. …Era definito, per la voce pubblica, un soggetto di spiccata capacità a delinquere, a servizio della mafia e privo di scrupoli morali. Da epoca remota, grazie alla sua attività, ha avuto la possibilità di adoperare grossi quantitativi di esplosivo, non certo impiegato solo nelle note cave della S.I.F.A.C., ma anche, presumibilmente, per favorire i vari mafiosi a lui associati nella consumazione di attentati dinamitardi. Il più grave di questi delitti, che la voce pubblica gli addebita, e che risale al 9/5/1978 è la soppressione di Impastato Giuseppe, noto esponente di democrazia proletaria di Cinisi, che pubblicamente non cessò mai, fino al giorno della sua morte, di accusare, arrivando financo a ridicolizzarli, il Finazzo Giuseppe, il Badalamenti Gaetano e gli altri esponenti della mafia”.
La cava della S.I.F.A.C., peraltro, era solo una delle tre cave di inerti site nei dintorni di Cinisi e già indicate al punto 5 del Pro-Memoria consegnato al Giudice CHINNICI dai responsabili del Collettivo di Radio-Aut come nella disponibilità del clan BADALAMENTI: tutte e tre infatti appartenevano o erano comunque riconducibili a soggetti ritenuti vicini al presunto boss di Cinisi, e ciò anche sulla scorta di informazioni già in possesso delle Forze dell’Ordine, come risulta da successivi rapporti giudiziari.
Una era appunto la cava gestita dai fratelli FINAZZO, Giuseppe e Emanuele, che distava poche centinaia di metri (in linea d’aria) dal luogo in cui perì Giuseppe IMPASTATO; un’altra era quella sita tra Carini e Montelepre, intestata a Giacomo IMPASTATO, ma gestita dai figli, tra i quali Luigi IMPASTATO (cugino di Giuseppe) assassinato a Palermo il 20/09/1981, cioè tre mesi prima di Giuseppe FINAZZO.
La terza era la cava di sabbia e pietrisco dei D’ANNA, che numerosi collaboratori di giustizia indicheranno come inizialmente affiliati al clan BADALAMENTI, passati allo schieramento avverso dei corleonesi dopo che l’anziano boss di Cinisi era caduto in disgrazia (e cioè sul finire del 1978: v. infra).
Questi dati – che certo erano, a livello locale, di dominio pubblico e non di esclusiva conoscenza del Collettivo di radio Aut – dimostrano che, a fronte di un’ipotetica e del tutto indimostrata disponibilità di esplosivi da parte dell’IMPASTATO o del suo gruppo politico, c’erano sicuramente, già all’epoca del fatto, tra i suoi nemici dichiarati, ovvero tra le persone prese di mira nella sua campagna di contro-informazione e di pubbliche denunce, alcuni soggetti potenzialmente in grado di procurarsi senza difficoltà il quantitativo di esplosivo necessario per compiere un attentato e dello stesso tipo di quello effettivamente impiegato nella notte tra l’8 e il 9 maggio ’78: soggetti dei quali verrà riconosciuta ed affermata in diversi rapporti giudiziari, e molto prima delle conferme venute dalle rivelazioni dei collaboratori di Giustizia, sia l’estrazione mafiosa che l’elevata pericolosità sociale. (V. anche il rapporto-denunzia datato 27.11.93 a firma dello stesso cap. ARENA, di cui la Difesa ha prodotto solo uno stralcio; e la Nota informativa datata 27.06.79 a firma del ten col. SUBRANNI, fg. 190 della documentazione riservata di cui al fascicolo “P” depositata il 4.04.2000).
8.
Completano poi e corroborano il compendio indiziario a sostegno dell’ipotesi omicidiaria le ripetute minacce ricevute da Giuseppe IMPASTATO e l’esistenza di un plausibile movente per eliminarlo, agevolmente rinvenibile nei modi e nei contenuti della sua battaglia politica e della campagna di controinformazione che da anni egli conduceva contro ben identificati sodalizi e personaggi accusati pubblicamente di coltivare attività e interessi illeciti.
Scriveva al riguardo già il giudice CAPONNETTO che in tal senso depongono “le testimonianze ed il materiale raccolti circa l’irriducibile impegno col quale il giovane aveva in ripetute occasioni, ed anche pubblicamente, attaccato pesantemente, oltre agli amministratori locali, noti personaggi mafiosi della zona di Cinisi, sia per le loro speculazioni edilizie sia – più in generale – per le loro attività delittuose (vedansi – in particolare – le deposizioni 9/10.5.78 della Andriolo Stagno Marcella e del Bartolotta Andrea e del La Fata Pietro a ff. 61, 71 e 79 vol. I; e 19.5.78 del Lo Duca Vito a f. 154 vol. I; e 7.12.78 dell’Impastato Giovanni a ff. 15 retro – 18 retro vol. II, 7.12.78 della Bartolotta Fara a f. 21 retro vol. II, 9.12.78 della Vitale Maria Fara a ff. 34-35 vol. II, 21.12.1978 del Fantucchio Giuseppe e del Cavataio Benedetto a ff. 72 retro e 74 retro vol. II; oltre a quanto risulta dall’esposto-denuncia 16.5.78 dei familiari a f. 137 vol. I)”.
Il tema del movente merita peraltro ulteriori approfondimenti alla luce delle rivelazioni dei collaboratori di Giustizia che chiamano in causa Gaetano BADALAMENTI quale mandante dell’omicidio di Giuseppe IMPASTATO. Come pure dovrà riprendersi il tema delle minacce in relazione ad ulteriori circostanze inerenti al misterioso e improvviso viaggio in America compiuto dal padre Luigi Tra maggio e giugno del 1977, e rivelate dai prossimi congiunti dello stesso IMPASTATO. Se ne ricavano infatti elementi preziosi per intendere la gravità e la provenienza delle minacce direttamente, ma ancor più per interposta persona, ricevute dal giovane militante di DP.
Basti intanto rammentare che già in precedenza – e quindi prima e a prescindere dalle rivelazioni dei cd. pentiti – numerose fonti convergevano a comprovare le reiterate minacce che in modi e tempi diversi furono rivolte non solo contro Giuseppe IMPASTATO, ma anche all’indirizzo di alcuni suoi amici e familiari. Oltre alle lettere anonime rinvenute nella camera da letto del giovane, e di cui s’è fatto cenno, di ripetute minacce si parla nell’esposto-denuncia che fu presentato dai suoi prossimi congiunti già in data 16 maggio ’78 (ff. 136-137, vol. I); ed ancora, nelle deposizioni rese da DI MAGGIO Faro il 9.05.78 (ff. 82-83 vol. I) e da VITALE Maria Fara il 902.78 (f. 34, retro, vol. II).
Vi si sofferma diffusamente anche Felicia BARTOLOTTA nella conversazione-intervista a cura di Anna PUGLISI e Umberto SANTINO del 1° dicembre 1984 (poi edita nel libro “La mafia in casa mia” cit.) e ne riferirà poi nel corso delle S.I. rese al G.I., a seguito della riapertura delle indagini, il 16.06.86 (v. infra).
In particolare, in uno dei passaggi più inquietanti di quella conversazione, ma rivelatori del clima di paura e soggezione in cui vivevano i più stretti congiunti del giovane IMPASTATO, la sig.ra BARTOLOTTA ricorda come fu lei stessa, proprio a causa di chiari avvertimenti ricevuti tramite suo cognato “SPUTAFUOCO”, fratello di suo marito, e suo nipote, IMPASTATO Giuseppe, a convincere suo figlio Peppino – che dopo la morte del padre era tornato a vivere nella casa avita – a ritornare dalla zia BARTOLOTTA Fara: “… Ma poi venne mio nipote Pinuzzu, mio cognato Peppino stesso, dice: ‘Ma che te lo sei messo dentro? Che devono dire quelli, che con la morte di suo padre te lo sei rimesso dentro?’. Perciò non erano d’accordo? Allora gli dissi: ‘Giuseppe, guarda, mia sorella è senza marito, sta alla stazione, isolata, è meglio che ti ritiri là”. E veniva a mangiare da me'”.
Ed ancora, a proposito delle crescenti preoccupazioni esternatele in vita anche da suo marito, e del convincimento che esse traessero origine da colloqui con i personaggi che non gradivano il tipo di impegno politico di suo figlio Peppino, ricorda che “…”. E a riprova che non si trattava solo di un modo di esternare la sua ansia, aggiunge che il marito la esortava a farlo desistere da quell’impegno, alludendo a minacciosi segnali provenienti da terzi: “Dice: ‘Fallo smettere. Digli che smetta, perché fanno un fosso e lo…’. Perciò erano a colloquio, ne parlavano. Dicendomi ‘fanno un fosso’, se lo immaginava pure lui che facevano un fosso”. (cfr. pag. 46).
In un altro passaggio, ancora più esplicitamente, a proposito dei motivi di acceso contrasto tra suo marito e il figlio Peppino, spiega che “”. Ed ancora: “Minacciavano mio marito e mio marito minacciava me, me direttamente. Sennò stava più calmo, perché vedeva l’onestà di suo figlio, vedeva che certuni glielo vantavano. Ma quando c’era di mezzo la mafia…, quando cominciavano le elezioni, diceva: ‘Dicci a tuo figlio che non parla di mafia’…Gli andavano a parlare fino nel negozio. Una volta a uno lo afferrai io, gli dissi: ‘Dove state andando?’ Che mio figlio aveva fatto un comizio. ‘Sedetevi qui per ora, perché dovete andare a denunciare mio figlio che ha fatto un comizio? Sedetevi qua’”. (Cfr. pag. 33).
Alcuni episodi inquietanti sono stati poi accertati nel corso dell’istruzione formale. Uno è quello riferito dal teste LO DUCA Vito, circa l’autovettura che l’avrebbe seguito insistentemente nella tarda serata dell’8.05.78, e cioè quando già alcuni compagni di IMPASTATO, non vedendolo tornare alla sede di Radio Aut, dove era atteso per una riunione politica, e preoccupati per l’inspiegabile ritardo, si erano messi alla sua ricerca. (A bordo di quell’auto, che poi si fermò dinanzi alla casa di Gaetano BADALAMENTI, il LO DUCA avrebbe individuato un soggetto, tal PIZZO Salvatore, ritenuto vicino allo stesso BADALAMENTI: cfr. ff. 8-10, vol. II).
Ancora piu oscura è la circostanza – che diede luogo all’incriminazione dei fratelli AMENTA per falsa testimonianza – emersa nella deposizione resa al G.I. il 7.12.78 da RICCOBONO Giuseppe, in merito al colloquio che lo stesso RICCOBONO, amico e compagno di partito di Giuseppe IMPASTATO avrebbe avuto nel pomeriggio dell’8 maggio 1978 con suo cugino, AMENTA Giuseppe, che era anche suo datore di lavoro. In quell’occasione, l’AMENTA gli avrebbe rivelato di essere stato incaricato da suo fratello, AMENTA Carmelo, di avvertirlo “di non andare in paese (e cioè a Cinisi, dove il RICCOBONO era soliti recarsi anche perché frequentava il collettivo di Radio Aut: NdR) perché in questi giorni succederà qualcosa di grosso”.
L’episodio è confermato dalle testimonianze di quanti appresero dallo stesso RICCOBONO di quell’oscuro avvertimento già la sera dell’8 maggio ’78 (cfr. deposizioni di DI MAGGIO Faro, MANIACI Giosuè, VITALE Maria Fara, BARTOLOTTA Andrea, LA FATA Giampietro, CAVATAIO Benedetto e, in particolare, DI MAGGIO Domenico).
E sul punto si legge nella sentenza CAPONNETTO che “Tale circostanza, cui conferiscono ancor maggiore peso le vane smentite e le contorte spiegazioni dei fratelli Amenta, imputati del reato di falsa testimonianza, aveva immediatamente creato – giova ricordarlo – uno stato di seria apprensione tra gli amici dell’Impastato Giuseppe, alcuni dei quali, preoccupatisi per la sua assenza all’assemblea indetta presso la sede della ‘Radio Aut’ per le ore 21 dello stesso 8 maggio 1978, lo avevano poi ricercato invano per quasi tutta la notte, a bordo di tre autovetture” (cfr. ff. 24, 32 retro, 69 retro e 74 retro vol. II).
Né va trascurato, per concludere su questo punto, l’inquietante collegamento che – dalle carte processuali – traspare tra l’episodio ora ricordato ed il colloquio “appartato” svoltosi, dinanzi al Municipio di Cinisi, la domenica precedente la mortale esplosione di cui è processo, tra l’Amenta Carmelo e il già menzionato Finazzo Giuseppe (inteso ‘u parrineddu’), successivamente indiziato del reato di omicidio volontario in pregiudizio dell’Impastato Giuseppe. Detto colloquio, notato dal Di Maggio Domenico (f. 91 vol. II) e da questi riferito al Riccobono Giovanni e ad altri amici, trova riscontro anche nella testimonianza del Di Maggio Faro (f. 27 retro vol. II); risulta – di contro – tutt’altro che recisa e convincente la smentita dell’Amenta Carmelo (f. 14 retro fasc. I Atti ostensibili: ‘non ricordo, avrò potuto anche fermarmi a parlare un po’ nel senso che il Finazzo mi avrà rivolto l’invito ad andare con lui al circolo’)”.
I f.lli AMENTA furono prosciolti per l’intervenuta amnistia di cui al D.P.R. 18/12/1981 n. 744: più precisamente, si legge nella motivazione della sentenza CAPONNETTO, si è dovuta dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale nei loro confronti, non sussistendo peraltro “le condizioni per l’applicazione dell’art. 152 cpv. C.P.P.”, e cioè i presupposti per un’assoluzione nel merito.
Resta il fatto che AMENTA Carmelo non ha negato l’incontro con il FINAZZO, ma solo quando gli sono state contestate le circostanze di quell’incontro, sulla base di precise testimonianze; come non ha potuto negare l’esistenza di un pregresso rapporto di conoscenza con lo stesso FINAZZO.
AMENTA Giuseppe, a sua volta, nega di aver ricevuto dal fratello Carmelo l’incarico di avvisare il cugino RICCOBONO, ma non ha negato di aver rivolto allo stesso RICCOBONO un generico avvertimento di non recarsi a Cinisi: e si è sforzato – senza molto successo in verità – di re-interpretarne il significato riferendolo all’inopportunità che il RICCOBONO si facesse vedere in paese, a pochi giorni dalle elezioni, impegnato a dar man forte ad un gruppo politico avverso a quello per cui era candidato un fratello dello stesso RICCOBONO.
Un episodio di probabile valenza intimidatoria, e comunque un atto di sabotaggio ancorché modesto nei suoi effetti pratici, è poi quello segnalato nell’esposto-denuncia del 16 maggio 1978, e occorso poche settimane prima della sua morte a Giuseppe IMPASTATO, allorché ignoti immisero dello zucchero o altra sostanza imprecisata nel serbatoio della sua auto, con l’effetto di danneggiare la carburazione, provocando la fuoriuscita di fumo dal motore: ne ha riferito al G.I. il meccanico cui l’IMPASTATO si era rivolto per accertare la natura (e le cause) del guasto e per ripararlo (cfr. deposizione resa da ORLANDO Giuseppe al G.I. dott. CHINNICI il 20. 12.78, ff. 49-50: “Sarebbe stato necessario smontare tutto il motore, però siccome l’IMPASTATO mi disse che forse gli avevano fatto qualche scherzo, mettendogli zucchero nella benzina, pensai che potevano aver messo qualcosa nella benzina. Difatti, svuotai la tanga contenente il carburante e mi accorsi che nella benzina c’erano delle sostanze estranee che non seppi individuare”.).
Infine, un atto palesemente intimidatorio attinse anche Giovanni IMPASTATO, fratello di Giuseppe, cui venne ucciso il cane a colpi d’arma da fuoco (v. f. 305 vol I e ff. 92-94 vol. II).
9. Una prima certezza.
Ciò posto, quanto si è detto per le pietre insanguinate trovate all’interno del casolare e per i reperti rinvenuti nelle immediate adiacenze del cratere formato dall’esplosione che dilaniò il corpo dell’IMPASTATO vale anche per le risultanze dell’esame autoptico, della consulenza medico-legale e della perizia balistica (rapportate anche alla relazione ispettiva delle FF. SS).
Esse convergono verso un medesimo risultato, sul piano logico-ricostruttivo. Sono cioè tutte compatibili con l’ipotesi dell’omicidio, e segnatamente con l’ipotesi che il corpo di IMPASTATO sia stato trascinato (da una o più persone) fino ai binari, nel punto in cui venne collocato l’esplosivo che lo avrebbe fatto saltare in aria: forse privo di sensi, o addirittura già morto, o comunque nell’impossibilità di muoversi.
Una diversa spiegazione non è altrettanto plausibile.
In particolare, che l’IMPASTATO, al momento dello scoppio, armeggiasse con l’esplosivo o fosse comunque e libero di muoversi appare per certi versi addirittura inverosimile; mentre, per altri aspetti, suscita perplessità ed interrogativi a cui non si riesce a dare una risposta plausibile.
Se a tale esito si aggiungono le risultanze obbiettive e gli argomenti che valgono a confutare sia l’ipotesi del suicidio che quella che attribuisce all’IMPASTATO il proposito di mettere in atto un attentato terroristico; ed ancora, quanto è emerso circa l’esistenza di un plausibile movente per uccidere il giovane militante di DP e le reiterate minacce rivoltegli, ve n’è abbastanza per poter concludere, in termini di ragionevole certezza, che Giuseppe IMPASTATO è stato assassinato. E che i suoi assassini hanno dissimulato l’omicidio inscenando un finto attentato.
3. LA RIAPERTURA DELLE INDAGINI E LE NUOVE ACQUISIZIONI PROCESSUALI.
3.1. La riapertura delle indagini e la seconda archiviazione: spunta la pista “corleonese”
Gli elementi acquisiti all’epoca della prima archiviazione, rivalutati e implementati dalle ulteriori risultanze emerse nel corso delle successive indagini (inframmezzate da una seconda archiviazione) consentono ed anzi impongono di andare ben oltre le conclusioni cui si arrestava la sentenza CAPONNETTO.
È opportuno quindi ricapitolare l’iter delle nuove indagini nelle loro tappe salienti.
Con provvedimento del 18 giugno 1986, in accoglimento della richiesta avanzata dal P.M. dott. Vincenzo PAJNO, veniva disposta la riapertura delle indagini sulla morte di Giuseppe IMPASTATO: ciò sulla base delle nuove circostanze evidenziate nell’esposto presentato il 16 giugno 1986 da Giovanni IMPASTATO e dai responsabili del Centro IMPASTATO (sottoscritto per adesione da altre 466 persone, anche in rappresentanza di vari enti ed associazioni politiche, culturali e professionali), di nuovi particolari rivelati dai prossimi congiunti dell’IMPASTATO, con specifico riguardo alle vere ragioni dell’improvviso viaggio negli Stati Uniti intrapreso dal padre Luigi, nella Primavera del 1977, e alle confidenze raccolte da alcuni parenti americani circa le preoccupazioni dello stesso Luigi per la sorte del figlio; nonché sulla scorta delle rivelazioni di Tommaso BUSCETTA in ordine all’esistenza, le vicende, la struttura e le regole interne all’organizzazione criminale denominata Cosa Nostra, con particolare riguardo al suo radicamento anche nel territorio di Cinisi e alla composizione della locale famiglia mafiosa.
Venivano quindi assunte a S.I. BARTOLOTTA Felicia (già in data 16 giugno ’86) e IMPASTATO Maria (cugina di Peppino).
Nel corso della nuova istruttoria veniva interrogato anche Pierluigi CONCUTELLI, militante neofascista indicato da IZZO Angelo quale fonte delle informazioni ricevute dallo stesso IZZO circa un presunto coinvolgimento di elementi appartenenti a gruppi eversivi dell’estrema destra nella commissione dell’omicidio IMPASTATO, in collusione con non meglio identificati esponenti della criminalità mafiosa locale.
Mediante rogatorie internazionali, veniva inoltre interrogato (dal dott. G. FALCONE il 4.06.87) Gaetano BADALAMENTI, detenuto in espiazione pena negli Stati Uniti e principale indiziato quale mandante del delitto; e venivano altresì escussi a S.I. i parenti americani della vittima, e precisamente Giuseppe (cl. 1926) e Nicola IMPASTATO, entrambi in data 5.06.87, a Los Angeles; ed ancora Giuseppe IMPASTATO (cl. 1938), escusso a New Orleans l’8.03.1990.
Il 15 marzo 1991, in conformità alle disposizioni di attuazione del nuovo codice di rito, Gaetano BADALAMENTI veniva iscritto nel registro degli indagati.
Il 5 aprile 1991 veniva interrogato il collaboratore di Giustizia CONTORNO Salvatore, il quale confermava integralmente tutte le dichiarazioni in precedenza rese a vari organi giudiziari “in ordine all’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra, alla sua articolazione interna, ai suoi organi direttivi, alla sua suddivisione in famiglie, ai suoi affiliati, ai crimini commessi dai suoi componenti”.
Ma con decreto emesso il 16 marzo 1992, in accoglimento della richiesta avanzata in tal senso dall’Ufficio del P.M. in data 27 febbraio 1992, il G.I. P. del Tribunale di Palermo disponeva l’archiviazione del procedimento nr. 919/91 a carico di BADALAMENTI Gaetano. Nella parte motiva di quella richiesta, condivisa dal GIP, si esponeva in particolare che nessun elemento di novità era emerso dalle rogatorie espletate negli USA. Infatti, i parenti della vittima (pur ammettendo di averlo ospitato per alcune settimane) nulla avevano rivelato dei presunti retroscena del viaggio di Luigi IMPASTATO negli Stati Uniti. E il principale indiziato, BADALAMENTI Gaetano, “ha vigorosamente respinto le accuse contestategli, ricordando tra l’altro i rapporti di amicizia e di parentela che lo legavano alla famiglia dell’ucciso”.
Ma nella ricostruzione conclusiva dello stesso P.M. si adombrava, sia pure solo come plausibile congettura meritevole di ulteriori approfondimenti investigativi, un’ipotesi inedita: e cioè che l’omicidio fosse stato ordito e commesso da una cosca mafiosa emergente, quella dei corleonesi, per delegittimare o comunque offuscare l’autorità e il prestigio del vecchio boss di Cinisi. Infatti, proprio tra la fine del ’77 e l’inizio del ’78 il predominio del clan BADALAMENTI nella zona di Cinisi cominciava ad essere insidiato dal gruppo dei Corleonesi “”.
Si deduceva altresì che secondo quanto dichiarato dal BUSCETTA, Gaetano BADALAMENTI venne “posato”, cioè espulso dall’organizzazione, “proprio nell’arco di tempo durante il quale fu consumato l’omicidio IMPASTATO, e non è certamente da escludere che la delegittimazione del BADALAMENTI stesso avesse avuto inizio con l’esecuzione di un così grave fatto di sangue a sua insaputa, quale segnale delle mutate posizioni in campo”.
A sostegno di questa inedita prospettazione si rimarcava poi che il seguito delle vicende, e in particolare, la temporanea successione di Nino BADALAMENTI al cugino Gaetano nella carica di capo della famiglia mafiosa di Cinisi e, dopo l’omicidio dello stesso Nino nel 1981, “”.
Un parziale seppur indiretto riscontro si riteneva di poter trarre dal fatto acclarato che LIPARI Giuseppe, condannato nel primo maxi-processo a Cosa Nostra anche per il reato di cui all’art. 416 bis e ritenuto vicinissimo ai corleonesi di RIINA Salvatore, era comproprietario del villaggio “Z 10”, ossia proprio quel complesso turistico “oggetto delle aspre critiche di Peppino IMPASTATO”.
Ma neppure questa suggestiva congettura poteva dare adito a soluzioni diverse dall’archiviazione, in mancanza di concreti elementi di prova di “specifiche responsabilità individuali”.
Infine, nella richiesta di archiviazione si dava conto anche dell’esito negativo delle indagini scaturite dalle dichiarazioni dell’estremista di destra IZZO Angelo.
3.2. La svolta decisiva: le rivelazioni di nuovi collaboratori di Giustizia
Quattro anni dopo, si verifica la svolta decisiva: lo stesso GIP, con decreto emesso l’11.04.95, in accoglimento della richiesta avanzata dall’Ufficio del P.M. in data 17.03.95, autorizzava la riapertura delle indagini nei confronti di BADALAMENTI Gaetano in ordine all’omicidio IMPASTATO. Nella parte motiva si evidenzia la rilevanza dei nuovi elementi emersi dalle dichiarazioni del collaboratore di Giustizia PALAZZOLO Salvatore a carico di BADALAMENTI Gaetano e PALAZZOLO Vito, accusati di essere i mandanti del delitto, nonché PALAZZOLO Salvatore, inteso “Turiddazzu”, indicato tra gli esecutori materiali, insieme ad altri.
Infatti, il collaboratore predetto aveva dichiarato di avere appreso da PALAZZOLO Vito, indicato quale sotto-capo della famiglia di Cinisi e braccio destro di Gaetano BADALAMENTI, che l’omicidio di Giuseppe IMPASTATO era stato deciso e ordinato personalmente dallo stesso BADALAMENTI per far cessare l’attività di mobilitazione dell’opinione pubblica e di denunzia che il giovane militante di sinistra portava avanti contro la mafia in generale e contro il BADALAMENTI in particolare.
Un’indiretta conferma veniva peraltro dalle circostanze acclarate e dai (probabili) motivi del famoso viaggio improvviso effettuato da Luigi IMPASTATO negli States: a chiarirli era la testimonianza di Felicia BARTOLOTTA IMPASTATO, intesa “”, alla quale il padre di Peppino, in occasione appunto del suo soggiorno negli Stati Uniti, ospite dei parenti ivi stabilitisi, aveva confidato le preoccupazioni per l’incolumità del figlio, asserendo però che “prima di uccidere Peppino, devono uccidere me”. (V. infra).
Va anche detto che già in precedenza avevano reso significative dichiarazioni sull’omicidio IMPASTATO altri due collaboratori che chiamavano in causa il BADALAMENTI quale mandante del delitto, e cioè CALDERONE Antonino (v. verbale dell’interrogatorio reso al G.I. dott. FALCONE il 26.10.87) e MUTOLO Gaspare (v. verbale del 17.05.93).
Inoltre, con un articolato esposto presentato il 18.05.94, l’avv. GERVASI, n. q. di difensore dei prossimi congiunti dell’IMPASTATO, nonché persone offese e in rappresentanza del “Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe IMPASTATO”, aveva già sollecitato la riapertura delle indagini.
A seguito di un nuovo esposto presentato in data 22.03.96 da BARTOLOTTA Felicia, ved. IMPASTATO, Giovanni IMPASTATO, fratello della vittima e Umberto SANTINO, Presidente del centro predetto, il P.M. assumeva a S.I. lo stesso IMPASTATO Giovanni (v. verbale dell’8.06.96), il quale, preliminarmente, confermava le dichiarazioni precedentemente rese al G.I. dott. CHINNICI IL 7.12.78 e poi il 7.07.79; e ribadiva l’importanza della circostanza di cui aveva già riferito nell’esposto del 16.06.86, in ordine alla visita di PALAZZOLO Vito a sua madre, per avvisarla che Tano BADALAMENTI voleva parlare con suo padre: visita avvenuta nell’aprile del 1977.
Il 26.09.96 (v. f. 57 e vol. 3) IMPASTATO Giovanni, spontaneamente presentatosi al P.M. per riferire nuovi particolari sulla vicenda, confermava la disponibilità di una cugina della madre, residente negli Stati Uniti, e cioè BARTOLOTTA Vincenza, a riferire sui retroscena della visita di suo padre in America. Successivamente (v. S.I. del 5.10.96) lo stesso IMPASTATO precisava che la cugina predetta in famiglia veniva chiamata “Vincenzina”, ma all’anagrafe risultava in effetti con il nome di Felicia BARTOLOTTA; e ne forniva l’indirizzo, allegando fotocopia della lettera spedita dalla cugina in questione.
Il 12.10.96 veniva avanzata richiesta di rogatoria internazionale per sentire a S.I. la predetta BARTOLOTTA e l’audizione aveva effettivamente luogo il 16.01.97 in una località protetta dell’Ontario.
Nel frattempo, con nota dell’Ufficio del P.M. veniva disposta l’iscrizione nel registro degli indagati – con effetto dal 21.10.96 e nell’ambito del procedimento già pendetne a carico di BADALAMENTI Gaetano per l’omicidio IMPASTATO – di PALAZZOLO Vito, odierno imputato; e di PALAZZOLO Salvatore, omonimo del collaboratore di Giustizia.
Per quanto si evince dagli atti, l’effetto di tale iscrizione viene fatto risalire ad una Nota della Questura di Palermo, datata appunto 21.10.96, e concernente l’identificazione degli indagati (ovvero dei soggetti da iscrivere nel registro degli indagati, come disposto nel provvedimento di riapertura delle indagini).
A tale nota deve quindi farsi risalire, a sua volta, l’evidente errore materiale in cui è incorso l’Ufficio di Procura nell’indicare tra le generalità del PALAZZOLO da iscrivere nel registro degli indagati, la data di nascita (15/03/46) corrispondente a quella dell’omonimo collaboratore di Giustizia, invece dell’esatta data di nascita del PALAZZOLO Salvatore (effettivamente nato a Cinisi il 14/07/1932 ed ivi residente in Corso Umberto I, nr. 360: v. attività integrativa d’indagine vol 17, f. 6 della Nota 13.04.99 trasmessa dal C. do della Stazione CC di Cinisi), inteso Turiddazzu, che era stato indicato dal collaborante tra gli esecutori materiali dell’omicidio di Giuseppe IMPASTATO.
(Non c’è dubbio però che trattasi di mero errore materiale perché il provvedimento di riapertura delle indagini faceva inequivocabilmente riferimento al PALAZZOLO inteso con il nomignolo di Turiddazzu).
In data 13.02.97 veniva avanzata richiesta di rogatoria internazionale per procedere all’interrogatorio di Gaetano BADALAMENTI. Ivi si evidenzia che le dichiarazioni accusatorie del collaboratore PALAZZOLO Salvatore troverebbero riscontro anche nelle rivelazioni di altri collaboratori di Giustizia, e segnatamente MUTOLO Gaspare e CALDERONE Antonino “i quali, in contesti diversi ed indipendentemente l’uno dall’altro, riferiscono di avere appreso da soggetti appartenenti a Cosa Nostra che il mandante dell’omicidio di Giuseppe IMPASTATO era stato Gaetano BADALAMENTI, adirato per le continue denunce del giovane nei suoi confronti”.
Completano il repertorio delle attività istruttorie espletate in questa fase, e delle fonti di prova, oltre all’interrogatorio per rogatoria del BADALAMENTI, l’interrogatorio reso al P.M. da PALAZZOLO Vito in data 17.06.97 (v. vol. 15) e le dichiarazioni rese dai numerosi collaboratori di Giustizia escussi dopo le (prime) propalazioni accusatorie di PALAZZOLO Salvatore, o dei quali sono stati acquisiti i verbali di interrogatori (anche precedenti) resi nell’ambito di altri procedimenti: v. DI CARLO Francesco, MARCHESE Giuseppe, F. sco MARINO MANNOIA; PENNINO Gioacchino, GANCI Calogero, ANZELMO Francesco Paolo, LANZALACO Salvatore, CANCEMI Salvatore, SINACORI Vincenzo, CUCUZZA Salvatore, PATTI Antonino, GIACALONE Salvatore. Ed ancora, le dichiarazioni dei collaboratori che sono stati escussi nell’ambito dell’attività integrativa d’indagine espletata dopo la presentazione della richiesta di rinvio a giudizio: ONORATO Francesco, BRUSCA Giovanni, BRUSCA Emanuele, SIINO Angelo, GRADO Vincenzo e ZANCA Salvatore (v. vol. 15 e 17).
3.3. L’apporto dei collaboratori di Giustizia e l’oggetto delle propalazioni accusatorie
Il tempo trascorso e il fatto che per ben due volte le indagini siano state archiviate sono la più eloquente dimostrazione dell’eccezionale difficoltà di imbastire un processo per questo delitto e di raccogliere elementi sufficienti per mandare a giudizio i suoi responsabili.
La matrice mafiosa del delitto – acclarata dopo che si sono rivelate infondate le piste alternative: quella del suicidio o dell’incidente sul lavoro di cui Giuseppe IMPASTATO sarebbe rimasto vittima mentre si accingeva a compiere un attentato dinamitardo; ma anche l’ipotesi del terrorismo di marca neo fascista – e la natura indiziaria delle prove a carico di chi sia accusato di essere il mandante di un omicidio – né potrebbero avere diversa natura, quando non ricorrano una chiamata diretta in correità o una spontanea confessione dell’accusato – spiegano solo in parte tale difficoltà.
Non v’è dubbio che, ancora una volta, un contributo decisivo è venuto dalle dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia, che hanno impresso un impulso decisivo alla (seconda) riapertura delle indagini, che sono poi sfociate nella richiesta di rinvio a giudizio congiuntamente avanzata il 27.05.97 nei confronti di Gaetano BADALAMENTI e di PALAZZOLO Vito.
In estrema sintesi, oltre, ovviamente, alle preziose rivelazioni su modalità e circostanze dell’omicidio, come pure sull’identità di mandanti ed esecutori materiali, dalle dichiarazioni dei collaboratori predetti si ricava una messe cospicua di spunti ed elementi di conoscenza utili o addirittura indispensabili al fine di accertare e ricostruire:
– il contesto mafioso in cui matura il progetto di uccidere Peppino IMPASTATO e la causale del delitto;
– la carriera e lo spessore criminale di Gaetano BADALAMENTI, con particolare riguardo al ruolo ricoperto negli organi di vertice dell’organizzazione Cosa Nostra; nonché le vicende che condussero alla sua espulsione dalla medesima organizzazione, la campagna di sterminio di tutti gli affiliati alla sua cosca, e la conseguente diaspora di quest’ultima, come capitolo specifico della c.d. seconda guerra di mafia, che giunse a mietere decine e decine di vittime anche a Cinisi e dintorni;
– vicende e composizione della famiglia mafiosa di Cinisi;
– posizione e ruolo specifico di Vito PALAZZOLO in seno alla medesima famiglia mafiosa.
In particolare, e senza nulla togliere al valore delle pregresse dichiarazioni di MUTOLO e CALDERONE, il primo a fornire elementi decisivi è stato Salvatore PALAZZOLO, che, oltretutto, resta a tutt’oggi l’unico collaboratore di Giustizia che proviene proprio dalle fila della famiglia mafiosa di Cinisi e segnatamente dalla schiera dei fedelissimi dell’anziano boss BADALAMENTI.
Le sue rivelazioni, che si sostanziano anche in una specifica e circostanziata chiamata in reità dell’odierno imputato basata su confidenze ricevute dallo stesso PALAZZOLO Vito, si compendiano con quelle dei predetti MUTOLO e CALDERONE; ma soprattutto hanno trovato puntuali riscontri nelle dichiarazioni di DI CARLO Francesco in ordine alla ricostruzione del contesto mafioso e dello specifico movente del delitto, per il quale il DI CARLO chiama in causa appunto la famiglia mafiosa di Cinisi nella sua interezza e in persona dei suoi principali e più autorevoli esponenti.
Su tale causale e sulla correlata responsabilità primaria (ma non esclusiva) di Gaetano BADALAMENTI sono poi sopraggiunte le rivelazioni di BRUSCA Giovanni, BRUSCA Emanuele, ONORATO Francesco e SIINO Angelo.
Più in generale, sulla statura criminale del BADALAMENTI, sul suo ruolo in seno al c.d. Triumvirato (prima) e alla Commissione (poi) di Cosa Nostra, come pure sulle vicende che portarono alla sua espulsione dall’organizzazione; ed ancora sulle ragioni della campagna di sterminio messa in atto contro il clan BADALAMENTI nel quadro della guerra di mafia, preziose informazioni sono state rese da Tommaso BUSCETTA, Francesco MARINO MANNOIA, GANCI Calogero, ANZELMO Francesco Paolo, PATTI Antonino, SINACORI Vincenzo e dai già citati DI CARLO, MUTOLO e CALDERONE.
A conferma poi delle specifiche indicazioni fornite da PALAZZOLO Salvatore in ordine al ruolo di PALAZZOLO Vito in seno alla famiglia mafiosa di Cinisi – e quindi anche ad indiretto riscontro delle accuse nei confronti dello stesso imputato per l’omicidio IMPASTATO – vanno ancora segnalate le dichiarazioni di MUTOLO, CALDERONE, CONTORNO e DI CARLO. Proprio sulla convergenza di tali dichiarazioni con quelle del collaboratore PALAZZOLO Salvatore si fonda sostanzialmente la condanna (passata in giudicato) dell’odierno imputato per il delitto di associazione mafiosa, emessa nell’ambito del c.d. “Maxi-quater”. (cfr. sentenza emessa dal Tribunale di Palermo il 21.12.1996, confermata in appello, salvo riduzione della pena ad anni sei, e divenuta irrevocabile il 17.12.99)
4. CRITERI DI VALUTAZIONE DELLA CHIAMATA IN CORREITÀ
L’importanza del ruolo dei collaboratori di Giustizia anche in questo processo rende opportuno richiamare i principi messi a fuoco da una più che consolidata giurisprudenza di legittimità in materia di valutazione dell’attendibilità della chiamata di correo.
. Come è noto, l’art. 192, co. 3° C.P.P. ha, da un lato, elevato al rango di elemento di prova la chiamata in (cor)reità, cioè la dichiarazione accusatoria proveniente dal correo o dall’imputato di reato connesso, riducendone la distanza rispetto alla prova testimoniale.
Ma, dall’altro, negandole una piena autosufficienza come mezzo dimostrativo dei fatti da provare, ha normativamente consacrato le remore e diffidenze che hanno sempre circondato questo tipo di prova, in ragione della particolare natura e condizione dell’autore della propalazione accusatoria: non foss’altro perché, anche a prescindere da qualsiasi riserva e valutazione in ordine alle sue qualità morali e all’eventuale persistenza di legami con ambienti criminali, si tratta pur sempre di un soggetto che non è giuridicamente obbligato a dire la verità.
E infatti, la chiamata in correità è un vero e proprio mezzo di prova e ne fanno fede, oltre alla collocazione sistematica, il dato testuale e l’implicita qualificazione insita nella locuzione “altri elementi di prova”, unitamente al dato logico-giuridico che emerge dal raffronto con i meri “indizi” di cui parla il secondo comma dello stesso art. 192.
Ma, al contempo, è un mezzo di prova che, per dispiegare la sua efficacia, necessita di “altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità”: con ciò ribadendosi che non può il giudice fondare il proprio convincimento in ordine alla colpevolezza dell’imputato solo sulla base di una chiamata in correità, senza il supporto di elementi confermativi .
La trama logico-testuale della norma stessa indica i termini essenziali della verifica che il giudice è chiamato ad effettuare e l’ordine logico delle questioni da affrontare, laddove stabilisce che le dichiarazioni incriminanti “sono valutate unitamente” ai riscontri; e a questi ultimi assegna la funzione di confermare l’attendibilità della prima.
Ecco perché, prima di procedere all’individuazione e conseguente vaglio dei riscontri, occorre anzitutto valutare quale grado di attendibilità la chiamata di correo abbia in sé, indipendentemente da eventuali conferme ab extrinseco.
Infatti, secondo il costante orientamento della Suprema Corte (v. per tutte Cass. S. U. 21/10/92, MARINO), ai fini di una corretta valutazione della chiamata in correità, il giudice deve in primo luogo sciogliere il problema della credibilità del dichiarante (confidente ed accusatore) in relazione, tra l’altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa nei confronti di coautori e complici; in secondo luogo deve verificare l’intrinseca consistenza e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; infine, egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni. L’esame del giudice deve essere compiuto seguendo l’indicato ordine logico perché non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli “altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità” se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sè, indipendentemente dagli elementi di verifica esterna ad essa (cfr. anche Cass. 29/10/96, TOTARO; Cass. 30/01/97, ARIENTI; Cass. 4/04/97, SERAFIN).
In particolare, per il primo dei profili di valutazione richiamati, deve tenersi presente che quando – ed è la regola – il chiamante è un collaboratore di Giustizia, tanto più se ammesso al programma di protezione, egli è, normalmente, autore di gravi reati e mira a fruire di misure premiali a compenso della collaborazione prestata. Ma né questa finalità, né le discutibili qualità morali della persona (posto che il fine utilitaristico della collaborazione esclude, salvo prova contraria, che tale scelta possa assurgere di per sé ad indice di resipiscenza o di metamorfosi morale) possono e debbono condizionare il giudizio sulla sua credibilità e sull’attendibilità delle sue dichiarazioni; dovendosi piuttosto far riferimento ad altri parametri, quali, oltre a quelli già ricordati, la persistenza nelle medesime dichiarazioni, la puntualità specifica nella descrizione dei fatti e delle persone coinvolte. (Cfr. Cass. 6/05/94, SICILIANO).
Ma soprattutto, contano “le ragioni che possono aver indotto alla collaborazione, dovendosi mettere in discussione l’attendibilità intrinseca ogniqualvolta la dichiarazione possa essere ispirata da sentimento di vendetta, dall’intento di copertura di complici o amici, dalla volontà di compiacere gli organi inquirenti, assecondandone l’indirizzo investigativo”. (Cfr. Cass. 1°/10/96, PAGANO).
Tra i requisiti essenziali dell’attendibilità intrinseca, oltre a spontaneità e genuinità, costanza e coerenza logica del racconto, figurano anche l’immediatezza e l’univocità delle dichiarazioni, unitamente all’assenza di contrasto con altre acquisizioni e di contraddizioni eclatanti o difficilmente superabili (v. Cass. Sez. VI 1°/06/94 n. 6422). E all’assenza tanto di suggestioni o condizionamenti da parte degli Inquirenti, quanto di velleità di protagonismi; nonché di un interesse diretto o personale all’accusa, con riferimento a motivi di oggettivo contrasto con il chiamato, o a sentimenti di rancore o inimicizia, o a disegni di vendetta e spirito di rivalsa.
Ne segue che particolarmente rigoroso deve essere il vaglio di attendibilità di una chiamata caratterizzata da una “progressione” delle accuse nei riguardi del medesimo chiamato, che diviene via via destinatario di nuove e più dettagliate rivelazioni.
È anche vero che, in proposito, il S. C. ha più volte statuito che “la confessione e la chiamata di correo possono, senza necessariamente divenire inattendibili, attuarsi in progressione e ispessirsi nel tempo, specialmente quando i nuovo dati forniti dal chiamante non risultino in netta contraddizione con quelli in precedenza offerti, ma ne costituiscano un completamento e un’integrazione” (cfr. Cass. 1°/02/94, GREGANTI; e cnf. Cass. 19/12/96, CIPOLLETTA).
S’intende, però, che in questa ipotesi il vaglio di attendibilità intrinseca passa attraverso un esame rigoroso dei diversi contesti in cui sono stati resi i vari segmenti della progressione accusatoria e delle ragioni che possono spiegare, in particolare, la mancata rivelazione, fin dalle prime dichiarazioni concernenti lo stesso fatto e/o il medesimo chiamato, di dati ed elementi essenziali del complessivo enunciato accusatorio.
Tanto più che “esiste una profonda differenza tra l’imputato occasionalmente chiamante in correità in un singolo processo e l’imputato che invece è chiamante in correità in base ad un rapporto contrattuale di collaborazione con lo Stato, che ha come contenuto essenziale l’obbligo di deporre su tutti i reati che siano a conoscenza del collaborante, indicandone i responsabili” (Ass. Catania, 12/05/95, SANTAPAOLA), o fornendo (subito) tutte le informazioni in suo possesso, utili ad identificarli.
Al contrario, costituiscono indici particolarmente probanti di attendibilità il confessato coinvolgimento personale del chiamante – che in questo caso ricopre allo stesso tempo il ruolo di accusante e confidente – nel medesimo fatto narrato: a maggior ragione se si tratta di reati dei quali non era neppure sospettato; ma, più in generale, quando narri di fatti caduti sotto la sua diretta percezione, ed il racconto sia ricco di dettagli che sono stati riscontrati nel corso delle indagini e che potevano essere noti solo a chi avesse preso parte ai fatti rievocati, o comunque ne avesse avuto percezione diretta. (In termini, Cass. 16/06/92 n. 6992; e Cass. Sez. VI, 19/01/96, n. 661) Ma va anche precisato che l’art. 192 menziona, quali autori delle dichiarazioni ivi disciplinate, il coimputato del medesimo reato in relazione al quale rende dichiarazione, senza distinzione tra l’ipotesi che di esso si riconosca colpevole oppure no, e la persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’art. 12. Sicché “la differenza tra dichiarazioni accusatorie che siano al tempo stesse pienamente confessorie e dichiarazioni prive di tale seconda valenza assume rilievo solo nell’ambito della valutazione della prova, riservata alla discrezionalità del giudice di merito” (così Cass. 16/01/95, CATTI).
È evidente poi che nell’ultima ipotesi menzionata, la valutazione sull’affidabilità della chiamata di correo tracima indistintamente dal versante interno della credibilità a quello sempre contiguo dell’attendibilità estrinseca.
Invece, nei riguardi della chiamata indiretta, o “de relato” si impone un controllo più rigoroso sia dell’attendibilità intrinseca che di quella estrinseca.
La chiamata in correità, invero, “può anche essere frutto di conoscenza indiretta, la quale appare possibile avuto riguardo da un lato, alla varietà delle posizioni soggettive(imputato o indagato per lo stesso reato, per reato connesso o per reato interprobatoriamente collegato), contemplate nei citati co. 3° e 4° dell’art. 192, dall’altro alla varietà delle forme che, in base al diritto sostanziale, può assumere il concorso di persone nel reato, non sempre implicante la conoscenza personale fra loro di tutti i concorrenti e la precisa diretta nozione, da parte di ciascuno di essi, dell’apporto concorsuale altrui in tutte le sue caratteristiche” (cfr. Cass. 10/05/93, ALGRANATI.
Considerazione che ben può estendersi ai processi di conoscenza e di circolazione delle informazioni interni ad un’organizzazione criminale di stampo mafioso, in quanto congenitamente caratterizzata dal vincolo dei suoi adepti ad osservare obblighi di segretezza e riserbo assoluto.
Nondimeno, l’affidabilità dell’accusa, in tal caso, deve essere valutata non solo con riferimento all’autore della dichiarazione “de relato”, ma anche in relazione alla sua fonte di cognizione, che sia anche la fonte originaria della propalazione accusatoria; e che spesso resta estranea al processo, con inevitabili refluenze sull’efficacia probatoria della stessa chiamata “de relato”.
L’autore della chiamata non è lo stesso dichiarante, che al reato oggetto della chiamata non partecipò, bensì colui che gli riferì il fatto.
Ne segue, in primo luogo, che, a differenza della chiamata diretta – che, sia pure con il conforto degli altri elementi di prova cui allude il terzo comma dell’art. 192 C.P.P., assurge essa stessa a fonte di prova – quella indiretta ha una valenza tipicamente indiziaria, nel senso che non è direttamente rappresentativa del fatto da provare. Per vagliare l’attendibilità dell’accusa che vi è contenuta, si richiedono quindi elementi di riscontro specifici e una concordanza con elementi oggettivi afferenti al fatto da provare tale da rendere quanto meno probabile la colpevolezza del chiamato. (Cfr. in termini, Cass. Sez. VI 9/09/96 e Cass. 12/03/98, BELLOCCO, secondo cui “quando la dichiarazione del chiamante si riferisce a circostanze non percepite da lui direttamente, non è sufficiente il controllo sulla sua mera attendibilità intrinseca, ma è necessario un più approfondito controllo del contenuto della dichiarazione, mediante la verifica, in particolare, della sussistenza di riscontri esterni individualizzanti”.).
Come tale, occorre più che mai acquisire elementi corroboranti dell’assunto, prima di prestare fede all’accusa, e non fermarsi all’accertamento dell’attendibilità intrinseca della fonte primaria. (V. Cass. 18/05/94, CLEMENTI).
Nel vagliare poi tale fonte, con riferimento all’accusa di partecipazione ad un’associazione criminale o ai delitti ascrivibili a detta associazione, assume un particolare rilievo la circostanza che la persona indicata dal chiamante “” come fonte di conoscenza dei fatti oggetto della propalazione accusatoria non solo appartenga a sua volta allo stesso sodalizio criminoso cui è riferibile il reato in oggetto; ma rivesta in esso una posizione di spicco, che ne comporti una sicura conoscenza delle azioni criminose intraprese dal gruppo e delle persone che vi partecipano. (Cass. 10/11/95, RAGNO).
In ogni caso, quale che sia l’oggetto dell’accusa ed il contenuto dell’imputazione, dovrà curarsi l’individuazione di adeguati riscontri esterni che diano contezza e certezza, quanto meno, delle seguenti circostanze: che il dichiarante sia stato effettivamente informato dei fatti dalla persona che ha indicato; che quest’ultima ne sia sta effettivamente testimone diretto o compartecipe; e infine, e soprattutto, che tali fatti siano effettivamente riferibili al chiamato in (cor)reità. (In termini, Cass. S. U. 21/04/95 COSTANTINO e Cass. 13/02/96, MINCIONE).
Si intende poi che un’indagine penetrante sull’attendibilità intrinseca del chiamante si impone solo se la chiamata in correità sia l’unico elemento di prova e gli altri elementi costituiscano soltanto un riscontro di tale attendibilità e non essi stessi, o per lo meno alcuni di essi, elementi di prova a carico dei chiamati. “Invero, allorché alla chiamata in correità si affiancano altri elementi probatori o indiziari che a loro volta dimostrano, anche se non compiutamente, le responsabilità dell’imputato, non entra in gioco la regola di cui all’art. 192, co. 3°, bensì le regole generali in tema di pluralità di prove e di libera valutazione di esse da parte del giudice” (Cfr. Cass. 28/02/94, BADIOLI).
4.2. Ultimata la verifica relativa all’attendibilità intrinseca, ancorché con esito del tutto soddisfacente, deve ugualmente passarsi all’esame dei riscontri convalidanti, in difetto dei quali quell’esito non sarebbe comunque idoneo a fondare un giudizio certo e definitivo di attendibilità.
Ed invero, l’apparente spontaneità delle dichiarazioni e la precisione e puntualità nella ricostruzione dei fatti, come pure la costanza e coerenza logica del racconto e la simultanea presenza di tutti gli altri indici di affidabilità della dichiarazione incriminante non escludono, di per sé, che questa possa essere ordita e accuratamente congegnata a fini calunniatori o comunque di manipolazione della verità dei fatti. Oppure, che sia frutto di involontaria confusione e sovrapposizione di ricordi.
Di contro, la parziale discordanza tra versioni dello stesso fatto in tempi diversi, le imprecisioni e anche contraddizioni non eclatanti potrebbero trovare una congrua giustificazione nelle particolari circostanze in cui si sono verificate e in momentanei offuscamenti della memoria o turbamenti emotivi e persino nell’incapacità, anche per carenze culturali ed espressive, di offrire una ricostruzione dei fatti il cui nesso logico sia di chiara e immediata percezione.
D’altra parte, una volta verificata l’attendibilità intrinseca del chiamante in correità, cioè la sua credibilità, non si può pervenire omisso medio all’esame dei riscontri esterni, occorrendo che il giudice verifichi se quella singola dichiarazione, resa da soggetto attendibile, sia a sua volta attendibile. Trattasi di procedimento ineludibile, perché se l’attendibilità della dichiarazione venisse riferita al solo riscontro, senza il passaggio ad una verifica di attendibilità intrinseca, si finirebbe per fare del riscontro la vera prova da riscontrare, così indebolendo consistentemente la valenza dimostrativa delle dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 192, co. 3°. (Così Cass. 31/01/96, ALLERUZZO)
Deve essere chiaro invece che tra i due piani di valutazione – verifica dell’attendibilità intrinseca e vaglio dei riscontri esterni – intercorre un nesso di priorità logica e non di subordinazione, giacché il ricorso alla seconda non è rigidamente condizionato all’esito (positivo) della prima. È vero piuttosto che entrambe vanno operate in modo da bilanciare tra loro le diverse componenti valutative per giungere ad un giudizio di sintesi mirato all’accertamento della verità dei fatti e della fondatezza (o meno) dell’accusa, attraverso una valutazione unitaria di tutti gli elementi di prova.
Non sarebbe corretto quindi, ricavare da un esito incerto o contraddittorio dell’esame relativo all’attendibilità intrinseca un’aprioristica efficacia preclusiva del confronto con ulteriori elementi, proprio perché il contestuale apprezzamento dell’attendibilità estrinseca potrebbe evidenziare elementi di conferma in grado di bilanciare il non felice esito del primo approccio. (Cfr. Cass. Sez. I, 30/01/92 n. 80).
È anche vero però che gli “altri elementi di prova”, necessari per corroborare l’efficacia probatoria della dichiarazione incriminante, debbono essere tanto più consistenti quanto più incerto e malfermo sia risultato l’esito dell’indagine sui profili di attendibilità intrinseca: e viceversa. (Cass. Sez. V, 22/01/97, BOMPRESSI).
Al riscontro estrinseco, peraltro, non si richiede la natura e tanto meno la consistenza di prova sufficiente a dimostrare la colpevolezza, chè altrimenti non vi sarebbe bisogno delle accuse del chiamante e la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 192 C.P.P. sarebbe del tutto inutile.
Occorre invece che chiamata di correo e riscontro estrinseco si integrino reciprocamente, formando oggetto di un giudizio complessivo e unitario (cfr. Cass. 28/11/94, BELLAGAMBA). E da ciò anche la possibilità di inferire l’attendibilità della chiamata anche da elementi di indole logico-deduttiva, come una ritrattazione inattendibile (Cass. Sez. VI, 13/02/95 n. 1493 e Cass. Sez. VI, 1/06/94 n. 6422).
L’art. 192 cit. non autorizza preclusioni nè contiene alcuna predeterminazione, quanto alla natura e specie degli elementi suscettibili di costituire riscontri idonei a confermare l’attendibilità della chiamata in correità. (Cfr. già Cass. S. U. 13/02/90, BELLI; e Cass. Sez. I, 24/07/92, BONO).
Anzi, deve precisarsi che la locuzione “altri elementi di prova” non va intesa nel senso che occorra la presenza di una effettiva pluralità di riscontri, ben potendo il giudice formare il suo libero convincimento anche su di un solo elemento di prova che valga a corroborare adeguatamente la chiamata di correo. (Il termine “altri” sta per ulteriori e diversi, intendendosi solo che l’elemento confermativo deve desumersi da un dato processuale esterno alla chiamata, il quale, senza necessariamente investire in modo diretto il thema probandum, valga tuttavia a confermare l’attendibilità della chiamata, dopo che questa sia stata già verificata nella sua affidabilità intrinseca.).
A titolo meramente esemplificativo, data l’estrema varietà dei riscontri possibili, basterà ricordare che la giurisprudenza vi annovera il riconoscimento fotografico, gli accertamenti di PG., la riscontrata corrispondenza in ordine ai luoghi indicati e descritti dal dichiarante, l’esito di pedinamenti o sequestri e perquisizioni, ed ancora, i legami tra il dichiarante ed altri soggetti facenti parte di un medesimo sodalizio criminoso; l’accertata disponibilità da parte del chiamato di immobili, autovetture o altri mezzi impiegati per la consumazione di reati ecc.
Ma vale ribadire che i riscontri oggettivi non sono necessariamente costituiti da elementi che forniscano già in sé la prova autonoma del fatto, ché altrimenti si verrebbe a negare in radice il valore probatorio di tale dichiarazioni, le quali invece appaiono strutturalmente assimilabili alla prova diretta. Soprattutto non sarebbe di alcuna utilità la ricerca di un riscontro alla attendibilità della chiamata di correo, nè avrebbe senso, sul piano normativo, porre il problema di una verifica di tale attendibilità.
E difatti una costante giurisprudenza del S.C. insegna che i cosiddetti riscontri estrinseci possono consistere in dati obiettivi ed elementi indiziari di qualsivoglia tipo e natura, purché, complessivamente considerati e valutati, risultino idonei ad avvalorare l’attendibilità dell’accusa.
Da ciò la possibilità di meri riscontri logici, costituiti cioè dalla congruenza logica di fatti e circostanze in relazione al contenuto delle accuse ed al contesto in cui si inscrive lo specifico addebito. (Nè occorre che il riscontro concerna direttamente il thema decidendum, poichè esso rileva solo al fine di confermare ab extrinseco l’attendibilità della chiamata. Basta quindi che inerisca a fatti che riguardano direttamente la persona dell’accusato in relazione allo specifico fatto che gli viene addebitato: Cass. Sez. I, 19 febbraio 1990 PESCE).
Così il comportamento del chiamato, ancorché successivo al fatto reato, valutato nel contesto di tutte le risultanze probatorie e congruamente apprezzato, può costituire un valido riscontro (Cfr. Cass. 26/03/92, PELLEGRINI).
E l’acclarata falsità dell’alibi difensivo, che in sé considerato è un mero indizio a carico, inidoneo – in applicazione della regola di giudizio di cui al co. 2° dell’art. 192 a fondare un giudizio di colpevolezza – costituisce tuttavia un riscontro munito di elevata valenza dimostrativa dell’attendibilità delle dichiarazioni del chiamante (Cfr. Cass. 22/03/96, ARENA)
Il fatto poi che, ad evitare qualsiasi rischio di circolarità della prova, l’elemento di riscontro debba avere un contenuto e soprattutto un’origine autonoma ed indipendente rispetto alla dichiarazione accusatrice di cui deve verificare l’attendibilità, non significa che esso debba necessariamente consistere in un dato oggettivo come le risultanze di una perizia o un documento ecc.
Al contrario, il riscontro può anche consistere in un elemento in sè soggettivo, purché di significato univoco.
In tale prospettiva, natura di riscontro addirittura privilegiato deve riconoscersi alla confessione di uno o più dei chiamati, alla cui efficacia confermativa difficilmente si sottraggono anche le dichiarazioni riguardanti chi si trovi nella medesima posizione dell’imputato reo confesso (cfr. in termini, Cass. Sez. I, 6 febbraio 1992 BARALDI).
Analoga efficacia dimostrativa può riconoscersi alle dichiarazioni del soggetto destinatario dell’altrui chiamata di correo le quali, pur senza assumere valenza confessoria, offrano elementi anche soltanto parziali, ma adeguati e convincenti, di conferma della chiamata detta. (Cfr. Cass. 23/03/94, MESSINA).
Come pure deve qualificarsi riscontro alle dichiarazioni di un coimputato – o di un imputato di reato connesso – rilevante ai sensi dell’art. 192, co. 3° C.P.P., una testimonianza che abbia per oggetto circostanze attinenti al reato, riferite spontaneamente in prossimità temporale al fatto dall’imputato medesimo al teste, o ad un terzo alla presenza del teste stesso (Cass. 22/06/93, RHO).
E in qualche caso riscontri idonei possono essere persino dichiarazioni che promanano dallo stesso chiamante: per esempio, dichiarazioni accusatorie dello stesso tenore di quelle poi ribadite in sede giurisdizionale, ma che il chiamante abbia reso al di fuori e prima del procedimento. (In tal caso, proprio perché esterne al procedimento quelle dichiarazioni, sebbene provenienti dalla stessa fonte, possono essere qualificate come elementi di prova diversi dalla chiamata in correità; mentre il fatto che siano antecedenti all’inizio del procedimento e rese in un momento in cui l’insorgenza del procedimento non era neppure prevedibile, esclude il vizio di circolarità della prova)
Ma i riscontri estrinseci ben possono essere costituiti da altre dichiarazioni di coimputati o imputati in procedimenti connessi (cosiddette “dichiarazioni incrociate”) sempreché ne sia stata vagliata la credibilità intrinseca e accertata la reciproca indipendenza in modo da escludere che le rispettive dichiarazioni possano essere state concertate o promanino da una stessa fonte di affermazione.
Non è invece necessario che la seconda o comunque le ulteriori chiamate in correità a riscontro della prima siano a loro volta supportate da riscontri oggettivi, se non che per quel tanto che appaia indispensabile a scongiurare il rischio della circolarità della prova. Ma al tal fine è sufficiente che ad una rigorosa verifica dell’attendibilità intrinseca della chiamata si aggiunga il riscontro di circostanze obiettive afferenti, se non alla specifica posizione del chiamato in correità, al contesto dei fatti e delle vicende in cui si inscrivono le accuse nei suoi confronti.
Sul punto, il S. C. ha anzi ribadito il più drastico principio secondo cui quando il riscontro consiste in altra chiamata di correo (ed una volta acclarata l’intrinseca attendibilità delle rispettive dichiarazioni) non è necessario che questa sia convalidata da ulteriori elementi esterni giacché, in tal caso, si avrebbe la prova desiderata e non sarebbe necessaria alcuna altra operazione di comparazione o verifica (cfr. Cass. Sez. I n. 80/92).
Pretendere infatti l’auto-sufficienza probatoria del riscontro equivarrebbe a rendere ultronea la chiamata di correo. È vero invece che, nell’ipotesi di più chiamate in correità “ognuna di tali chiamate mantiene il proprio carattere indiziario e dove siano convergenti verso lo stesso significato probatorio, ciascuna conferisce all’altra quell’apporto esterno di sinergia indiziaria, la quale partecipa alla verifica sulla attendibilità estrinseca della fonte di prova” (cfr. Cass. Sez. I, 1°agosto 1991 nr. 8471).
L’attenzione si concentra allora sui parametri e criteri di valutazione della reciproca attendibilità di più chiamate di correo nel senso delle effettive idoneità di ciascuna di esse a corroborare l’efficace probatoria delle altre.
Al riguardo, condizione minima necessaria è, ovviamente, la convergenza sostanziale, che assume tanto più rilievo quanto più circostanziato e ricco di contenuti descrittivi è il racconto in cui si inseriscono le rispettive dichiarazioni.
Non per questo si richiede sempre una totale e perfetta sovrapponibilità dei racconti, la quale anzi potrebbe costituire fonte e motivo di sospetto. Necessaria è solo la concordanza sugli elementi decisivi del e sul nucleo fondamentale dei fatti riferiti, nonchè sull’identità del destinatario della chiamata; mentre eventuali smagliature e discordanze, anche sostanziali, non inficiano la sostanziale affidabilità delle dichiarazioni quando possano trovare plausibile spiegazione in ragione diverse da quelle del mendacio di uno o più fra i dichiaranti e, entro certi limiti, possono persino costituire indice di reciproca autonomia delle varie propalazioni, in quanto fisiologicamente compatibili con quel margine di disarmonia normalmente presente nel raccordo tra più elementi rappresentativi, che promanino da fonti diverse. (In termini, Cass. Sez. I, n. 80/92 cit. ; Cass. Sez. I, 31/05/95, n. 2328).
Ma oltre a questo dato obiettivo della (sostanziale convergenza e concordanza) debbono tenersi in debito conto la contestualità congiunta alla reciproca autonomia delle dichiarazioni e delle fonti da cui promanano le informazioni su cui esse si fondano; e, più in generale, tutti quegli elementi idonei ad escludere fraudolente concertazioni ed a conferire a ciascuna chiamata i rassicuranti connotati della reciproca autonomia, indipendenza ed originalità.
Anche qui va però precisato che non possono ritenersi aprioristicamente inattendibili le dichiarazioni di quei collaboratori di Giustizia che, in relazione al tempo del loro contributo conoscitivo, possano già essere a conoscenza di quelle di altri, rese pubbliche nel corso dei dibattimenti: soprattutto quando nelle successive siano comunque ravvisabili elementi di novità e originalità e, comunque, in assenza di altri e comprovati elementi che depongano per un recepimento delle dichiarazioni anteriori al fine di manipolare quelle successive.
Di conseguenza, neppure l’accertata conoscenza delle prime propalazioni osta di per sè ad una valutazione positiva dell’originalità di quelle successive, ancorché di contenuto per lo più conforme, la cui autonoma provenienza dal bagaglio proprio del dichiarante può essere accertata in vario modo, non escluso il rilievo di ordine logico concernente il pari radicamento dei due propalanti nella medesima realtà criminale mafiosa, con la connessa possibilità di conoscenza di prima mano (cfr. Cass. Sez. I, 80/1992 cit. e Cass. 4108/96 cit.).
In conclusione, affinché la chiamata di correo possa essere utilizzata quale prova ai fini della decisione di merito, è necessario, ai sensi dell’art. 192, co. 3°, che essa sia suffragata da un elemento di riscontro esterno: deve rinvenirsi cioè un elemento di qualsiasi tipo, sia materiale che logico, fattuale o dichiarativo, ma comunque distinto e autonomo rispetto alla dichiarazione da riscontrare, da cui possa trarsi il convincimento dell’esattezza del riferimento del fatto delittuoso alla persona dell’imputato (cfr. Cass. 15/11/96, LOCOROTONDO).
Gli elementi di riscontro, peraltro, non devono necessariamente essere oggettivi, relativi ed esterni alla singola chiamata, potendo anche consistere in altre chiamate in correità, nonché in tutti i possibili elementi, corrispondenti a fatti, situazioni collegamenti e relazioni (spaziali o temporali) che comunque consentano di rapportare, sotto il profilo causale e secondo un criterio razionale, l’accadimento delittuoso al comportamento oggettivo dell’accusato (cfr. Cass. 5/04/93, PULLARÀ).
Ma è anche vero che, per poter assolvere alla loro funzione- che è pur sempre quella di verificare la fondatezza di un’accusa promanante da un soggetto che riveste la qualità indicata dall’art. 210 C.P.P. – i riscontri debbono avere una loro intrinseca rilevanza rispetto al contenuto dell’accusa stessa. (Cfr. Cass. 9/02/96, SARAJLIC).
Più precisamente, requisiti necessari e imprescindibili per l’utilizzabilità di un dato oggettivo o anche dichiarativo come riscontro estrinseco – cioè come elemento confermativo dell’attendibilità delle accuse formulate dal correo o imputato di reato connesso – sono la certezza, l’univocità e la specificità.
A) La certezza: nel senso che deve trattarsi di un elemento (esterno) sicuro quanto al suo accadimento o alla sua sussistenza; e a tal fine esso deve essere altresì autonomo rispetto alla chiamata, e va accertato anche nella sua correlazione logica con la dichiarazione accusatoria in modo da rafforzarne l’attendibilità.
B) L’univocità: nel senso che deve essere univocamente interpretabile come conferma dell’accusa. Sotto questo profilo, l’elemento assunto come riscontro non deve presentare alcun nota di ambiguità, che sia risolvibile solo utilizzando come sostegno proprio il dato probatorio- la stessa chiamata in correità – da riscontrare.
Infatti, “la necessità che la chiamata in correità sia confortata da elementi esterni rifiuta ogni ragionamento circolare e tautologico” (cfr. Cass. 8/01/96, CASTIGLIA. E non è superfluo rammentare che, nella specie, la S. C. ha ritenuto viziata da manifesta illogicità la motivazione di un provvedimento cautelare che aveva utilizzato come riscontro la dichiarazione resa da un imputato di reato connesso, interpretata univocamente soltanto con il sostegno della chiamata di correità da riscontrare).
C) La specificità: nel senso della inerenza a fatti e circostanze anche marginali, ma comunque significativi rispetto al contenuto delle dichiarazioni e all’oggetto dell’accusa da riscontrare.
“Così non è, quando l’elemento che si pretende di addurre a riscontro si risolva in circostanze generiche, qual è l’asserita appartenenza dell’accusato ad un gruppo o ad una categoria di persone, o l’indicazione derivante da una causale tutta mutuata dalla dichiarazione stessa e non verificata aliunde; o ancora, promanante dalla situazione contestuale in cui il fatto si è verificato, e/o da legami di amicizia, di costituzione delinquenziale e interesse che in un certo momento possano aver legato tra loro taluni degli imputati” (cfr. Cass. 16/10/90, ANDRAOUS e cnf. Cass. 30/01/97, ARIENTI).
Peraltro, il connotato della specificità implica soltanto che i detti elementi(di riscontro) siano ricollegabili al fatto e al soggetto che di quel fatto viene indicato come colpevole, ma non anche che siffatto collegamento abbia carattere di esclusività, nel senso cioè che non sia astrattamente ipotizzabile anche con riguardo ad altri fatti o ad altri soggetti (cfr. CASS. 10/05/93, ALGRANTI. Nella specie, la S. C. ha ritenuto che la partecipazione autonomamente accertata di taluno ad un sodalizio criminoso dedito alla commissione di un determinato genere di delitti, potesse costituire un elemento di riscontro sufficientemente specifico alle dichiarazioni accusatorie di chi, facendo o avendo fatto parte del medesimo sodalizio, indicasse, in modo oggettivamente credibile, quello stesso soggetto come direttamente responsabile di uno o più tra i delitti anzidetti, che risultavano effettivamente commessi.).
La giurisprudenza prevalente esclude poi che possano valere come riscontri esterni tutti quei dati come la spontaneità della dichiarazione, la sua coerenza logica, la sua costanza e fermezza, il carattere disinteressato e l’assenza di un movente calunnioso: tutti fattori che, essendo solo degli attributi della chiamata di correo, rilevano unicamente ai fini del giudizio sulla sua affidabilità intrinseca.
“Ma neppure valgono come riscontri obbiettivi la ricchezza dei dettagli riferiti dal dichiarante, in ordine ai rapporti di parentele e di conoscenza o di affari del chiamato; alla sua eventuale attività lavorativa e alle condizioni di vita personali e familiari; o la circostanza che il chiamato in correità appartenesse all’ambito di conoscenze del dichiarante e al suo stesso ambiente delinquenziale” (cfr. Cass. 19/02/93, FEDELE). Anche questi elementi, in quanto ne attestano la conoscenza della persona del chiamato, depongono semmai per l’attendibilità intrinseca del dichiarante.
4.3. Ma soprattutto, qualsiasi natura ed oggetto abbiano, gli elementi di riscontro debbono la loro efficacia confermativa alla valenza individualizzante. E, in particolare, non basta un riscontro generalizzato, ancorché effettivo: è necessario che ognuno dei fatti denunciati, e altresì la partecipazione ad essi di ognuna delle persone accusate, risultino adeguatamente confermate in motivazione, poiché la veridicità accertata riguardo ad uno o più punti non si estende necessariamente a tutti gli altri. (Cfr. già CASS. 24/10/90, FRANZA).
Da ciò il principio di SCINDIBILITÀ o FRAZIONABILITÀ della chiamata di correo, quando più siano le accuse o i destinatari della singola propalazione accusatoria: “La conferma dell’attendibilità delle chiamate di correo, ad opera dell’elemento di riscontro, si limita alle sole parti coinvolte, senza automatiche estensioni alle altre parti della dichiarazione di correità: ne consegue che non può inferirsi dalla provata attendibilità di un singolo elemento, la sua comunicabilità per traslazione all’intero racconto, ma ogni parte di questo deve essere oggetto di verifica, residuando dunque l’inefficacia delle parti non comprovate o addirittura smentite, con esclusione di reciproche inferenze totalizzanti”. (Cfr. Cass. 30/01/92, ABBATE cit. e cnf. anche Cass. 25/10/94, SOLDANO).
In realtà, il rigoroso indirizzo interpretativo sopra riportato riferisce e limita la necessità del riscontro individualizzante al singolo enunciato accusatorio, specificando che gli elementi di conferma dell’attendibilità delle dichiarazioni rese dal coimputato o da persona imputata in un procedimento connesso – abbiano esse natura accusatoria nei confronti del giudicabile, ovvero siano a lui favorevoli – debbono vertere “non solo sul dato oggettivo della sussistenza del fatto con le modalità ipotizzate dall’accusa, ma anche sulla persona a cui esse si riferiscono. (Cfr. Cass. 22/03/96, ARENA. E in termini già Cass. 13/04/92, TOMASELLI: “Tenuto conto della ratio legis, si deve ritenere che gli elementi che confermano l’attendibilità delle dichiarazioni devono riguardare non soltanto il fatto storico che costituisce oggetto dell’imputazione, ma anche la sua riferibilità all’imputato”.).
Ma questo non significa che oggetto di riscontro debbano essere tutti i fatti e le circostanze di cui il dichiarante abbia riferito, ovvero ciascuna dichiarazione in ogni sua parte, giacché resta fermo il principio che “gli elementi di conferma debbono essere idonei a costituire verifica dell’attendibilità del dichiarante, più che costituire prova diretta dei fatti dichiarati” (Cass. 9/03/90, FURLANETTO).
In altri termini, gli “altri elementi di prova” che il giudice deve valutare unitamente alle dichiarazioni del coimputato, non devono valere a provare il fatto-reato e la responsabilità dell’imputato, perché in tal caso la suddetta disposizione sarebbe del tutto pleonastica. La funzione processuale dei medesimi è semplicemente quella di confermare, come d’altro canto emerge dalla lettera della norma, l’attendibilità delle dichiarazioni in questione. Una conferma, però, che si richiede “in relazione allo specifico fatto da provare, che costituisce il contenuto delle dichiarazioni accusatorie” (Cass. 20/12/93, BALZARETTI).
Ne segue che i detti elementi confermativi possono riguardare anche circostanze marginali del fatto investigato, purché corroborativi dell’attendibilità delle dette dichiarazioni, cosicché, valutati congiuntamente a queste ultime, diano una prova piena del fatto della partecipazione o meno ad essa della persona cui il dichiarante si è riferito (Cass. 19/02/93, FEDELE).
Quanto all’idoneità dei riscontri esterni a confermare l’attendibilità dell’accusa, essi possono essere, come già detto, di qualsiasi natura e specie, tenendo presente che “oggetto della valutazione di attendibilità da riscontrare è la complessiva dichiarazione concernente un determinato episodio criminoso in tutte le sue componenti oggettive e subbiettive, e non ciascuno dei particolari riferiti dal dichiarante”. (Cass. 1°/04/92, BRUNO; e cfr. Cass. 13/03/97, LEUCI).
In particolare, quando le propalazioni accusatorie “riguardino un’unica posizione o siano comunque valutate con riguardo ad un’unica posizione, l’esigenza degli elementi di riscontro atti a corroborarle non deve necessariamente estendersi a tutte le proposizioni in cui dette dichiarazioni si articolano, essendo al contrario sufficiente che sia riscontrata anche una soltanto di esse, purché dotata, sempre nell’ambito della posizione interessata, di adeguata significanza” (Cass. 10/05/93, ALGRANATI).
D’altra parte è innegabile che “qualora le dichiarazioni accusatorie rese da soggetto compreso tra quelli indicati nei commi 3° e 4° dell’art. 192 risultino positivamente riscontrate con riguardo al fatto nella sua obbiettività, ciò, rafforzando l’attendibilità intrinseca del dichiarante, non può non proiettarsi in senso favorevole sull’ulteriore riscontro da effettuare in ordine al contenuto individualizzante di dette dichiarazioni, nel senso di un meno rigoroso impegno dimostrativo” (Cass. 30/01/92, ALTADONNA).
Ma le precisazioni e i distinguo suesposti non fanno venire meno, né contraddicono la necessità dei riscontri cosiddetti “individualizzanti”, che si riconnette a sua volta al principio parimenti richiamato della SCINDIBILITA’ o FRAZIONABILITA’ della chiamata di correo.
È vero infatti che l’art. 192, co. 3° non richiede che gli elementi confermativi della dichiarazione accusatoria forniscano una dimostrazione autonoma dei fatti oggetto dell’accusa; e tuttavia, in aggiunta alle considerazioni che precedono e in applicazione dei principi ivi richiamati, deve ribadirsi che “non può essere considerato sufficiente a fornire la conferma dell’attendibilità delle dichiarazioni rese dal coimputato il fatto che questi abbia accusato più persone e che per taluna di queste il giudice abbia potuto utilmente effettuare l’operazione richiesta dalla legge processuale, posto che le condizioni su accennate devono verificarsi nei confronti di ciascun accusato” (Cass. 30/04/90, LUCCHESE).
Più esattamente, i riscontri oggettivi ed esterni alla chiamata in correità devono specificamente riguardare il singolo accusato e ciascun fatto a lui ascritto. Di conseguenza non può essere accolto il criterio della c.d. efficacia traslativa interna della chiamata in correità, secondo cui nel caso di una chiamata in correità concernente più fatti, essa può costituire prova anche riguardo a fatti privi di specifico riscontro, qualora l’esistenza di riscontri relativi a taluni dei fatti sia tale da condurre ad un giudizio di sintesi di complessiva attendibilità del dichiarante”. (Cass. 1°/10/96, PAGANO).
Al contrario, la disposizione di cui all’art. 192, co. 3° deve essere intesa, qualora più siano i fatti dedotti nell’imputazione e più le persone chiamate a risponderne, nel senso che ciascuna delle dichiarazioni attinenti a tutti o alcuni di essi deve essere confermata ab extrinseco, non essendo sufficiente, ai fini della loro piena valenza probatoria, che esse trovino solo un conforto esterno di carattere generale; e ciò sia perché a più temi di conoscenza corrispondono, quanto a contenuto, più dichiarazioni, ognuna delle quali necessita quindi di riscontri” (non potendo gli elementi confermativi dal singolo enunciato ripercuotersi congetturalmente nei confronti di altre accuse, o della stessa accusa ma nei confronti di un altro chiamato, a pena di incorrere in una palese violazione del criterio di valutazione delle prove a norma del 3° e 4° comma dell’art. 192: cfr. (Cass. 30/10/92, GESSO); “sia perché è principio tradizionale quello della scindibilità delle dichiarazioni per tutti i tipi di prova rappresentativa, tra cui la testimonianza, costituendo dato di comune esperienza la possibilità di veridicità di una parte del dichiarato e di falsità, volontaria o meno, di un’altra” ((Cass. 22/03/96, ARENA).
E a tutto concedere, “se nell’ambito della stessa dichiarazione contenente più accuse nei confronti della stessa persona può non ritenersi necessario un riscontro individualizzante per ogni singolo fatto – in considerazione che in forza di una valutazione complessiva e in mancanza di elementi contrari, può legittimamente ritenersi che l’autore di un determinato delitto possa essere anche l’autore di delitti della stessa specie, commessi dallo stesso soggetto in contesti analoghi – non può invece mai utilizzarsi il riscontro positivo che riguarda una determinata persona quale riscontro nei confronti di persona diversa” ((Cass. 1°/03/96, PIZZATA).
Peraltro, il principio di scindibilità e la conseguente necessità di verifica non solo della credibilità generale del dichiarante ma anche di ciascuna delle sue dichiarazioni, “costituiscono canoni di valutazione che operano sia nel senso favorevole all’imputato, sia nel senso opposto, favorevole all’accusa, ond’è che se l’esistenza di riscontri relativi ad un reato ed al suo autore non rileva nelle valutazioni di merito riguardanti altri reati ed altri soggetti, la mancanza di dati confermativi per un’imputazione e un imputato non si riverbera su altri fatti ed altri soggetti per i quali la chiamata in correità o in reità risulti confortata aliunde” ((Cass. 22/03/96, ARENA cit.).
Inoltre, il principio di frazionabilità investe la valutazione complessiva della dichiarazione incriminante, ivi compresi i profili di attendibilità intrinseca: “nel senso che l’attendibilità della dichiarazione accusatoria, anche se denegata per una parte del racconto, non ne coinvolge necessariamente tutte le altre, che reggono alla verifica giudiziale del riscontro; così come, per altro verso, la credibilità ammessa per una parte dell’accusa non può significare attendibilità per l’intera narrazione in modo automatico” ((Cass. 2/11/94, AVETA).
E proprio sul piano dell’attendibilità intrinseca è ben possibile un giudizio diversificato sulle varie propalazioni accusatorie dello stesso chiamante in correità (o in reità), pur restando fermo un apprezzamento positivo sulla sua credibilità complessiva: “soprattutto quando i fatti narrati siano in gran parte vicini nel tempo e si riferiscano ad una serie di episodi talora appresi non direttamente, ma solo in conseguenza delle rivelazioni degli autori materiali degli specifici reati” ((Cass. 31/01/96, ALLERUZZO).
5. -LE RESPONSABILITA’ INDIVIDUALI PER L’OMICIDIO IMPASTATO E LE RELATIVE FONTI DI PROVA
5.1. Il contesto indiziario
1. .
Prima di esaminare nel merito le propalazioni accusatorie dei collaboratori di Giustizia, che più specificamente afferiscono alla posizione dell’odierno imputato, va rilevato che gli elementi raccolti già alla data della prima archiviazione delle indagini sull’omicidio IMPASTATO consentono di andare ben oltre la conclusione interlocutoria alla quale si arrestava la citata sentenza CAPONNETTO, se letti e debitamente ri-valutati alla luce delle ulteriori risultanze che sono state acquisite sia sulla vicenda personale di Giuseppe IMPASTATO – grazie a nuove rivelazioni dei suoi prossimi congiunti – sia sulle dinamiche criminali in atto e le vicende interne alla famiglia mafiosa di Cinisi all’epoca dell’omicidio. Le une e le altre ricostruite con l’apporto delle convergenti dichiarazioni di numerosi collaboranti, tutti ex affiliati a Cosa Nostra (e taluno anche assurto a cariche di rilievo) e che provengono dalle fila di altre famiglie mafiose che stretti rapporti avevano con quella di Cinisi o con singoli suoi esponenti.
In particolare, acclarato che di omicidio si è trattato, le stesse modalità e circostanze del fatto rivelano la mano di un gruppo criminale ben organizzato, e profondamente radicato nel territorio.
L’uccisione di IMPASTATO, invero, non è stato certo frutto di un’iniziativa estemporanea. Essa ha richiesto un piano lungamente premeditato e articolato in una sequenza di azioni per le quali deve essere stato previamente approntato un cospicuo compendio di uomini e mezzi e che solo un gruppo ben organizzato poteva ordire ed attuare con così fredda determinazione e spietata efficienza. La vittima è stata sequestrata in pieno centro abitato e, verosimilmente, nei pressi della sua abitazione, sia pure al calar della sera. E poi condotta nel luogo in cui ha trovato la morte.
Ma considerato che per l’ultima volta è stato visto mentre lasciava il Bar della MANIACI intorno alle 20. 45; e che il momento in cui esplose l’ordigno che ne fece a pezzi il corpo può collocarsi approssimativamente tra le 0.15 e le 01.15, avuto riguardo all’orario di transito dei convogli ferroviari che quella notte passarono dal punto interessato dallo scoppio (cfr. atti allegati all’ispezione della Direzione Compartimentale delle FF. SS.); deve concludersi per almeno tre o quattro ore l’IMPASTATO è rimasto ostaggio dei suoi assassini, o quanto meno il suo corpo è stato tenuto nascosto in un luogo sicuro (forse proprio il famoso casolare dinanzi al quale venne ritrovata la sua auto), benché fosse prevedibile che, non facendo ritorno né a casa né alla sede della Radio- doveva aveva trascorso tutto il pomeriggio e dove in effetti era atteso per un’importante riunione politica – egli sarebbe stato cercato dai suoi familiari o dai suoi compagni e amici, come è puntualmente avvenuto. Ossia da persone che, per essere del luogo, conoscevano bene i dintorni ed anche possibili siti delle campagne circostanti.
Si aggiunga poi che anche il luogo in cui piazzare l’esplosivo è stato scelto con cura: un punto in cui la linea ferrata compiva una larga curva, (ciò che avrebbe potuto provocare il deragliamento di un treno che fosse passato al momento dello scoppio, come evidenziato nella relazione dell’Ispettore delle FF. SS.), in aperta campagna (anche se a circa 500 metri da un casello custodito) ma facilmente accessibile attraverso un viottolo che conduceva fino al casolare da cui si dipartiva una stradella carrabile.
Focalizzando gli ultimi movimenti noti dell’IMPASTATO possiamo ancora rilevare quanto segue.
Egli è stato visto per l’ultima volta, come già rammentato, mentre lasciava il Bar della MANIACI intorno alle 20. 45, dopo che vi si era trattenuto il tempo di sorseggiare un whisky. Da quel momento se ne perdono le tracce. Possiamo solo supporre, sulla base degli impegni già assunti dall’IMPASTATO per quella stessa sera, che, dopo aver lasciato il Bar, egli si accingesse a passare da casa per la cena con i parenti americani, oppure avesse deciso di rientrare alla Radio dove era atteso per l’assemblea già fissata per le 21.00.
In ogni caso è certo che gli assassini hanno atteso un momento e un’occasione particolarmente propizi per entrare in azione, riuscendo a sorprendere la vittima mentre era solo, e, forse, in uno dei rari momenti di rilassamento al termine di una giornata che era stata gravida di impegni come tutte quelle dell’ultimo frenetico periodo di campagna elettorale. E sono entrati in azione ad un’ora, quella di cena, in cui le vie del paese dovevano essere poco frequentate e scarsamente illuminate. Peraltro, non deve essere stato facile cogliere IMPASTATO di sorpresa, poiché proprio in quel periodo egli temeva per la propria incolumità. Lo ha confermato da ultimo anche il prof. Salvatore VITALE, all’epoca componente del Collettivo di Radio Aut, nonché, per sua stessa asserzione, “”. Nelle S.I. rese ai CC di Cinisi il 3.03.99, il VITALE ha raccontato che quella fatidica sera IMPASTATO lo accompagnò con la sua auto presso la sua abitazione sita a Terrasini, poco distante dalla sede di Radio Aut, “dicendomi che si stava recando a Cinisi nella propria abitazione per salutare dei parenti venuti dall’America”. Lo vide girare per piazza Municipio, “poiché era consuetudine recarsi al Comune di Cinisi prendendo la via litoranea, ora via Giuseppe IMPASTATO. “. Ma si sarebbero rivisti alla Radio, alle 21.00 “per programmare le attività di chiusura della campagna elettorale per le elezioni amministrative…”. Ebbene, rammenta il VITALE che IMPASTATO “in quel periodo era molto preoccupato per la sua incolumità avendo diverse volte e in più occasioni e in svariate sedi denunciato esponenti mafiosi locali”.
Può quindi presumersi che gli assassini conoscessero le abitudini della vittima o che ne abbiano seguito i movimenti e gli spostamenti senza tuttavia dare nell’occhio o destare il minimo sospetto. (In particolare, debbono aver atteso che IMPASTATO uscisse dalla sede di Radio Aut, ancora animata dal via vai dei giovani componenti il Collettivo, per seguirlo lungo il tragitto fino al bar).
Tutto ciò ci dice chiaramente che essi avevano un’ottima conoscenza dello stato dei luoghi; e la capacità di muoversi con sicurezza nel territorio.
Ed ancora: l’esplosivo impiegato per far saltare in aria il corpo di IMPASTATO (insieme ai binari) doveva essere stato apprestato per tempo e implica che il gruppo in questione avesse la disponibilità di armi e materie esplodenti, o comunque la capacità di procurarsi agevolmente il quantitativo di tritolo occorrente.
Infine la meticolosa cura nel porre in atto la messinscena destinata a dissimulare l’omicidio dietro le apparenze di un attentato dinamitardo denota un non comune capacità di leggere gli avvenimenti presenti e futuri, anche sotto il profilo della suggestione che quella messinscena avrebbe esercitato sugli Inquirenti, orientandoli su una pista sbagliata.
2. .
Ebbene, un gruppo criminale che sicuramente possedeva tutti i connotati di cui s’è detto e aveva altresì un plausibile movente per volere la morte di Peppino IMPASTATO c’era ed era pienamente operante in quel di Cinisi all’epoca del fatto: esso si identificava nella cosca mafiosa facente capo a Gaetano BADALAMENTI e affiliata all’organizzazione criminale denominata Cosa Nostra. Anzi, sulla scorta delle convergenti rivelazioni di numerosi collaboratori di Giustizia, non solo esisteva a Cinisi un’agguerrita famiglia mafiosa, ma, nell’organigramma di Cosa Nostra, essa “faceva mandamento”
L’esistenza e gli obbiettivi di questa organizzazione sono ormai un dato incontrovertibile, in quanto acquisito in forza di numerose sentenze, anche definitive,(e in particolare val ricordare per tutte Cass. 30 gennaio 1992 n. 80).
In altri termini, con riferimento all’imputazione di associazione a delinquere di stampo mafioso, è ormai incontrovertibilmente accertata l’esistenza di un’organizzazione criminosa a struttura rigidamente gerarchica e di tipo piramidale, chiamata “Cosa Nostra”, e retta da ferree regole interne, nonché dedita ad ogni forma di illecita attività finalizzata all’accumulazione di indebiti profitti, ed i cui aderenti sono detti “uomini d’onore”.
Del resto, la stessa definizione normativa del reato di associazione di stampo mafioso è di diretta derivazione giurisprudenziale, mutuando le caratteristiche del tipo dalle sentenze in precedenza emesse in occasione dei processi celebrati a carico dei componenti di diverse famiglie mafiose.
E le dichiarazioni dei cosiddetti pentiti, pur dando eccezionale impulso alla conoscenza del fenomeno mafioso e all’efficacia dell’azione di contrasto dello Stato, hanno confermato alcune intuizioni o precise conclusioni che le risultanze delle indagini in materia di criminalità organizzata già da tempo suggerivano.
In particolare, che l’organizzazione Cosa Nostra, pur essendo articolata in aggregati minori (famiglie, decine) legati ad un particolare e delimitato territorio, è in realtà un’organizzazione unitaria diffusa in tutta la Sicilia (ma anche fuori da essa) con organismi direttivi centrali e locali, costituiti secondo regole precise che ne governano minutamente la vita e sanzionate da pene di diversa gravità, (dalla sospensione alla morte), irrogate da organi a ciò deputati.
Così alla c.d. Commissione provinciale – composta dai capi-mandamento che a loro volta sono coordinatori di due o tre capifamiglia e ad essi sovraordinati – si deve dare notizia della decisione dei capifamiglia di sopprimere un uomo d’onore.
In ogni famiglia poi i ranghi interni sono costituiti dai consiglieri, i sottocapi, i capidecina e gli uomini d’onore(o soldati), affiancati dagli “affiliati”, che non sono membri a pieno titolo dell’organizzazione, ma sono in predicato di farne parte a conclusione di un periodo più o meno congruo di “osservazione” nel corso del quale sono ammessi ed anzi sollecitati a partecipare alle attività criminali del sodalizio mafioso.
Ed ancora, di Cosa Nostra si entra a far parte “formalmente” con un giuramento di fedeltà prestato secondo l’ormai noto rito della bruciatura di un’immagine sacra (il santino) nelle mani del neofita che pronuncia la formula del giuramento; se ne esce “formalmente” quando chi di competenza mette l’uomo d’onore fuori famiglia. La morte violenta peraltro, che è la fine più comune per gli uomini d’onore, non recide del tutto il vincolo con Cosa Nostra, nel senso che questa di solito continua a prestare assistenza ai familiari, paradossalmente anche per decisione di chi ha decretato quella morte, quando essa sia stata deliberata dalla famiglia di appartenenza.
E la mutua solidarietà tra gli adepti è ancora più evidente in casi di detenzione dell’uomo d’onore, che continua a godere dei profitti delle imprese criminose della sua famiglia attraverso le sovvenzioni che questa dà ai parenti del detenuto, per soddisfarne bisogni vitali e spese processuali.
L’unitarietà dell’organizzazione è suggellata proprio dall’uniformità delle regole che presiedono alla vita delle diverse famiglie territoriali, che costituiscono quasi le parti di uno Stato, contrapposto nelle regole di vita e nelle finalità allo Stato italiano, di cui sfrutta però debolezze e inefficienze, traendo profitto, con metodo ora subdoli ora violenti, dalle deviazioni criminali di alcuni suoi funzionari o dirottandone a proprio vantaggio le risorse economiche. (E tra le regole fondamentali che permangono immutate vige anche quella che richiede, per commettere un omicidio nel territorio di un’altra famiglia o di altro mandamento, l’autorizzazione del rappresentante di quella famiglia o del competente capo-mandamento o, in sua vece, del reggente.).
Tutte queste informazioni sono state acquisite grazie alle rivelazioni di Tommaso BUSCETTA e degli altri collaboratori di giustizia (CONTORNO Salvatore, CALDERONE Antonino, MARINO MANNOIA e MUTOLO Gaspare in particolare, ma anche MARCHESE Giuseppe) che per primi hanno fatto luce sull’organizzazione interna di Cosa Nostra, e costituiscono tuttora un riferimento obbligato per qualsiasi indagine concernente tale associazione criminale. (v. verbali di dichiarazioni dibattimentali del cd. Maxi-quater, vol. 10; verbali di interrogatori in vol. 2).
Ma al contempo si è acclarato che una delle caratteristiche strategiche di Cosa Nostra è proprio la sua capacità di adattamento alle modificazioni del contesto in cui si radica e quindi l’attitudine a modificare la sua struttura organizzativa, soprattutto per arricchirsi di nuove energie o per sfuggire all’azione repressiva dello Stato.
Così le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia più recente hanno dato contezza dell’esistenza di un gran numero di soggetti che, pur non essendo “uomini d’onore”, sono appunto consapevolmente a totale disposizione dell’associazione Cosa Nostra e, su incarico o richiesta degli uomini d’onore, svolgono i compiti più disparati, anche di rilievo, e funzionali al perseguimento degli scopi dell’associazione predetta (dall’omicidio alle rapine aggravate, dall’estorsione, al riciclaggio dei proventi di attività delittuose, al favoreggiamento e alla copertura di latitanti, dallo spaccio di stupefacenti al traffico d’armi o al loro occultamento).
Ebbene, circa il rilievo processuale dei dati e le informazioni sopra riportati va rammentato che non solo l’esistenza di Cosa Nostra, ma anche la sua organizzazione interna, al di là di quanto possa emergere dalla documentazione agli atti di questo procedimento, fa ormai parte della conoscenza dei Giudici nel senso che appartiene al loro bagaglio professionale: o per effetto della partecipazione diretta a processi che hanno riguardato questa associazione criminosa; o per la ricorrente lettura di sentenze ed altri provvedimenti in materia o ancora per specifici motivi di attività Giudiziaria per tacere del periodico aggiornamento professionale.
Tale conoscenza, se non può assimilarsi al notorio, come fonte di prova, non costituisce neppure scienza privata del Giudice, poiché proviene piuttosto dalla sua formazione professionale. Essa costituisce peraltro una sorta di “prova storica” (non già sulla responsabilità dei singoli ma) sulla esistenza del fenomeno criminale, sulle sue manifestazioni e i suoi metodi, che via via si arricchisce trasmigrando – sulla base delle norme processuali che lo consentono- da un processo ad un’altro, di sempre nuovi tasselli di conoscenza che, ad ogni ulteriore acquisizione processuale diventa conoscenza giudiziaria comune.
Può dunque ritenersi pacifico, anche agli effetti del presente procedimento, l’articolazione di Cosa Nostra in famiglie e mandamenti, per ciò che riguarda la sua struttura organizzativa. Parimenti è pacifico, quanto agli obiettivi, che la preoccupazione principale nei suoi adepti è quella di acquisire e rafforzare il controllo del territorio, dal quale, in particolare, i suoi esponenti di vertice non possono staccarsi o allontanarsi per lungo tempo, a pena di perdere prestigio e capacità di comando all’interno dell’organizzazione.
Da ciò la necessità di circondarsi di una rete di protezioni e connivenze e quindi di uno stuolo di molteplici referenti locali, affiliati o meno, ma comunque fidati, e di fiancheggiatori stabili od occasionali: non solo per sfuggire alla cattura (è un dato processualmente acquisito che la capacità di comando non viene meno dopo e per effetto dell’arresto) ma per proseguire indisturbati nell’esercizio dell’attività criminose cui è legato il proprio potere.
3. Le vicende della famiglia mafiosa di Cinisi e il ruolo di Gaetano BADALAMENTI
Anche a Cinisi Cosa Nostra ha sempre avuto radici profonde. E sulle vicende della famiglia mafiosa di Cinisi si sono soffermati i collaboratori di Giustizia le cui dichiarazioni sono state raccolte nell’ambito di questo procedimento o acquisite da altri procedimenti (v. in particolare proc. Nr. 251/95 a carico di ALFANO+64, vol. 10; e Proc. Nr. 428/96 R. N. vol. 8). Esse però sono state sviscerate già nel primo grande processo a Cosa Nostra (c.d. Maxi-Uno) e poi anche nei due procedimenti originati da altrettanti stralci di quello e definiti anch’essi con sentenze divenute irrevocabili: entrambe acquisite agli atti di questo processo (cfr. sentenza a carico di ALFANO+35, emessa dalla Corte d’Appello di Palermo il 20. 01.99; e sentenza a carico di RIINA Salvatore+7, emessa dalla Corte d’Assise di Palermo il 9 marzo 1995 e divenuta irrevocabile il 3 febbraio 2000). A tali fonti si rinvia per una puntuale ricostruzione di quelle vicende.
Basterà qui rammentare che la storia di quella cosca si intreccia e si identifica in larga parte con le vicende personali e la carriera criminale di Gaetano BADALAMENTI.
Attraverso rapporti giudiziari che ne fotografano le tappe salienti e le dichiarazioni di alcuni storici pentiti di mafia e di collaboratori di Giustizia di generazioni diverse e della più varia provenienza – acquisite agli atti anche di questo processo – rivive la parabola percorsa da questo controverso personaggio: dalla sua ascesa ai vertici del potere mafioso all’improvviso declino, con la sua espulsione da Cosa Nostra, la fuga da Cinisi e dall’Italia, il vano tentativo di riconquistare il territorio e il potere perduti, strappandoli con la forza ai Corleonesi. Sempre riuscendo, però, a mantenere pressoché intatto il proprio prestigio personale e la capacità di influenza non solo all’interno dell’organizzazione; ma anche nelle zone grigie della connivenza o della collusione di apparati dello Stato e personalità del mondo economico o delle istituzioni.
Così abbiamo appreso (da BUSCETTA, CONTORNO, CALDERONE, MARINO MANNOIA e DI CARLO) della sua partecipazione agli organismi di vertice di Cosa Nostra: prima il c.d. Triumvirato, insieme a Luciano LIGGIO (spesso sostituito da Salvatore RIINA) e a Stefano BONTADE; e poi la Commissione provinciale composta dai vari capi-mandamento.
Ha dichiarato in proposito il DI CARLO nell’interrogatorio del 14 giugno 1996:
” segretario SORCI Antonino, che però aveva delegato il proprio cugino SORCI Francesco.
C’era stato l’ordine di sciogliere le famiglie ma, in effetti, quasi tutti avevano cercato di mantenere in vita la propria, come era avvenuto ad Altofonte.
Sul finire degli anni Sessanta vi fu il ritorno di molti (che avevano finito i propri processi), vi fu l’omicidio di CAVATAIO Michele, e si crearono quindi le condizioni per tentare una riorganizzazione, sia pure tenendo fuori le famiglie che erano rimaste coinvolte con CAVATAIO e TORRETTA Pietro.
Si creò il c.d. triumvirato con LIGGIO, BADALAMENTI e BONTATE.
Dopo l’uscita dal carcere di BONTATE e di BADALAMENTI per il processo dei 114 vi furono delle lamentele per i sequestri di persona che RIINA Salvatore aveva fatto.
RIINA, tuttavia, aveva avuto cura di “mettersi accanto” BADALAMENTI Antonino (cugino di Gaetano) nonché CALO’ Giuseppe (capo-decina di Porta Nuova) e GIACONIA Stefano, entrambi vicini al BONTATE, per cui non vi fu alcuna conseguenza perché “tutti avevano assaggiato”.
Verso l’inizio del 1974 si cominciò a parlare di una ricostituzione della Commissione, creando alcuni mandamenti e sostituendo alcuni capi-famiglia non graditi (ad es., PRESTIFILIPPO Giovanni fu sostituito, a Ciaculli, da GRECO Michele).
La composizione della Commissione, nel 1974 circa, fu la seguente:
FARINELLA Giuseppe per Gangi;
MINEO Antonino per Bagheria;
INTILE Francesco per Caccamo;
PIZZUTO Gigino per Castronovo;
RIINA Salvatore per Corleone;
BONTATE Stefano per S. Maria di Gesù;
CITARDA Giuseppe per Cruillas;
BADALAMENTI Gaetano per Cinisi;
GERACI Nené per Partinico;
SALAMONE Antonio, sostituito da BRUSCA Bernardo, per S. Giuseppe Jato…”
Ed ancora lo stesso DI CARLO nell’interrogatorio del 12 settembre 1996:
“… Tornando indietro nel tempo, ricordo, inoltre, che il RIINA – nel periodo del Triumvirato, di cui ho già parlato – essendo privo di fondi cominciò ad organizzare alcuni sequestri di persona.
In Sicilia ricordo in particolare il sequestro VASSALLO, il sequestro CASSINA ed il tentato sequestro TRAINA. . .
Questi sequestri contrastavano con la regola sino allora vigente del divieto di sequestro in Sicilia, e vennero ideati da RIINA quando gli altri due componenti del Triumvirato (Stefano BONTATE e Gaetano BADALAMENTI) si trovavano lontani, perché fuori dalla Sicilia o in prigione).
Naturalmente il RIINA associò alcuni soggetti vicini sia al BONTATE che al BADALAMENTI in queste imprese criminali, in modo tale da non scontentare nessuno. Sempre nello stesso periodo LUCIANO LEGGIO effettuò alcuni sequestri nel Nord Italia…”
E già Tommaso BUSCETTA, nell’interrogatorio del 5 gennaio 1996, aveva dichiarato:
“Confermo le dichiarazioni diffusamente rese nei miei precedenti interrogatori sul Triumvirato, dopo averne ricevuto lettura.
Gaetano BADALAMENTI ha fatto parte del Triumvirato, insieme a LEGGIO Luciano ed a BONTATE Stefano per tutto il periodo in cui è esistito quest’organo di vertice; e poi ha fatto parte della Commissione provinciale di Palermo di Cosa Nostra, quando sono state ricostituiti gli organismi ordinari di Cosa Nostra (mandamenti e, appunto, Commissione).
A differenza di LEGGIO Luciano – che nei periodi di impedimento era sostituito da RIINA Salvatore – il BONTATE ed il BADALAMENTI, nel periodo del Triumvirato, non furono sostituiti da nessuno quando erano detenuti. Essi continuavano ad esercitare tranquillamente le loro funzioni di comando stando in carcere, avendo la possibilità di utilizzare moltissimi canali per comunicare con l’esterno (parenti uomini d’onore che avevano con loro colloqui in carcere, ed altri).
Domanda: Perché LEGGIO Luciano aveva un sostituto (RIINA), e BONTATE e BADALAMENTI no?
Risposta: In quel periodo (primi anni ’70) le possibilità di comunicazione tra l’interno dell’Ucciardone e l’esterno erano tali e tante, che i capi detenuti non avevano nessun bisogno di sostituti. LEGGIO aveva un sostituto, nella persona di RIINA, sol perché era in cattive condizioni di salute”.
Abbiamo appreso altresì del personale coinvolgimento del BADALAMENTI in vicende di rilievo strategico per un’organizzazione mafiosa come Cosa Nostra, come le trattative per partecipare al golpe Borghese (v. da ultimo anche CUCUZZA Salvatore); della sua opposizione – per motivi di calcolo strategico: v. S.I. rese in data 30. 04.1996 dal M. llo SCIBILIA Giuseppe, già stretto collaboratore del col RUSSO, allegate all’Informativa redatta dal R. O. S. dei Carabinieri in evasione all’apposita delega d’indagine di cui al punto A/21 – al progetto di uccidere il col. RUSSO, propugnato da RIINA già nel 1975, e poi effettivamente attuato due anni dopo contro il deliberato della Commissione provinciale.
Ed ancora, della sua capacità di avvicinare o interessare personaggi altolocati per tentare di ottenere l’aggiustamento di processi a carico di esponenti di spicco dell’organizzazione (v. oltre a DI CARLO e BUSCETTA, anche BRUSCA Giovanni); e, più in generale di tessere e mantenere, anche dopo essere caduto in disgrazia all’interno di Cosa Nostra, un sistema di relazioni con personaggi influenti delle Istituzioni, del mondo della politica e della finanza (v. ancora DI CARLO, BUSCETTA, Giovanni BRUSCA e Vincenzo SINACORI; nonché le dichiarazioni di Francesco MARINO MANNOIA testualmente riportate e contestate al BADALAMENTI nel corso del suo interrogatorio del 5 dicembre 1995).
Infine, abbiamo appreso del suo coinvolgimento in vasti traffici internazionali di stupefacenti, come quello oggetto delle indagini sfociate nel processo c.d. “Pizza Connection”, in esito al quale è stato condannato a 45 anni di reclusione (poi ridotti a trenta) dall’A.G. statunitense.
Ed è un dato ormai processualmente acquisito che, fino a quando il suo capo indiscusso, Gaetano BADALAMENTI, non fu espulso da Cosa Nostra, la famiglia di Cinisi costituiva uno dei più importanti mandamenti della provincia di Palermo, ricomprendendo, oltre al circondario di Cinisi e Terrasini, anche i territori di Balestrate, Carini, Capaci e Isola delle Femmine (cfr. BUSCETTA, MARINO MANNOIA e MUTOLO, nonché DI MATTEO Mario Santo). Successivamente, il mandamento venne sciolto e la famiglia aggregata al mandamento di Partinico, mentre i territori che ne avevano fatto parte furono divisi tra lo stesso mandamento di Partinico e (dopo il 1982) il neo-mandamento di San Lorenzo, dopo la ristrutturazione seguita alla conclusione della sanguinosa guerra di mafia dei primi anni ’80.
In proposito, DI CARLO Francesco ha rivelato che “All’uscita di Gaetano BADALAMENTI, la famiglia è stata sciolta, quella di Cinisi. Ci hanno messo dei reggenti nella famiglia. Mi sembra che l’hanno aggregato addirittura…hanno sciolto anche il mandamento, ma la famiglia propria è stata aggregata a Partinico, a Nenè GERACI. Mentre un’altra famiglia, proprio quella di Torretta, sciogliendo il mandamento di Cinisi che faceva parte Torretta, Carini, Cinisi, Terrasini e Capaci, la famiglia di Torretta l’hanno aggregata a Totò INZERILLO (NdR: poi assassinato nell’aprile del 1981) visto che tutti i parenti appartenevano a lui, come imparentate. Hanno aggregato il mandamento di Totuccio INZERILLO. Mente gli altri tutti a Partitico. Mente quella di Capaci l’hanno aggregata a San Lorenzo. Hanno diviso così il mandamento”. (Cfr. dichiarazioni rese all’udienza del 27.11.96, proc. Maxi-quater).
Sostanzialmente conformi le informazioni in possesso del collaboratore FERRANTE Giovan Battista, già esponente di spicco proprio della famiglia di San Lorenzo: “Il mandamento di San Lorenzo si estendeva fino a Carini, quindi comprendeva le famiglie di Partanna Mondello, di Tommaso Natale, di Isola delle Femmine, Capaci e di Carini.”. E aggiunge: “Quando c’era qualcosa che riguardava Terrasini, Cinisi, Tappeto… Partinico… ecco, faceva parte del mandamento di Partinico” (v. interrogatorio del 24.10.96, f. 57-58, vol. 8).
Peraltro, prima che si costituisse il mandamento di San Lorenzo, incorporando in sé anche la famiglia di Partanna Mondello, era quest’ultima famiglia, facente capo a Rosario RICCOBONO, a controllare i territori di San Lorenzo e di Resuttana. Nessun contrasto quindi con le dichiarazioni di MUTOLO Gaspare in merito alla sorte del soppresso mandamento di Cinisi: “…dopo che Gaetano BADALAMENTI, diciamo è stato estromesso dalla carica che aveva, diciamo, il mandamento di Cinisi, fu affidato a Riccobono Rosario (scomparso nel novembre del 1982: NdR), quindi, cioè, noi eravamo interessati in quel territorio…” (cfr. verbale di interrogatorio del 25.05.96, f. 12 vol. 2).
La reggenza della famiglia di Cinisi fu affidata inizialmente a BADALAMENTI Antonino, cugino di Gaetano, con il quale aveva un rapporto conflittuale, come rivela BUSCETTA. Lo conferma, sia pure sfumandone i toni, anche DI CARLO, il quale evidenzia però che lo stesso Antonino godeva della fiducia dell’autorevole cugino, tant’è che lo sostituiva nella reggenza quando il boss di Cinisi era lontano, al soggiorno obbligato, o detenuto: “Qualche volta c’era qualche disaccordo, perché i corleonesi lo mettevano in disaccordo. Ma Nino c’era molto vicino a suo cugino Gaetano. Infatti Gaetano aveva un’ottima considerazione di Nino, che quando Gaetano presiedeva il Triumvirato,per come si suole dire per la Commissione, Nino aveva preso il posto di Gaetano, quando lui era in prigione oppure si trovava al confine”. Poi precisa che tali sostituzioni erano sporadiche, perché in galera o al confine Gaetano c’era stato pochissimo. In quelle occasioni comunque Nino lo sostituiva anche perché ben visto dai Corleonesi: “Nel minuto che mancava, lo sostituiva Nino. Nino perché era ben visto dai corleonesi, perché Nino era intimo amico dei corleonesi”.
E di una certa ambiguità nella condotta di BADALAMENTI Antonino ha parlato anche MARINO MANNOIA nel riferire circa i motivi per cui ne fu decretata (dagli stessi corleonesi) la soppressione:
“Io posso dire questo: BADALAMENTI Antonino era una persona molto influente in quella famiglia. Nel passato vi erano stati dei contrasti fra BADALAMENTI Antonino e BADALAMENTI Gaetano. Lui voleva assumere il ruolo di rappresentante di quella famiglia, l’Antonino; io, mi risulta che era molto intimo di BONTADE e molto intimo di Rosario RICCOBONO. In un primo tempo si era schierato, diciamo, non contro i corleonesi perché era una persona un po’ ambigua su questo. Il suo ruolo non è mai stato chiarito fino in fondo; perché lui un tempo era contrario a suo cugino Gaetano, un tempo aveva simpatizzato con Totò RIINA. Quindi, non è una persona, diciamo, chiaramente inquadrata nella struttura come tendenza, tendenza politica strettamente determinata in una unica posizione. È stato un po’ ambiguo. Quindi, io non so affermare, diciamo, se lui si sia schierato in un secondo tempo contro i corleonesi, certamente non lo era prima” (Cfr. verbale udienza dibattimentale 7/12/94 nel Proc. a carico di RIINA+7, riportato a pagg. 82 e segg. della sentenza in atti).
Sta di fatto che, secondo quanto concordemente raccontato da alcuni dei collaboratori che hanno riferito della campagna di sterminio messa in atto dai corleonesi di Totò RIINA ai danni degli affiliati al clan BADALAMENTI, campagna inaugurata proprio con l’assassinio di BADALAMENTI Antonino il 19.08.81, quest’ultimo fu ucciso appunto perché si era rifiutato di uccidere a sua volta il cugino, non volendo macchiarsi del suo sangue.
Particolarmente perspicue al riguardo le rivelazioni dei collaboratori che parteciparono personalmente all’attività preparatoria e all’esecuzione dell’omicidio di BADALAMENTI Antonino, come ANZELMO Francesco Paolo, MARCHESE Giuseppe e GANCI Calogero. Questi, in particolare ha dichiarato:
“A questo omicidio ho preso parte io stesso insieme a GANCI Raffaele, GAMBINO Giacomo Giuseppe, RICCOBONO Rosario, ANSELMO Francesco Paolo, BUFFA Pino, MICALIZZI Salvatore, SAVIANO Giovanni, LO PICCOLO Salvatore, TROIA Mariano, GIACALONE Giuseppe, SCAGLIONE Salvatore.
… Nino BADALAMENTI aveva il compito di farci sapere dove si nascondeva suo cugino Gaetano BADALAMENTI, ed in un primo momento aveva dato la sua disponibilità per fornire questa indicazione. Successivamente ci rendemmo conto che ci stava prendendo in giro e quindi decidemmo di eliminarlo. Cercavamo l’occasione giusta e per questo motivo lo abbiamo fatto chiamare, ma egli non si presentava ed invece mandava il fratello, Natale e questa circostanza ci fece capire che i nostri sospetti erano fondati… (cfr. verbale di interrogatorio del 26.06.96).
Ed ancora, sull’accanimento con cui Gaetano BADALAMENTI veniva cercato per essere ucciso, nonché sul tentativo fallito di raggiungere lo scopo inducendo suo cugino Antonino a tradirlo, lo stesso collaborante dichiara che: “come noto, il mandamento di Cinisi esisteva ai tempi di BADALAMENTI Gaetano, e fino a quando lo stesso non è stato messo fuori famiglia.
Il BADALAMENTI, durante la guerra di mafia, è stato sempre un nostro obbiettivo, era uno dei pallini di RIINA, tanto che avevamo cercato più volte di ucciderlo, seppur infruttuosamente.
Ad un certo punto, venuto meno il mandamento di Cinisi, rimase sempre la famiglia di Cinisi, all’interno della quale militava un rivale accanito del BADALAMENTI Gaetano, cioè DI MAGGIO Procopio.
Non so se il DI MAGGIO rivestisse un ruolo all’interno della famiglia, posso solo dire che divenne il nostro referente su Cinisi, proprio in ragione del rancore che nutriva nei confronti del BADALAMENTI ed al fine di potere prima o poi portarci all’eliminazione di quest’ultimo.
Ad un certo momento, cercammo di raggiungere quest’obbiettivo attraverso il cugino, BADALAMENTI Antonino, ma siccome questi tergiversava, io stesso partecipai con altri alla sua eliminazione”. (Cfr. verbale di interrogarono del 2.07.96).
Del tutto conformi le dichiarazioni rese dal DI CARLO sulla scorta di informazioni acquisite da fonti interne a Cosa Nostra, ma distinte e autonome rispetto alla famiglia di appartenenza dei vari GANCI e ANZELMO. Il DI CARLO ignora chi abbia ucciso materialmente BADALAMENTI Antonino, ma ha dichiarato di sapere perché fu ucciso e la provenienza della mano omicida: “Perché si è rifiutato di fare come me, il Giuda verso suo cugino”. E a precisa domanda (dell’avv. GULLO, in contro-esame) risponde che venne ucciso “Dai Corleonesi, quelli che c’hanno voltato le spalle e si sono messi con i corleonesi” (cfr. verbale cit. processo Maxi-quater).
Ma anche Tommaso BUSCETTA, che ha proprio in Gaetano BADALAMENTI la principale fonte delle sue informazioni sulle travagliate vicende della famiglia mafiosa di Cinisi, conferma che il BADALAMENTI era ricercato (dai corleonesi) per essere ucciso “addirittura dallo stesso cugino, Antonino BADALAMENTI che era il primo che aveva il mandato per ammazzarlo”; e che fu ucciso, aggiunge, appunto “perché non lo fece”. (cfr. verbale di interrogatorio del 24.06.93, riportato anche a pag. 50 della sentenza RIINA+7).
Ulteriori conferme sono venute anche dalle dichiarazioni di MUTOLO Gaspare e MARCHESE, Giuseppe, raccolte nell’ambito dello stesso processo in cui sono state accertate identità e responsabilità dei mandanti di quell’omicidio. Entrambi i collaboranti hanno riferito della spietata determinazione dei corleonesi di fare terra bruciata intorno a Gaetano BADALAMENTI, uccidendogli parenti e persone a lui fedeli (anche per stanarlo) fino a giungere alla sua eliminazione. E delle vicende narrate hanno contezza diretta per aver partecipato alla fase preparatoria e o all’esecuzione di alcuni dei delitti più significativi che costellarono la campagna di sterminio del clan BADALAMENTI. Al riscontro incrociato delle loro dichiarazioni con quelle di GANCI Calogero e del collaborante PALAZZOLO Salvatore si deve l’accertamento della vera causale dell’omicidio di BADALAMENTI Antonino.
In particolare, il MARCHESE ricorda un incontro riservato presso la villa di MANISCALCO Salvatore ad Altavilla Milizia nel 1981, tra Michele GRECO e il fratello Pino (detto il senatore), Totuccio SCAGLIONE e Antonino BADALAMENTI: “… c’è stato, praticamente che dopo sono andati via, si sono abbracciati, si sono baciati con tutti, un’affettuosità immensa con stò Antonino BADALAMENTI e c’è stato… dopo un paio di mesi che noi, con Pino GRECO, che si lamentava, che diceva che a questi li dobbiamo ammazzare a tutti e dopo vediamo chi vuole soddisfazione”. E poi spiega che questi erano “I BADALAMENTI. Sì,… in quel periodo… noi abbiamo fatto più di una volta spola, sarebbe tra Palermo- Cinisi per andare a fare questo Antonino BADALAMENTI…”. E conferma che lui stesso partecipò alle ricerche della vittima: “Si, si. In quel periodo, mio zio (MARCHESE Filippo, NdR)…. ha detto che ‘stù cornuto ni pigghiò puru in giru’, ed era il fatto che lui… Antonino BADALAMENTI gli doveva cercare di fargli prendere a Tanino BADALAMENTI, o, al limite, fargli lui stesso il servizio. Ammazzarlo…” (cfr. verbale udienza dibattimentale 27.01.93, proc. a carico di RIINA+7).
Aggiunge poi che nella stessa ottica di sterminio preventivo fu deciso anche l’omicidio del figlio di Nino, Salvatore BADALAMENTI (assassinato il 19/10/82), senza attendere possibili reazioni: “… perché la maggior parte, quando viene ucciso un pezzo grosso di Cosa Nostra si cerca sempre di vedere, su per giù, questi che intenzione hanno, ossia abbinano nella loro decisione, ma siccome i BADALAMENTI erano proprio da sterminarli tutti, perché la preoccupazione che questi potevano organizzare qualche gruppo e fare…”.
Il MUTOLO a sua volta è stato testimone diretto dell’imbarazzo e delle difficoltà di Nino BADALAMENTI nel portare a termine il mandato di morte affidatogli dalla Commissione (ormai controllata da RIINA). Spiega che al suo capo famiglia, Rosario RICCOBONO, fu dato l’ordine di “chiamare al BADALAMENTI Antonino, di farci presente che c’è il cugino Gaetano che era in quei paraggi, di cercare di eliminarlo. Cioè di darci il compito a questo Gaetano…a questo Nino BADALAMENTI di uccidere al cugino Gaetano. Diverse volte questo Nino BADALAMENTI veniva con il fratello Emanuele, che è pure uomo d’onore della famiglia di Cinisi, e veniva al villino di Saro RICCOBONO. Questo Nino BADALAMENTI, cioè, parlando così amichevolmente, con Saro RICCOBONO, per riportarci a questo discorso in commissione, cioè pregava la commissione di dirci: io, dice, non è che… Se mio cugino ha sbagliato e la commissione ritiene opportuno di ucciderlo, dice, uccidetelo, dice, a me, dice io non è che aiuto a mio cugino, dice, però, dice, non mi fate macchiare le mani di uccidere a mio cugino, perché quello ha figli, io ho figli, perché, dice, si deve aprire una faida interna fra noi BADALAMENTI; se lo dovete uccidere ammazzatelo voi, a me non mi interessa niente,…La commissione dopo un po’ di giorni diede ordine diciamo a Saro RICCOBONO, che se andava il Nino BADALAMENTI ed Emanuele BADALAMENTI a casa di RICCOBONO, cioè nel villino che ci aveva a Partanna Mondello, di strangolarli a tutti e due; perché avevano capito che quello non si voleva adoperare, insomma per uccidere a suo cugino” (Cfr. dichiarazioni rese all’udienza del 26.11.93 nel proc. RIINA+7: ivi il collaborante si sofferma su modalità e circostanze dell’omicidio, cui però non partecipò personalmente, avendo chiesto al capo famiglia di esserne dispensato, attesa la gratitudine che serbava per lo stesso Nino BADALAMENTI che lo aveva ospitato a casa sua durante la latitanza).
Anche MUTOLO conferma che il figlio di Nino BADALAMENTI fu ucciso in funzione preventiva: “Cioè non è che ha fatto qualche cosa lui personalmente, ma senz’altro, è stato ucciso perché…per eliminare, insomma, che fra cinque anni, fra tre anni, fra quattro anni, che questo ragazzo sarebbe stato in condizioni di potere vendicare al padre e l’avrebbe vendicato senz’altro…”.
E analogo sarebbe stato il movente degli omicidi di BADALAMENTI Agostino e di BADALAMENTI Natale (assassinato all’ospedale di Carini il 21/11/83): “Era una cosa che tutte queste persone che erano parenti di BADALAMENTI, insomma, o nella corrente di BADALAMENTI, insomma, si dovevano uccidere a tutti…”.
Dichiarazioni non meno circostanziate – e del tutto convergenti con quelle sopra riportate – ha reso su questi delitti anche il collaboratore PALAZZOLO Salvatore.
Egli conferma che BADALAMENTI Salvatore, diciassettenne figlio di Antonino, lamentava pubblicamente come un’ingiustizia l’uccisione del padre e non faceva mistero dei suoi propositi di vendetta: “Così hanno deciso anche di ammazzarlo quel ragazzo perché si avrebbe permesso di dire devo vendicare chi ha ammazzato mio padre. E lo hanno ammazzato effettivamente…”.
E anche degli omicidi di IMPASTATO Luigi (ucciso a Palermo il 22.09.81) e di BADALAMENTI Agostino (ucciso in Germania il 20. 02.84) asserisce che “si iscrivono tutti nella medesima logica di sterminio decisa e adottata dalla ‘commissione’ di Cosa Nostra, capeggiata da RIINA Salvatore, determinata dai contrasti insorti nei primi anni ’80 tra le famiglie fedeli alla corrente dei “corleonesi” e quelle rimaste invece vicine al vecchio capo- mandamento di Cinisi BADALAMENTI Gaetano. Infatti, pur se il BADALAMENTI Gaetano nel 1977 era stato messo fuori famiglia, gli uomini d’onore che vi avevano aderito continuavano a vedere in lui il vero punto di riferimento. Intorno agli anni ’80-81, i corleonesi hanno avuto la certezza che il gruppo vicino al vecchio capo-famiglia, intendeva organizzare una reazione contro di loro. Tali notizie, verosimilmente, sono state acquisite da RIINA e dai suoi fedeli, grazie alla singolare posizione rivestita da DI TRAPANI Ciccio all’interno della famiglia di Cinisi. Egli infatti era uomo d’onore molto vicino ai corleonesi e particolarmente valido nell’uso delle armi ed al contempo era a conoscenza degli avvenimenti interni alla stessa famiglia in quanto era suocero di RIMI Leonardo, figlio di RIMI Filippo (il primo cognato di BADALAMENTI Gaetano è uomo d’onore di grande valore)” (cfr. verbale di interrogatorio 3.11.93).
Quanto all’omicidio di BADALAMENTI Antonino, il PALAZZOLO rivela un retroscena inedito, ma altamente attendibile alla luce dei riscontri desumibili dalle dichiarazioni di MUTOLO e MARCHESE. Egli avrebbe appreso infatti da BADALAMENTI Salvatore (figlio del fu Cesare, detto Sarino, fratello del BADALAMENTI Natale assassinato all’ospedale di Carini), e da Vito PALAZZOLO che la commissione, dominata da Totò RIINA, aveva dato mandato a tre uomini d’onore della famiglia di Cinisi, che i corleonesi reputavano ormai passati dalla loro parte, di uccidere Tano BADALAMENTI, il suo braccio destro Vito PALAZZOLO e anche Natale BADALAMENTI, altro fedelissimo dell’anziano boss, di cui curava gli interessi afferenti ad un’azienda agricola e al bestiame in sua assenza: “… quando decidono di dare questi mandati per specifiche persone, danno l’incarico di uccidere a Tanino a Nino; l’incarico di uccidere Vito PALAZZOLO lo danno a Francesco DI TRAPANI; l’incarico di uccidere a Natale BADALAMENTI lo danno a Salvatore BADALAMENTI”. Nino viene poi ucciso “perché, capisce la commissione, capisce il mandamento che Nino non lo vuole fare per un motivo o per l’altro, lo uccidono”. Invece, BADALAMENTI Salvatore, per sottrarsi all’incarico e su suggerimento dello stesso Tano BADALAMENTI, sarebbe addirittura sparito dalla circolazione, emigrando in America – come in effetti risulta dalla documentazione in atti, con riferimento al BADALAMENTI Salvatore, cl. ’48, di cui parla il collaborante – dopo avere a lungo temporeggiato ed essere stato richiamato anche da Girolamo D’ANNA perché non aveva eseguito il mandato di morte.
Nel corso dell’interrogatorio del 3 novembre 1993, il PALAZZOLO ha ricostruito con dovizia di particolari tali retroscena, spiegando che fu proprio PALAZZOLO Vito “a riferire a BADALAMENTI Gaetano ed agli uomini a lui più vicini, tra cui io stesso, che subito dopo l’omicidio di BADALAMENTI Antonino, il fratello di quest’ultimo Emanuele, si era molto infuriato e si era direttamente recato da PALAZZOLO Vito per contestargli l’omicidio del suo stretto congiunto, raccontandogli che lui stesso era stato convocato a Palermo da GRECO Michele che gli aveva dato l’ordine di diffondere presso gli uomini d’onore della famiglia di Cinisi i mandati ad uccidere deliberati dalla commissione, facendo riferimento ai mandati di cui ho sopra parlato. Il PALAZZOLO, per tutta risposta, disse al BADALAMENTI Emanuele che era tardi per lamentarsi e che avrebbe fatto meglio ad andare da lui al tempo in cui gli era stato conferito quell’incarico dal GRECO, così evitando spargimenti di sangue.
Come ho già detto, del conferimento di tali mandati ci informò anche BADALAMENTI Salvatore che, dopo aver ricevuto quello di uccidere il Natale, si recò direttamente da BADALAMENTI Gaetano raccontandogli dell’incarico ricevuto. In particolare, ricordo che il Salvatore raccontò a Tano che dopo aver ricevuto il mandato finse di accettarlo, posticipando con scuse varie l’esecuzione dell’omicidio, a causa di ciò egli venne convocato da D’ANNA Girolamo che lo rimproverò del tempo perduto invitandolo, al contempo, ad eseguire l’ordine ricevut”.
In pratica, BADALAMENTI Salvatore nella circostanza “faceva il doppio gioco nel senso che pur essendo rimasto molto vicino a BADALAMENTI Gaetano aveva fatto credere ai corleonesi di essere passato dalla loro parte, ma continuava in verità a frequentare di nascosto gli uomini più vicini al Gaetano; al punto che, dopo gli eventi di cui si tratta, egli rimase a lungo nascosto nella zona di Cinisi e poi emigrò negli Stati Uniti. Ritengo che i corleonesi non erano del tutto convinti della fedeltà di Salvatore e che il conferimento del mandato ad uccidere in verità costituiva una prova della sua affidabilità”.
Ed un altro a fare questo doppio gioco, evidentemente, era, secondo l’assunto del collaborante, anche BADALAMENTI Emanuele dal quale sarebbe venuta la soffiata sui mandati di morte della Commissione istigata da Totò RIINA. E in effetti, per BADALAMENTI Emanuele, DI CARLO Francesco ha parole di profondo disprezzo, accusandolo di aver tenuto una condotta ambigua e di aver preferito alla fine passare dalla parte dei vincenti e così salvarsi la pelle. Ma non sarebbe stato il solo a farlo, in quel periodo convulso di tragedie e tradimenti, in cui la famiglia mafiosa di Cinisi è squassata al suo interno da divisioni e defezioni, repentini passaggi di campo e più lente e striscianti collusioni e trame sotterranee ordite e alimentate dagli uomini d’onore anche di altre famiglie che agiscono per conto di RIINA. Questo il quadro realistico che emerge dal racconto di PALAZZOLO Salvatore non meno che dalle amara dichiarazioni sul punto rese da DI CARLO Francesco, a proposito del tradimento di DI TRAPANI Francesco, altro ex fedelissimo di Gaetano BADALAMENTI: “DI TRAPANI è stato uno dei primi che ha voltato le spalle a BADALAMENTI. Essendo imparentato con i MADONIA di Resuttana è stato uno dei primi a voltare le spalle. Ha voltato tanto le spalle che ha fatto uccidere pure pure il genero che era un RIMI, il padre proprio dei propri nipotini di Francesco DI TRAPANI. Purtroppo, in quella situazione volta spalle, chi è diventato caino, ha continuato a vivere, chi diventava giuda continuava a vivere o stare in famiglia…” (cfr. verbale di udienza 27.11.96, proc. Maxi-quater, f. 90 vol. 10).
D’altra parte, è significativo che, secondo quanto rivelato dal collaborante PALAZZOLO Salvatore, i mandati di morte deliberati dalla Commissione fossero stati conferiti, tra gli altri, al DI TRAPANI, che conservava un rapporto privilegiato con i MADONIA di Resuttana, famiglia fedelissima ai corleonesi e facente ancora parte, all’epoca, del mandamento di Partanna Mondello, retto da Rosario RICCOBONO. Da altra fonte, infatti, viene la conferma che quello era un canale praticabile dai corleonesi (con buone probabilità di successo) per tentare di indurre al tradimento alcuni degli uomini d’onore più vicini a Gaetano BADALAMENTI.
Invero, con lo stesso RICCOBONO, era intimo anche BADALAMENTI Antonino, come ha dichiarato MUTOLO Gaspare nel rammentare il periodo in cui fu ospitato a Cinisi proprio da Nino BADALAMENTI. E MUTOLO ricorda altresì che anche Emanuele aveva rapporti di frequentazione, insieme al fratello Antonino, con Rosario RICCOBONO, quando questi investì Antonino dei mandati emessi dalla Commissione. E anche Emanuele avrebbe dovuto fare la stessa fine del fratello, quando i corleonesi percepirono che non aveva voluto mandare a effetto quell’incarico. Invece, per ragioni imprecisate ma che DI CARLO ritiene di poter individuare in un definitivo passaggio dalla parte dei vincenti, BADALAMENTI Emanuele non venne ucciso. In pratica, BADALAMENTI Antonino pagò con la vita il suo rifiuto di macchiarsi del sangue di suo cugino, “mentre i fratelli, hanno continuato ad essere filo corleonesi e sono vivi, Manuele e l’altro“. (Cfr. DI CARLO, loc. ult. cit., f. 89).
Non è superfluo a questo punto rammentare che, oltre agli omicidi già menzionati e sui quali si è fatta piena luce (come quelli di BADALAMENTI Antonino, BADALAMENTI Salvatore, BADALAMENTI Agostino, BADALAMENTI Natale, BADALAMENTI Silvio) numerosi altri parenti di Gaetano BADALAMENTI, o persone a lui fedeli o vicine, cadono a Cinisi, tra il 1981 e il 1983, sotto i colpi dell’offensiva scatenata dai corleonesi: almeno secondo le ricostruzioni desumibili dalle rivelazioni dei pentiti che in più di un caso si incrociano con quelle ipotizzate dagli Inquirenti già nell’immediatezza dei fatti. (V. anche le cronache giudiziarie dell’epoca, contenuti negli articoli estratti dalla stampa locale e raccolti nel memoriale a cura del Centro IMPASTATO, con particolare riguardo al Dossier sulla “Guerra di mafia a Cinisi”.)
Così, tre giorni dopo l’uccisione di Nino BADALAMENTI, è la volta di Luigi IMPASTATO, figlio di Giacomo, nonché cugino di Peppino IMPASTATO. Padre e figlio gestivano una cava di pietra tra Carini e Montelepre, ed erano ritenuti organici alla famiglia di Cinisi e particolarmente vicini a Gaetano BADALAMENTI (cfr. CALDERONE Antonino). Anche su causale e mandanti questo omicidio è stata fatta luce grazie all’apporto decisivo delle rivelazioni di PALAZZOLO Salvatore, il quale ha chiarito come Luigi IMPASTATO curasse gli interessi del BADALAMENTI nell’edilizia. E in effetti si è accertato che la vittima operava in tale settore (v. pag. 113 della sentenza RIINA+7).
D’altra parte, la perizia balistica comparativa consentì di appurare il revolver impiegato per questo omicidio si identifica con l’arma utilizzata per l’uccisione di BADALAMENTI Antonino e di GALLINA Stefano, boss di Villagrazia di Carini, ritenuto anche lui vicino a Don Tano, e ucciso a sua volta il 2.10.81.
Parimenti vicino a Gaetano BADALAMENTI era ritenuto anche il patriarca di Castellammare, Nino BUCCELLATO, assassinato il giorno prima: era genero di Vincenzo RIMI e cognato di Gaetano BADALAMENTI.
Il 1981 si chiude con l’assassinio (a colpi di lupara e cal. 38) di Giuseppe FINAZZO, inteso “Parrineddu”, sui cui legami con il BADALAMENTI si sofferma il rapporto giudiziario già citato a firma del cap. ARENA. Lo stesso BADALAMENTI, neol corso di uno dei suoi interrogatori, ha cercato di minimizzare tali rapporti, ma non ha ptuto negare che il FINAZZO era in rapporti d’affari – e societari – con sua sorella, della quale a sua volta il BADALAMENTI curava gli interessi.
Il 15.01.82 viene assassinato un altro nipote di Gaetano BADALAMENTI: Giacomo IMPASTATO, detto Jack, sposato con una figlia di Vito BADALAMENTI, fratello di Gaetano. Aveva interessi lavorativi comuni con il figlio maggiore di Gaetano BADALAMENTI. (Il titolo del Giornale di Sicilia del 16.01.82 lo indica come nipote dell’inafferrabile BADALAMENTI, alludendo al fatto che il boss di Cinisi, braccato da chi stava sterminando i suoi fedelissimi, aveva da tempo fatto perdere le tracce di sé).
Il 4.12.82 è la volta di Leonardo GALANTE, originario di Castellammare del Golfo, ma cognato di Gaetano BADALAMENTI. E il 19.10.82 viene ucciso il già citato Salvatore BADALAMENTI, figlio di Nino.
Infine, nel 1983 si registra, oltre agli omicidi già menzionati di Silvio BADALAMENTI (nipote ex fratre di G. B.) il 2.06.83, e di Natale BADALAMENTI, il 21.11.83, anche l’uccisione, il 3.12.83, di Pasquale COTTONE, ritenuto (dagli Inquirenti) vicino a Gaetano BADALAMENTI ed effettivamente indicato come tale dal collaborante PALAZZOLO Salvatore.
[Questi ascrive invece al tentativo di reazione armata degli affiliati alla famiglia di Cinisi ancora fedeli a Don Tano altri delitti, rimasti impuniti, commessi a Cinisi e segnatamente quelli in danno di MAZZOLA Salvatore, ucciso il 15.11.83 (ma era stato già vittima di un attentato in precedenza), PALAZZOLO Giacomo (23.11.83) e anche MUNACÒ Saverio (4.12.83), che la cronaca giudiziaria dell’epoca indicava invece come uno dei “soldati di Don Tano“.
Per questi delitti, e sulla base delle circostanziate dichiarazioni auto ed etero-accusatorie di PALAZZOLO Salvatore, sono stati rinviati a giudizio sia BADALAMENTI Gaetano che l’odierno imputato (oltre agli altri soggetti chiamati in correità dal PALAZZOLO), entrambi nella qualità di mandanti].
Certo è che la determinazione e la ferocia nel portare a termine questa campagna di sterminio è la migliore riprova di quanto integro e temuto fosse ancora il potere di fatto, la capacità di influenza e l’ascendente di Gaetano BADALAMENTI all’interno dell’organizzazione Cosa Nostra, nonostante che egli ne fosse stato già espulso. Né può ravvisarsi in quella strategia alcun contrasto logico con detta espulsione, costruendo essa anzi un riscontro obbiettivo alle convergenti rivelazioni dei collaboratori che attribuiscono allo stesso BADALAMENTI velleità e propositi di rivincita e di riscossa, nonché un piano preciso per ricucire o tessere vecchie e nuove alleanze per contrastare l’egemonia dei corleonesi.
BUSCETTA ha rivelato di essere stato contatto in Brasile dal BADALAMENTI che gli confidò il proposito di organizzare una riscossa armata ricompattando le fila delle cosche perdenti e degli uomini d’onore scampati all’offensiva dei corleonesi. (“Quando io ero già in Brasile, fu lui infatti a venirmi a trovare, invitandomi a tornare a Palermo e dare il mio contributo, che lui stesso riteneva di grandissima importanza, contro i corleonesi”). Ma numerosi altri collaboratori hanno reso dichiarazioni analoghe. Tra gli altri, in particolare, DI CARLO Francesco e, per primo, PALAZZOLO Salvatore (Dal verbale di interrogatorio sopra riportato del 3.11.93: “Intorno agli anni ’80-81, i corleonesi hanno avuto la certezza che il gruppo vicino al vecchio capo-famiglia, intendeva organizzare una reazione contro di loro. Tali notizie, verosimilmente, sono state acquisite da RIINA e dai suoi fedeli, grazie alla singolare posizione rivestita da DI TRAPANI Ciccio all’interno della famiglia di Cinisi”).
Ma anche CANCEMI Salvatore, già reggente della famiglia di Porta Nuova, riferendo delle ragioni che portarono all’espulsione di Gaetano BADALAMENTI – che indica anche lui nell’essere il boss di Cinisi ritenuto responsabile dell’omicidio di un certo Ciccio MADONIA di Caltanissetta – ricorda che il BADALAMENTI, che “aveva vent’anni che comandava in Sicilia“, non si era rassegnato ad essere “messo fuori famiglia”; e quindi “lui diciamo, sempre di nascosto con quelle sue fedelissime di Stefano BONTADE, INZERILLO, RICCOBONO continuava…”. IL BADALAMENTI avrebbe quindi partecipato ad un complotto ordito contro RIINA Salvatore per eliminarlo e arrestare l’avanzata dei corleonesi (cfr. esame dibattimentale del 5.05.94,, pagg. 65-66 della sentenza RIINA+7).
Sul punto, il CANCEMI è riscontrato da MARINO MANNOIA, che di quel complotto apprese direttamente da uno dei suoi artefici, e cioè da Stefano BONTADE, suo capo famiglia e referente diretto. (V. infra).
D’altra parte si è accertato che, anche dopo la sua espulsione e almeno fino al 1981-82, Gaetano BADALAMENTI conservava intatta la sua rete di contatti, appoggi e consensi con e tra esponenti di spicco dell’associazione, e, negli ambienti di Cosa Nostra, era accreditato di rapporti privilegiati con personaggi influenti delle Istituzioni.
Spiega al riguardo il DI CARLO. “Certo, uno che esce fuori famiglia, non ha più potere, non può avere più rapporti con persone di Cosa Nostra. Che poi qualche volta si hanno messo lo stesso, per come ho fatto io. Dipende come è considerato nell’ambito di Cosa nostra, e noi sappiamo Gaetano BADALAMENTI aveva un’alta considerazione. Come me ha potuto avere qualche rapporto, come Gaetano BADALAMENTI ha avuto qualche rapporto. Infatti, sono venuti alla luce dei rapporti che lui continuava ad avere con Stefano BONTADE e con qualche altro, e poi addirittura in Brasile, l’ha avuto con BUSCETTA”. (cfr. dichiarazioni raccolte nel maxi-quater).
E lo stesso BUSCETTA lo ha confermato più volte: “I cugini SALVO, Stefano BONTADE, Salvatore INZERILLO, il dottore BARBACCIA non interruppero mai i contatti con Gaetano BADALAMENTI. Dico mai, anche se questo poteva costargli la vita, perché prima di ogni cosa, ritenevano ingiusta l’espulsione di Gaetano BADALAMENTI; secondo: perché BADALAMENTI sapeva ancora mantenere un certo contegno di carisma che a BONTADE faceva comodo. Quindi i rapporti non si sono mai persi. Anche io stesso, attraverso il dottor BARBACCIA, ero in contatto con BADALAMENTI, dove io gli dissi che lui, da quel momento in poi che era stato espulso, non doveva dimenticarsi che io mi sentivo al suo fianco”. Ed ancora, ribadisce che i rapporti predetti “Continuarono, anche se in gran segreto, ma continuarono sempre. Io, quando ritornai a Palermo nel 1980, io non mi sono incontrato con BADALAMENTI per ovvi motivi, io ero latitante e non potevo andare nei posti dove era lui, però attraverso BONTADE, io sapevo dei continui contatti che avevano BONTADE e INZERILLO stesso, e siamo nel 1980” (v. le conformi dichiarazioni, anche sul ruolo del dottore BARBACCIA, del collaborante PALAZZOLO Salvatore).
Una testimonianza significativa del persistere, almeno fino alla definitiva presa di potere dei corleonesi, di contatti e legami di G. B. con esponenti di spicco anche di altre organizzazioni criminali di stampo mafioso, come la ndrangheta calabrese, a riprova del carisma personale e del ruolo di vertice propri del boss di Cinisi, viene dalle dichiarazioni di Gaetano COSTA, uno dei pochi collaboratori di Giustizia che provengono dalle fila di quell’organizzazione.
Questi ha dichiarato che “Fino ai primi anni ’80, e cioè fino alla definitiva presa di potere dei corleonesi di Salvatore RIINA, esistevano strettissimi contatti tra Gaetano BADALAMENTI, Saro RICCOBONO e Stefano BONTATE, da un lato, e Giuseppe PIROMALLI, Peppe PESCE da Rosarno (RC), Giuseppe MANCUSO da Limbadi (CZ), Franco MUTO da Cetraro (CS) e Francesco ALBANESE da Cittanova (RC), dall’altro, i quali rappresentavano i maggiori esponenti della ‘ndrangheta calabrese anche se al PIROMALLI veniva riconosciuta una maggiore autorità.
Dopo l’avvento dei corleonesi i rapporti tra Cosa Nostra e i suddetti esponenti della ‘ndrangheta, per un certo periodo, vennero interrotti e ripresero invece, intorno al 1983 – 1984, credo anche grazie all’intervento di Mariano AGATE che, a causa della sua attività imprenditoriale, era legato a Franco MUTO”. (Cfr. verbale di interrogatorio del 25.07.1994).
Da qui la decisione della Commissione, ormai egemonizzata da Totò RIINA, di mettere in atto, nel quadro della guerra di mafia esplosa contro lo schieramento che faceva capo a BONTADE, INZERILLO e (almeno prima della sua espulsione) allo stesso BADALAMENTI, una vera e propria campagna di sterminio ai danni dei fedelissimi di quest’ultimo. E ad innescare la decisione, secondo la dettagliata ricostruzione offerta dal MUTOLO (e riscontrata dalle rivelazioni di MANNOIA, DI CARLO e numerosi altri collaboratori) sarebbe stato il tradimento consumato da persone affiliate al clan BADALAMENTI, che avrebbero informato i corleonesi dei suoi piani di riscossa: “…in questa famiglia di Cinisi,… Si son trovati questi, la maggior parte tutti in disgrazia, diciamo, questi BADALAMENTI, non tanto, diciamo, perché il BADALAMENTI era stato posto fuori famiglia, perché se ne era andato, ma perché c’era qualcuno della sua famiglia di Cinisi, però non un BADALAMENTI, che dava delle notizie in cui, diciamo, il BADALAMENTI cercava di organizzare di fare qualche discorso con altri personaggi che si erano allontanati, per motivi di preoccupazioni”.
Il collaborante indica in Francesco DI TRAPANI il presunto traditore, precisando di avere personalmente assisito “diverse discussioni” con questo DI TRAPANI, che pure “allora era la persona, l’autista fidato di Gaetano BADALAMENTI, più, addirittura si chiamavano ‘parrino’ e ‘figlioccio’; cioè c’era un rispetto enorme”. E riconduce la possibile origine del tradimento al legame perdurante tra i DI TRAPANI e la famiglia dei MADONIA di Resuttana, nonostante alcuni burrascosi trascorsi che avevano indotto i DI TAPANI a trasferirsi a Cinisi. E, come si è già visto, proprio Francesco DI TRAPANI è indicato da DI CARLO e da PALAZZOLO Salvatore come uno dei primi affiliati, un tempo fedelissimi a Gaetano BADALAMENTI, che gli voltarono le spalle, passando dalla parte della cosca avversa dei corleonesi, quando anche a Cinisi esplose la guerra di mafia.
Sul contesto in cui matura la decisione di uccidere Gaetano BADALAMENTI e di fare terra bruciata intorno a lui si è soffermato anche MARINO MANNOIA:
“Dopo la morte di BONTADE, dopo la morte di INZERILLO ci vene comunicato che la commissione aveva deliberato che tutti coloro che erano coinvolti in quel programma di rivolta da parte di BONTADE e di INZERILLO, comunque, che volevano porre fine a questo potere dei corleonesi, che in ogni modo hanno avuto la peggio, appunto con l’uccisione del BONTADE e INZERILLO che erano i promotori, la commissione deliberò che tutti coloro che erano vicino al BONTADE, vicino a INZERILLO e, comunque, coinvolti direttamente con loro in quel piano di essere ricercati e di essere eliminati in qualsiasi momento…”.
Quanto al territorio di Cinisi, il collaborante ricorda che Gaetano BADALAMENTI era stato espulso nel 1978 (e così critica la decisione della commissione: “… è stato veramente uno sbaglio da parte della commissione mettere fuori famiglia e espellere, comunque, il BADALAMENTI un uomo che aveva 50 anni di esperienza di Cosa Nostra”), ma non era scappato, sottintendendo che era ancora tanto forte, nel suo territorio, da non essere stato costretto a darsi alla fuga: “Quindi, il BADALAMENTI certamente era una persona che era temuta, special modo quando avviene la morte e la guerra di Cosa Nostra dove viene ucciso BONTADE e INZERILLO. Il BADALAMENTI era molto amico del BONTADE, era molto amico dei RIMI, era molto amico anche del SALAMONE; quindi, anche il BADALAMENTI rientra, lui e i componenti della sua famiglia, o comunque i suoi affiliati, parenti e amici… in quella campagna di sterminio che era stata decretata dai corleonesi e comunque dai componenti di quella commissione che avevano prevalso…” (cfr. MANNOIA, loc. ult. cit. pag. 85).
Ribadisce che “Sino a quando è vivo Stefano BONTADE, INZERILLO, il RIINA e tanti altri, si rispettava quell’ordine della Commissione di avere espulso BADALAMENTI ma quindi di lasciarlo in vita; ma quando poi succede la guerra di Cosa Nostra e viene ammazzato BONTADE, INZERILLO e tanti altri, naturalmente il pensiero dei corleonesi va accentrato su di lui perché è una persona da eliminare”.
E precisa poi che quello sterminio si inquadrava nel disegno più complessivo di colpire anche persone innocenti, cioè estranee al presunto complotto ordito contro RIINA, “come parenti e amici, per fare terra bruciata nel territorio, per togliere qualsiasi possibilità di rientro a quelle persone scappate”.
Questo concetto della necessità di fare terra bruciata intorno a Gaetano BAALAMENTI ricorre anche in un passaggio delle dichiarazioni rese da Tommaso BUSCETTA nel processo Maxi-quater, laddove asserisce che la finalità ultima dello sterminio messo in atto dai corleonesi di Totò RIINA, in particolare dopo l’uccisione di Stefano BONTADE (che BUSCETTA indica come “il baluardo più grave per il resto dei signori della commissione”) era appunto quello di “fare terra bruciata a chi potesse un giorno ritornare a far valere la sua parola, far valere la sua forza…“(cfr. pag. 50 della sentenza RIINA+7). Ma ricorre altresì nelle rivelazioni di altri ex uomini d’onore che da epoca molto più recente hanno intrapreso la strada della collaborazione con la Giustizia e che provengono da altre famiglie o addirittura da altre province mafiose, a riprova delle dimensioni assunte da quel conflitto. Rivelazioni che chiariscono e confermano oltretutto appartenenze e affiliazioni agli opposti schieramenti di alcuni dei principali protagonisti (e vittime).
Così ONORATO Francesco, già reggente della famiglia di Partanna-Mondello, riscontrando BUSCETTA sul rilievo strategico dell’omicidio di Stefano BONTADE, ha dichiarato:
“Sono stato affiliato a Cosa Nostra nel novembre del 1980 ed il giorno stesso della cerimonia di iniziazione sono stato messo al corrente che in quel periodo bisognava stare attenti perché vi erano tensioni fra le diverse famiglie.
Mi è stato, in particolare, riferito che era in corso una guerra di mafia (e mi è stato detto di stare attenti ai c.d. corleonesi, e cioè a GAMBINO Giacomo Giuseppe, MADONIA Francesco, MADONIA Antonino, chiarisce l’ONORATO nel corso della verbalizzazione riassuntiva).
All’epoca capo famiglia e capo-mandamento della mia famiglia era RICCOBONO Rosario e sottocapo era MICALIZZI Salvatore ed erano questi due uomini d’onore i miei interlocutori.
Ero in particolare molto vicino al MICALIZZI.
Quando venne ucciso il BONTATE Stefano, il RICCOBONO Rosario ed il MICALIZZI Salvatore si preoccuparono ancora di più.
E in sede di verbalizzazione riassuntiva ne indica il motivo nel fatto che “erano stati molto vicini al predetto BONTATE e così anche all’INZERILLO Salvatore ed al BADALAMENTI Gaetano” (cfr. verbale di interrogatorio in atti, del 23.01.97).
Gli fa eco Vincenzo SINACORI, già reggente del mandamento di Mazara del Vallo, il quale, nel riferire di una serie di omicidi commessi in territorio di Alcamo nei primi anni ’80 (e altri episodi delittuosi scaturiti dalle dichiarazioni di un altro collaboratore di Giustizia, PATTI Antonino), dichiara:
“Si tratta di fatti che sono maturati nel corso della guerra di mafia di quegli anni tra i corleonesi e il gruppo facente capo a BONTADE, INZERILLO e BADALAMENTI.
Per come ho appreso negli anni, e cioè dopo la mia affiliazione in Cosa Nostra, fu il gruppo dei palermitani facenti capo a Stefano BONTADE che decise di muovere guerra ai corleonesi che in verità erano già ai vertici di Cosa Nostra sin dagli anni 60 e cioè dopo la guerra vinta a Corleone. Dietro a Michele GRECO, capo della regionale, c’erano i corleonesi e furono costoro a subire l’attacco del gruppo di BONTADE che intendeva scalzarli dai vertici di Cosa Nostra; la guerra degli anni 80 quindi vede i corleonesi in posizione di difesa. Nella provincia di Trapani i corleonesi erano rappresentati da Mariano AGATE e da MESSINA DENARO Francesco i quali divennero, all’inizio della guerra di mafia, i primi obbiettivi da colpire; per converso il gruppo di BONTADE aveva come suoi referenti nella provincia di Trapani la famiglia RIMI di Alcamo. Le prime vittime della fazione corleonese furono Calogero LA COLLA e il padre di Vincenzo MILAZZO entrambi di Alcamo; seguì quindi la reazione dei corleonesi che provocò moltissime vittime anche nella provincia di Trapani. Per quello che mi è stato riferito, bisognava annientare non solo la famiglia dei RIMI ma anche tutti coloro che in qualsiasi modo davano loro un appoggio“. (Cfr. verbale di interrogarono del 23.12.96)
Ancor più centrate sui retroscena dell’offensiva scatenata contro il clan BADLAMENTI le dichiarazioni di PATTI Antonino, già uomo d’onore della famiglia mafiosa di Marsala. Questi, riferendo dell’omicidio di Silvio BADALAMENTI – nipote di Gaetano, che lavorava all’esattoria comunale di Marsale e venne assassinato il 2.06.83 – ha dichiarato che: “Nei primi anni ’80, tra il 1981-1983 non saprei essere più preciso, MILAZZO Vincenzo venne a Marsala da D’AMICO Vincenzo e gli comunicò che era stata presa la decisione di uccidere il nipote di BADALAMENTI Gaetano che all’epoca lavorava a Marsala.
Non conosco di preciso le ragioni per le quali fu decretata la morte del BADALAMENTI, ma di certo posso dire che l’omicidio in questione, cui io stesso ho partecipato, si iscrive perfettamente nella logica che condusse i corleonesi a portare a compimento la c.d. guerra di mafia degli anni ’80.
Si sapeva in “famiglia” che bisognava fare “terra bruciata” attorno ai parenti dei BADALAMENTI così come attorno ai RIMI di Alcamo, nel senso che tutti costoro dovevano essere sterminati”. (Cfr. verbale di interrogatorio del 5.07.95).
Sui legami tra Gaetano BADALAMENTI e i RIMI di Alcamo, nel senso che essi andavano ben oltre il mero vincolo di parentela, hanno reso circostanziate e convergenti dichiarazioni DI CARLO e PALAZZOLO Salvatore. Ma lo stesso PATTI Antonino ha chiarito la contiguità delle due famiglie (i RIMI e i BADALAMENTI) e le alleanze nel panorama degli schieramenti che si contrapponevano agli inizi degli anni ’80: in particolare, i RIMI di Alcamo “erano in guerra con Vincenzo MILAZZO a cui avevano ammazzato il padre, credo in Toscana; i RIMI, inoltre erano imparentati con i BADALAMENTI, e questi ultimi a loro volta erano alleati con Stefano BONTADE di Palermo; c’era in pratica un collegamento che partiva da Palermo, scendeva attraverso Cinisi ed Alcamo, a Trapano e a Marsala; a Trapani c’era Totò MINORE, ad Alcamo i RIMI e a Marsala Michele BARRACO, che era addirittura capo mandamento”. (Cfr. verbale di interrogatorio del 1.09.95).
Orbene, le rivelazioni dei pentiti sui retroscena della c.d. guerra di mafia che anche a Cinisi divampa tra il 1981 e il 1983, con il crudo corredo di dati sul numero e la sequenza degli omicidi, nonché sull’identità delle vittime, offrono una messe di spunti ed elementi che confermano e confortano l’attendibilità di PALAZZOLO Salvatore, almeno per quanto concerne lo spessore e l’affidabilità della conoscenza che questo collaboratore di Giustizia mostra di possedere in ordine a personaggi e vicende della famiglia di Cinisi, con riferimento ad un periodo particolarmente confuso e tormentato della storia di questo sodalizio mafioso.
Ma soprattutto quelle rivelazioni comprovano che, dopo e nonostante l’espulsione da Cosa Nostra e a distanza di alcuni anni dall’omicidio IMPASTATO, Gaetano BADALAMENTI conservava pressoché intatto il proprio potere, almeno nel suo territorio, o comunque gli veniva attribuito un carisma e una capacità di influenza all’interno dell’organizzazione tali da costituire una seria minaccia per lo schieramento vincente che faceva capo a Totò RIINA.
D’altra parte, tutti i collaboratori di Giustizia che ne hanno riferito, concordano nell’indicare il 1978 come l’anno in cui si verificò l’espulsione del BADALAMENTI da Cosa Nostra. E i precisi riferimenti temporali contenuti nelle dichiarazioni di alcuni di loro (e segnatamente: MARINO MANNOIA, MUTOLO Gaspare, DI CARLO Francesco, BUSCETTA e CALDERONE) consentono di datare con più precisione tale evento ad un’epoca sì prossima, ma successiva all’omicidio IMPASTATO.
Particolarmente significativa al riguardo la dichiarazione di MARINO MANNOIA. Questi non sa nulla dell’omicidio IMPASTATO. Ma quando l’A.G. procedente, nel tentativo di sollecitare i suoi ricordi, gliene rammentata la data, egli, pur ribadendo di non saperne nulla, spontaneamente aggiunge di essere certo che a quell’epoca Gaetano BADALAMENTI era ancora capo incontrastato del mandamento di Cinisi, anzi Capo della Commissione provinciale: “In ordine all’omicidio di IMPASTATO Giuseppe, che la S. V. mi dice avvenuto il 9.05.1978, non ho elementi utili da fornire alla Giustizia. All’epoca,comunque, Gaetano BADALAMENTI era ancora Capo Commissione”. (Cfr. verbale di interrogatorio del 26.01.90, f. 2 vol. 2, p. I).
Gli fa eco MUTOLO Gaspare, con una dichiarazione molto più circostanziata. Egli è informato dei motivi per cui fu ucciso l’IMPASTATO (e per ordine di chi: v. infra); e a specifica domanda circa l’epoca in cui BADALAMENTI fu posato da Capo della Commissione, risponde: “Guardi, io mi ricordo perfettamente che è stato nell’estate del 78, mi ricordo che ero, io, in infermeria con Michele MICALIZZI, con Gaetano FIDANZATI ed altri c’era anche un certo Salvatore CUCUZZA che ora l’hanno arrestato di recente e mi ricordo c’era anche Giuseppe MADONIA e mi ricordo che arrivò la notizia, insomma questa notizia per noi così clamorosa, diciamo, che era stato messo fuori famiglia Gaetano BADALAMENTI, insomma”. (Cfr. verbale di interrogatorio del 25.05.96, f. 13, vol. 2).
Ora, se il ricordo di MUTOLO è esatto, non v’è dubbio che l’evento in questione doveva essersi verificato poco prima che la notizia circolasse tra gli altri uomini d’onore, compresi quelli detenuti, essendo di vitale importanza che si sapesse tempestivamente della condizione di espulso o posato di un affiliato a Cosa Nostra: per non esporre gli altri uomini d’onore al rischio di metterlo a parte di notizie riservate o di violare inconsapevolmente le regole dell’organizzazione, continuando ad avere rapporti che quelle regole vietavano categoricamente (V. in proposito dichiarazioni di BUSCETTA, CANCEMI e DI CARLO, nonché dello stesso MUTOLO: “Era necessario che la notizia riguardante la sospensione o l’estromissione da Cosa Nostra di un uomo d’onore circolasse rapidamente fra gli uomini d’onore, perché, in caso contrario, gli stessi avrebbero potuto continuare, in buona fede, a fornire notizie al soggetto sottoposto a tale sospensione”. (Cfr. verbale di interrogatorio di MUTOLO Gaspare del 6.10.95, f. 165 vol. 8).
E sulla tempestività con cui pervenne la notizia dell’estromissione del BADALAMENTI, il MUTOLO non ha dubbi: “io mi ricordo, cioè, quando hanno messo fuori famiglia a Gaetano BADLAMENTI, va bene, ci arrivò completamente la notizia l’indomani all’infermeria di Palermo a dire Gaetano BADALAMENTI è fuori famiglia, cioè un personaggio importante che veniva espulso…” (cfr. verbale di interrogatorio del 31.10.95, f. 179. vol. 8).
Peraltro, già nel corso del primo interrogatorio in cui aveva sommariamente riferito dell’omicidio IMPASTATO, lo stesso collaborante aveva puntualizzato che “si era in un periodo che a Cinisi e nel relativo mandamento nulla si sarebbe potuto fare senza l’esplicito consenso di Gaetano Badalamenti”. (Cfr. verbale di interrogatorio del 17.05.93).
A sua volta, DI CARLO Francesco, che dei retroscena dell’omicidio IMPASTATO è bene informato per averne appreso da alcuni dei diretti responsabili, nell’interrogatorio del 13.02.97, a specifica domanda circa il ruolo che Gaetano BADALAMENTI aveva nella famiglia di Cinisi all’epoca dell’omicidio IMPASTATO, risponde: “Ma a quel periodo ancora era sia capofamiglia e sia capomandamento, perché ancora faceva parte della commissione”. E soggiunge: “Mi sembra poi, dopo poco tempo, è nato un altro discorso e sia stato messo fuori Cosa Nostra, non fuori solo dei…come rappresentante o commissione, ma fuori Cosa Nostra completamente” (cfr. verbale in atti).
Nel corso del successivo interrogatorio del 28.02.97, ha ribadito che all’epoca dell’omicidio, il BADALAMENTI “era capo mandamento e capo famiglia, ma dopo pochissimo tempo da quell’episodio, poi ci sono stati altri episodi e cose, però non a Cinisi… episodi di Cosa Nostra, discussioni di Cosa Nostra ed è stato messo fuori”.
Alla richiesta del P.M. di precisare ancora questo punto, conferma. “Sì, dopo poco tempo”.
Entrambi gli interrogatori citati vertevano proprio sull’omicidio IMPASTATO. Ma il ricordo del DI CARLO, quanto alla data in cui il BADALAMENTI fu estromesso da Cosa Nostra, coincide sostanzialmente con quello di Tommaso BUSCETTA.
Questi ha precisato che BADALAMENTI non faceva più parte della Commissione dall’estate del 1978, così fornendo un puntuale riscontro alle dichiarazioni di MANNOIA e ancor più a quelle di MUTOLO. (cfr. verbale di interrogatorio del 20.11.92, f. 255, vol. 2 p. I). E lo ha ribadito in un successivo interrogatorio che non verteva affatto sull’omicidio IMPASTATO, bensì sulle manovre e le trame ordite dallo stesso BADALAMENTI per ottenere l’annullamento delle condanne nei riguardi dei RIMI (Vincenzo e Filippo) con cui era imparentato: “… per i motivi che ho spiegato in precedenti interrogatori, BADALAMENTI Gaetano non rinunciò mai a disinteressarsi della liberazione dei due RIMI da questo peso dell’ergastolo, anche successivamente alla sua espulsione da Cosa Nostra dell’estate del 1978” (cfr. verbale di interrogatorio del 19.01.95, f. 289).
Il diverso contesto in cui furono rese tali dichiarazioni dimostra che nessuna sia pur involontaria suggestione circa possibili nessi con il coinvolgimento di Gaetano BADALAMENTI nell’omicidio IMPASTATO può avere orientato verso quell’epoca (e cioè l’estate del 1978), il ricordo del collaborante circa la data di estromissione dello stesso BADALAMENTI.
Infine, preziosi riferimenti temporali si ricavano anche dalle dichiarazioni di CALDERONE Antonino, il quale viene a sapere dell’espulsione del BADALAMENTI in occasione di una riunione e contestuale pranzo alla FAVARELLA, la tenuta di campagna di Michele GRECO, nuovo capo della Commissione provinciale di Cosa Nostra. Fu lo stesso GRECO a comunicarglielo.
Ora, il collaborante colloca tale riunione nel novembre del 1978 (cfr. verbale di interrogatorio del 26.10.97, f. 107, vol. 2, p. I). E anche in questo caso deve ragionevolmente presumersi che l’evento non fosse di molto anteriore alla diffusione della notizia in ambienti qualificati dell’organizzazione.
(Né va trascurato il suggestivo percorso logico che induceva già il dott. Giovanni FALCONE – come rimarcato nella relazione in atti della Commissione Anti-mafia – a collocare temporalmente l’espulsione del BADALAMENTI appunto verso la fine del ’78 ovvero subito dopo l’uccisione di Giuseppe CALDERONE, avvenuta il 30 settembre 1978, ipotizzando una manovra a tenaglia dei corleonesi, a partire dall’omicidio di Giuseppe DI CRISTINA, già capo della famiglia di Riesi, avvenuto il 30 aprile 1978, per isolare e dividere BONTADE e BADALAMENTI, evitando che potessero soccorrersi vicendevolmente: cfr. pagg. 29 e 30 della Relazione in atti).
D’altra parte, il territorio di Cinisi, fino al momento in cui la guerra di mafia non divampa anche lì, e fatta eccezione proprio per l’omicidio IMPASTATO, non era stato teatro di fatti di sangue. Lo ricorda lo stesso BADALAMENTI, con malcelato orgoglio, sia pure per argomentarne, alla luce dei vantati rapporti di parentele e di amicizia personale con gli IMPASTATO, l’assurdità dell’accusa nei suoi confronti: “Se fosse vero che io sono stato il capo mafia di Cinisi, dovrebbe pure essere ricordato che, fino all’uccisione di Giuseppe IMPASTATO, non è accaduto nessun fatto di sangue a Cinisi, per cui mi sembra veramente assurdo, oltre che ridicolo, che io avrei potuto iniziare proprio con uno degli IMPASTATO”.
Ma le cronache e i rapporti giudiziari dell’epoca già documentavano, nelle zone circostanti, innumerevoli episodi di attentati (anche dinamitardi) danneggiamenti e incendi a scopo estorsivo. Sicché il mancato verificarsi a Cinisi di fatti di sangue ed episodi di violenza a cose e persone ben poteva interpretarsi non già come indice di uno scarso radicamento della criminalità organizzata, ma, al contrario, come manifestazione di forza e compattezza del sodalizio mafioso locale ed effetto di una leadership mafiosa forte e incontrastata.
L’uccisione di Nino BADALAMENTI, che inaugura la campagna di sterminio ai danni del clan BADALAMENTI, segna e rivela al contempo la rottura dei vecchi equilibri mafiosi e il tentativo (riuscito) di detronizzare quella leadership.
E in effetti, è proprio questo il quadro che emerge anche dai rapporti giudiziari già citati, che vennero stilati in date di qualche anno successive all’omicidio IMPASTATO, ma che fotografano, evidentemente sulla base di risultanze autonomamente acquisite dalle Forze dell’Ordine molto prima e quindi a prescindere dalle rivelazioni dei pentiti, una situazione pregressa. È un quadro in cui particolare risalto viene dato infatti allo scontro in atto tra il clan BADALAMENTI, considerato dominante fino ad allora e, in taluno di quei rapporti, identificato con la c.d. mafia tradizionale, e la cosca emergente dei corleonesi.
In questi termini si esprime l’informativa riservata a firma del magg. SUBRANNI e datata 27 giugno 1979, laddove si indica senza perifrasi il BADALAMENTI come il capo mafia di Cinisi.
Parimenti nella proposta di applicazione della misura della sorveglianza speciale nei riguardi dello stesso BADALAMENTI, datata 31 agosto 1981, se ne ricostruisce il progressivo consolidamento dei legami con organizzazioni internazionali dedite al traffico di stupefacenti – quello stesso traffico per cui il BADALAMENTI riporterà una pesante condanna in esito al processo “Pizza Connection” – a partire dalla sua collocazione ai vertici della mafia siciliana. E al contempo si ipotizza che l’improvviso eclissarsi del boss di Cinisi possa essere dovuto all’inasprirsi di contrasti interni per il predominio nel territorio.
L’evolvere di tali contrasti in aperto conflitto tra due opposti schieramenti di cui erano ormai note appartenenze e affiliazioni è poi oggetto del rapporto-denunzia (per il reato di associazione mafiosa) dei Carabinieri di Partinico, datato 27 novembre 1983, in cui si parla espressamente di un “clan emergente”, facente capo a Bernardo PROVENZANO e Salvatore RIINA, contrapposto al “clan BADALAMENTI”; e ivi Gaetano BADALAMENTI è denunciato per il reato di associazione mafiosa con l’aggravante di esserne promotore e di dirigerla.
Ma addirittura emblematico delle confuse dinamiche criminali che agitano il sistema dei rapporti mafiosi e scuotono i vecchi equilibri, facendo registrare anche inopinati passaggi di campo, è il quadro descritto nel rapporto giudiziario del 10 febbraio 1982, a cura degli stessi Carabinieri di Partitico, sull’omicidio di Giuseppe FINAZZO.
Oltre a segnalarsi il legame organico della vittima con il clan BADALAMENTI e i suoi personali rapporti di interesse e di affari con il boss di Cinisi, si evidenziano ivi i contrasti sfociati in aperta rottura tra esponenti di spicco della mafia locale, rivelati dal mutamento di assetti societari e sedi aziendali. Ma soprattutto il rapporto offre un preciso riscontro alle dichiarazioni dei collaboratori che hanno rivelato l’esistenza di una consuetudine di rapporti di affari e cointeressenze tra Gaetano BADALAMENTI e i principali esponenti di quello che sarebbe diventato lo schieramento vincente nella guerra di mafia, nonché di legami fiduciari con emissari o prestanome degli stessi, come Giuseppe MANDALARI e il Geom. LIPARI (v. dichiarazioni, rispettivamente, di DI CARLO Francesco, sul MANDALARI; e di SIINO Angelo, sul LIPARI).
In particolare, si legge nel rapporto predetto:
“FINAZZO Giuseppe, componente del clan mafioso capeggiato dal noto Gaetano BADALAMENTI, era l’uomo di fiducia più vicino al capo. Tale asserto trova comprova nel fatto che già in data 24.11.1977 la sede legale della S.I.F.A.C. S.p.A. “Cava Calcarea”, sita in località San Giovanni, agro di Cinisi, trasferiva la sede legale dalla via Serra Di Falco nr. 149 di Palermo alla via S. Badalamenti nr. 60 di Cinisi, abitazione di FINAZZO Emanuele, fratello di FINAZZO Giuseppe. Infatti in via Serra di Falco nr. 149 all’epoca del trasferimento domciliava MANDALARI Giuseppe, nato a Palermo il 18.08.1933, ivi domiciliato, via Serra di falco nr. 253, commercialista, appartenente al clan dei ‘corleonesi’ e che fu oggetto di indagini in merito alla ‘anonima sequestri’, nonché processato in data 8.05.1979 perché imputato di favoreggiamento del luogotenente di LEGGIO Luciano, Salvatore RIINA.
I compromessi equilibri con il gruppo dei corleonesi indussero pertanto BADALAMENTI Gaetano e i suoi associati a salvaguardare la società S.I.F.A.C., trasferendo la sede della stessa dalle mani del commercialista amico dei corleonesi, in casa propria, onde non pregiudicare una delle fonti di guadagno della consorteria mafiosa BADALAMENTI.
Le cennate vicissitudini della S.I.F.A.C. sono toccate anche alla società SAZOI, sul cui conto appare utile interloquire.
La SAZOI S.p.A. (società agricola zootecnica industriale) sorse il 13.05.1974 e stabilì la sua sede in via Sera di Falco nr. 149 di Palermo, sede anche della S.I.FA.C.
Azionisti della SAZOI erano i fratelli BADALAMENTI Gaetano e Vito mentre presidente il citato Giuseppe MANDALARI. Il 20.09.1978, la frattura con i corleonesi era ormai evidente, la società:
– cambiava denominazione, da SAZOI in CAPOCABANA;
– stabiliva il nuovo oggetto sociale come segue: ‘COSTRUZIONE EDILE E STRADALE, ACQUISTO DI TERRENO EDIFICABILE, ACQUISTO DI EDIFICI VECCHI DA DEMOLIRE E RICOSTRUIRE, COMPRAVENDITA IMMOBILIARE, COMMERCIALIZZAZIONE DI OGNI PRODOTTO PER L’EDILIZIA, LO SVOLGIMENTO DI OGNI ATTIVITA’ COMMERCIALE PER LA GESTIONE DI ALBERGHI, STABILIMENTI BALNEARI, BAR, RISTORANTI ED IMPIANTI RICREATIVI E SPORTIVI’,
– trasferiva la sede dalla via Sera di Falco nr. 149 di Palermo, in Contrada Mansueto di Capaci.
Rimanevano invariati gli azionisti e la presidenza veniva assunta dallo stesso BADALAMENTI Gaetano”.
E su questo punto il rapporto conclude sottolineando che “attualmente fra i sindaci del collegio sindacale della società figura RUFFINO Maria Stella, moglie dell’ucciso FINAZZO Giuseppe, mentre scompare del tutto MANDALARI Giuseppe”.
A riprova poi del legame fiduciario tra la vittima e Gaetano BADALAMENTI, del quale “curava gli interessi economici”, nel rapporto si evidenzia ancora la circostanza che “don Tano, l’unico vero proprietario, non figura tra gli azionisti della società S.I.F.A.C. S p.A.”.
Orbene, il miglior riscontro all’attendibilità di questi scenari – peraltro ormai processualmente accertati anche in altri procedimenti definiti con sentenze irrevocabili: v. sentenza RIINA+7 – viene proprio dalla sequenza degli omicidi susseguitisi in quegli anni e dall’identità delle vittime, nonché dal comportamento dello stesso BADALAMENTI. Questi, infatti, scompare dalla circolazione e per sua stessa ammissione lascia Cinisi e addirittura la Sicilia proprio nell’agosto del 1981, sebbene, come rimarcato nel rapporto allegato alla proposta di applicazione nei suoi confronti della misura di prevenzione della sorveglianza speciale (che fu avanzata dal Questore di Palermo in data 31.08.81), non pendesse sul suo capo né fosse alla vista alcun provvedimento restrittivo.
Del tutto pretestuosa appare poi la giustificazione addotta al riguardo dal BADALAMENTI nel suo interrogatorio di Philadelphia del dicembre 1995. Egli ha spiegato infatti di essersi sentito vittima di una sorta di persecuzione giudiziaria alla quale volle sottrarsi riparando all’estero. (Ha dichiarato di essersi recato a Nizza, dopo aver soggiornato per qualche tempo a Roma; poi a Parigi e quindi in Brasile). Ma tale persecuzione si sarebbe concretata in una perquisizione domiciliare presso l’abitazione della suocera da parte della Polizia, di cui il BADALAMENTI avrebbe appreso proprio nei giorni in cui aveva fatto ritorno a Cinisi, dopo che il mandato di cattura emesso contro di lui dal G.I. CHINNICI nel maggio del 1980 (e nell’ambito del procedimento a carico di SOLLENA+16 per traffico di stupefacenti), e a cui si era sottratto restando latitante per circa un anno, era stato revocato. In precedenza, era stato convocato due volte per accertamenti, prima dalla Polizia e poi dai Carabinieri di Partitico: ma ciò a cavallo del 1980, e precisamente – assumendo come riferimento temporale l’uccisione dell’on. MATTARELLA – alcuni mesi prima e qualche tempo dopo il gennaio del 1980. Decisamente troppo poco perché possa parlarsi, a fronte dei suoi trascorsi giudiziari, di una persecuzione delle Forze di Polizia tale da indurlo a riparare all’estero.
Può dunque dirsi acclarato che all’epoca dell’omicidio IMPASTATO esisteva ed operava anche a Cinisi un’agguerrita famiglia mafiosa, affiliata a Cosa Nostra e retta da Gaetano BADALAMENTI, in quel momento ancora boss incontrastato di quel territorio.
4. La disponibilità di esplosivi.
È emerso altresì che questo sodalizio criminale era in condizione di procurarsi agevolmente l’esplosivo occorrente per eventuali attentati dinamitardi, e segnatamente esplosivo del tipo di quello effettivamente impiegato per far saltare in aria il corpo del povero IMPASTATO. Esistevano infatti nei dintorni di Cinisi diverse cave tutte gestite o controllate da parenti del BADALAMENTI (come i fratelli IMPASTATO, figli di dell’anziano Giacomo, nonché cugini di Peppino) o persone a lui vicine come i D’ANNA di Terrasini o i f. lli FINAZZO Giuseppe ed Emanuele (Questi ebbe a dichiarare ai Carabinieri, nel corso degli accertamenti investigativi seguiti all’omicidio, che suo fratello Giuseppe lo coadiuvava nella gestione della cava, e tale gestione costituiva anzi la sua principale se non esclusiva attività professionale: così si legge nel rapporto 10.02.82).
Alle considerazioni già svolte in precedenza sul punto può qui aggiungersi quanto è emerso dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di Giustizia che hanno riferito di due di queste cave.
Di una cava di pietre sita tra Montelepre e Carini ha riferito il collaborante FERRANTE Giovan Battista, precisando che apparteneva a tal IMPASTATO, che aveva un braccio monco e due fratelli che si occupavano anche loro della cava. Si riferisce evidentemente a Luigi IMPASTATO (figlio di Giacomo ù sinnacheddu, e ucciso nel 1981), del quale si è accertato che era persona di fiducia di Gaetano BADALAMENTI e ne curava gli interessi economici nel settore dell’edilizia (v. sentenza RIINA+7, pag. 113 e segg.).
Anche il collaborante CALDERONE Antonino conferma che Luigi IMPASTATO era un uomo d’onore molto vicino a Gaetano BADALAMENTI – è indicato come tale da DI CARLO Francesco e da PALAZZOLO Salvatore – e gestiva una cava di pietrisco vicina ad un’altra cava cui era interessato Bernardo PROVENZANO. Di tale cava gli consta personalmente: essa è situata lungo la statale Palermo Cinisi precisamente sulla sinistra andando verso Cinisi. Tale cava era gestita da una società di un certo FINAZZO e la contabilità era affidata appunto ad un uomo di fiducia del PROVENZANO, tal Giuseppe MANDALARI (cfr. CALDERONE, 26.10.87, f. 107, vol. 2 p. I).
Ebbene, l’essere il PROVENZANO interessato alla gestione di questa cava e per il tramite di quel MANDALARI – già condannato per associazione mafiosa – che è assurto agli onori delle cronache di mafia per essere il commercialista di Totò RIINA non stupisce né appare in contrasto con l’assunto di cui al rapporto giudiziario dei carabinieri sopra riportato a firma del cap. ARENA secondo cui il FINAZZO era sostanzialmente un prestanome di Gaetano BADALAMENTI; e questi era il vero proprietario di fatto della S.I.F.A.C., ossia della società che gestiva la cava in oggetto. Ciò in considerazione della tortuosa evoluzione dei rapporti d’affari (e societari) inizialmente intercorrenti tra lo stesso BADALAMENTI ed esponenti di spicco del gruppo dei corleonesi (come Bernardo PROVENZANO), o loro emissari (come Giuseppe MANDALARI), descritto nel medesimo rapporto.
E proprio sul conto del MANDALARI e dei suoi rapporti con i BADALAMENTI, il collaboratore DI CARLO Francesco ha rivelato una serie di circostanze che confortano la ricostruzione di cui al citato rapporto dei Carabinieri di Partitico e l’arricchiscono di nuovi particolari.
Egli riferisce di rapporti di frequentazione, in particolare, di Nino BADALAMENTI con il MANDALARI, protrattisi almeno fino al periodo 1972/74:
“… A parlarmi del MANDALARI ed a presentarmelo fu Nino BADALAMENTI, fratello di Gaetano BADALAMENTI, con il quale avevo un ottima frequentazione ed un solido rapporto di amicizia.
Ho seguito l’evoluzione economica del BADALAMENTI, il quale da modesto allevatore divenne un ricco possidente, pur non chiedendo nulla in proposito avevo modo di capire che esistevano fonti di ricchezza illecite di cui il BADALAMENTI disponeva.
Il BADALAMENTI mi disse che a gestire il suo denaro era il MANDALARI, attraverso la costituzione e gestione di società, delle quali però non conosco i nomi.
Con il BADALAMENTI mi sono recato due volte nell’ufficio del MANDALARI, che si trovava in via Serradifalco, al primo piano di uno stabile, in quelle occasioni li ho sentiti fare riferimento a delle società, ma naturalmente non ho prestato particolare attenzione ai discorsi dagli stessi fatti, tali frequentazioni a cui mi riferiscono risalgono al periodo 1972/74.
Fu lo stesso BADALAMENTI, come ho detto a riferirmi dell’impiego del MANDALARI come gestore delle ricchezze di Cosa Nostra ed in particolare delle proprie.
Da RIINA stesso invece ho appreso dei rapporti che lo stesso aveva con il MANDALARI, dello stesso il RIINA aveva grande considerazione e lo riteneva molto competente in materia economica; del fatto che anche Bino PROVENZANO si avvaleva fino ad un certo momento della competenza economica del MANDALARI mi risulta personalmente, poichè una volta viaggiando verso Napoli, insieme a RIINA e Bernardo BRUSCA (ci stavamo recando da NUVOLETTA), si intavolò una discussione a proposito di un nuovo consulente del PROVENZANO, che aveva consigliato al PROVENZANO di coltivare a frutteto un appezzamento di terreno che questi aveva acquistato nel trapanese e del quale non so dare precise indicazioni.
Il RIINA ed il BRUSCA criticarono tale decisione e commentarono negativamente il fatto che il PROVENZANO avesse lasciato i consigli del MANDALARI, per il nuovo consulente” (cfr. verbale di interrogatorio del 24.10.1996).
Non è affatto vero poi, che la mafia locale fosse aliena o non fosse adusa a servirsi di esplosivi per compiere delitti. Un precedente clamoroso era costituito dall’uccisione di Cesare MANZELLA, già capo dello stesso sodalizio prima dell’avvento del BADALAMENTI e vittima di un auto-bomba nel 1963. Ma anche all’epoca dell’omicidio IMPASTATO – sia pure non a Cinisi ma tutto intorno alla roccaforte del BADALAMENTI – si registravano con notevole frequenza attentati dinamitardi di stampo mafioso connessi ad attività estorsive.
Vi allude un passaggio del rapporto ARENA del 10.02.81.Ne ha fatto cenno il collaboratore CALDERONE Antonino, precisando che, subito dopo la positiva (per gli imputati) conclusione del processo di Catanzaro, BADALAMENTI Gaetano era stato il principale artefice “di quella serie di attentati in Sicilia che miravano a far presente a tutti che la mafia era tornata più forte di prima”. Ma sopratutto ne ha espressamente riferito il cap. DEL BIANCO (che all’epoca dell’omicidio IMPASTATO comandava la compagnia dei CC di Partinico) nel corso della sua audizione del 20 gennaio 2000 dinanzi alla Commissione Antimafia:
“Si sono verificati diversi atti estorsivi nelle zone di Tappeto, Balestrate, Partitico, Borgetto. Ovviamente, per ogni esplosione veniva utilizzato – si presume – esplosivo da cava. Da quali cave provenisse non siamo mai riusciti a saperlo. So che esisteva una cava nelle vicinanze di Cinisi”.
Sul punto conviene riportare integralmente il breve passo trascritto nella Relazione in atti perché da esso, stando alle incerte risposte date dal cap. DEL BIANCO alle domande specifiche del Presidente coordinatore del Comitato procedente, parrebbe evincersi che le indagini (se indagini vi furono) dirette, a suo tempo, a scoprire la provenienza dell’esplosivo utilizzato negli attentati dinamitardi compiuti nel territorio circostante al paesino di Cinisi (a pochissima distanza dal quale si trovano tutti i paesi nominati dal teste), con tutta probabilità, non furono svolte con la necessaria convinzione:
“RUSSO SPENA COORDINATORE. Cerano cave a Terrasini?
DEL BIANCO. Tra Cinisi e Terrasini c’era una cava.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Non ricorda a chi appartenesse?
DEL BIANCO. Non era di un certo D’Anna?
RUSSO SPENA COORDINATORE. Un certo D’Anna è storicamente presente, da allora. Lei ricorda D’Anna, quindi?
DEL BIANCO. Mi sembra di ricordare D’Anna. Poi collego D’Anna a Finazzo e a Badalamenti che sono stati messi in correlazione tra di loro.
RUSSO SPENA COORDINATORE, m base alla sua esperienza di allora, ricorda la materia di questo nesso tra D’Anna e Badalamenti?
DEL BIANCO. Se non sbaglio erano anche parenti e poi, come fattore comune, erano stati già denunciati per i medesimi reati”. (Cfr. pag. 111 della relazione in atti).
Nella stessa Relazione si evidenziano altri elementi emersi dall’audizione del cap. DEL BIANCO e segnatamente il fatto che egli abbia confermato esplicitamente che “in quella località vi erano estorsioni realizzate a mezzo di attentati dinamitardi(‘…la consueta bomba…’) da parte di ‘alcuni soggetti mafiosi‘ puntualmente denunciati quali mandanti, mentre altri erano stati anche arrestati”.
(Ivi si stigmatizza, non a torto, il fatto che, nonostante questa consapevolezza, gli Inquirenti non ritennero, nella fase iniziale delle indagini sulla morte dell’IMPASTATO, di esplorare la pista mafiosa con opportune perquisizioni a casa dei presunti mafiosi o comunque dei pregiudicati della zona; ovvero, come per prassi, di quelle persone ritenute capaci di usare esplosivi. Né furono controllate, come già si è detto, le cave della zona e i relativi registri).
5. Un plausibile movente.
D’altra parte, la famiglia mafiosa di Cinisi aveva un più che plausibile movente per uccidere Peppino IMPASTATO, per quanto possa desumersi dalla personalità della vittima e dai contenuti della battaglia politica che da anni egli conduceva.
Infatti, all’epoca capo famiglia era Gaetano BADALAMENTI, e proprio questi era il principale bersaglio delle pubbliche accuse e della campagna di denunce e di contro-informazione portata avanti dalla vittima: che, tra le altre accuse, rivolgeva al BADALAMENTI anche quella di avere avviato un lucroso traffico di stupefacenti. E di sponsorizzare, o ergersi a garante, di accordi illeciti tra imprenditori e pubblici amministratori per attuare le peggiori speculazioni edilizie e urbanistiche che stavano devastando il territorio di Cinisi e la sua fascia costiera in particolare.
Né si limitava ad accusare Gaetano BADALAMENTI: al contrario, accusava la mafia di Cinisi, facendo nomi e cognomi di personaggi che ben conosceva perché amici del padre. Al riguardo, in uno dei passaggi più significativi delle dichiarazioni rese in merito alla vicenda IMPASTATO, e al movente dell’omicidio, il collaboratore DI CARLO Francesco, riferendo quanto confidatogli da Nino BADALAMENTI, rammenta che il giovane “accusava la mafia di Cinisi, dice, essendo che lui conosceva tutti i singoli persone e amici del padre, non si limitava nemmeno verso i parenti o verso quelli intimi amici di suo padre, accusava direttamente con nomi e cognomi a tutti i nostri amici, dice, un ragazzo pazzo” (cfr. verbale di interrogatorio del 13.02.97).
Ma sui diversi aspetti del movente così delineato si avrà modo di tornare in prosieguo.
6. L’interesse a simulare l’attentato terroristico.
Infine, la famiglia mafiosa di Cinisi aveva più che giustificati motivi per realizzare la messinscena dell’attentato terroristico: motivi che andavano ben al di là dell’ovvio intento di sviare le indagini, fugando qualsiasi sospetto sugli autori del delitto.
Ed invero quella messinscena era mirata ad accreditare una lettura del fatto che escludesse la stessa configurabilità di un omicidio.
Ma quando mai la mafia, o più esattamente, Cosa Nostra, si è preoccupata non diciamo di depistare, ma addirittura di dissimulare un omicidio voluto e attuato per tutelare gli interessi o realizzare fini strategici dell’organizzazione, dietro le apparenze di un incidente?
Se l’esperienza acquisita in innumerevoli procedimenti in materia di delitti di mafia ci ha insegnato qualcosa, ebbene deve convenirsi che è ovvio interesse degli autori di un omicidio di mafia, come di un qualsiasi altro delitto, sviare le indagini o cancellare e occultare qualsiasi traccia che possa condurre gli Inquirenti ad accertare l’identità dei responsabili. Ma il sospetto o la certezza in ordine alla matrice mafiosa del delitto non è affatto motivo di preoccupazione per il mafioso che ne sia mandante, poiché è insito nella percezione diffusa di tale matrice un effetto di monito e di intimidazione che giova in definitiva all’interesse dell’organizzazione mafiosa, trovando questa per definizione il suo principale punto di forza proprio nella capacità di intimidazione e nel vincolo di assoggettamento omertoso che ne consegue.
E questo un punto che merita un più attento esame, perché sembrerebbe venirne un ostacolo stridente alla prospettazione accusatoria.
La simulazione dell’attentato terroristico, in quanto voluta per depistare le indagini gettando discredito sulla vittima e sulla parte politica cui apparteneva, potrebbe addursi, ragionando in astratto, come un elemento a favore della c.d. “pista nera”: dell’ipotesi cioè, scaturita dalle rivelazioni di un neofascista pentito, Angelo IZZO, che a commettere l’omicidio sia stata una cellula eversiva di estrema destra, interessata a screditare le formazioni di estrema sinistra e a suscitare (contro le stesse) lo sdegno e la riprovazione dell’opinione pubblica a vantaggio della parte politica che si presentava come garante dell’ordine e della sicurezza dei cittadini.
Peraltro, il suddetto IZZO, nelle sue fumose dichiarazioni de relato, e sempre sulla scorta delle presunte confidenze fattegli da un altro militante neo fascista, Pierluigi CONCUTELLI, non ha affatto escluso il coinvolgimento della mafia locale, asserendo al contrario che gli autori dell’assassinio avrebbero agito di concerto con esponenti mafiosi del luogo.
Ma anche questa pista è stata esplorata senza ricavarne alcunché, come si legge nella motivazione della richiesta avanzata dal P.M. per l’archiviazione (la seconda in ordine di tempo) del procedimento relativo all’omicidio IMPASTATO. In particolare, il CONCUTELLI ha categoricamente smentito le confidenze che IZZO gli attribuiva, né quelle rivelazioni hanno trovato il minimo riscontro. Anzi, quanto rammentato a proposito dell’esito negativo dei primi accertamenti della DIGOS, volti ad appurare se esistessero, nel territorio di Cinisi e dintorni, cellule dedite a trame o attività terroristiche, vale anche ad escludere la presenza di nuclei organizzati del terrorismo “nero”.
Di contro, scavando nel retroterra familiare e ambientale della vittima, è agevole enuclearne un interesse strategico a dissimulare, per quanto possibile, la matrice mafiosa del delitto e la sua ascrivibilità ai vertici della famiglia mafiosa di Cinisi.
Infatti, le testimonianze dei prossimi congiunti convergono con le rivelazioni di diversi collaboratori di Giustizia (v. DI CARLO, PALAZZOLO Salvatore e MUTOLO Gaspare) nel senso di indicare negli IMPASTATO una famiglia organica a Cosa Nostra e particolarmente vicina, anche in ragione di vincoli originari o acquisiti di parentela, proprio al boss Gaetano BADALAMENTI.
Più d’uno degli IMPASTATO, parenti di Peppino, era uomo d’onore: come tali sono stati indicati dai collaboratori predetti, ed erano, all’epoca del fatto, ritenuti dagli Inquirenti – per quanto filtrato dalle cronache giudiziarie del tempo – vicini o legati a personaggi e ambienti della mafia locale, ed anzi particolarmente vicini al capo riconosciuto della famiglia di Cinisi.
Certo è che tra i caduti della c.d. guerra di mafia esplosa anche a Cinisi a partire dall’agosto del 1981, si contano almeno due IMPASTATO; ed entrambi gli omicidi si inscrivono nella campagna di sterminio scatenata dai corleonesi ai danni di parenti di Gaetano BADALAMENTI o di soggetti a lui fedeli o vicini.
Il primo è Luigi IMPASTATO, figlio di Giacomo, inteso “ù sinnacheddu” (cioè il “piccolo sindaco“, per significare la sua capacità di influenza sulla vita economica e sulle connesse attività amministrative del paese di Cinisi) e cugino (in secondo grado) di Peppino, assassinato il 22.09.81.È indicato da PALAZZOLO Salvatore e da DI CARLO Francesco, nonché da CALDERONE Antonino, come uomo d’onore della famiglia di Cinisi. E si è accertato che curava gli interessi di Gaetano BADALAMENTI nel settore dell’edilizia. (v. supra).
Inoltre, era fratello di Nicola IMPASTATO, che aveva sposato una figlia di Nino BADALAMENTI, cugino di Gaetano.
Il secondo, in ordine di tempo, è Giacomo IMPASTATO, assassinato a Isola delle Femmine il 15.01.82. Era nipote acquisito di Gaetano BADALAMENTI, avendone sposato appunto una nipote (Agata BADALAMENTI), nonché cugino di Peppino IMPASTATO. Lavorava nello stesso negozio di piastrelle e ceramiche gestito da uno dei figli di Gaetano BADALAMENTI e sito a Palermo, in via Leonardo da Vinci.
Quanto alle (ulteriori) informazioni in possesso dei pentiti, MUTOLO rammenta, sempre sulla scorta delle confidenze di uomini d’onore che con la famiglia di Cinisi avevano avuto stretti rapporti, che “quel ragazzo apparteneva ad una famiglia buona, e cioè vicina alla mafia, anche se non so precisare chi in particolare degli IMPASTATO fosse uomo d’onore” (cfr. verbale d’interrogatorio del 25.05.96).
Più puntuali le informazioni di cui è in possesso il DI CARLO, che ha dichiarato di conoscerli tutti, gli IMPASTATO, “sia il cugino, che poi hanno ucciso, anche lo zio…“. Ebbene, secondo DI CARLO, il padre di Peppino non era uomo d’onore, o almeno non gli era stato mai presentato come tale, “però era abbastanza vicino e molto rispettato”. Erano sicuramente uomini d’onore, invece, Luigi IMPASTATO – che esattamente il collaborante identifica con quello che aveva un handicap al braccio (“Aveva un braccio… non so che aveva nel braccio) – figlio di Giacomo, e lo stesso Giacomo (che era cugino del padre di Peppino). E aggiunge che “tantissimi parenti dei IMPASTATO erano Cosa Nostra”. (Cfr. verbale di interrogatorio del 13.02.97).
E nel ribadire poi che oltre a Jacopo e Luigi IMPASTATO “c’erano altri IMPASTATO in famiglia”, spiega che per famiglia intende “Famiglia di Cosa Nostra, perché quando si dice Cinisi IMPASTA…prima BADALAMENTI, BATTAGLIA o si dice PALAZZOLO e si dice IMPASTATO, era un senso di rispetto anche per chi è parente di questi”.
Aggiunge che il rispetto di cui godeva il padre di Peppino era dovuto anche al fatto che suo fratello (alludendo verosimilmente a Giuseppe IMPASTATO, inteso Sputafuoco, zio di Peppino) era uomo d’onore: “ai tempi bastava un fratello a volte in una famiglia di Cosa Nostra, l’altro fratello aveva gli stessi… come dire? Stesso rispetto, per non dire quasi gli stessi diritti se andava a fare lavori o qualsiasi cosa; poi hanno cominciato…per ingrandire la famiglia, a volte in una famiglia ne tenevano due, tre fratelli. Siccome questi erano anziani, erano ancora del vecchio stampo, ne avevano un rispetto enorme perché rispettavano il fratello; IMPASTATO ce n’erano altri cugini che erano pure Cosa nostra avevano sempre un nome, era rispettatissimo…. e lo conoscevo e infatti se io andavo a Cinisi e lo incontravo nei posti, quasi ci facevamo più festa che incontrando il fratello suo, quello di Cosa Nostra” (cfr. verbale di interrogatorio del 28.02.97).
Il collaboratore PALAZZOLO Salvatore, invece, ripetutamente indica il padre di Peppino come “uomo d’onore appartenente alla famiglia di Tano BADALAMENTI”; e si dice certo di ciò: “Della qualità di uomo d’onore del padre di IMPASTATO Peppino mi ha riferito con assoluta certezza PALAZZOLO Vito ed io ricordo ancora la mia meraviglia nell’apprendere ciò, in quanto ben conoscevo il padre di IMPASTATO Peppino e sapevo che era una brava persona del tutto lontano dalla mentalità mafiosa”. (Cfr. verbale di interrogatorio del 23.02.95. Ivi il collaborante precisa che proprio l’appartenenza di Luigi IMPASTATO alla famiglia mafiosa di Cinisi era motivo di imbarazzo e rendeva assai sofferta la decisione di eliminare il figlio: “Si sperava inoltre di evitare al padre dell’IMPASTATO questo dispiacere e ciò perché anch’egli era uomo d’onore della famiglia di Cinisi”).
Anche Giovanni IMPASTATO, fratello di Peppino, ha ripetutamente indicato suo padre come uomo d’onore della famiglia mafiosa di Cinisi (cfr. S.I. rese al P.M. l’8 giugno 1996: ivi, a proposito del risentimento che Gaetano BADALAMENTI covava nei riguardi di suo fratello, spiega che “tale risentimento era peraltro dovuto anche al fatto che, essendo mio padre un uomo d’onore, appariva assolutamente inconcepibile che Peppino potesse scagliarsi contro gli amici del padre”).
Le affermazioni di Giovanni IMPASTATO, pur essendo egli estraneo all’associazione mafiosa, debbono il loro valore indiziario al fatto di essere frutto di una conoscenza diretta dei trascorsi e dei rapporti di frequentazione del padre.
Ma in ordine a questi ultimi, lo stesso Giovanni IMPASTATO ha reso dichiarazioni assai più circostanziate, che attestano come, fino alla sua morte, Luigi IMPASTATO, a prescindere dalla qualità di uomo d’onore – della quale non v’è certezza processuale – fosse pienamente inserito in una trama di relazioni e frequentazioni con vari personaggi di cui si è accertata l’appartenenza a Cosa Nostra, come i fratelli DI TRAPANI, PALAZZOLO Vito, e lo stesso Gaetano BADALAMENTI, oltre al defunto Cesare MANZELLA (cfr. da ultimo verbale di S.I. del 21.01.99)
Ma è soprattutto a Don Tano e a “tutti i componenti della famiglia BADALAMENTI” che il padre di Peppino, secondo la concorde testimonianza dei suoi più stretti congiunti, era legato da vincoli di personale amicizia che si traducevano anche in una consuetudine di rapporti di frequentazione e di intimità delle rispettive famiglie.
Lo conferma, del resto, lo stesso BADALAMENTI, quando, nel respingere con sdegno l’accusa di essere il mandante dell’uccisione di Peppino IMPASTATO, rammenta (elencandoli) i molteplici vincoli di parentela che lo legano agli IMPASTATO, e il suo personale vincolo di amicizia con Cesare MANZELLA, che era marito di Fara IMPASTATO, sorella di Luigi; e sottolinea altresì il rapporto personale di amicizia e di affetto con il padre di Peppino e con i suoi familiari, compresa la Sig. ra BARTOLOTTA. Indicativo di questa affettuosa cordialità di rapporti sarebbe anche il fatto, rievocato nel corso del medesimo interrogatorio che, sia prima di partire per gli Stati Uniti, nella primavera del ’77, che immediatamente dopo il suo ritorno, Luigi IMPASTATO si sia recato a far visita al BADALAMENTI, portandogli i saluti e un regalo da parte dei parenti americani. Anche la madre di Peppino, a suo dire, era presente quando il regalo (una camicia e una cravatta) del cugino di New Orleans gli fu consegnato da Luigi IMPASTATO.
E “per dimostrare quanto fossero buoni i miei rapporti con gli IMPASTATO, posso dire che il 14.09.77 (ricordo la data perché coincide con il mio compleanno), io partecipai alla festa di nozze tra Calogero MISURACA (NdR: anche lui assassinato il 9.10.81) e Lilla BARTOLOTTA, parente di Felicia; tale ricevimento si tenne all’Hotel ZAGARELLA (NdR: in un successivo interrogatorio chiarirà che si trattava dell’Hotel Saracen) e, poi, vi fu una festicciola per i più intimi, tra cui appunto Luigi IMPASTATO e la nuora di cui attualmente non ricordo il nome, sposata con Giovanni IMPASTATO, figlio di Luigi” (cfr. interrogatorio reso da Gaetano BADALAMENTI al G.I. dott. FALCONE il 4 giugno 1987).
Felicia BARTOLOTTA peraltro non ha mai negato l’esistenza di questo tipo di rapporti, confermando anzi l’abitualità di scambi di visita a casa tra la sua famiglia e quella di BADALAMENTI. Il quale, per parte sua, ne ricava a propria discolpa la conclusione che “tali rapporti reciproci di parentela e di amicizia rendevano comunque impensabile che qualcuno di noi potesse solo pensare di far del male agli altri”.
In realtà esiste una chiave di lettura ben diversa dell’intera vicenda, che giustifica un’opposta conclusione.
Ed invero, premesso quanto sopra riportato, in ordine all’estrazione mafiosa degli IMPASTATO, all’attualità e consistenza dei rapporti tra il padre di Peppino e gli affilati al clan BADALAMENTI; e con riserva di tornare sui veri motivi che indussero Luigi IMPASTATO a intraprendere improvvisamente un lungo viaggio negli States, per incontrarsi con i suoi parenti d’oltreoceano, può rilevarsi fin d’ora che il decretare la morte di Peppino IMPASTATO avrebbe significato, per Gaetano BADALAMENTI, macchiarsi del suo stesso sangue; ossia fare ciò che, alcuni anni dopo, suo cugino Nino BADALAMENTI si sarebbe rifiutato di fare, pagando peraltro con la vita questo suo rifiuto.
E stante la collocazione degli IMPASTATO ben all’interno dei circuiti mafiosi tradizionali e, verosimilmente, con appoggi anche presso gli ambienti della mafia siculo-americana; nonché i personali rapporti di G. B. con i congiunti più stretti dell’ucciso, l’eliminazione di Peppino per mano e volontà del boss di Cinisi sarebbe stato vissuto da una famiglia onorata e rispettata come quella degli IMPASTATO e valutata negli ambienti di Cosa Nostra – e segnatamente all’interno della stessa famiglia di Cinisi – alla stregua di un tradimento e di un’offesa consumati ai danni di una famiglia che non lo meritava. Questa, quindi, avrebbe potuto chiederne conto allo stesso capo mandamento.
Ciò avrebbe potuto gettare discredito e offuscare l’immagine e il prestigio del BADALAMENTI, con l’ulteriore rischio che si innescasse una faida interna allo stesso clan BADALAMENTI e per iniziativa di uno dei gruppi familiari tradizionalmente più fedeli, con effetti destabilizzanti facilmente intuibili: tanto più in un momento in cui la leadership dell’anziano boss di Cinisi cominciava ad essere messa in discussione.
Essa infatti era insidiata dall’interno in forza della rivalità con Procopio DI MAGGIO, ma anche delle tensioni con il cugino Nino; e, dall’esterno, per le manovre sotterranee dei corleonesi impegnati a indebolire e corrodere le basi del potere di Gaetano BADALAMENTI all’interno dell’organizzazione e nel suo stesso territorio.
Pertanto, volendo accedere all’ipotesi accusatoria secondo cui fu proprio Gaetano BADALAMENTI ad ordinare l’uccisione di Peppino IMPASTATO, sarebbe altresì plausibile ed anzi rigorosamente consequenziale sul piano logico attribuire al clan BADALAMENTI tutto l’interesse a mascherare matrice e causale del fatto: non solo per depistare gli Inquirenti, ma anche per allontanare da sé un sospetto infamante e scongiurare il rischio che la prevedibile reazione della famiglia dell’ucciso potesse innescare una sfida o comunque provocare lacerazione e contrasti all’interno dello stesso clan. (Ed è proprio questo il movente della simulazione dell’attentato terroristico che viene messo in luce nelle rivelazioni dei collaboratori di Giustizia che hanno riferito quanto a loro conoscenza in ordine alla causale e ai mandanti dell’omicidio).
Quanto meno, occorreva salvare le apparenze senza far perdere la faccia né a chi aveva deciso di sopprimere l’IMPASTATO, né ai familiari dell’ucciso; e accreditare una sorta di verità ufficiale che rendesse più accettabile per questi ultimi sopportare la perdita del proprio congiunto senza reagire e fornisse un valido pretesto per conservare tra loro, almeno in apparenza, gli ottimi rapporti che c’erano sempre stati.
5.2. Le propalazioni accusatorie nei confronti di Gaetano BADALAMENTI.
1.È in questo contesto indiziario che si innestano le rivelazioni dei collaboratori di Giustizia che esplicitamente chiamano in causa Gaetano BADALAMENTI quale mandante dell’omicidio IMPASTATO: rivelazioni che da quel contesto ricavano peraltro formidabili riscontri logici e fattuali.
Esse rientrano tutte nell’archetipo delle dichiarazioni de relato, quanto al loro specifico contenuto accusatorio, fatte salve alcune rilevanti peculiarità che ne valorizzano il peso e la forza sul piano probatorio. Appare opportuno quindi, ad integrazione del quadro dei principi già esposti in tema di chiamata di correo, richiamare gli specifici principi – anch’essi desunti dalla più consolidata giurisprudenza in materia di dichiarazioni de relato – cui questa Corte ha ritenuto di doversi uniformare nella valutazione della loro attendibilità e della conseguente efficacia probatoria.
Alcune delle dichiarazioni predette non solo sono de relato; ma rimandano ad una stessa fonte, sicché si ridurrebbero in realtà ad un’unica fonte.
Su questo punto si può convenire, anche se la provenienza dalla medesima fonte non toglie nulla all’efficacia delle singole dichiarazioni de relato; anzi, le corrobora, atteso il principio secondo cui il riscontro ad una chiamata de relato ben può venire dalla dichiarazione di un altro soggetto che affermi di aver ricevuto dal chiamante de relato la medesima confidenza, dovendosi dare risalto piuttosto al diverso contesto, specie cronologico, in cui quella confidenza è stata ricevuta, in quanto antecedente di un tempo apprezzabile la chiamata de relato, sì da escludere l’ipotizzabilità di collusioni. (Cfr. >Cass. 30.06.93, TORNESE).
A fortiori tale principio, e dunque l’idoneità di una chiamata de relato a fungere da riscontro ad altra chiamata, anch’essa de relato, deve valere se la seconda chiamata- indipendentemente dal fatto che promani da un testimone indiretto o da soggetto che rivesta a sua volta la qualità di imputato di reato connesso – rinvia alla stessa fonte di riferimento, purchè questa sia rappresentata da un soggetto che aveva conoscenza diretta e immediata dei fatti illeciti oggetto della dichiarazione da riscontrare.
2. Rilievo processuale e valore probatorio delle dichiarazioni “de relato”.
Quanto alla concreta efficacia probatoria di tali fonti, al di là del valore e del rilievo che deve annettersi al riscontro incrociato delle convergenti propalazioni accusatorie, ulteriori considerazioni vanno spese in ordine al valore processuale delle dichiarazioni de relato in quanto tali, e alle possibilità (e i limiti) di un effettivo riscontro.
Ed invero, il S. C. ha più volte statuito che “a possibilità di una valida corroborazione reciproca tra più chiamate in correità opera anche nel caso in cui trattasi di chiamate fondate su conoscenza indiretta della condotta attribuita al chiamato, dandosi luogo, in tal caso, soltanto all’obbligo, da parte del giudice, di una verifica particolarmente accurata dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie, alla stregua del principio di ordine generale stabilito dal primo comma del medesimo art. 192 e nell’osservanza del disposto dell’art. 195 richiamato dall’art. 210, co. 5^” (Così >Cass. 10/05/93 ALGRANATI).
Ritiene questa Corte di dover condividere tale principi, salvo precisare che la sanzione processuale dell’inutilizzabilità della dichiarazione de relato, presuppone la tempestiva richiesta di audizione del “teste di riferimento”, ad iniziativa della parte interessata. (Giurisprudenza unanime; v. per tutte Cass. 15/12/98, LEONE: “In tema di prova, l’art. 195 commina l’inutilizzabilità delle deposizioni indirette solo se sia disattesa l’espressa richiesta di parte di audizione dei testi di riferimento”. Cfr. anche Cass. Sez. II, 18 aprile 1996 n. 4022, ESPOSITO).
Inoltre la regola si addice evidentemente all’ipotesi in cui la prova sia assunta nelle forme del rito ordinario, ovvero la dichiarazione de relato sia stata resa nel corso dell’esame del dichiarante. Ma sotto questo profilo il problema neppure si pone in questo processo, sia perché non sono state avanzate, da parte della difesa, specifiche richieste di audizione dei testi di riferimento quando si è effettivamente proceduto al relativo esame; sia perché, rispetto alle dichiarazioni de relato rese dall’unico collaboratore di Giustizia qui escusso sulle circostanze relative all’omicidio IMPASTATO (e cioè PALAZZOLO Salvatore), la fonte di riferimento è costituita dallo stesso imputato: e quando fonte di riferimento sia un soggetto che figura come imputato dello stesso fatto oggetto della dichiarazione de relato, l’art. 195 neppure si applica ( v. infra).
È anche vero però che la chiamata diretta è di per sè prova rappresentativa del fatto costituente reato in cui si sostanzia l’accusa nei riguardi del chiamato, sia pure sub-condicione di una sua valutazione unitamente agli elementi che la confermino.
Sulla chiamata indiretta, invece, pesa anzitutto la riserva di cui all’art. 195, che l’art. 210 espressamente richiamata anche per le dichiarazioni accusatorie formulate de relato da persone che rivestano la qualità di imputati di reato connesso.
Ma anche quando questo ostacolo sia superato, la chiamata de relato può costituire, di per sé, prova dell’avere il dichiarante effettivamente ricevuto dalla persona indicata come suo referente la notizia del fatto oggetto della propalazione accusatoria, rispetto al quale, invece, essa rileverebbe, in sé, solo come valido indizio.
Ma prima di arrivare a riconoscere ad una dichiarazione così strutturata una qualsiasi efficacia anche solo indiziaria rispetto all’accusa da provare, è necessario estendere il vaglio di attendibilità anche alla fonte da cui promana la notizia a suo tempo ricevuta dal chiamante de relato.
In pratica, la chiamata de relato esige un duplice e rigoroso controllo, sia in riferimento al suo autore immediato, sia in relazione alla fonte originaria dell’accusa, tanto più che questa resta spesso estranea al processo (in termini, Cass. 30/06/93, TORNESE).
In altri termini, la dichiarazione de relato è a tutti gli effetti una valida prova la cui efficacia, che varia in rapporto al suo contenuto ed al suo incrociarsi, o meno, con altre risultanze probatorie, non può che essere rimessa al prudente apprezzamento del giudice chiamato a valutarla. Se proviene da un imputato di reato connesso, la sua validità, ossia la sua utilizzabilità come prova, è altresì condizionata alla sussistenza di elementi di riscontro che ne confermino l’attendibilità, come sancisce il terzo comma dell’art. 192, co. 3, senza porre alcuna distinzione, sotto questo profilo, tra dichiarazioni dirette e de relato.
Ma essa resta pur sempre una prova indiretta e in ciò sta il suo vero limite. Infatti, se la sua valutazione postula anzitutto che la notizia riportata sia fondata, non basta, a tal fine, accertare che il dichiarante abbia detto il vero, poiché ciò, di per sé, varrà a provare solo che effettivamente gli è stato detto da una certa fonte quanto egli ha riferito de relato. Ma occorrerà poi accertare che anche la fonte (dell’informazione) abbia a sua volta detto il vero. Il che è possibile nei limiti di un procedimento di inferenza induttiva regolato da alcuni criteri improntati ai canoni della coerenza e dell’accettabilità sul piano logico-empirico. In pratica: 1) che tra il dichiarante e la sua fonte corresse un rapporto tale da giustificare una confidenza di quel genere, ovvero che questa sia avvenuta in circostanze tali da far propendere per la sincerità della fonte; 2) che la fonte dell’informazione fosse effettivamente in condizione di essere al corrente dei fatti riferiti, o di avervi partecipato; 3) che la stessa fonte non avesse alcuna plausibile ragione di mentire o trarre in inganno il suo interlocutore. Ora, non sempre la verifica in concreto di questi tre aspetti si presenta agevole o consente di acquisire risultati sicuri. E in ogni caso, per suggellare l’efficacia induttiva delle risultanze acquisite, è più che mai necessario rinvenire adeguati riscontri in ordine al fatto narrato e alla sua riferibilità all’eventuale chiamato in (cor)reità.
Ma la necessità di adeguati riscontri al contenuto della dichiarazione de relato si impone anzitutto per dissipare i dubbi e le ombre che si addensano sulla sincerità dello stesso dichiarante e sulla genuinità dell’informazione riportata solo de relato.
Ed invero, il fatto di fornire notizie compromettenti sul conto di altri o di rendere dichiarazioni apertamente incriminanti nei confronti di altri, attribuendo poi a terzi la paternità dell’informazione, crea, per ciò stesso, un alone di sospetto: perché, sulla base di regole di comune esperienza, si giustifica quanto meno il dubbio che il dichiarante non voglia assumersi la responsabilità delle sue rivelazioni, ovvero possa utilizzare lo schermo di una conoscenza mediata dei fatti per propalare notizie di cui non abbia effettiva contezza. È proprio questo il primo limite che imbriglia l’efficacia dimostrativa di questo tipo di prova. Ed ecco perché la legge si preoccupa di assicurare un immediato strumento di verifica attraverso l’audizione della persona indicata dal dichiarante come fonte dell’informazione. La disciplina dell’art. 195, nel consentire al giudice di procedere d’ufficio a tale verifica, disponendo l’esame del testimone diretto, e nel prevedere l’inutilizzabilità della dichiarazione de relato ove la richiesta di esame avanzata da una delle parti non sia accolta, esprime appunto quell’alone di diffidenza normativa che sollecita una conferma dell’attendibilità della testimonianza diretta: ad innegabile somiglianza di quanto l’art. 192 co. terzo impone rispetto alle dichiarazioni accusatorie che promanino da uno dei soggetti indicati dall’art. 210, a prescindere dal fatto che si tratti di chiamata diretta o di una dichiarazione de relato.
Si può quindi concludere che per la dichiarazione de relato, anche quando a renderla è un semplice teste e non un imputato o indagato di reato connesso, vale lo stesso principio sancito dal terzo comma dell’art. 192. A fortiori deve convenirsi che questa regola si applica se il dichiarante è imputato di r. connesso, o se, pur non ricoprendo tecnicamente tale veste, è tuttavia collaboratore di giustizia (cfr. Cass. 28/02/97, BAGARELLA).
Inoltre, i riscontri si richiedono per corroborare l’attendibilità sia del dichiarante de relato che della sua fonte; e quindi possono ma non debbono necessariamente coincidere. Infatti, gli elementi che confermano la verità di cui è latore il dichiarante de relato – e cioè di aver ricevuto una certa informazione da una data fonte e in determinate circostanze – potrebbero anche essere ininfluenti ai fini del riscontro in ordine all’attendibilità dell’informazione ricevuta.
Di contro, va altresì precisato che quando si parla di limiti probatori insiti nella dichiarazione de relato non si allude ad un minor grado di efficacia dimostrativa di questo tipo di prova, contrariamente a quel che sovente si afferma, richiamando un frettoloso luogo comune. Anche la dichiarazione de relato è una prova liberamente valutabile dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento e in conformità al principio del libero convincimento. Pertanto, la sua idoneità a fornire la dimostrazione del fatto da provare non può essere ipotecata e neppure graduata a priori, isolandola dal compendio degli elementi che il giudice pone a base della propria decisione; ma deve essere vagliata in concreto e alla luce di una valutazione unitaria e complessiva di tutte le risultanze probatorie.
Per limiti debbono piuttosto intendersi le condizioni (sostanziali) di uso, che vanno osservate o che devono ricorrere affinché la dichiarazione de relato possa dispiegare la sua efficacia di prova liberamente valutabile dal decidente.
È innegabile, infatti, che, dovendo il prudente apprezzamento del giudice affidarsi anche a regole di comune esperienza, di coerenza logica e di accettabilità sul piano argomentativo, la dichiarazione de relato postula un vaglio particolarmente rigoroso e la sua efficacia probatoria uno sforzo di motivazione superiori a quelli normalmente sufficienti per una prova diretta.
E la valutazione deve farsi particolarmente rigorosa “perché in questo caso la chiamata in correità non è del dichiarante, che al reato non partecipò, bensì di colui che gli riferì il fatto; la verifica dell’attendibilità intrinseca dell’accusa rende perciò necessario accertare anche per quale ragione ed in quale contesto la notizia gli fu riferita” (Cass. 24/05/94, ANDERLINI).
In secondo luogo, l’esigenza di un controllo pregnante sulla conoscenza e la verità dei fatti narrati “non può esaurirsi nell’indicazione delle ragioni di attendibilità e credibilità del chiamante de relato, ma deve spingersi all’individuazione di riscontri esterni, che attengano alle circostanze che effettivamente il dichiarante sia stato informato dei fatti; che il terzo ne sia stato a sua volta testimone e, infine, che tali fatti siano riferibili al chiamato in reità” (Cass. 21/03/95 e Cass. 13/02/96, MINCIONE).
Solo all’esito positivo di una verifica così articolata la chiamata de relato potrà assurgere ad apprezzabile elemento di prova, giustificandosi allora la conclusione che la chiamata di correo de relato non perde per ciò solo la sua natura e valenza di prova (Cfr. in termini, Cass. 14/11/92, MADONIA).
Argomentando invece dalla strutturale affinità con la testimonianza indiretta, si potrà anche concedere che la chiamata de relato, in sè, costituisca solo un indizio la cui gravità dipende dalla sussistenza di “adeguati riscontri estrinseci in relazione alla persona incolpata e al fatto che forma oggetto dell’accusa”( Cass. 12/03/98, BELLOCCO). Come tale essa sarebbe insufficiente, da sola, e benchè corredata da elementi esterni che ne confermassero l’attendibilità, a motivare una pronunzia di condanna del chiamato.
Ma anche in questa lettura riduttiva, dovrà nondimeno convenirsi che il concorso di una pluralità di chiamate de relato, univoche e concordanti nel loro contenuto accusatorio e tutte parimenti giudicate attendibili- nell’accezione rigorosa di cui s’è detto – può integrare gli estremi della prova sufficiente a fondare un’affermazione di responsabilità del chiamato, giusta i principi generali in tema di prova indiziaria.
La verità è che quando la dichiarazione de relato si configuri, per il suo contenuto accusatorio, alla stregua di una chiamata in reità o in correità; e quando, in concreto essa superi il rigoroso vaglio cui deve essere sottoposta per verificarne l’attendibilità, ivi compresa, s’intende, la necessità di adeguati elementi esterni di riscontro (che però possono venire anche da un’altra convergente e autonoma chiamata); allora la dichiarazione de relato è fonte di prova. Solo che, rispetto all’accusa da provare, si tratta pur sempre di una prova indiretta, come indiretta peraltro può essere e di regola anzi è, rispetto alla colpevolezza dell’imputato, una prova documentale e persino l’esito di un accertamento peritale.
Non diversamente, del resto, può dirsi per la testimonianza indiretta, ossia per la dichiarazione accusatoria de relato che provenga da soggetto che riveste la qualità di testimone in senso proprio: anche tale dichiarazione, nei limiti di utilizzabilità stabiliti dall’art. 195 co. 3° e co. 7°, assume valenza, sul piano probatorio e storico, di rappresentazione del fatto e non di semplice indizio, “fermo restando l’onere del giudice di motivare adeguatamente in ordine alle ragioni che lo inducono a ritenere rilevanti e veridiche le affermazioni del testimone” (cfr. Cass. 17/01/97, secondo cui si tratterebbe addirittura di una rappresentazione diretta del fatto).
Ed ecco perché l’art. 192, co. 3° non contempla né autorizza alcuna distinzione precostituita tra chiamate dirette e indirette, sotto il profilo della loro potenziale idoneità a costituire fonte di prova.
D’altra parte, quando la commissione di un grave delitto non sia frutto di dolo d’impeto, né si esaurisca in un’esecuzione istantanea, ma, come è avvenuto nel caso di specie, si prolunghi nel tempo passando attraverso una complessa fase deliberativa, seguita poi da una pluralità di passaggi intermedi e di attività preparatorie che coinvolgono più soggetti non necessariamente in contatto gli uni con gli altri; allora, le dichiarazioni de relato possono divenire uno strumento prezioso e forse insostituibile di approssimazione alla conoscenza dei fatti, squarciando l’oscurità dietro cui si celano mandanti, esecutori, complici e anche movente del delitto considerato. Esse, infatti, consentono di ricostruire, al di là del ruolo che il singolo dichiarante può avere personalmente giocato in una certa fase, i collegamenti con gli altri soggetti coinvolti in altre fasi della medesima vicenda e il ruolo di ciascuno di loro.
Va rammentato peraltro che la stessa giurisprudenza di legittimità sopra citata ammette che la chiamata de relato possa trovare riscontro “anche nelle dichiarazioni di un soggetto che affermi di aver ricevuto dal chiamante la medesima confidenza” (cfr. Cass. 30/06/93 TORNESE), dovendosi dare il giusto risalto al diverso contesto, specie cronologico, in cui quella confidenza è stata resa. (E di questo principi si è fatta applicazione nel valutare le dichiarazioni rese dai fratelli BRUSCA).
A fortiori, (non deve, ma) può reputarsi riscontrata una singola chiamata, se più siano le chiamate de relato che, anche sulla scorta di fonti originarie diverse, convergono in ordine sia alla sussistenza dell’atto oggetto dell’enunciato accusatorio, che alla sua riferibilità al medesimo chiamato.
3. Ruolo di Gaetano BADALAMENTI nell’omicidio IMPASTATO secondo i collaboratori di Giustizia che lo accusano.
CALDERONE Antonino
Ciò premesso, il primo collaboratore, in ordine di tempo, ad accusare il BADALAMENTI, ancorché de relato, è CALDERONE Antonino.
Questi ha iniziato a collaborare con la Giustizia nel 1987.
Dalla scheda in atti relativa alla personalità e all’apporto processuale di questo collaboratore si evince che dopo avere ammesso la propria appartenenza all’associazione mafiosa Cosa Nostra, ed in particolare alla famiglia di Catania, egli ha fornito una notevolissima messe di informazioni sulla struttura organizzativa e ordinamentale di Cosa Nostra, e in particolare della sua famiglia e su talune delle dinamiche che avevano determinato sanguinosi conflitti tra opposte fazioni per la conquista di posizioni di egemonia, nonché su una molteplicità di fatti criminosi di varia natura posti in essere da esponenti dell’organizzazione anche di vertice, descrivendone con la massima puntualità le più sanguinarie azioni, comprese fra queste l’eliminazione del suo stesso fratello Giuseppe, già capo della famiglia catanese e autorevole componente della commissione regionale.
Le rivelazioni del CALDERONE hanno costituito uno dei pilastri portanti della costruzione accusatoria nel procedimento n. 2282/R.G.U.I. a carico di ABBATE Giovanni + 707 (c.d. maxi uno) e anche in altri procedimenti penali, aventi oggetto gravissimi reati, per lo più omicidi, concernenti la criminalità organizzata di stampo mafioso, in esito ai quali sono state inflitte numerose condanne anche all’ergastolo sulla base proprio dell’attendibilità delle sue dichiarazioni
Orbene, già nel corso dell’interrogatorio reso il 26.10.87, il CALDERONE riferisce che suo fratello Giuseppe era assolutamente convinto che il mandante dell’omicidio fosse proprio Gaetano BADALAMENTI, e che il movente dovesse ricercarsi nel dileggio di cui l’IMPASTATO aveva fatto oggetto il boss di Cinisi dai microfoni di una radio locale. Naturalmente, il convincimento di CALDERONE Giuseppe, ad onta della sua autorevolezza nella gerarchia mafiosa del tempo – fu capo della Commissione regionale di Cosa Nostra – avrebbe, in sé, un rilievo processuale scarso o nullo, essendo solo un’opinione. E lo stesso collaborante che la riferisce precisa di non poter fornire al riguardo concreti elementi. Ma l’importanza di questa rivelazione sta nel passaggio successivo della medesima dichiarazione, e precisamente laddove si allude proprio alle circostanze concrete da cui CALDERONE Giuseppe avrebbe tratto quel convincimento, circostanze che involgono la presenza dello stesso BADALAMENTI: “…mio fratello era sicurissimo che BADALAMENTI Gaetano ne fosse il mandante tantocché diverse volte gli disse che l’IMPASTATO aveva finito di dileggiare esso BADALAMENTI attraverso una radio locale; BADALAMENTI Gaetano sorrideva soddisfatto”.
Ebbene, il contegno del BADALAMENTI, a fronte di un commento (quello di CALDERONE Giuseppe, come riferito da suo fratello Antonino) chiaramente allusivo ad una sua possibile responsabilità in ordine all’uccisione di Giuseppe IMPASTATO, e il fatto che lo stesso atteggiamento egli avrebbe tenuto in diverse occasioni, sembrerebbe non potersi interpretare altrimenti che alla stregua di una tacita ammissione.
Il CALDERONE ha poi aggiunto, a mo’ di chiosa finale, che “Se non fosse stato BADALAMENTI Gaetano ad ordinare l’uccisione di IMPASTATO, chiunque ne fosse stato l’autore, anche di estrazione politica, sarebbe stato adeguatamente punito. Il BADALAMENTI, infatti, menava vanto del fatto che nel suo paese, mercé la sua opera, non era mai successo nulla di grave”.
Al di là dello stretto vincolo di sangue che legava il dichiarante alla fonte in questione, la lunga militanza a fianco del fratello nell’ambito della stesso sodalizio mafioso e l’abitudine ad accompagnarlo ad incontri riservati con altri personaggi di spicco dell’organizzazione e ad affiancarlo nelle relative attività illecite, fino ad acquisire un’autonoma legittimazione a contattare o essere contattato personalmente da reggenti e capomandamenti, rende più che plausibile che CALDERONE Antonino potesse riceversi dal fratello Giuseppe simili confidenze su un argomento così scottante.
Quanto all’autorevolezza della fonte, è appena il caso di ricordare che Giuseppe CALDERONE era accreditato del ruolo di rappresentante provinciale di Cosa Nostra per le famiglie mafiose catanesi (V. dichiarazioni di CANCEMI Salvatore e BUSCETTA Tommaso, oltre ovviamente a quelle di CALDERONE Antonino). Assassinato il 30 settembre 1978, fu protagonista, insieme a Gaetano BADALAMENTI del processo c.d. dei “114”.
In particolare ha riferito il BUSCETTA:
“Ho conosciuto in carcere, a Barcellona Pozzo di Gotto, CALDERONE Giuseppe detenuto per il processo dei 114.
Il motivo di tale imputazione risaliva al fatto che era stato identificato a Milano, in un’autovettura, con BADALAMENTI Gaetano con un certo BARBIERI e con MARTINEZ CARUSO Renato e ALBERTI Gerlando; la polizia aveva ritenuto di individuare me nel BARBIERI (ma io mi trovavo negli U.S.A.) e GRECO Salvatore CICCHITEDDU in MARTINEZ CARUSO Renato.
Il CALDERONE mi fu presentato come uomo d’onore della famiglia di Catania ma allora non ne era il capo (siamo nel 1973). Del resto, almeno a quei tempi, la famiglia di Catania non era tenuta in eccessiva considerazione.
In seguito parlando col BONTATE dell’uccisione del CALDERONE, appresi che si trattava di fatti interni della famiglia di Catania, di cui il CALDERONE era divenuto il capo. Dallo stesso BONTATE appresi che il CALDERONE partecipava alle riunioni dell’Interprovinciale di cui ho già parlato.
Quando, come ho già detto, assistetti con BADALAMENTI alla diffusione televisiva della notizia dell’uccisione di DALLA CHIESA, BADALAMENTI mi riferì che il capo della famiglia di Catania, al posto di CALDERONE, era divenuto SANTAPAOLA Nitto, e che il suo vice era FERLITO Alfio, col quale però erano insorti contrasti, tanto che il SANTAPAOLA lo aveva fatto eliminare servendosi dei palermitani. Del resto, va tenuto ben presente che un omicidio del genere non può in alcun modo essere commesso a Palermo, dai catanesi all’insaputa della Commissione di Palermo.
Io, peraltro, già avevo appreso a Palermo dallo stesso INZERILLO Totò che egli era ottimo amico di FERLITO Alfio e quest’ultimo era il vice di SANTAPAOLA Nitto”. (Cfr. verbale del 21.03.1984).
A proposito dei rapporti intercorrenti tra CALDERONE Giuseppe e il BADALAMENTI, Antonino CALDERONE ricorda un episodio emblematico:
“Mio fratello e CONTI (Ndr: allude a CONTI Calogero, allora vice-capo della provincia mafiosa di Catania) nei primi anni ’70 furono convocati a Cinisi da BADALAMENTI, il quale chiese loro se potevano occuparsi di procurare un rifugio a LEGGIO perché a Cinisi non potevano più tenerlo. Mio fratello mi disse che in questa occasione si incontrò anche con il sacerdote COPPOLA Agostino, il quale gli fu presentato come uomo d’onore della famiglia di Partitic … Mio fratello e CONTI acconsentirono a prendersi in carico LEGGIO e per fare ciò mio fratello chiese il permesso al rappresentante provinciale INDELICATO Giuseppe e a quello della famiglia di Catania NICOTRA Orazio”.
Dei rapporti dello stesso CALDERONE con il boss di Cinisi, che ha ammesso di conoscerlo e di averlo più volte incontrato, esiste un preciso riscontro obbiettivo (scaturito da un controllo di polizia) relativo ad un episodio che si inserirebbe nel quadro delle trattative per il coinvolgimento di Cosa Nostra nel progetto di golpe BORGHESE: l’incontro a Milano, nel giugno del 1970 (e cioè sei mesi prima del tentato Golpe), con altri boss di Cosa Nostra, e segnatamente con Salvatore GRECO detto Cicchiteddu, Tommaso BUSCETTA, Gerlando ALBERTI e appunto Giuseppe CALDERONE. (Di questo episodio ha ampiamente riferito il BUSCETTA)
Nell’interrogatorio del 9 aprile 1997, il BADALAMENTI ha ammesso peraltro di essere stato sottoposto a controllo di polizia mentre si trovava a bordo di un’auto in compagnia del GRECO e di Pippo CALDERONE, nonché di altri due soggetti che però ha negato essere il BUSCETTA e Gerlando ALBERTI (come invece si è accertato: v. Annotazione del R. O. S. dei carabinieri in evasione al punto b/10 della delega di indagini). Né ha mai saputo dare una giustificazione convincente dei suoi rapporti e incontri con il CALDERONE. Piuttosto, è significativo che abbia ammesso di avere incontrato almeno un paio di volte – e quindi di conoscere – anche CALDERONE Antonino, anche se afferma che si trattò di incontri del tutto occasionali dovuti a visite di parenti in carcere.
Quanto alle dichiarazioni del collaborante sul suo conto, il BADALAMENTI si limitava dire di non avere nulla da poster ribattere a quanto affermato da CALDERONE Antonino giacché riteneva quest’ultimo personaggio di nessun valore e quindi totalmente inattendibile.
MUTOLO Gaspare
MUTOLO Gaspare, nell’interrogatorio reso al P.M. il 17 maggio 1993, ha dichiarato che “in ordine all’omicidio di IMPASTATO Giacomo (NdR: chiarirà nel successivo interrogatorio che intendeva riferirsi a Peppino e non a Giacomo IMPASTATO) posso riferire soltanto alcune notizie apprese nell’ambiente di Cosa Nostra. Infatti non ho mai conosciuto l’IMPASTATO né ho saputo della deliberazione dell’omicidio prima che questo venisse eseguito”.
Ma le notizie che il collaborante rivela concernono aspetti cruciali della vicenda e, secondo il suo racconto, egli le avrebbe apprese da alcuni uomini d’onore con i quali era co-detenuto all’Ucciardone, e quindi in epoca (successiva ma) prossima al delitto, posto che egli fu detenuto all’Ucciardone dal ’76 fino all’81 (come ha rievocato in altro interrogatorio: v. verbale del 31.10.95 in atti):
“Dopo la sua morte invece, ho appreso nel carcere dell’Ucciardone dove in particolare avevo colloqui pressoché quotidiani con altri affiliati a Cosa Nostra compresi alcuni personaggi della Provincia e cioè della zona di Cinisi, che l’IMPASTATO non era morto per un incidente ma era stato ucciso.
Rimasi sorpreso perché sapevo che egli apparteneva ad una famiglia ‘buona’ e chiesi maggiori spiegazioni. Quei co-detenuti dei quali tuttavia non riesco a ricordare i nomi, mi spiegarono che egli aveva da tempo iniziato una campagna contro Cosa Nostra e da ultimo andava dicendo in paese molto male di BADALAMENTI Gaetano spingendosi perfino a ridicolizzarlo con l’attribuirgli gli epiteti di ‘Gaetano badi come ti lamenti’ oppure ancor peggio ‘Tano seduto’ con evidente riferimento nel primo caso ad una frase che suona sconcia in dialetto siciliano e nel secondo caso alla figura di ‘Toro seduto’.
Questo suo comportamento irridente aveva provocato l’ira di BADALAMENTI Gaetano che non aveva più sopportato le iniziative dell’IMPASTATO e aveva ordinato di ucciderlo.
L’omicidio era stato compiuto ma io non so per mano di chi e, poi il cadavere era stato fatto saltare con una carica di dinamite per simulare all’esterno un incidente. Tutto ciò era oltretutto noto a molte persone di Cosa Nostra perché io ne intesi parlare di nuovo quando tornato in libertà mi incontrai con gli uomini di onore della mia famiglia e, in particolare le stesse notizie mi furono riportate dai fratelli MICALIZZI. In proposito, tuttavia, non so altro. Comunque si era in un periodo che a Cinisi e nel relativo mandamento nulla si sarebbe potuto fare senza l’esplicito consenso di BADALAMENTI Gaetano…”
Nel successivo interrogatorio del 25 maggio 1996, lo stesso MUTOLO, dopo aver chiarito il lapsus sul nome della vittima, conferma le dichiarazioni rese in precedenza e precisa che “dopo l’estromissione di Gaetano BADALAMENTI dalla Commissione di Cosa Nostra nell’estate del 1978, il mandamento di Cinisi venne affidato a Rosario RICCOBONO anche se a capo della famiglia di Cinisi c’era Antonino BADALAMENTI”.
Ribadisce inoltre di avere appreso dell’omicidio “e delle circostanze ad esso relative dai fratelli MICALIZZI Salvatore e Michele”. Ma aggiunge “di aver saputo da Rosario RICCOBONO che il mandante dell’omicidio di Peppino IMPASTATO era stato Gaetano BADALAMENTI per i motivi che hi già riferito nel verbale del 17.05.1993”.
Spiega poi che “nel verbale precedente sopra menzionato non ho fatto cenno a Rosario RICCOBONO perché, come in genere accade durante le prime dichiarazioni rese all’A.G., io mi limitai a riferire sommariamente quanto era a mia conoscenza relativamente agli episodi in relazione ai quali l’A.G. mi faceva domande riservandomi poi di precisare meglio i miei ricordi”.
Circa gli esecutori materiali, ribadisce “di non avere mai conosciuto i nomi degli esecutori materiali di quell’omicidio”, ma di avere appreso “da RICCOBONO e dai fratelli MICALIZZI che quel ragazzo apparteneva ad una famiglia ‘buona’ e cioè vicina alla mafia, anche se non so precisare chi in particolare degli IMPASTATO fosse uomo d’onore”.
MUTOLO avrebbe quindi appreso dei retroscena del delitto mentre ancora si trovava in carcere, per averne poi conferma, tornato in libertà, dagli uomini d’onore della sua famiglia.
Ebbene, sul fatto che l’infermeria dell’Ucciardone fosse facilmente accessibile e largamente praticata come luogo di incontro tra uomini d’onore e affiliati a Cosa Nostra, non solo lo stesso MUTOLO, ma anche BUSCETTA e numerosi altri collaboratori di Giustizia hanno reso dichiarazioni circostanziate a assolutamente concordi. D’altra parte, sono dati di fatto storicamente e processualmente acquisiti che gli uomini d’onore detenuti potevano agevolmente comunicare con l’esterno e ricevere notizie sulle vicende più scottanti, o addirittura, per i capi e i soggetti che ricoprivano ruoli di vertice, continuavano dall’interno del carcere a dare ordini e direttive agli affiliati rimasti liberi, anche per la perpetrazione di attività delittuose. La rapida circolazione all’interno del carcere di informazioni e notizie sulle vicende o i personaggi di maggior interesse per gli appartenenti all’organizzazione mafiosa, come pure il fatto che lo stato di detenzione di per sé non intaccava il potere e l’autorevolezza dell’uomo d’onore o la sua capacità di ordinare delitti o governare gli affari del sodalizio di riferimento è insomma un dato pacifico, al punto che l’esperienza acquisita al riguardo ha indotto alla modifica del regime penitenziario (originariamente prevista come temporanea) concretatasi nell’introduzione di una disposizione restrittiva come quella dell’art. 41 bis Ord. Pen. (comma aggiunto dall’art. 19 del D.L. 8 giugno 1992 n. 306 in tema di criminalità mafiosa, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 1992 n. 356), la cui è efficacia è stata fin qui sempre prorogata.
È anche vero che il collaborante non ha saputo specificare l’identità dei (presunti) uomini d’onore co-detenuti che per primi gli avrebbero rivelato quei retroscena. Ma ha parlato di colloqui pressoché quotidiani con diversi affiliati “compresi alcuni personaggi della Provincia e cioè della zona di Cinisi”, con ciò fornendo uno spunto preciso per eventuali accertamenti a riscontro e, al contempo, una ragione plausibile che giustifica l’incertezza del suo ricordo sul punto.
Fin dal primo interrogatorio ha comunque indicato come fonti ulteriori della conoscenza acquisita sui particolari dell’omicidio gli uomini d’onore più in vista della sua famiglia di appartenenza e cioè i fratelli MICALIZZI Michele e Salvatore (quest’ultimo all’epoca sotto-capo della famiglia di Partanna Mondello). E nel secondo interrogatorio vi ha aggiunto anche il suo capo famiglia, e diretto referente, Rosario RICCOBONO, specificando che proprio il RICCOBONO gli disse che il mandante dell’omicidio era Gaetano BADALAMENTI.
Ma questa indicazione emerge inequivocabilmente anche dalle prime dichiarazioni di MUTOLO, laddove afferma che il comportamento irridente del giovane IMPASTATO aveva provocato l’ira di BADALAMENTI Gaetano che non aveva più sopportato le iniziative dell’IMPASTATO e aveva ordinato di ucciderlo.
Né l’avere aggiunto questa ulteriore e ancora più autorevole fonte di conoscenza può interpretarsi come indice di progressione sospetta nelle dichiarazioni del MUTOLO, avendo egli spiegato, in modo convincente, perché omise il riferimento al RICCOBONO nel suo primo interrogatorio. Come pure ha dato una spiegazione convincente delle ragioni e delle circostanze in cui ha ricevuto conferma, all’uscita dal carcere, delle notizie acquisite sui retroscena del delitto. Ha detto infatti che, dopo l’estromissione del BADALAMENTI, la reggenza del mandamento di Cinisi fu affidata al cugino Nino, ma di fatto, questi venne affiancato da Rosario RICCOBONO. E come già si è visto, tra il RICCOBONO e Nino BADALAMENTI esisteva un pregresso rapporto di fiducia e di frequentazione, di cui lo stesso MUTOLO aveva beneficiato, quando venne ospitato dallo stesso BADALAMENTI in un periodo in cui era latitante. (E in altro interrogatorio MUTOLO aveva dichiarato di essere stato testimone di frequenti visite di Nino BADALAMENTI alla villa del RICCOBONO: v. supra).
In un primo momento – ossia fino a quando non si decise anche l’eliminazione di Nino BADALAMENTI – la famiglia di Partanna Mondello fu quindi coinvolta nella gestione del mandamento di Cinisi, o almeno di una parte del suo originario territorio; da qui un plausibile interesse degli uomini d’onore della famiglia mafiosa cui anche MUTOLO apparteneva a conoscere le vicende di quel territorio.
Piuttosto, va rimarcato come il collaborante non abbia mai indicato la fonte primaria, da cui lo stesso RICCOBONO avrebbe ricevuto le notizie che poi gli confidò. Ma sulla scorta degli elementi desumibili dalle sue dichiarazioni e sopra evidenziati, non ci vuol molto a individuare tale fonte in Nino BADALAMENTI. E quest’ultimo, sia per la vicinanza al cugino Gaetano, che per il ruolo di spicco che ricopriva nell’ambito della famiglia mafiosa di Cinisi all’epoca del fatto, era certamente in grado di venire a conoscenza dei retroscena del delitto. E non avrebbe certamente diffamato o calunniato il cugino, se è vero che pagò con la vita il suo rifiuto di macchiarsi del suo sangue, con ciò dimostrando un’indefessa lealtà, ad onta delle sue ambizioni che lo inducevano ad assumere posizioni antagonistiche nei riguardi del capo famiglia.
È questo, peraltro, un elemento di non poco conto ai fini del riscontro incrociato delle dichiarazioni dei collaboratori che hanno fatto i nomi degli esecutori materiali dell’omicidio, o comunque degli affiliati al clan BADALAMENTI che vi avrebbero partecipato. Tra costoro, infatti, sia PALAZZOLO Salvatore che DI CARLO Francesco indicano, sia pure con accenti diversi, proprio il BADALAMENTI Antonino.
Va ancora rilevato, a supporto dell’attendibilità complessiva del racconto di MUTOLO, che le sue prime dichiarazioni sono state rese a distanza di meno di un anno dall’inizio della sua collaborazione e nel contesto di un interrogatorio che verteva anche su altri argomenti: all’epoca, l’omicidio IMPASTATO era solo uno dei tanti casi irrisolti (le indagini erano state già archiviate, per la seconda volta) e sui quali è prassi che l’A.G. procedente interroghi un nuovo collaboratore, per sapere se ne sappia qualcosa. Esso non aveva ancora il risalto e la notorietà che avrebbe acquistato solo qualche anno dopo. Il lapsus iniziale sul nome della vittima conferma, sotto questo profilo, la buona fede del dichiarante.
Fin dalle prime dichiarazioni, peraltro, MUTOLO segnala come la verità sul caso IMPASTATO fosse patrimonio di conoscenza diffusa negli ambienti di Cosa Nostra, o almeno tra gli uomini d’onore (“tutto ciò era oltretutto noto a molte persone di Cosa Nostra”); e in particolare, era pacifico che ad ordinare l’uccisione del giovane IMPASTATO era stato Gaetano BADALAMENTI; e che il movente andava ricercato nelle sue iniziative e i suoi attacchi contro tutta l’organizzazione mafiosa (“…da tempo aveva iniziato una campagna contro Cosa Nostra”), anche se, da ultimo, aveva preso di mira il BADALAMENTI, facendone oggetto di scherno e di invettive ingiuriose, fino a suscitarne l’ira funesta.
Quanto alla credibilità in generale di questo collaboratore, anche lui si inscrive nella schiera dei pentiti storici, avendo fornito elementi preziosi per conoscere le dinamiche interne e gli organigrammi di Cosa Nostra e per far luce su innumerevoli delitti ascrivibili alle famiglie mafiose operanti nella provincia di Palermo.
Dalla scheda in atti relativa alla sua personalità e all’apporto della sua collaborazione si evince inoltre che il MUTOLO ha fornito informazioni di grande rilievo investigativo su ingenti traffici di droga avvenuti in Italia, U.S.A. e Thailandia.
Le sue dichiarazioni, riscontrate da acquisizioni probatorie di fonte eterogenea, “hanno consentito la riapertura di numerosi procedimenti a carico di pericolosi soggetti facenti parte di Cosa Nostra”.
ONORATO Francesco
Uno specifico riscontro all’attendibilità delle dichiarazioni de relato del MUTOLO, almeno sotto il profilo della veridicità del modo in cui egli venne a conoscenza delle notizie che ha riferito sul delitto IMPASTATO, viene dal collaboratore ONORATO Francesco. Anche ONORATO era uomo d’onore della famiglia di Partanna Mondello, nella quale fu formalmente affiliato nel novembre del 1980, quando capo famiglia e capo mandamento era RICCOBONO Rosario e sotto capo era MICALIZZI Salvatore, che indica entrambi come suoi diretti interlocutori all’interno dell’organizzazione. (Cfr. verbale di interrogatorio del 23.01.1997).
Ebbene, nell’interrogatorio reso al P.M. il 31.05.87, ONORATO ha dichiarato di avere appreso – all’incirca nello stesso periodo cui si è riferito MUTOLO, ovvero tra l’80 e l’81 e comunque dopo la sua formale affiliazione – dal RICCOBONO e dal MICALIZZI Salvatore, ossia dagli stessi uomini d’onore indicati da MUTOLO quali fonti delle sue informazioni, che Peppino IMPASTATO era stato ucciso; che l’omicidio “è stato fatto dalla famiglia di Terrasini e Cinisi”; e all’epoca a comandare in quel territorio era Gaetano BADALAMENTI, il quale era molto intimo con Saro RICCOBONO, così come lo era anche Nino BADALAMENTI (“Nino BADALAMENTI, Gaetano BADALAMENTI erano molto intimi con Saro RICCOBONO”).
Non gli fu precisato chi avesse materialmente eseguito l’omicidio, ma sia MICALIZZI che RICCOBONO gli spiegarono che a volerlo era stato Gaetano BADALAMENTI “perché questo IMPASTATO dava fastidio alle famiglie di Terrasini e alla famiglia di Cinisi, Carini, in quel territorio, diciamo che era uno che voleva un po’ combattere Cosa Nostra”.
A riprova dell’asserita intimità dei rapporti tra RICCOBONO e i BADALAMENTI, e della capacità di Gaetano BADALAMENTI di controllare le Forze dell’Ordine del luogo, l’ONORATO ricorda che lo stesso RICCOBONO gli rivelò di avere trascorso alcuni periodi della sua latitanza (in estate) a Cinisi “e che era tranquillo, perché là non lo cercava nessuno…”. E pure MUTOLO, come si è visto, ha dichiarato di avere trascorso dei periodi della sua latitanza a Cinisi, ospite di Nino BADALAMENTI, proprio in ragione dei cordiali rapporti tra quest’ultimo e il capo della famiglia di Partanna Mondello.
D’altra parte, l’ONORATO riscontra MUTOLO anche per quanto concerne il contenuto delle rivelazioni che entrambi attribuiscono sia al MICALIZZI che al RICCOBONO, e segnatamente sul movente dell’omicidio e sul coinvolgimento dell’intera famiglia mafiosa di Cinisi, anche se ad ordinare il delitto sarebbe stato Gaetano BADALAMENTI. Anzi, a precisa domanda sul punto, ONORATO ribadisce che “lo hanno fatto assieme questo omicidio”, riferendosi appunto alla famiglia mafiosa di Terrasini e Cinisi, unitariamente considerata.
DI CARLO Francesco iniziava a collaborare con la Giustizia in data 13 giugno 1996, appena giunto in Italia dove avrebbe dovuto finire di scontare al pena cui era stato condannato in Inghilterra nel 1986 per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.
Dalla scheda in atti si evince che il nuovo collaboratore riferiva subito inediti particolari sulla realtà criminale di Cosa Nostra, su numerosi omicidi dei quali era a conoscenza, nonché su altri ai quali aveva personalmente partecipato quale mandante e per i quali non era mai stato neppure sospettato.
La collaborazione del DI CARLO (tenuta nascosta per alcuni mesi) è stata resa nota ufficialmente nel mese di ottobre del 1996, con il deposito di taluni suoi interrogatori nell’ambito di procedimenti aperti dalla Procura della Repubblica di Palermo.
Nella medesima scheda si legge che “il contributo investigativo e probatorio che il DI CARLO ha già offerto (e potrà in futuro offrire) appare di eccezionale rilevanza, in considerazione della sua collocazione all’interno di una delle più potenti famiglie di Cosa Nostra (della quale è stato anche ) e del lungo periodo di militanza all’interno della stessa organizzazione al fianco di Salvatore RIINA e dei suoi più fedeli alleati corleonesi.
Il DI CARLO ha già riferito della sua personale conoscenza di numerosi delitti di particolare gravità, quali ad esempio quelli concernenti la c.d. guerra di mafia esplosa negli anni Ottanta, e quelli in danno di personalità delle Istituzioni; sicché non è certo esagerato ritenere che si tratta di un collaboratore che contribuisce a far piena luce su alcuni dei fatti più gravi ed inquietanti verificatisi negli ultimi vent’anni a Palermo.
Ancora particolarmente rilevante appare il contributo di conoscenza che il DI CARLO ha fornito in ordine alle dinamiche interne dell’organizzazione Cosa Nostra, alla sua evoluzione, così da consentire di capire quali siano stati i mutamenti interni degli equilibri di comando dell’organizzazione in un periodo nevralgico come quello tra il 1978 ed 1982.
È importante sottolineare, ancora, che il collaboratore si è deciso ad instaurare un rapporto con l’Autorità Giudiziaria quando si stava già avvicinando alla scadenza definitiva della sua detenzione per la condanna subita in Inghilterra, che avrebbe dovuto cessare nell’arco di qualche mese in virtù dei benefici derivanti dall’ordinamento britannico e da quelli (pure a lui applicabili) della legislazione penitenziaria italiana”.
Ebbene, anche DI CARLO Francesco, di cui si sono già rammentate le circostanziate dichiarazioni rese su personaggi e vicende della famiglia mafiosa di Cinisi, si riporta a BADALAMENTI Antonino come fonte delle sue informazioni sui retroscena del delitto IMPASTATO: ma questa volta senza l’ausilio di fonti mediate. E inoltre, delle notizie confidategli da Nino BADALAMENTI egli ebbe conferma (quasi simultanea) da Ciccio DI TRAPANI, che all’epoca non aveva cariche ma era un elemento valido della famiglia mafiosa di Cinisi, nonché figlioccio di Gaetano BADALAMENTI.
In particolare, nell’interrogatorio del 13.02.97 ha dichiarato di aver sentito parlare dell’omicidio in questione quasi nell’immediatezza del fatto, ossia “dopo giorni che era successo, che mi ricordo era il ’78, 1978”. E più precisamente, “nel ’78, dopo questo omicidio che all’inizio si pensava, per come avevano dato la notizia i giornali si pensava che si era suicidato, qualche cosa, mi sono visto con Nino BADALAMENTI e visto l’intimità che io avevo con Nino BADALAMENTI, che in altri processi, in altre cose l’ho dichiarato che l’ho frequentato per un 10 anni, sia lui, sia a casa sua, come lui a casa mia, ci ho detto ‘che è successo là?’ Ci ho detto ‘ma questo non è il figlio di IMPASTATO’ – Iacopo mi sembra che si chiamava il padre, Giacomo. Dice sì. Ci ho detto ma è? Dice no, noi – dice – l’abbiamo fatto, la famiglia, perché – dice – ce ne era venuto un mascalzone, uno che accusava direttamente anche il padre, un estremista”.
Sul movente il collaborante ha specificato ancora, sempre sulla scorta di quanto riferitogli da Nino BADALAMENTI, che il giovane IMPASTATO “accusava la mafia di Cinisi, dice essendo che lui conosceva tutti i singoli persone e amici del padre, non si limitava nemmeno verso i parenti o verso quelli intimi amici di suo padre, accusava direttamente con nomi e cognomi a tutti i nostri amici, dice un ragazzo pazzo…”.
Fin qui le rivelazione di Nino BADALAMENTI. Ma, aggiunge il collaborante, “mi ricordo che… dopo pochi giorni trovandomi a Cinisi sono andato da un certo Ciccio DI TRAPANI, ci aveva una villetta fuori Cinisi”. Anche il DI TRAPANI gli confermò “che era una cosa che avevano fatto loro”, intendendo dire che l’omicidio “era stato fatto dalla famiglia di loro”. E all’epoca, la famiglia mafiosa di Cinisi era retta da Gaetano BADALAMENTI, che, rammenta il collaborante, “a quel periodo ancora era sia capo famiglia e sia capo mandamento, perché ancora faceva parte della commissione”.
In altri termini, il DI CARLO non può affermare che lo stesso DI TRAPANI e il BADALAMENTI Antonino furono gli esecutori materiali del delitto, ma è certo che essi vi erano coinvolti in quanto erano uomini d’onore della famiglia mafiosa di Cinisi; l’omicidio era stato deciso, ordito e attuato dalla medesima famiglia (retta al’epoca da Gaetano BADALAMENTI); ed entrambi i suoi interlocutori, con le loro parole, ne sottoscrivevano la paternità.
Al riguardo, il DI CARLO ha così motivato la sua prudenza nell’accusare i due uomini d’onore: “… però debbo essere sincero in Cosa Nostra non si chiede chi è andato a farlo, perché non è giusto e poi non può essere uno così pignolo di volere sapere le cose”. E anche nel successivo interrogatorio del 28.02.97 ribadisce che né Ciccio DI TRAPANI, né Nino BADALAMENTI, con i quali aveva potuto parlare dell’omicidio (“ma separatamente”, come ha tenuto a precisare) in virtù della vicinanza che aveva con entrambi, gli indicarono gli esecutori materiali: “…e così abbiamo parlato, però non mi hanno detto chi l’ha fatto perché, quando c’ho chiesto, mi hanno detto: ‘Noi’; noi si dice generalmente Cosa Nostra famiglia”.
Tale prudenza, che scaturisce da un’inveterata conoscenza ed esperienza che il collaborante ben può vantare non solo del linguaggio ma anche delle regole e dei costumi imperanti in Cosa Nostra, torna peraltro ad onore della sua credibilità, considerato che entrambi i personaggi citati – e indicati come sue esclusive fonti sull’argomento – non sono più in vita. E ciò avrebbe potuto indurre un dichiarante men che corretto e sincero ad enfatizzare le sue accuse o comunque a non indulgere in precisazioni e distinguo. (Una censura questa che non merita neppure il collaboratore PALAZZOLO Salvatore, come si vedrà: egli infatti accusa BADALAMENTI Antonino e DI TRAPANI Francesco di avere materialmente eseguito l’omicidio, ma ciò sulla scorta delle confidenze fattegli dall’odierno imputato; e inoltre, indica tra gli esecutori materiali, per averlo appreso dalla stessa fonte, anche il suo omonimo, PALAZZOLO Salvatore, inteso Turiddazzu, che è vivo e vegeto, per quanto consta).
Il DI CARLO del resto si è limitato a riferire, in merito al delitto, solo quanto egli sa per averlo appreso da fonti interne a Cosa Nostra. Così sulle modalità esecutive egli non può dire nulla, in quanto nessuno gli ha mai raccontato nulla al riguardo, sebbene qualcosa egli abbia sentito dai giornali, “ma tanto tempo fa”.
Invece, sul movente e sul contesto in cui maturò la decisione di uccidere IMPASTATO, il collaborante ha aggiunto ulteriori particolari nell’interrogatorio del 28.02.97, che costituiscono peraltro una mera specificazione di aspetti e circostanze di cui aveva già fatto cenno nel precedente interrogatorio (che non verteva solo sul delitto IMPASTATO). Sicché le ulteriori rivelazioni sono frutto dell’approfondimento sollecitato dall’A.G. procedente sugli argomenti già toccati in precedenza. Esse comunque forniscono uno spaccato di rigorosa coerenza e solidità, sul piano logico, di quanto fosse stata sofferta e travagliata la decisione di uccidere il giovane IMPASTATO.
In particolare, egli ha riferito dell’imbarazzo creato in seno alla famiglia mafiosa di Cinisi dalla condotta di “questo ragazzo, che faceva propaganda” contro Cosa Nostra (“non so se aveva radio o la faceva pubblicamente come politica nel paese”): un problema di cui anche in precedenza gli aveva parlato Nino BADALAMENTI (“Con Nino già ne avevamo parlato prima dei problemi che avevano IMPASTATO con questo ragazzo”). E ha riferito altresì delle remore a sopprimerlo in quanto faceva parte di una famiglia, come quella degli IMPASTATO, che era molto rispettata negli ambienti di Cosa Nostra anche perché diversi di loro – allude in particolare a Luigi IMPASTATO, quello della cava, e ad uno zio della vittima, che dovrebbe identificarsi in Giuseppe IMPASTATO inteso SPUTAFUOCO – erano uomini d’onore della famiglia mafiosa di Cinisi: “Ed era un problema che non ci potevano… come mi diceva lui, non ci potevano tirare il collo e in gergo Cosa Nostra significa strangolarlo e farlo scomparire, perché c’era il problema che il figlio di… mi pare Jacopo ci dicono a suo padre, non sono sicuro, e cugino di Luigi e nipote dell’altro IMPASTATO, che erano in famiglia; ma c’erano altri IMPASTATO in famiglia mi ricordo”. (È appena il caso di rilevare che qui il collaborante è incorso in un evidente errore, se ha inteso riferirsi al padre di Peppino IMPASTATO, indicandolo con il nome di Jacopo: ma lo stesso dichiarante avverte che di questo nome non è sicuro).
E quando, appresa la notizia della morte di IMPASTATO, e avendo subito realizzato che si trattava di un parente degli IMPASTATO di Cosa Nostra, si trovò a parlarne con Nino BADALAMENTI, questi gli spiegò che si cercò di fare qualcosa per attenuare il clamore che l’omicidio avrebbe potuto provocare in seno all’organizzazione, salvando al contempo la dignità degli IMPASTATO, e cioè la reputazione di cui godevano in Cosa Nostra:
“…dice che si è cercato di fare qualcosa, meno rumore nel senso di potere fare… a Cosa Nostra fare immaginare che è stato un lavoro di Cosa Nostra e nello stesso tempo salvare il salvabile, nel senso la dignità di IMPASTATO perché, quando un parente… non dico il figlio di Cosa Nostra o un nipote, ma anche un parente più lontano in un paese viene ucciso, si perde di immagine per quei famosi nomi del paese. E l’hanno fatto in questo modo: i parenti hanno… anche i parenti, come diceva Nino, hanno accettato la situazione, ma già sapevano prima; hanno… come dire? In Siciliano: ‘arrunchiato le spalle’ per quello che era”. (Cfr. pagg. 3-4 del verbale di trascrizione integrale dell’interrogatorio di DI CARLO Francesco del 28.02.97, e ff. 563-564 vol. 3).
Orbene, ad ulteriore conforto dell’attendibilità delle dichiarazioni rese dal DI CARLO, va ancora rilevato che egli indica come proprie fonti due personaggi effettivamente in grado di essere a conoscenza dei retroscena di un delitto ordito e attuato dalla famiglia mafiosa di Cinisi, quand’anche non ne fossero stati i materiali esecutori: “Nino BADALAMENTI ha sostituito anche nei periodo del triumvirato e anche nella Commissione a suo cugino Tano BADALAMENTI, Gaetano BADALAMENTI. Ciccio DI TRAPANI in quel periodo non aveva carica, ma era un elemento valido della famiglia di Cinisi e figlioccio diretto di Gaetano BADALAMENTI”.
Ora, della personalità di Nino BADALAMENTI, e del ruolo di vertice che ricoprì fino alla morte (nonché del movente del suo assassinio) si è già detto. Di Francesco DI TRAPANI, basterà rammentare, sulla scorta delle informative già citate, che all’epoca del fatto era noto agli Inquirenti come affiliato al clan BADALAMENTI, nonché ricercato per essere sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di dimora. D’altra parte, il suo legame con la famiglia mafiosa dei MADONIA è emerso anche nell’ambito del processo c.d. “Maxi-uno” in esito al quale il DI TRAPANI venne condannato per il reato di associazione mafiosa (v. anche scheda biografica in atti, vol. 4 e e Nota 14.04.1999 a firma del C.te della stazione CC di Cinisi, vol. 17). E dei suoi ambigui rapporti con i corleonesi, ma anche del rapporto di fiducia personale con Gaetano BADALAMENTI, hanno riferito, in termini del tutto conformi a quanto raccontato dal DI CARLO, anche i collaboratori MUTOLO e PALAZZOLO Salvatore.
Inoltre, DI CARLO ha fornito una rappresentazione convincente dei rapporti che lo legavano sia al DI TRAPANI che al Nino BADALAMENTI, nel senso che essi erano tali da giustificare quell’elevato grado di confidenza necessario per poter fare rivelazioni così delicate.
A proposito della particolare intensità del suo rapporto con Nino BADALAMENTI, il collaborante rammenta che con Gaetano BADALAMENTI “ci siamo sempre rispettati”, mentre con il cugino Nino “fino all’80 posso dire che abbiamo mangiato sempre assieme, proprio pure all’inizio mi sembra che c’ho una festa con lui fra amici, con… con Saro RICCOBONO e altri, di… di una mangiata e siamo tutti assieme…”. E nel ribadire i motivi di riserbo e di prudenza che gli impedirono di approfondire l’argomento dell’omicidio IMPASTATO o di commentarlo in seguito con altri uomini d’onore (“Poi veramente in Cosa nostra, specialmente quando si tratta di un parente che muore, si cerca di evitare qualsiasi commento e qualsiasi discorso”, spiega che “sì, io l’ho potuto fare con Nino, perché oggi mi viene difficile dire qual’era la vera intimità con Nino BADALAMENTI; le dico, a parte tutto, che mi sono preso pure dispiacere quando l’hanno ucciso e poi si immagini per il figlio…”. (Cfr. ancora verbale d’interrogatorio del 28.02.97).
D’altra parte, nelle diverse occasioni e sedi processuali in cui è stato chiamato a riferire quanto a sua conoscenza su vicende cruciali della famiglia mafiosa di Cinisi, il DI CARLO ha saputo fornire sul conto di Nino BADALAMENTI e di Francesco DI TRAPANI, notizie dettagliate e riscontrate anche da altre fonti: il che ne comprova una conoscenza certamente non superficiale di entrambi i personaggi (v. dichiarazioni rese nell’ambito del c.d. “Maxi-quater” e nell’ambito del proc. a carico di RIINA+7 definito con la sentenza in atti).
Ciò posto deve convenirsi che l’apporto del DI CARLO costruisce un tassello assai significativo del mosaico accusatorio, perché, oltre ad offrire puntuali riscontri alle rivelazioni del collaboratore PALAZZOLO Salvatore, ne viene un prezioso supporto all’attendibilità delle dichiarazioni rese da MUTOLO e da ONORATO, Rispetto a queste ultime, in particolare, le notizie riferite dal DI CARLO fugano qualsiasi residuo dubbio o astratto timore di circolarità della prova, che sempre incombe su quel particolare tipo di prova della colpevolezza dell’imputato che è costituita dalla convergenza di molteplici propalazioni accusatorie.
Anzitutto, va rimarcato che DI CARLO è un ex uomo d’onore che è arrivato a ricoprire una carica (reggente della famiglia di Altofonte) e comunque una posizione e un ruolo (come fiduciario e referente diretto di Bernardo BRUSCA) che lo accreditano come fonte autorevole di conoscenza delle più segrete vicende di Cosa Nostra. Egli però proviene da una famiglia e da un mandamento mafiosi diversi da quello in cui rientrava la famiglia di appartenenza di MUTOLO e di ONORATO.
Inoltre, con la famiglia di Partanna Mondello, o con gli esponenti di spicco di tale famiglia (come Rosario RICCOBONO o i fratelli MICALIZZI, indicati dagli altri due collaboranti come loro fonti di conoscenza dei retroscena dell’omicidio IMPASTATO) egli non vantava particolari rapporti di conoscenza o frequentazione.
Di contro, era legato da personale amicizia a Nino BADALAMENTI. Ora, le notizie che, in merito all’omicidio, pervengono al MUTOLO e all’ONORATO attraverso le confidenze dei vari RICCOBONO e MICALIZZI, sono del tutto conformi a quelle riferite dal DI CARLO e, con tutta probabilità, la fonte originaria è la stessa. Ma DI CARLO quelle stesse notizie le ha apprese direttamente da questa fonte, ossia dalla viva voce di Nino BADALAMENTI, con ciò fornendo un innegabile riscontro alle chiamate indirette di MUTOLO e di ONORATO.
Ma c’è di più, poiché, secondo quanto dichiarato dal DI CARLO, a Nino BADALAMENTI si aggiunge, come fonte diretta di conoscenza e di conferma dei retroscena del delitto, anche Ciccio DI TRAPANI. E anche nella parte in cui indica come ulteriore fonte il DI TRAPANI, le dichiarazioni del DI CARLO si sono rivelate, per le ragioni già esposte, altamente attendibili.
Ne segue che, al di là del non trascurabile rilievo indiziario delle dichiarazioni di CALDERONE, si è così assicurata la molteplicità oltre che l’autonomia delle fonti accusatorie.
L’utilizzabilità delle dichiarazioni di DI CARLO Francesco
L’importanze delle dichiarazioni di Francesco DI CARLO anche nell’economia del presente giudizio impone alcune brevi considerazioni per fugare qualsiasi dubbio sulla piena utilizzabilità processuale di tali dichiarazioni.
È vero, infatti, che il DI CARLO, si è rifiutato di sottoporsi all’esame disposto da questa Corte a titolo di integrazione probatoria; o, più esattamente, all’udienza del 19 ottobre 2000, che era stata fissata per la sua audizione, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ma non per questo scatta la preclusione sancita, in conformità ai nuovi principi costituzionali sul giusto processo, dall’art. 526 comma 1 bis C.P.P., che vieta espressamente l’utilizzazione, come prova della colpevolezza, delle dichiarazioni di chi si è sempre sottratto volontariamente all’esame dell’imputato.
Ed invero, tale preclusione, attraverso la sanzione tipicamente processuale dell’inutilizzabilità, garantisce il principio del contraddittorio nella formazione della prova, solennemente consacrato nella prima parte del comma 4 del novellato art. 111 della Costituzione, non meno che il diritto dell’accusato di difendersi provando l’infondatezza dell’addebito mediante il confronto diretto con chi lo accusa.
Infatti, la sanzione dell’inutilizzabilità è comminata contro la violazione che si consuma allorché l’autore di propalazioni accusatorie si sottragga (volontariamente) al confronto con l’accusato, cioè all’esame sollecitato dallo stesso imputato o al controesame cui la difesa ha diritto.
In realtà si tratta di una formula ridondante che nel ricalcare pedissequamente il dettato della corrispondente disposizione costituzionale vuol richiamare il principio ispiratore comune alle norme processuali ordinarie destinate a darvi piena attuazione, come quelle concernenti la disciplina dell’esame testimoniale, il regime delle contestazioni, il sistema delle letture consentite (art. 511) i limiti di utilizzabilità delle dichiarazioni pregresse (art. 500, commi 4,6 e 7; art. 512, 512 bis e 513 ult. comma), l’esame dell’imputato di reato connesso o collegato, con particolare riguardo all’ipotesi in cui il dichiarante si avvalga della facoltà di non rispondere (art. 513, comma 2): tutte disposizioni che comunque afferiscono al e presuppongono il rito ordinario dibattimentale, mentre non trovano applicazione nei c.d. riti alternativi, ivi compreso un rito speciale come quello con cui è stato definito il presente giudizio, che ricalca il modello del giudizio abbreviato.
La sanzione dell’inutilizzabilità, invero, chiude qualsiasi varco alla possibilità di recuperare alla cognizione del giudice, attraverso quel simulacro di contraddittorio che era, nel previgente regime, la contestazione delle dichiarazioni pregresse in caso di silenzio del dichiarante, il materiale probatorio raccolto nella fase investigativa. E presuppone, ovviamente, che quel materiale non faccia già parte del compendio di fonti di prova ed elementi di conoscenza utilizzabili per la decisione.
Ma questo problema, e l’annesso scenario, esulano dagli orizzonti processuali dei riti alternativi, e segnatamente di quelli ispirati al modello del giudizio abbreviato i quali assumono direttamente gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero a materia di cognizione, annettendo valore probatorio anche agli atti istruttori compiuti nella segretezza della fase delle indagini preliminari. E nella formazione del materiale probatorio utile per la decisione, si deroga al principio del contraddittorio in quanto è lo stesso imputato a consentirlo. Anzi, più esattamente, la deroga è frutto di una libera e insindacabile scelta dell’imputato che, ricorrendone i presupposti di legge, opti per il rito speciale, prestando quindi il proprio consenso alla piena utilizzabilità del materiale probatorio già raccolto: ivi comprese le dichiarazioni di imputati di reato connesso-collegato che, successivamente, si avvalgano della facoltà di non rispondere dinanzi al Giudice, quando questi, come nel caso di specie, ne abbia disposto l’audizione a titolo di integrazione probatorio, ed esercitando i limitati poteri d’ufficio (di iniziativa e di impulso) che la legge gli attribuisce per acquisire elementi che ritenga necessari ai fini della decisione.
Così i verbali degli interrogatori nel corso dei quali il DI CARLO ebbe a rendere le dichiarazioni sopra richiamate (e le altre di cui si dirà) facevano parte del fascicolo del pubblico ministero e quindi anche degli atti utilizzabili per la decisione già prima e a prescindere dal suo (mancato) esame, ovvero prima e a prescindere dal provvedimento con cui questa Corte ne ha disposto l’audizione.
Un ulteriore e decisivo apporto viene dalle convergenti dichiarazioni accusatorie di altri collaboratori, raccolte nell’ambito dell’attività integrativa d’indagine successiva al deposito della richiesta di rinvio a giudizio: anch’esse de relato, ma provenienti da fonti autonome e distinte rispetto a quelle fin qui esaminate.
BRUSCA Giovanni
Nell’interrogatorio reso al P.M. il 30 maggio 1997, Giovanni BRUSCA ha dichiarato che, poco tempo dopo l’omicidio, apprese da suo padre, Bernardo BRUSCA, che Peppino IMPASTATO era stato ucciso per volere di Gaetano BADALAMENTI: era stato lo stesso boss di Cinisi a vantarsi, parlandone appunto con Bernardo BRUSCA alla presenza anche di Totò RIINA, di essersi sbarazzato dell’IMPASTATO architettando una messinscena tale da depistare le indagini dell’A.G. Sempre da suo padre Bernardo, apprese altresì che “il BADALAMENTI aveva ordinato l’eliminazione del giovane a causa delle sue continue denunce antimafia”.
Circa le modalità dell’omicidio, il collaborante ha precisato di aver saputo che “l’omicidio era stato commesso in un luogo diverso da quello dove fu poi rinvenuto il cadavere”. Invece, interrogato su eventuali responsabilità dell’odierno imputato, PALAZZOLO Vito, ha dichiarato di non saperne nulla.
Quanto alla possibilità che il BADALAMENTI si lasciasse andare a confidenze così delicate e compromettenti con uomini d’onore che erano certamente suoi pari grado (e cioè reggenti o capi mandamento, nonché membri della Commissione provinciale di Cosa Nostra), ma che di lì a poco ne avrebbero decretato l’espulsione dall’organizzazione, il BRUSCA fornisce un’indicazione che è riscontrata anche da altre fonti (CALDERONE e soprattutto DI CARLO) e che rende credibile il suo racconto: all’epoca dell’omicidio, Gaetano BADALAMENTI aveva ancora contatti diretti e formalmente normali con i corleonesi di Totò RIINA, anche se già i loro rapporti si erano incrinati da tempo e covavano pericolose tensioni.
In effetti, giusta la ricostruzione sopra operata e a cui questa Corte ritiene si debba accedere, l’estromissione del BADALAMENTI matura tra l’estate e l’autunno del 1978. E anche DI CARLO Francesco ha riferito di avere personalmente incontrato Gaetano BADALAMENTI poco tempo dopo l’omicidio, per due o tre volte ancora, in occasione di altrettante riunioni della Commissione:
“Dopo l’omicidio? Sì, l’ho incontrato un paio di volte ancora perché nelle riunioni di Commissione, quando poi hanno cominciato a succedere… Hanno cominciato un po’ a nascere dei discorsi fra linea… diciamo linea corleonese e quella BADALAMENTI e BONTADE, ci sono state spesso riunioni a Favarella (NdR: la tenuta di GRECO Michele, abituale sede di riunioni della Commissione) e ho avuto modo di incontrarlo”. (Cfr. verbale di interrogatorio del 28.02.97. Ivi il collaborante peraltro precisa che “a livello di quei discorsi potevo solo assistere, non potevo fare altro che assistere”, non essendo egli membro della Commissione).
A ulteriore conforto dell’attendibilità del racconto di BRUSCA va ancora rammentato che egli, come ha dichiarato, fu messo al corrente dei retroscena del delitto (da suo padre Bernardo) poco tempo dopo il fatto; e all’epoca egli era già uomo d’onore, nonostante la giovane età. D’altra parte, il suo rapporto privilegiato con il capo mandamento di san Giuseppe Jato (o almeno il reggente in sostituzione di SALAMONE Antonino) lo legittimava a riceversi simili confidenze a prescindere da una formale affiliazione.
Nel merito va rimarcata la singolare assonanza con l’episodio raccontato da CALDERONE. In pratica, le rare volte in cui Gaetano BADALAMENTI ebbe l’occasione di allontanare da sé dicerie e sospetti in ordine ad un suo coinvolgimento nella tragica morte di Peppino IMPASTATO, non solo non fece nulla per confutare quella che era divenuta una sorta di communis opinio negli ambienti di Cosa Nostra, ma, al contrario, l’accreditò con espresse ammissioni (come nell’episodio raccontato da BRUSCA Giovanni) o con atteggiamenti meno espliciti ma altrettanto eloquenti (come nell’episodio riferito a CALDERONE Antonino da suo fratello Giuseppe).
BRUSCA Emanuele
Nell’interrogatorio reso al P.M. il 9.03.1999, BRUSCA Emanuele ha (spontaneamente: v. infra) dichiarato che “intorno al 1979-1980, discutendo con Leoluca BAGARELLA che in quel periodo mi veniva spesso a trovare a Palermo, a Casa Professa o a Palazzo Ganci, il discorso cadde su Gaetano BADALAMENTI. Forse era presente pure mio padre.
Il BAGARELLA criticò aspramente il BADALAMENTI per l’atteggiamento che questi aveva assunto riguardo all’IMPASTATO e disse una frase del genere: ‘finora si è fatto ballare sulla pancia ed ora fa il terrorista’”.
Ebbene, secondo la spiegazione offerta dallo stesso collaborante, BAGARELLA intendeva dire che “il BADALAMENTI era stato a lungo un vigliacco (quest’ultimo era anche il termine con cui BAGARELLA indicava spesso il BADALAMENTI che chiamava ‘faccia di pala’) consentendo all’IMPASTATO di parlare male di lui a destra e a manca e che aveva preso provvedimenti troppo tardi, mentre avrebbe dovuto bloccare l’IMPASTATO per tempo”. (Cfr. verbale riassuntivo dell’interrogatorio del 9 marzo ’97 in vol. 17).
In altri termini, secondo quanto parrebbe evincersi dal racconto di Emanuele BRUSCA, negli ambienti di Cosa Nostra, e per bocca di suoi esponenti di assoluto spicco, come appunto Leoluca BAGARELLA, si addebitava al BADALAMENTI non già di aver deciso l’eliminazione dell’IMPASTATO, bensì di aver temporeggiato e subito troppo a lungo, prima di reagire in modo appropriato ai suoi attacchi.
In ogni caso, nel pesante apprezzamento espresso dal BAGARELLA e nelle sue parole come riportate dal collaborante, si esprime la certezza che:
il giovane IMPASTATO fu ucciso per volere di Gaetano BADALAMENTI;
l’omicidio fu dissimulato sotto le parvenze di un attentato terroristico;
il movente andava ricercato nei continui attacchi e nella campagna denigratoria messa in atto dallo stesso IMPASTATO nei riguardi del boss di Cinisi.
In realtà, le dichiarazioni di BRUSCA Emanuele non sono conformi all’archetipo della chiamata in reità de relato, perché egli si limita a riportare una serie di valutazioni e apprezzamenti espressi dalla sua fonte di riferimento. Il collaborante, in sostanza, non ha chiarito, né forse poteva farlo, se quelle valutazioni, quegli apprezzamenti e le certezze che essi sottintendono, fossero espressione di congetture o convincimenti personali dello stesso BAGARELLA, ovvero di una lettura diffusa negli ambienti di Cosa Nostra sulle vere ragioni e la cause della tragica fine di Giuseppe IMPASTATO; né ha precisato se essi traevano origine da informazioni di prima mano, attinte alla fonte – e cioè allo stesso BADALAMENTI o a qualcuno del suo entourage – o comunque di sicura attendibilità.
Tuttavia, questa testimonianza conferma una volta di più come, già poco tempo dopo la tragica scomparsa di Peppino IMPASTATO, non si nutrisse alcun dubbio, negli ambienti di Cosa Nostra e anche al livello dei suoi maggiori esponenti, circa il fatto che si trattasse di un omicidio, voluto e ordinato da Gaetano BADALAMENTI. E il suo specifico rilievo indiziario scaturisce dal coordinamento con le risultanze di altre convergenti propalazioni. In pratica, mentre si diffondeva e consolidava questa versione dei fatti, dall’entourage di Gaetano BADALAMENTI non venne alcuna smentita; o almeno non è stata fatta trapelare nessuna voce dissonante o in contrasto con questa sorta di opinione diffusa.
Anzi, come si è visto, il principale e più diretto interessato, e cioè lo stesso BADALAMENTI, le rare volte in cui ebbe l’occasione di chiarire la sua posizione dinanzi ad interlocutori autorevoli, e allontanare da sé qualsiasi sospetto, non lo ha fatto: non ha fatto nulla cioè per smentire quella versione del tragico evento, avvalorandone piuttosto la fondatezza con le sue parole, con i suoi atteggiamenti o anche con i suoi silenzi.
Sulle circostanze di tempo e di luogo in cui sarebbe avvenuta la confidenza-sfogo del BAGARELLA, il collaborante è stato piuttosto vago, limitandosi a riferire che avvenne in una delle tante occasioni in cui il BAGARELLA lo incontrava a Palermo, “a Casa Professa o a Palazzo Ganci”; e non ricorda con certezza se fosse presente suo padre Bernardo.
Tale vaghezza di ricordi è però ampiamente giustificata non solo dal considerevole tempo trascorso; ma anche dal fatto che quella del BAGARELLA fu una confidenza del tutto occasionale e nel contesto di un discorso al quale lo stesso BRUSCA non era particolarmente interessato. Ciò spiega anche per quale ragione non ne avesse riferito prima all’A.G., come lo stesso collaborante chiarisce prima ancora di iniziare a riferire dell’episodio, “…che non aveva finora ricordato in quanto si trattava di una circostanza cui non aveva dato tanto peso”.
SIINO Angelo
Con le rivelazioni del collaboratore Angelo SIINO, si torna a fonti interne al clan BADALAMENTI, ma diverse dalla persona di Nino BADALAMENTI. SIINO ha infatti dichiarato di avere appreso da Silvio BADALAMENTI, nipote di Gaetano BADALAMENTI e poi ucciso nei primi anni ’80, che il giovane IMPASTATO conduceva un’incessante campagna di denunzia con toni irriverenti all’indirizzo di Tano BADALAMENTI, spesso apostrofato con epiteti ingiuriosi come Tano Seduto. Per queste ragioni, Gaetano BADALAMENTI si era determinato ad ordinarne l’eliminazione, sebbene l’IMPASTATO fosse di buona famiglia, nell’accezione mafiosa, intendendosi con ciò la presenza tra gli IMPASTATO di diversi uomini d’onore. (cfr. verbale riassuntivo del 13 agosto 1997 in vol. 15; e verbale di trascrizione integrale del medesimo interrogatorio prodotto dal P.M. all’udienza del 22.01.2001 ad integrazione dei fogli mancanti nella copia già allegata al verbale riassuntivo).
Non serve immorare sulla statura criminale di Angelo SIINO e sul ruolo che per molti anni ebbe a ricoprire all’interno di Cosa Nostra, stante la notorietà del personaggio, assurto agli onori della cronache giudiziarie con la suggestiva locuzione di “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra. Come collaboratore di Giustizia, le sue rivelazioni hanno concorso in misura decisiva a far luce sui sotterranei e complessi intrecci tra potere mafioso e controllo delle attività produttive con particolare riguardo ai sistemi di spartizione degli appalti pubblici.
Ai fini del presente giudizio deve piuttosto rilevarsi che SIINO ha riferito poche ma essenziali notizie sul conto di Silvio BADALAMENTI, che ne comprovano la conoscenza. Questi infatti non era un personaggio particolarmente noto, se non all’interno dei circuiti criminali in cui, per vincoli familiari, lui stesso era inserito (e il collaboratore lo conosceva già perché gli era stato presentato da un suo cugino, tal RANDAZZO Vincenzo, che dalla documentazione in atti risulta essere a sua volta nipote di Gaetano BADALAMENTI, coinvolto in varie indagini sul traffico internazionale di droga).
Inoltre, Silvio BADALAMENTI venne assassinato ben 14 anni prima che SIINO rendesse le sue dichiarazioni.
Orbene, l’importanza della testimonianza di SIINO sta anche e proprio nella qualità della sua fonte, che è tanto più attendibile perché si tratta di una persona di provata fedeltà a Gaetano BADALAMENTI: al punto che pagò con la vita l’essergli rimasto fedele anche nel corso della guerra di mafia dei primi anni ’80.
Fu ucciso infatti nel quadro della campagna di sterminio messa in atto dai corleonesi ai danni del clan BADALAMENTI, appunto perché ritenuto uno dei soggetti più vicini all’ex capo-mandamento (ormai deposto e datosi alla macchia), anche al di là dello stretto vincolo di parentela.
Tale ricostruzione del movente e del contesto che connotano la sua uccisione non è frutto solo di congetture investigative riportate (con accenti di certezza) dai giornali dell’epoca, ma trova conferma nelle rivelazioni di alcuni nuovi collaboratori di Giustizia che peraltro furono tra coloro che parteciparono alla preparazione e all’esecuzione dell’omicidio. (Cfr. dichiarazioni rese da GIACALONE Salvatore, nell’interrogatorio del 17.10.1996, e PATTI Antonino, nell’interrogatorio del 5.07.1995: entrambi già uomini d’onore della famiglia mafiosa di Marsala, città in cui lavorava e venne assassinato appunto Silvio BADALAMENTI).
Le ulteriori dichiarazioni di SIINO fanno poi luce sul ruolo di Pino LIPARI nella gestione del camping “Z10”, oggetto di veementi denunzie da parte di Peppino IMPASTATO fino a pochi giorni prima di morire. Il collaboratore ha infatti confermato che, inizialmente, era Gaetano BADALAMENTI interessato all’affare, “insieme con una cava ed altre cose” come gli dissero sia RANDAZZO Vincenzo che Silvio BADALAMENTI; e ha spiegato di essere personalmente al corrente della faccenda perché si trattava della cava aperta in occasione della costruzione dell’autostrada Palermo-Mazzara del Vallo. E appunto con il LIPARI, insieme ad altri geometri dell’ANAS lo stesso SIINO ebbe rapporti d’affari per la gestione della cava con annesso impianto di forniture di conglomerati per i lavori di costruzione stradale (“… poi, quando parleremo del LIPARI dirò esattamente la sua funzione, tutte…quali sono le società che si riconducono tutte a lui, che cosa faceva il gruppo dell’ANAS…“). In pratica, sia della cava che del camping predetto, dopo che Gaetano BADALAMENTI cadde in disgrazia, continuò ad occuparsi il LIPARI, in quanto persona di fiducia di Bernardo PROVENZANO, che aveva per così dire ereditato alcuni degli affari avviati dal deposto boss di Cinisi. Ma inizialmente il rapporto relativo a questi due affari intercorreva tra lo stesso LIPARI e Gaetano BADALAMENTI, a cui il LIPARI era legato anche per ragioni familiari. Infatti la famiglia della moglie (IMPASTATO Marianna) era molto vicina al BADALAMENTI; ma la famiglia del LIPARI era a sua volta vicina alla Sig. ra PALAZZOLO (cioè Saveria Benedetta, moglie del PROVENZANO). E i rapporti d’affari tra il LIPARI e Gaetano BADALAMENTI “…iniziarono con la costruzione della Punta Raisi-Mazara del Vallo”. (Cfr. pag. 50 del verbale integrale in atti).
Il collaboratore ha poi dimostrato di essere al corrente della situazione societaria del villaggio turistico in oggetto, rivelando che esso non era intestato né al LIPARI, né, ovviamente, al PROVENZANO, bensì a certi CALDARA e non meglio identificati personaggi tedeschi: notizie che sono risultate sostanzialmente rispondenti al vero (v. ad integrazione delle informazioni contenute sul conto del LIPARI nel rapporto-denuncia dei carabinieri di Partinico del 27 novembre 1993, anche la scheda redatta sulla “Costa Rossa s.r.l.”, ex Camping Z10, e allegata alla Nota 13 aprile 1999 a firma del C. te della Stazione dei CC di Cinisi, vol. 17. Ivi si fa riferimento peraltro alla compagine societaria attuale, nella quale figuravano, anche prima della trasformazione da s.p.a. in s.r.l., CALDARA Salvatore, CALDARA Francesco e CUSUMANO Antonino: quest’ultimo nominato anche consigliere delegato in occasione della trasformazione predetta. E lo stesso CUSUMANO risulta coniugato con una donna verosimilmente di origine tedesca, tal SPENGLER Heidemarie, imprenditore edile. All’epoca dell’omicidio IMPASTATO, o comunque in data anteriore al novembre ’83, il LIPARI figurava anche formalmente come socio azionista della “Costa Rossa”, unitamente alla moglie Marianna IMPASTATO (v. f. 58 del rapporto denuncia datato 27.11.83).
Pertanto, ammesso, in ipotesi, che le reiterate e pubbliche denunzie da parte di Peppino IMPASTATO della speculazione illecita connessa all’affare del villaggio “Z10” abbiano concorso a farne decidere la soppressione, non sarebbe questo un elemento idoneo ad orientare i sospetti su un gruppo criminale diverso dal clan BADALAMENTI e segnatamente sulla cosca emergente dei corleonesi.
È vero che l’appartenenza del LIPARI a tale schieramento è stata acclarata nel primo maxi-processo, in esito al quale egli è stato condannato alla pena di anni otto di reclusione per il reato di associazione mafiosa. E già nel più volte citato rapporto giudiziario del 27.11.93, egli veniva annoverato tra i presunti affiliati alla cosca emergente facente capo al latitante Bernardo PROVENZANO. (Ivi si sottolinea che “solo grazie alla sua collocazione in seno al gruppo mafioso dei “corleonesi” del quale è fidato prestanome, è riuscito ad effettuare speculazioni immobiliari che appartengono ad un giro di affari molto al di sopra delle sue possibilità”).
Ma alla luce delle informazioni fornite dal collaboratore SIINO, deve ritenersi del tutto plausibile che il geom. LIPARI, attesa la vicinanza e i rapporti personali che lo legavano tanto a Gaetano BADALAMENTI, quanto a Bernardo PROVENZANO non abbia avuto alcuna difficoltà a saltare sul carro del vincitore, appena caduto in disgrazia il boss di Cinisi.
ZANCA Salvatore
Da ultimo, anche uno dei più recenti collaboratori di Giustizia, ZANCA Salvatore – ha iniziato a collaborare nel marzo del ’98 – ha riferito quanto a sua conoscenza sull’omicidio IMPASTATO, rendendo peraltro dichiarazioni del tutto convergenti con quelle dei collaboratori che l’hanno preceduto.
Uomo d’onore, da poco formalmente affiliato, ma già da molto tempo persona di fiducia di Cecè SORCE, capo del mandamento mafioso di Palermo Centro, ha rivelato che lo stesso SORCE era in ottimi rapporti con Gaetano BADALAMENTI “e proprio dal SORCE ho appreso che il BADALAMENTI aveva ordinato l’omicidio di Peppino IMPASTATO, ucciso, se non ricordo male, simulando un attentato alla ferrovia nei pressi di Cinisi”.
Spiega che era stato lui stesso a chiedere notizie in merito a questo fatto, di cui aveva appreso dalle cronache dei giornali: “ed il SORCE mi riferì che tale omicidio era stato deciso e realizzato per volere di Gaetano BADALAMENTI e ciò nonostante l’IMPASTATO appartenesse ad una famiglia vicina a Cosa Nostra. L’IMPASTATO era stato eliminato a causa della sua attività politica, volta a denunciare la mafia”.
Il collaborante ha poi aggiunto di essere in grado di fornire informazioni utili a far luce su alcuni episodi delittuosi occorsi nei territori di Cinisi, Terrasini e Partinico, vantando rapporti di conoscenza e frequentazione con diversi uomini d’onore di quei territori.
PALAZZOLO Salvatore
Anche PALAZZOLO Salvatore accusa Gaetano BADALAMENTI, sulla scorta delle confidenze fattegli dall’odierno imputato, di essere il mandante dell’uccisione di Peppino IMPASTATO, insieme allo stesso PALAZZOLO Vito che avrebbe concorso alla deliberazione dell’omicidio. Ma delle sue dichiarazioni si dirà con riferimento agli altri elementi a carico di PALAZZOLO Vito.
4. Profili di attendibilità intrinseca
Non può tacersi anzitutto, per la sua immediata refluenza sulla valutazione di alcune delle più significative propalazioni accusatorie nei riguardi degli odierni imputati – e segnatamente quelle che promanano da DI CARLO e da BRUSCA Giovanni con riferimento alle notizie apprese da altri affiliati o dai diretti protagonisti del delitto in esame – l’indirizzo interpretativo che si è andato consolidando nella giurisprudenza di legittimità, in relazione a fenomeni criminali di tipo associativo, di pari passo con il progredire delle conoscenze e delle acquisizioni processuali su taluni aspetti e assetti della vita interna ad organizzazioni criminali come Cosa Nostra.
In particolare, secondo tale indirizzo, in materia di valutazione della prova orale costituita da dichiarazioni di soggetti imputati o indagati per lo stesso reato o per reati connessi o probatoriamente collegati, “non sono assimilabili a pure e semplici dichiarazioni “de relato” quelle con le quali si riferisca in ordine a fatti o circostanze attinenti la vita e le attività di un sodalizio criminoso, dei quali il dichiarante sia venuto a conoscenza nella sua qualità di aderente in posizione di vertice, al medesimo sodalizio, specie quando questo sia caratterizzato da un ordinamento a base gerarchica, trattandosi in tal caso, di un patrimonio conoscitivo derivante da un flusso di circolare di informazioni dello stesso genere di quello che si produce, di regola, in ogni organismo associativo, relativamente ai fatti di interesse comune” (Cass. 30/01/92, ALTADONNA).
Questo principio fu enunciato in tema di banda armata e associazione terroristico-eversiva; ma è chiaro che esso trova le sue più significative applicazione proprio in relazione ai fatti delittuosi commessi nell’ambito di associazioni criminali di tipo mafioso. E ciò con particolare riguardo ai meccanismi conoscitivi e alla circolazione di notizie ed informazioni tra affiliati allo stesso sodalizio, o tra esponenti di spicco delle diverse famiglie.
Nel caso di specie, il principio calza alla valutazione delle dichiarazioni accusatorie rese da DI CARLO Francesco, sulla scorta delle informazioni che, essendo all’epoca uno degli esponenti di spicco del mandamento di San Giuseppe Jato e amico personale di BADALAMENTI Antonino, egli avrebbe appreso dallo stesso BADALAMENTI Antonino, sotto-capo del mandamento di Cinisi; e delle conferme ricavate dalle confidenze che gli fece poi DI TRAPANI Francesco. Ma si addice anche alle rivelazioni di BRUSCA Giovanni, con riferimento alle notizie apprese da suo padre Bernardo.
Come già anticipato, le dichiarazioni accusatorie sopra riportate, fatta salva la doverosa precisazione che precede, sono de relato ma soddisfano ai requisiti di attendibilità richiesti per questo tipo di chiamata in (cor)reità.
In particolare, tutti i dichiaranti hanno dato una spiegazione convincente – o comunque questa è inferibile dal contesto del loro racconto – circa la loro possibilità di accedere a informazioni riservate e riceversi da fonti autorevoli all’interno dell’organizzazione confidenze su argomenti scottanti.
Contrariamente a quanto insinua la difesa, non si può poi dire che essi siano tutti di stretta osservanza corleonese: non lo erano certamente CALDERONE o PALAZZOLO; ma lo stesso DI CARLO, che pure fu, a suo dire, diretto fiduciario di Bernardo BRUSCA e fedelissimo di Totò RIINA, ha buoni motivi di dolersi del trattamento riservatogli dai corleonesi, se è vero che fu costretto a riparare in Inghilterra – dopo essere stato posato – per sfuggire alla morte.
In ogni caso, essi provengono dalle famiglie e dai mandamenti mafiosi più disparati e rendono le loro dichiarazioni in tempi e circostanze talmente differenti da escludere qualsiasi teorico sospetto di una previa concertazione e manipolazione delle notizie riferite. E anche quando si tratta di ex corleonesi, proprio sulle loro rivelazioni, in altri processi per gravi delitti, si fondano innumerevoli e pesantissime condanne nei confronti di boss e gregari dello schieramento (appunto quello dei corleonesi) cui loro stessi hanno ammesso di avere appartenuto.
Per nessuno di loro, almeno per quanto consta, è mai emerso il benché minimo elemento idoneo a dare credito al sospetto di propalazioni calunniose nei riguardi di taluno dei soggetti di volta in volta chiamati in (cor)reità, poste in essere magari per colpire affiliati allo schieramento avverso. E si tratta peraltro di collaboratori la cui affidabilità ha superato il vaglio di innumerevoli procedimenti aventi ad oggetto gravissimi reati, dei quali sono stati identificati i responsabili, grazie alle loro rivelazioni. (In particolare questa Corte ritiene di dover condividere il positivo apprezzamento espresso nelle sentenze definitive acquisite agli atti del presente procedimento nei riguardi dei vari MUTOLO, CALDERONE, DI CARLO e PALAZZOLO, oltre ovviamente a BUSCETTA e MARINO MANNOIA. E alle considerazioni ivi esposte qui si rinvia integralmente).
Anzi, non è azzardato affermare, almeno per alcuni di loro, che, con le loro rivelazioni, hanno concorso a scrivere i capitoli salienti della storia dei grandi processi alla criminalità organizzata.
Piuttosto, tra i fattori che oggettivamente depongono a favore della credibilità dei collaboranti spiccano l’aver fatto parte, anche “formalmente” e non solo in via di fatto dell’associazione mafiosa Cosa Nostra; e la sussistenza di vincoli di parentela o di amicizia con alcuni dei chiamati in (cor)reità: ovvero, trattandosi di chiamate de relato, con i soggetti indicati come propria fonte di conoscenza dei fatti riferiti.
Ed invero, l’appartenenza a Cosa nostra è il presupposto minimo necessario per poter riferire delle vicende interne e dei personaggi legati a questa organizzazione criminale, che fa della segretezza e del riserbo dei suoi adepti una regola essenziale di condotta.
Ma anche sotto un altro profilo la confessione dell’appartenenza a Cosa Nostra diviene un indice probante di attendibilità. Tale è quando, come nel caso di specie, lungi dal consistere in un’ammissione isolata, si inserisce nel coacervo di una serie di dichiarazioni confessorie e reciproche chiamate in correità (anche) in ordine al delitto associativo.
In effetti, i vari BUSCETTA, CALDERONE, MUTOLO, DI CARLO, SIINO, i f.lli BRUSCA ecc. sono tutti ex uomini d’onore. Ciascuno di loro si auto-accusa del delitto di associazione mafiosa – come pure di tanti altri delitti, anche più gravi – chiamando altresì in correità altri (presunti) uomini d’onore i quali, successivamente, o comunque con dichiarazioni rese in tempi diversi e in condizioni che escludono una previa concertazione delle rispettive confessioni, ammettono tale addebito. E da tale ammissione le rivelazioni dei primi dichiaranti non possono che trarre eccezionale conferma della loro attendibilità anche per ciò che concerne l’appartenenza a Cosa Nostra da parte dei medesimi dichiaranti.
È questo il fenomeno delle dichiarazioni “a catena”. Ed invero, già la confessione di appartenere o essere affiliato a Cosa Nostra, ovvero ad una delle famiglie in cui, anche territorialmente, questa organizzazione criminosa si articola, tanto più se accompagnata dall’ammissione di aver partecipato ad uno o più delitti ascrivibili al medesimo sodalizio, offre di per sé un’apprezzabile garanzia di attendibilità circa tale adesione, proprio perché espone comunque il dichiarante a pesanti pene detentive.
Ma un’ulteriore e concludente conferma dell’appartenenza all’associazione mafiosa – se è vero che tale organizzazione criminale può definirsi come una sorta di società segreta, per il riserbo che circonda l’identità dei suoi adepti nei confronti di coloro che non lo sono – può desumersi da quella specie di catena di dichiarazioni per cui colui che un primo pentito ha indicato quale affiliato a Cosa Nostra, a sua volta si pente e attesta la sua qualità di uomo d’onore: a meno di voler ipotizzare una sorta di accordo auto-lesionista tra i due, colui che ha fatto la prima indicazione, dalla seconda confessione riceve un’inaspettata conferma delle sue dichiarazioni che ne dimostra la conoscenza delle cose dell’organizzazione criminale, che non può che derivargli dalla sua organica partecipazione ad essa.
E una volta provata nei termini anzidetti la partecipazione all’associazione mafiosa “Cosa Nostra” dei collaboranti le cui dichiarazioni sono alla base (anche) del presente procedimento, l’attendibilità di tali dichiarazioni ne esce corroborata pure per la parte in cui queste si riferiscono alla posizione di altri soggetti, proprio perché promanano da persone che sono nella condizione di poter apprendere i segreti dell’organizzazione criminosa e che hanno cognizione diretta di fatti e vicende afferenti alla vita interna di Cosa Nostra, e quindi anche della composizione interna alle varie famiglie e del ruolo e le attività dei singoli componenti di queste.
È innegabile che tutto ciò imprima un elevato grado di attendibilità intrinseca alle rivelazioni dei collaboratori sunnominati pure nei riguardi degli imputati non collaboranti e con riferimento a delitti diversi da quello associativo, ma che si assumono commessi nell’ambito delle attività criminali e per finalità riferibili alla stessa organizzazione mafiosa.
Ciò non esime ovviamente dall’onere, che il terzo comma dell’art. 192 C.P.P. comunque impone, di verificare la fondatezza dell’accusa, valutando le dichiarazioni dei collaboranti unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità.
Ma resta innegabile, in assenza di dati obbiettivi che la smentiscano o di motivi specifici e concreti che inducano a dubitare della sincerità del dichiarante, la forza dimostrativa che la conferma dell’accusa di appartenere a Cosa Nostra e di aver commesso determinati delitti per conto di tale organizzazione – derivante da reciproche chiamate di correità – esercita in ordine alla fondatezza delle analoghe accuse concernenti gli altri chiamati.
Infine, alla luce della sommaria disamina cui sono state sottoposte, le dichiarazioni che chiamano in causa Gaetano BADALAMENTI come mandante dell’omicidio IMPASTATO appaiono immuni da censura sotto il profilo della coerenza e costanza con cui sono state ribadite nel corso di successivi interrogatori – per i collaboratori che sono stati chiamati più volte a riferire al riguardo: v. MUTOLO e DI CARLO, nonché, come si vedrà, PALAZZOLO Salvatore – e sotto il profilo della loro logicità intrinseca, avuto riguardo sia al contesto in cui vennero acquisite le notizie poi riferite, sia al coacervo di elementi autonomamente acquisiti e che oggettivamente e univocamente depongono per il coinvolgimento (nel delitto) della famiglia mafiosa di Cinisi.
5.3. Riscontri alle accuse nei confronti della famiglia mafiosa di Cinisi e di Gaetano BADALAMENTI
1. Il primo dei riscontri ab extrinseco è costituito dalla sostanziale convergenza delle molteplici dichiarazioni accusatorie in tutti i punti salienti che chiamano in causa Gaetano BADALAMENTI come mandante del delitto e nella qualità di capo della famiglia mafiosa di Cinisi.
Alla luce di un ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, appare innegabile l’efficacia probatoria del riscontro incrociato proveniente dalla concordanza e convergenza di più chiamate in correità. Ossia la possibilità che simili propalazioni integrino quel riscontro ab extrinseco che l’art. 192, co. 3° C.P.P. esige per una piena legittimazione della singola chiamata in correità quale fonte di prova idonea a fondare il convincimento giudiziale. (Cfr. Cass. 15/05/91, PAONE, e Cass. 25/01/96, CAMPANELLA e altri: “Allorquando sussistano più chiamate in correità, provenienti da più compartecipi, ognuna di tali chiamate mantiene il proprio carattere indiziario, e, ove siano convergenti verso lo stesso significato probatorio, ciascuna conferisce all’altra quell’apporto esterno di sinergia indiziaria la quale partecipa alla verifica sull’attendibilità estrinseca della fonte di prova”. O più semplicemente, Cass. 17/11/94, SAPORITO ed altri: “Il riscontro di una chiamata in correità può essere costituito anche da un’altra chiamata che risulti autonoma e convergente”).
Al riguardo non può che rinviarsi qui ai principi giurisprudenziali già richiamati nel capitolo relativo ai criteri di valutazione delle fonti di prova costituite da dichiarazioni (accusatorie) di soggetti compresi nelle categorie di cui all’art. 192, commi 3^ e 4^ C.P.P.
Ed invero, gli elementi di riscontro non sono predeterminati nella loro specie o qualità e pertanto possono essere, in via generale, di qualsiasi natura, purché idonei a confermare l’attendibilità della dichiarazione accusatoria. “Ne consegue che una pluralità di dichiarazioni di coimputati (cosiddetta chiamata di correo incrociata), tutte coincidenti in ordine alla commissione del fatto oggetto dell’imputazione, legittima, nella valutazione unitaria degli elementi di prova, l’affermazione di responsabilità del chiamato in correità” (cfr. già Cass. 29/03/90, PECORELLA; nonché Cass. 12/01/95, GRIPPI).
D’altra parte, ai fini della valutazione degli elementi di riscontro della chiamata in correità, “non esiste alcuna plausibile ragione per pervenire ad una disparità di trattamento tra elementi di riscontro reali, documentali o testimoniali in senso proprio ed altri elementi, desunti dalle cosiddette chiamate plurime, sempre che queste ultime siano contrassegnate dalla concordanza e dall’autonomia delle fonti di delazione” (Cass. 8/04/91, LAVAZZA).
Su questa linea interpretative è attestata anche la più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui “il riscontro esterno idoneo a confermare l’attendibilità del chiamate, ben può essere costituito da qualsiasi elemento di natura diretta o logica e quindi anche da altra chiamata di correo convergente, resa in piena autonomia rispetto alla precedente, tanto da escludere il sospetto di reciproche influenze” (Cass. 31/03/98, D’AMORA; e cnf. Cass. 7/03/97, Abd el Gawad; Cass. 4/03/98, MONTALBANO ed altro; Cass. 27/04/98, VENUTO; Cass. 2/12/98 ARCHINÀ ed altro ecc.).
Si è poi precisato che “le convergenti chiamate in correità si riscontrano reciprocamente (mutual corroboration o convergenza del molteplice), allorché, verificatane l’intrinseca attendibilità, siano autonome e la loro coincidenza non sia meramente fittizia” (cfr. Cass. 10/06/96, TIMPANI).
Quanto al concetto di “convergenza”, l’eventuale sussistenza di smagliature e discrasie anche di un certo peso, rilevabili tanto all’interno di dette dichiarazioni, quanto nel confronto fra esse, non implica di per sé il venire meno della loro sostanziale affidabilità, quando, sulla base di adeguata motivazione, risulti dimostrata la complessiva convergenza di esse nei rispettivi nuclei fondamentali (Cfr. Cass. 30/01/92, ALTADONNA; e Cass. !8/02/94, GODDI ed altri).
Anzi, l’esigenza che plurime dichiarazioni accusatorie, per costituire riscontro l’una dell’altra, siano convergenti, non può implicare la necessità di una loro totale e perfetta sovrapponibilità (la quale, anzi, a ben vedere, potrebbe essa stessa costituire motivo, talvolta, di sospetto), dovendosi al contrario ritenere necessaria solo la concordanza sugli elementi essenziali del thema decidendum, fermo restando il potere-dovere del giudice di valutare se eventuali discrasie possano trovare plausibile spiegazione in ragioni diverse da quelle ipotizzabili nel mendacio di uno o più dichiaranti (Cfr. Cass. 14/04/95, CARBONARO e cnf. Cass. 20/02/96, EMMANUELLO; nonché Cass. 23/05/97, NAPPA).
È vero piuttosto che, perché possa parlarsi di una doppia o plurima chiamata, “è necessaria una convergenza in ordine allo specifico fatto materiale oggetto del narrato” (Cass. 31/01/96, ALLERUZZO).
Ed è persino superfluo rammentare come tale giurisprudenza costituisca uno sbocco obbligato del principio secondo cui i riscontri oggettivi non sono necessariamente costituiti da elementi che forniscano già in sé la prova autonoma del fatto, ché altrimenti si verrebbe a negare in radice il valore probatorio di tale dichiarazioni, le quali invece appaiono strutturalmente assimilabili alla prova diretta. Soprattutto non sarebbe di alcuna utilità la ricerca di un riscontro all’attendibilità della chiamata di correo, né avrebbe senso, sul piano normativo, porre il problema di una verifica di tale attendibilità.
E difatti una costante giurisprudenza del S.C. insegna che i cosiddetti riscontri estrinseci possono consistere in fatti obiettivi ed elementi indiziari di qualsivoglia tipo e natura purché, complessivamente considerati e valutati, risultino idonei ad avvalorare l’attendibilità dell’accusa.
E il fatto poi che, ad evitare qualsiasi rischio di circolarità della prova, l’elemento di riscontro debba avere un contenuto e soprattutto un’origine autonoma ed indipendente rispetto alla dichiarazione accusatrice di cui deve verificare l’attendibilità, non significa che esso debba necessariamente consistere in un dato oggettivo come le risultanze di una perizia o un documento ecc.
Al contrario, il riscontro può anche consistere in un elemento in sè soggettivo, purché di significato univoco.
In tale prospettiva, natura di riscontro addirittura privilegiato deve riconoscersi alla confessione di uno o più dei chiamati, alla cui efficacia confermativa difficilmente si sottraggono anche le dichiarazioni riguardanti chi si trovi nella medesima posizione dell’imputato reo confesso (Cfr. in termini, Cass. Sez. I, 6 febbraio 1992 BARALDI).
Ma è pacifico che i riscontri estrinseci ben possono essere costituiti da altre dichiarazioni di coimputati o imputati in procedimenti connessi (cosiddette ” dichiarazioni incrociate”) sempreché ne sia stata vagliata la credibilità intrinseca e accertata la reciproca indipendenza in modo da escludere che le rispettivi dichiarazioni possano essere state concertate o promanino da una stessa fonte di affermazione.
Non è invece necessario che la seconda o comunque le ulteriori chiamate in correità a riscontro della prima siano a loro volta supportate da riscontri oggettivi, se non che per quel tanto che appaia indispensabile a scongiurare il rischio della circolarità della prova. Ma al tal fine è sufficiente che ad una rigorosa verifica dell’attendibilità intrinseca della chiamata si aggiunga il riscontro di circostanze obiettive afferenti, se non alla specifica posizione del chiamato in correità, al contesto dei fatti e delle vicende in cui si inscrivono le accuse nei suoi confronti.
Sul punto, il S.C. ha anzi ribadito il più drastico principio secondo cui quando il riscontro consiste in altra chiamata di correo (ed una volta acclarata l’intrinseca attendibilità delle rispettive dichiarazioni) non è necessario che questa sia convalidata da ulteriori elementi esterni giacché, in tal caso, si avrebbe la prova desiderata e non sarebbe necessaria alcuna altra operazione di comparazione o verifica (cfr. Cass. Sez. I n. 80/92).
Pretendere infatti l’auto-sufficienza probatoria del riscontro equivarrebbe a rendere ultronea la chiamata di correo. L’attenzione si concentra piuttosto sui parametri e criteri di valutazione della reciproca attendibilità di più chiamate di correo nel senso delle effettive idoneità di ciascuna di esse a corroborare l’efficace probatoria delle altre.
Al riguardo, condizione minima necessaria è, ovviamente, la convergenza sostanziale, che assume tanto più rilievo quanto più circostanziato e ricco di contenuti descrittivi è il racconto in cui si inseriscono le rispettive dichiarazioni. (Nella fattispecie, la drammatica rievocazione delle varie fasi dei due omicidi non avrebbe potuto essere più puntuale e dettagliata).
Ma oltre a questo dato obiettivo debbono tenersi in debito conto la contestualità congiunta alla reciproca autonomia delle dichiarazioni e delle fonti da cui promanano le informazioni su cui esse si fondano; e, più in generale, tutti quegli elementi idonei ad escludere fraudolente concertazioni ed a conferire a ciascuna chiamata i rassicuranti connotati della reciproca autonomia, indipendenza ed originalità.
A tali requisiti sicuramente soddisfano le dichiarazioni dei collaboratori sunnominati, avuto riguardo alla diversità e molteplicità delle fonti di cognizione e ai differenti contesti in cui sono state rese.
Degno di nota è poi il fatto che le propalazioni accusatorie concernenti gli odierni imputati sono state fatte dai collaboranti nella fase iniziale della loro collaborazione e quando ancora essi si trovavano in regime di rigoroso isolamento, il che fa escludere, in mancanza di qualsiasi indizio di segno contrario, che possa esservi stata una previa concertazione delle rispettive dichiarazioni ai danni degli stessi (co)imputati.
Va infine rammentato, per la sua pertinenza al caso di specie, che la giurisprudenza di legittimità in tema di riscontro incrociato di plurime dichiarazioni accusatorie si è spinta fino ad affermare che “le chiamate di correo convergenti, una volta che ciascuna di esse abbia passato il vaglio dell’attendibilità intrinseca, divengono concorrenti mezzi di prova di valenza dimostrativa più accentuata rispetto alla chiamata in correità corroborata da altri elementi di prova, di natura oggettiva, che esplichino esclusivamente una funzione di conferma”. (Così Cass. 31/01/96, ALLERUZZO).
Nel merito, tra i punti di convergenza più significativi ai fini di un positivo apprezzamento dell’attendibilità complessiva dell’accusa si segnala anzitutto la circostanza relativa all’appartenenza della vittima ad una famiglia organica o comunque molto vicina a Cosa Nostra.
Questo è un dato che ricorre in modo costante nelle propalazioni di numerosi collaboratori di giustizia, persino di quelli, come BUSCETTA, che nulla hanno saputo riferire in ordine alla morte di Giuseppe IMPASTATO. E fornisce materia per un vicendevole riscontro con la sofferta (sul punto) testimonianza degli stessi congiunti della vittima.
Il dato assume un rilevante significato sul piano logico-indiziario perché corrobora l’ipotesi accusatoria di un iter quanto mai travagliato della decisione di eliminare l’IMPASTATO; e spiega come tale decisione possa aver continuato a costituire motivo di imbarazzo se non di vergogna anche dopo la sua esecuzione per tutti gli affiliati al clan BADALAMENTI.
Sul punto, le spiegazioni del DI CARLO si incrociano con l’evidente imbarazzo del PALAZZOLO nello spiegare le remore che aveva avuto a rivelare fino in fondo, e fin dall’inizio, tutto quello che sapeva in merito ad una tragica vicenda che, per tutti coloro che si riconoscevano – o che si erano riconosciuti, fino al momento di intraprendere la strada della collaborazione con la Giustizia – nella comune fedeltà e lealtà al vecchio boss di Cinisi, doveva rappresentare comunque un motivo di lacerazione e discredito.
In ogni caso, ve n’è abbastanza per rendere plausibile, ben al di là dell’intento di sviare le indagini di P. G., la necessità di una messinscena per cercare di dissimulare la matrice mafiosa del delitto.
Altra significativa convergenza nelle rivelazioni dei collaboratori che hanno riferito notizie apprese (da fonti diverse ma comunque interne a Cosa Nostra) sull’omicidio, si registra nel riferimento ai tentativi reiterati che sarebbero stati compiuti per indurre il giovane IMPASTATO a desistere dalle sue iniziative di lotta e di impegno contro la mafia (v. in particolare, MUTOLO, DI CARLO e PALAZZOLO).
Anche sotto questo ulteriore profilo, si conferma la logicità intrinseca del costrutto accusatorio ed è inverata l’attendibilità complessiva di quelle dichiarazioni, nella parte in cui se ne inferiscono l’estrema difficoltà e le remore soggettive ad adottare la sanzione più severa per punire il comportamento del giovane rampollo di una famiglia che godeva di una stima e di un rispetto unanime negli ambienti di Cosa Nostra, e, per di più, notoriamente vicina e fedele proprio al clan BADALAMENTI. (Una eco indiretta di tali remore si coglie persino tra le pieghe del biasimo espresso da BAGARELLA all’indirizzo del BADALAMENTI, reo di aver troppo indugiato, prima di adottare gli opportuni provvedimenti, secondo quanto ha riferito il collaborante BRUSCA Enzo).
Ma soprattutto è emerso, con particolare risalto nelle dichiarazioni di MUTOLO, ONORATO e DI CARLO, ma come indicazione costante e univoca anche nelle dichiarazioni degli altri collaboranti, che, se fu Gaetano BADALAMENTI ad ordinare l’eliminazione di Giuseppe IMPASTATO, ciò fece nella qualità di capo della famiglia mafiosa di Cinisi, essendo l’intero sodalizio mafioso interessato a mettere a tacere il giovane militante di D.P. e coinvolto nella non facile gestazione del delitto.
2. I riscontri logici
2. 1. Il movente come grave indizio e come elemento di riscontro alla chiamata di correo.
Per qualsiasi delitto – che non sia del tutto gratuito in quanto frutto di un raptus di follia – il movente agisce come catalizzatore dei vari elementi indiziari, perché consente di mettere insieme i vari pezzi o frammenti di verità emersi dall’indagine e di pervenire così ad una ricostruzione unitaria della vicenda che sta dietro il delitto o delle varie fasi di questo. E soprattutto esso orienta l’indagine verso l’individuazione del colpevole, attraverso l’identificazione delle ragioni per cui il delitto è stato commesso.
Ma fino a quando non risultino provati i due segmenti logici di cui si compone, il movente resta solo una congettura investigativa, più o meno plausibile(non è ancora neppure un indizio).
Esso infatti si presenta come la risultante di una sequenza logica che aggrega tra loro fatti e circostanze intorno a due nuclei fondamentali: il primo è dato dall’interesse cui il delitto risponde; il secondo dalla riferibilità di questo interesse alla posizione di un certo soggetto.
Una volta acclarati questi due punti, il che costituisce materia di accertamento in punto di fatto, da condursi secondo i canoni comuni del procedimento probatorio – e quindi anche sulla scorta delle convergenti rivelazioni di più soggetti, ex art. 192, co. 3° C.P.P. – il movente si eleva da fonte di legittimo (ma mero) sospetto al rango di grave indizio. Come tale esso sarà ancora insufficiente, da solo, a provare la colpevolezza dell’imputato o dell’indagato. Ma ben potrà costituire un valido elemento di riscontro all’attendibilità di una chiamata di correo, proprio perché dà certezza, sul piano logico, della riferibilità del fatto delittuoso, oggetto dell’enunciato accusatorio, alla posizione del chiamato.
E infatti una costante giurisprudenza di legittimità lo configura come un tipico riscontro logico, annoverandolo anzi tra quelli più significativi e probanti: “Anche la causale del delitto, se riferita da uno dei soggetti indicati nell’art. 192, co. 3° e 4°, costituisce un elemento di fatto suscettibile di essere riscontrato; sicché, in caso di esito positivo del riscontro, vale a confermare l’attendibilità del dichiarante e il contenuto della dichiarazione” (Cass. 3/04/97, PESCE ed altro).
Non minor rilievo del resto la causale del delitto assume in un processo in cui l’accusa sia supportata da elementi probatori di natura indiziaria. Anzi, in tal caso, “il relativo accertamento deve essere puntualmente perseguito, in quanto l’identificazione della causale assume, in tal genere di processi, specifica rilevanza per la valutazione e la coordinazione logica delle risultanze processuali e, di conseguenza, per la formazione del convincimento del giudice in ordine alla ragionata certezza della responsabilità dell’imputato” (Cfr. Cass. 22/01/97, DOMINANTE, secondo cui “un tale accertamento non è invece necessario allorchè l’affermazione di colpevolezza risulti già aliunde dimostrata”. Cfr. anche Cass. 14 dicembre 1995, SAVASTA).
2. 2. L’impegno di Peppino IMPASTATO contro la mafia, e la reputazione di un boss.
Ciò premesso, le convergenti propalazioni dei pentiti che accusano Gaetano BADALAMENTI di essere il mandante dell’uccisione di Peppino IMPASTATO – che sarebbe stato però ordito e attuato da tutta la famiglia mafiosa di Cinisi – pongono alla base del movente l’appassionato impegno contro la mafia del giovane militante di D.P., ma attribuiscono un rilievo determinante alle incessanti accuse specificamente rivolte al capo mandamento dell’epoca, nel quadro di una campagna di denigrazione personale.
Ora, le risultanze processuali, a partire da quelle già acquisite a conclusione della prima fase delle indagini, forniscono una prova piena e autonoma dell’intensità e continuità di quell’impegno da parte della vittima; della gravità e concretezza delle accuse pubblicamente rivolte ad amministratori e a noti esponenti della mafia locale; e della graffiante incisività della campagna denigratoria condotta in particolare ai danni di Gaetano BADALAMENTI.
Per vagliare se da ciò potesse venire altresì un valido movente, e cioè una ragione plausibile e addirittura cogente per indurre a sopprimere il giovane IMPASTATO, vincendo le remore dovute al rispetto e alla considerazione di cui la famiglia IMPASTATO godeva in seno a Cosa Nostra, è opportuno premettere alcune considerazioni sui concetti di onore e reputazione – che si ricavano anche dal vissuto personale raccontatoci dai vari collaboratori di Giustizia – come prerogativa e condizione indefettibile del potere che non solo il singolo uomo d’onore, ma l’organizzazione mafiosa cui egli appartiene esercita sulla comunità che vi è assoggettata.
Ed invero, la reputazione e il prestigio personale costituiscono una risorsa fondamentale per chi pratichi l’industria della protezione mafiosa come propria attività principale, ricavandone non solo una fonte di introiti ma un permanente alimento al proprio potere personale. Come per qualsiasi attività economica, infatti, una buona reputazione procura anche buoni clienti e consente di tenere a bada la concorrenza che, in questo peculiare settore economico, è particolarmente agguerrita.
D’altra parte, il prestigio e il rispetto degli altri sono requisiti di affidabilità indispensabili per proporsi come garante di un’efficace “protezione”, non meno che per assicurarsi quella miscela di consenso e soggezione della collettività che gli sta intorno, su cui si fonda l’autorevolezza dell’uomo d’onore. Ciò, almeno, secondo una visione idealizzata della figura e delle doti dell’uomo d’onore, che, sebbene povera di riscontri nella realtà dei comportamenti effettivamente praticati, riflette bisogni, aspettative e valori profondamente radicati nella cultura e nella mentalità mafiosa. Ne fanno fede il ricorrente trapelare di quella visione idealizzata dalle dichiarazioni degli stessi collaboratori, molti dei quali (se non tutti) motivano la loro volontà di dissociarsi da Cosa Nostra proprio con la perdita di quei valori e il dilagare di comportamenti che li smentiscono o li tradiscono; ovvero, lamentano l’abbandono di qualsiasi codice o regola di condotta, sopratutto nei rapporti reciproci tra gli affiliati (benché neppure loro, durante la militanza in Cosa Nostra, si fossero distinti nell’osservanza di quelle regole o nel rispetto di quei valori).
Ed ancora trapela da alcuni passaggi degli interrogatori resi dallo stesso Gaetano BADALAMENTI, rispettivamente al G.I. dott. FALCONE il 4 giugno 1987 e a Philadelphia il 5 e 6 dicembre 1995, laddove l’anziano boss di Cinisi sembra quasi rivendicare con orgoglio il ruolo che storicamente avrebbe avuto nel senso di preservare la comunità (del suo paesino) da fatti di sangue e da piaghe come il terrorismo, i sequestri di persona o quella che oggi si definisce micro-criminalità, a tutto vantaggio del mantenimento dell’ordine e della quiete e sicurezza dei cittadini. Un ruolo, beninteso, che il BADALAMENTI non ammette espressamente, ma che, a suo dire, gli sarebbe attribuito sullo scorta di un’opinione assai diffusa (era un’opinione pubblica in Sicilia) e riportata – e questo risponde al vero – anche nelle dichiarazioni degli stessi pentiti/i>. Tutti coloro che hanno riferito della sua partecipazione a vicende salienti di Cosa Nostra, infatti, lo accusano di essere stato uno dei capi dell’organizzazione; ma, al contempo, lo dipingono come un moderato, restio a ricorrere alla violenza come strumento di composizione dei conflitti interni, contrario a qualsiasi ipotesi di scontro frontale con gli apparati dello Stato e propenso, al contrario, a ricercare soluzioni di pacifica convivenza con le Istituzioni, forte anche dei suoi acclarati o presunti rapporti privilegiati con personaggi influenti del mondo politico e istituzionale. Dichiarazioni che, peraltro, a dire dello stesso BADALAMENTI, effettivamente rispecchiano il suo carattere, cioè le sue più profonde convinzioni: “… ha parlato delle dichiarazioni di MUTOLO che rispecchiano il mio carattere perché, come lo spiega lei, questo è il mio carattere e non sono… anche se nel mio intimo ci sarebbe di fare una guerra allo Stato, non sarei così stupido di andarmi a mettere contro lo Stato. E perciò credo che rispecchia il mio carattere, ma poi io, non farei guerra a nessuno che fa il suo lavoro”.
Ed a proposito delle concordi affermazioni di alcuni collaboratori di Giustizia, tra i quali MUTOLO Gaspare, secondo cui, già all’epoca del triumvirato, BADALAMENTI avrebbe imposto la regola che vietava di fare sequestri in Sicilia: “Non mi pare che quella di MUTOLO sia una scoperta di quelli moderni che si vedono solo nella televisione. Mi pare che in Sicilia… come i ragazzini che giocano al buscettino… mi pare che in Sicilia… si parlava di BADALAMENTI che non faceva fare queste cose non è che l’ha scoperto MUTOLO… perché MUTOLO appartiene a questa onorata società loro, onorata società che io non faccio parte. Chi ha scoperto queste cose, se ne parlava, era una cosa… un’opinione pubblica, che poi, fatalità, viene confermata… che con la mia presenza in Sicilia queste cose non succedevano. Era perché la mia presenza bastava o era perché io avevo tanta forza, lasciamo la verità a suo luogo” (f. 219, vol. 12).
Per un’orgogliosa e implicita rivendicazione della sua dignità di uomo d’onore, conforme all’iconografia fondata sulla visione idealizzata di cui s’è detto, depone anche l’affermazione fatta dal BADALAMENTI nel corso dell’interrogatorio citato del 6 dicembre 1995, fg. 297, a proposito delle dichiarazioni rese nei suoi confronti da Totuccio CONTORNO: “Mi dispiace fare questo nome di uomo d’onore a me perché non mi identifico uomo d’onore come lui… o come tutti questi che parlano di uomo d’onore. Se uomo d’onore significa una cosa diversa… allora può essere che io ci sia… ma di questo… non credo che io mi identifico”. (Ed ancora, nel corso dell’interrogatorio del 9 aprile 1997, fg. 89 vol. 12, con riferimento al collaboratore di Giustizia PALAZZOLO Salvatore: “Non mi chiamate uomo d’onore come lui, perché… mi offenderei”).
2.3. La reputazione dell’uomo d’onore come risorsa.
Ma la reputazione dell’uomo d’onore è una risorsa fondamentale anche per l’intera organizzazione. Infatti, un’associazione mafiosa qual è Cosa Nostra deve la sua specificità criminosa alla capacità di intimidazione che si riconosce a chi ne fa parte, non solo per l’efficienza e la spietatezza dell’organizzazione nel suo insieme; ma anche perché il fatto stesso di farne parte presuppone nell’affiliato una valida reputazione. E tale reputazione si sostanzia anzitutto nella capacità di incutere timore in chiunque osi contrastarne i voleri e gli interessi, non disgiunta, sempre nella visione idealizzata e mitizzante di cui s’è detto, da dimostrazioni di coraggio e di forza (ma anche destrezza e astuzia) nel compimento di azioni e attività rischiose che proiettano comunque l’uomo d’onore al di fuori e contro le leggi dello Stato: rapine, omicidi, intimidazioni e atti di violenza a scopo estorsivo o finalizzati a tutelare gli interessi del sodalizio di appartenenza, oppure a soddisfare la domanda di protezione dei propri clienti.
Più concretamente, generazioni diverse di pentiti, da BUSCETTA, CALDERONE, CONTORNO, MARCHESE Giuseppe e MUTOLO Gaspare, fino a PALAZZOLO Salvatore (senza dimenticare i vari ANZELMO, GANCI Calogero, CANCEMI Salvatore; ma anche tutti gli altri noti collaboratori di Giustizia di cui non figurano dichiarazioni agli atti di questo processo), ci hanno confermato che in Cosa Nostra si entra dopo un congruo periodo di osservazione in cui il nuovo affiliato (o candidato a diventarlo) abbia dato prova della sua disponibilità a commettere reati, sopratutto di sangue, e delle sue concrete capacità in merito; sempreché non si abbiano vincoli di parentela con sbirri (poliziotti carabinieri ecc.) e magistrati; e si abbia invece una situazione familiare “limpida” (non sono ammesse, almeno ufficialmente, perché incompatibili con la serietà e dignità dell’uomo d’onore, o sono comunque oggetto di riprovazione lo stato di divorziato o separato, come pure le relazioni adulterine non meno che l’essere vittima di tradimenti coniugali).
La reputazione è dunque una prerogativa essenziale dell’uomo d’onore e, al contempo, una risorsa fondamentale per l’intera organizzazione; di tal chè è ragionevole presumere che qualsiasi atto la metta in pericolo sia meritevole, da parte degli associati, di una rappresaglia drastica e possibilmente plateale, per scoraggiare chiunque dal ripeterlo.
Ed è altrettanto certo che accusare pubblicamente un uomo d’onore, della statura e del ruolo di cui era accreditato Gaetano BADALAMENTI all’epoca del fatto, di essersi arricchito illecitamente, con loschi affari e speculazioni edilizie ai danni della comunità locale; di essere divenuto un trafficante di morte, per avere avviato un lucroso traffico di droga; di manovrare come burattini imprenditori locali e pubblici amministratori; e tutto ciò, facendosi al contempo beffe di lui e mettendone in ridicolo attributi e rituali del suo potere, nonché, cosa ancora più grave, ignorando i ripetuti avvertimenti e moniti a desistere: è una delle offese più brucianti che gli si potessero arrecare, perché equivaleva ad appannare la sua immagine pubblica di garante dell’ordine e della sicurezza dei cittadini, (congiunta ad aspettative di proficui affari) e sfidare la sua autorità irridendola, e ciò dinanzi a tutta la comunità che doveva averne soggezione.
2.4. La satira come strumento di delegittimazione del potere mafioso.
La satira ha sempre avuto, almeno nelle intenzioni di chi la fa, effetti corrosivi nei confronti di qualsiasi forma di potere costituito. E così è, quando non sia mirata a mettere alla berlina vizi privati e umane debolezze del potente di turno, al solo scopo di suscitare nel pubblico a cui si rivolge un sorriso di indulgenza o di complicità.
Non era certamente questo il caso del programma satirico “Onda pazza”, ideato e condotto da Peppino IMPASTATO dai microfoni di Radio-Aut: in esso si ritrovano, senza alcuna pretesa di attingere i livelli di una vera prova d’arte, gli ingredienti tipici di un genere letterario di tutto rispetto, quello appunto della satira politica e di costume. Un genere che utilizza qualsiasi mezzo espressivo per affondare i suoi colpi e urlare le sue verità, senza rispettare alcuna regola né limiti precostituiti. Neppure quelle del buon gusto. E che non esita a servirsi del turpiloquio o peggio di un linguaggio blasfemo, perché vuole provocare reazioni forti, anche di disgusto, se questo può servire a scuotere le coscienze e a dare risalto ad un messaggio di critica estrema e di rifiuto del velo di ipocrita e compunto perbenismo. Un atteggiamento dietro cui talora si celano, nella concezione eticizzante che è propria dell’autore satirico, non solo vizi privati e umane debolezze, ma, ben protetti dall’ignavia dei più, fini proibiti e verità inconfessabili, intrecciati ad interessi illeciti e pratiche di corruttela, soprusi quotidiani e prevaricazioni ai danni dei più deboli.
Sono queste alcune delle verità urlate, nella sequela di turpiloqui e demenziali, o parodie improvvisate in Onda pazza si di un solido canovaccio intriso di dati e riferimenti precisi a fatti e circostanze della vita politica, economica e istituzionale del piccolo centro costiero di Cinisi. (V. supra, per una sommaria semplificazione degli argomenti trattati nelle varie puntate del programma, registrate e trascritte come in atti).
Il ricorso alla satira con rinnovato impegno proprio nelle ultime settimane di campagna elettorale è frutto ed al contempo è rivelatore di una scelta tanto sagace quanto coraggiosa da parte di Peppino IMPASTATO: e non è certo sintomo di scarso spessore culturale o di superficialità del suo modo di intendere e di praticare l’impegno politico.
Se, come detto, la satira è o ambisce ad essere corrosiva per qualunque forma di potere costituito, allora lo è anche nei confronti del potere mafioso. Anzi, nei confronti di questo, essa diventa un’autentica minaccia quando sia messa in atto all’interno del suo stesso dominio territoriale e da parte di chi non solo vi risiede, ma, per tradizione familiare, dovrebbe esserne fedele suddito. Intanto, perché rappresenta di per sé un simbolo vivente e potenzialmente contagioso di una ribellione irriverente e perciò stesso liberata dal giogo della paura e della soggezione omertosa. E poi perché corrode una delle basi su cui poggia la capacità che il potere mafioso ha sempre manifestato di radicarsi e auto-propagarsi nelle contrade siciliane che ne sono storicamente avvinte. Esso tende infatti ad ammantarsi di un’aura di sacralità – corroborata dai suoi rituali iniziatici, dal suo arrogarsi un diritto di vita e di morte da amministrare in conformità ad un suo preteso codice d’onore, dalla segretezza delle sue vicende interne, o, più prosaicamente, dei suoi affari illeciti – che, unitamente all’effetto di intimidazione che si sprigiona da una sorta di tendenziale monopolio organizzato della violenza privata, alimenta la soggezione e la connivenza omertose di larghi strati della popolazione. E, al contempo, giustifica la pretesa a fregiarsi di un rispetto ed un ossequio diffusi, anche nelle forme e nei modi esteriori.
Dileggiare a viso aperto i più autorevoli esponenti di questo potere e quanti, all’interno delle Istituzioni o nella sfera delle attività economico-imprenditoriali, colludano con loro; metterne in ridicolo pose, atteggiamenti e pretese non già per suscitare indulgenza e bonaria comprensione, ma per smascherare la vera natura criminale di quel potere, rivelandone il sostrato di meschinità e prepotenza, l’illiceità dei veri interessi perseguiti, la nocività delle sue mire, rispetto al bene della collettività. Tutto ciò, in un piccolo centro ad alta densità mafiosa, assume i connotati di un comportamento quasi blasfemo, che esige una punizione esemplare, a pena di guasti irreparabili all’immagine e alla credibilità dell’organizzazione mafiosa e di chi ne amministra le fortune.
Ma, da parte di chi pone in essere un simile comportamento, esso diventa un atto di sfida aperta e di incitamento a liberarsi da ogni soggezione o timore reverenziale nei riguardi del potere mafioso e dei suoi corifei.
Il ricorso alla satira può poi rivelarsi, in certi contesti, un formidabile strumento di comunicazione e di lotta politica, perché sfrutta l’efficacia caustica e insieme accattivante del riso.
Far riflettere, divertendo, sui temi più seri o su realtà drammatiche; propalare, con la complicità di una risata irriverente, le verità più scomode; denunziare malaffare e corruzione senza assumere toni moraleggianti, né indulgere in giudizi stereotipati di generica condanna, ma calando l’impegno di denunzia all’interno di parodie e gags che, nello strappare il sorriso anche a pavidi e benpensanti, arriva con più immediatezza e freschezza alla coscienza di chi abbia anche solo la curiosità di ascoltare: ciò può significare rompere gli schemi logori e verbosi del tradizionale linguaggio della politica militante.
Nel caso di Peppino IMPASTATO, la satira è il mezzo più congeniale per scuotere il torpore e l’apparente quiete di un picco centro di provincia in cui non erano mai successi, se non in anni lontani, episodi di sangue (come mena vanto lo steso BADALAMENTI nei suoi interrogatori), salvo scatenarsi un autentico inferno dal 1981 in poi.
Attraverso le puntate del programma trasmesso da Radio Aut, egli irrompe nelle case dei suoi compaesani con onde travolgenti di comicità simil-demenziale: un’onda pazza, come recita appunto il titolo del programma, in cui la follia si fa veicolo di amare riflessioni e coraggiose denunzie, a stento dissimulate tra lazzi e sberleffi.
E non v’è dubbio che il riso, nell’allentare i freni inibitori e i meccanismi di auto-censura, possiede questa attitudine alla trasgressione, e a mettere in discussione regole di condotta e convenzioni sociali ma anche gerarchie consolidate e assetti di potere. Esso aiuta ad abbattere le barriere della paura e della diffidenza; a superare le distanze culturali o quelle create dal pregiudizio sociale o ideologico; stempera avversioni e sentimenti di preconcetta ostilità, predisponendo piuttosto ad una maggiore comprensione delle diversità altrui; fa assaporare, almeno per un istante, la gioia di condividere con altri un momento di serenità e di evasione dal dolore e dalla fatica, o anche dalla noia del vivere quotidiano.
Ora, riuscire a fare della denunzia del malaffare e dell’inquinamento mafioso materia di scherno e di divertimento collettivo significa proporre un efficace antidoto contro la piaga dell’omertà e costituisce un buon viatico per articolare un’azione concreta di lotta e di contrasto alla criminalità mafiosa, che muova a e punti a un profondo rinnovamento della coscienza di quanti ne siano ancora succubi e conniventi. Ciò, almeno, quando la satira così concepita provenga da chi abbia tutte le carte in regola per esserne un credibile antagonista, e non un giullare o un guitto di periferia.
E al riguardo, non va dimenticato che la satira di Onda Pazza fu soltanto uno degli strumenti attuativi della battaglia politica e di contro-informazione che l’IMPASTATO andava conducendo da anni. I riferimenti circostanziati ai fatti salienti della cronaca politica locale, e l’estrema precisione delle informazioni e dei dati sciorinati pur tra una gag o una battuta e l’altra, attestano il rigoroso sforzo di documentazione e di approfondimento conoscitivo delle vicende della vita politica e amministrativa dei piccoli e contigui centri di Cinisi e Terrasini: sforzo profuso a sostegno della sua appassionata militanza politica. E la dicono lunga sull’impulso e sull’efficacia che, dall’interno del Consiglio comunale di Cinisi, egli avrebbe potuto imprimere, in caso di elezione alla carica di consigliere comunale, all’azione di controllo e di vigilanza sulla correttezza e sulla trasparenza di decisioni e prassi amministrative, soprattutto in materia di appalti e gestione della spesa pubblica, e di tutela del territorio contro il dilagare della speculazione edilizia (v. infra).
2.5. Ancora sul movente: non fu un affare “personale”
Quest’ultima considerazione avvalora l’ipotesi che l’omicidio, al di là del perseguito intento di infliggere una punizione esemplare, avesse anche una concreta finalità preventiva.
Infatti, i contenuti e i bersagli della battaglia politica di Giuseppe IMPASTATO arrecavano un concreto pregiudizio all’intera famiglia mafiosa di Cinisi e non configuravano solo un’intollerabile offesa personale al suo capo indiscusso, poiché le accuse e le denunzie (mirate) di cui si nutriva andavano a colpire l’intreccio di affari e interessi illeciti che legavano il potere mafioso ad amministratori pubblici e ambienti o personaggi dell’imprenditoria locale: intreccio di cui Gaetano BADALAMENTI si faceva patrono e garante.
In altri termini, non può condividersi la tesi secondo cui l’omicidio non sarebbe ascrivibile ad un agguerrito gruppo mafioso, ma a singole persone, offese nella loro immagine e credibilità dalla campagna denigratoria posta in essere dall’IMPASTATO in quegli anni.
In realtà, la dissacrante satira che pure aveva come suo ricorrente bersaglio, tra gli altri, il boss di Cinisi, e cioè Gaetano BADALAMENTI, e che nei mesi precedenti alla sua morte (e fino a pochi giorni prima) l’IMPASTATO aveva diffuso dai microfoni di Radio Aut, era, come detto, solo uno degli strumenti attuativi di una ben più complessa e seria campagna di contro-informazione e di denunzia che, nel contesto di un rigoroso e appassionato impegno politico, lo stesso IMPASTATO da anni conduceva per sensibilizzare l’opinione pubblica ai temi del ripristino della legalità nella gestione della cosa pubblica, e della tutela del territorio; e per smascherare e denunziare collusioni politico-affaristiche e illeciti intrecci tra amministratori locali e potere mafioso, con particolare riguardo al settore della speculazione edilizia e alla gestione degli appalti.
Le sue denuncie – propalate dai microfoni di radio Aut ma anche attraverso mostre, comizi in piazza, interviste alla radio, articoli di stampa e diffusione di volantini – erano mirate e ben documentate nell’individuare personaggi e affari che alimentavano o potevano alimentare una rete di corruttela che, tra complicità e connivenze o mera ignavia di pubblici amministratori distratti, finiva per attraversare, secondo il suo severo giudizio politico, tutte le forze e i gruppi politici rappresentati nel Consiglio Comunale di Cinisi non meno che di Terrasini.
La speculazione edilizia che stava devastando il vicino litorale; i sospetti sulla regolarità degli eterni lavori per il porto di Terrasini o sulla scelta di nuovi tracciati stradali; la lievitazione dei prezzi degli appalti per i lavori di rifacimento della facciata del municipio o per quelli di realizzazione di alcune bretelle stradali di dubbia utilità; il monopolio in favore di ditte mafiose o contigue a personaggi della mafia locale, nella fornitura dei materiali per i lavori di costruzione dell’autostrada per Mazzara del Vallo; ed ancora, la speculazione illecita e le violazioni edilizie annidate nel progetto di realizzazione del villaggio turistico “Z10” e nella costruzione di un edificio a cinque piani nel perimetro urbano di Cinisi, che interessava particolarmente al noto “Percialino” (e cioè a Giuseppe FINAZZO): questi erano solo alcuni degli argomenti trattati o toccati dall’IMPASTATO, per quanto può evincersi dal materiale acquisito, e dalle testimonianze dei suoi compagni di partito e dei suoi prossimi congiunti.
Su tutti spicca comunque un costante apostolato contro l’inquinamento prodotto dalla prepotenza mafiosa, di cui accusava, facendo nomi e cognomi (come si è visto) capi e gregari, ma anche amministratori pubblici compiacenti e imprenditori collusi.
Né si può obbiettare che quelle denunzie fossero pretestuose o frutto di tendenziose mistificazioni politico-idoeologiche. Almeno di alcune di esse deve invece riconoscersi che colpivano nel segno.
BADALAMENTI, accusato di avere avviato un fiorente traffico di eroina, viene condannato (solo qualche anno dopo) ad una pesante pena negli Stati Uniti, in esito al processo denominato Pizza Connection, per traffico internazionale di stupefacenti.
Dell’imprenditore Giuseppe FINAZZO, assassinato nel dicembre del 1981, i Carabinieri forniscono – nel citato rapporto a firma dell’allora cap. ARENA – un identikit del tutto conforme al tenore delle accuse pubblicamente rivoltegli dall’IMPASTATO.
In ordine all’ingerenza mafiosa nella gestione degli appalti pubblici, oggetto in questi ultimi anni di molteplici filoni di indagine che hanno disvelato la diffusione e la pervasività dell’intreccio tra mafia e appalti come componente essenziale del controllo del territorio da parte dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, oltre che come fonte di rilevanti introiti, le dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia BARBAGALLO, LANZALACO, SIINO e Calogero GANCI confermano che l’imposizione di tangenti alle imprese appaltatrici dei lavori per la realizzazione di opere pubbliche, o di una sorta di esclusiva nelle fornitura dei materiali necessari, era una prassi più che consolidata anche nei territori di Cinisi e Terrasini. (Cfr. verbali di interrogatori acquisiti dal proc. n. 428/96 R.G.N.C. in vol. 8).
Le accuse e le veementi denunce di Peppino IMPASTATO contro la speculazione edilizia che stava devastando in particolare le zone costiere tra Cinisi e Carini trovano eco e riscontro in una serie di indagini, sfociate anche in clamorosi arresti, che a partire dal gennaio del 1981 coinvolsero Sindaci e componenti della Giunta Comunale e della Commissione Edilizia di Cinisi, nonché il responsabile dell’Ufficio Tecnico del medesimo Comune.
Le cronache del tempo danno notizia dello scandalo edilizio di Cinisi, esploso appunto tra gennaio e febbraio del 1980, con il sequestro da parte della magistratura di una decina di licenze edilizie per la costruzione di altrettante villette nella zona di Punta Raisi, e, soprattutto, con l’arresto del Capo dell’Ufficio tecnico e di un professionista di Cinisi (n.q. di progettista), accusati di interesse privato in atti d’ufficio, occultamento di atti e falso in atto pubblico. (L’indagine, estesa a tutta l’attività dell’Ufficio Tecnico, portò al sequestro di un centinaio di licenze edilizie).
E lo stesso responsabile dell’Ufficio Tecnico fu inquisito (e poi anche condannato a due anni e sei mesi di reclusione) per un progetto di lottizzazione finalizzato alla costruzione di 30 villini, sempre nella zona di Punta Raisi.
Nel quadro poi dell’istruttoria condotta dal Giudice CHINNICI sull’omicidio IMPASTATO, vennero inquisiti, siccome indiziati di interesse privato in atti d’ufficio, anche il Sindaco di Cinisi Calogero DI STEFANO e sei componenti della Commissione edilizia e sequestrate diverse licenze edilizie cui risultava interessato il costruttore FINAZZO.
In particolare, le indagini sul camping “Z10” e sul travagliato rilascio della concessione edilizia per la costruzione di un edificio a 5 piani nel centro di Cinisi (alla fine del relativo iter, e cioè alcuni mesi dopo la morte di Peppino IMPASTATO, la concessione fu rilasciata solo per la realizzazione del piano cantinato, così venendo disatteso dal Sindaco pro-tempore il controverso parere favorevole che era stato invece rilasciato dalla Commissione edilizia), consentirono di appurare la commissione di una serie di abusi e di illeciti.
Ne dà conto, nonostante il verdetto assolutorio nei riguardi degli indiziati, anche la motivazione della sentenza con cui il giudice CAPONNETTO decretò, in accoglimento della conforme richiesta del P.M., l’improponibilità dell’azione penale nei confronti del Sindaco, del vice Sindaco e alcuni componenti della Commissione edilizia del Comune di Cinisi, indiziati del reato di interesse privato in atti d’ufficio (ai sensi dell’abrogato art. 324 C.P.).
In particolare, per quanto concerne il villaggio turistico, le irregolarità edilizie effettivamente accertate furono in parte sanzionate dal Pretore di Cinisi con sentenza del 6.02.81; in parte coperte dall’avvenuto decorso del termine prescrizionale (mentre le ulteriori irregolarità rilevate dai periti nominati dal G.I. nell’ambito del procedimento per l’omicidio IMPASTATO “sono per lo meno controverse ai sensi di alcune decisioni giurisprudenziali richiamate nella memoria difensiva”: v. ff. 120-123 del fasc. II “atti ostensibili” e pag. 34 Sentenza CAPONNETTO).
Non emersero comunque elementi concreti che consentissero “di risalire dalla violazione delle norme edilizie ad una configurazione di responsabilità penale per l’ipotizzato delitto di cui all’art. 324 cod. penale”.
Per quanto concerne l’edificio di cui alla concessione edilizia n. 220/78, effettivamente realizzato sul prolungamento di Corso Umberto a Cinisi e ricadente nella zona B1 (nella quale l’edificazione era consentita, in base al Programma di fabbricazione approvato con D.A. del 17.03.78, solo “nei limiti di cui all’art. 28 della legge regionale 21/1973”), la prima evidente anomalia rilevata dai periti (v. relazione in atti a firma degli ingegneri COLAJANNI e UMILTA’, ff. 65 e segg. vol. 893) consiste nel fatto che il lotto su cui insiste l’edificio era ricompreso “in un piano di lottizzazione per il quale esiste un parere favorevole della Commissione Edilizia, ma che non risulta dagli atti che sia stato oggetto di convenzione con il Comune”. Né si tratta di un’anomalia di poco conto ai fini del controllo sulla regolarità della costruzione, poiché di quel piano, come puntualizzato dagli stessi periti, “esistono diverse versioni, tra loro differenti sia per la misura dei lotti e delle strade che per la denominazione di queste ultime”, con la conseguenza che “la difformità esistente tra le varie planimetrie comprendenti il lotto rendono difficile una esatta deduzione lelle dimensioni e quindi della superficie. Essa risulta comunque superiore a mq. 200”.
Ebbene, il progetto originario, che prevedeva sei piani fuori terra per un’altezza massima pari a m. 19,70 e una cubatura complessiva di mc. 4.433, era stato approvato dalla Commissione edilizia nella seduta del 28.02.1978 “alle condizioni di cui al verbale”, verbale che però non era allegato al parere. Quel progetto non rispondeva alle prescrizioni vigenti “poiché certamente esorbitante in altezza (m. 19,70 invece che m. 11) e secondo una interpretazione della norma, anche in volume”.
Un successivo progetto prevedeva un’altezza di m. 10,20 per tre elevazioni più un piano arretrato e un piano mansarda. Anche questo progetto venne approvato dalla Commissione edilizia “”. E le linee rosse sulla planimetria allegata inducono i periti a ipotizzare che le condizioni di verbale riguardassero la soppressione del piano mansarda, in quanto esorbitante rispetto ai limiti di altezza.
Ma anche questo progetto, a parere dei periti, se confrontato con le norme del Regolamento edilizio approvato in data 13/3/78 (che per la zona B1 consentiva un’altezza di m. 11, più un eventuale piano interrato), “risulta allora non rispondente alle norme, sia per la presenza di un piano mansarda, non previsto dal regolamento, sia perché l’ultima elevazione è arretrata sul Corso Umberto, ma non sulla via Terza”: irregolarità, quest’ultima, non rilevata dalla Commissione Edilizia (v. f. 71).
Nessuna violazione è invece ravvisabile nella concessione edilizia che fu effettivamente rilasciata in data 16/10/78 limitatamente alla realizzazione del seminterrato.
Agli atti figura poi un documento d’eccezionale valore storico, oltre che processuale. Esso fotografa le proporzioni e la gravità del fenomeno apertamente denunziato da Peppino IMPASTATO del dissesto del territorio provocato dalla cementificazione selvaggia della costa e dallo sviluppo incontrollato delle attività edilizie: si tratta del D. A. n. 96/78 del 17/3/78 (v. ff. 76-83, vol. 893) che approvò – parzialmente e con notevoli emendamenti – il Programma di Fabbricazione e annesso Regolamento Edilizio del Comune di Cinisi, dopo una gestazione del relativo iter amministrativo durata 15 anni. (Questo fondamentale strumento urbanistico era stato, infatti, adottato dal Consiglio Comunale con delibera n. 59 del 19/10/63, ma più volte restituito al Comune, dopo altrettante bocciature dell’autorità tutoria, con richieste di rielaborazione e adeguamenti alle leggi succedutesi nel frattempo).
Nel documento, beninteso, non si parla di lottizzazioni abusive e cementificazione selvaggia. Ma, nel linguaggio burocraticamente paludato e con i toni ovattati tipici di un pronunciato assessoriale, se ne dà implicitamente conto attraverso riferimenti fortemente critici alle linee portanti del progetto, che, infatti, viene rivoltato come un guanto, al punto che l’approvazione suona come implicita bocciatura. Un progetto che sembra dominato dalla preoccupazione di legittimare ex post, e come fatto compiuto, uno sviluppo abnorme dell’attività edificatoria, piuttosto che ispirarsi all’esigenza di una rigorosa programmazione degli insediamenti abitativi e delle destinazioni d’uso delle varie aree territoriali.
In particolare, nel parere del S.T.U. integralmente trascritto nel citato Decreto e fatto proprio dall’Assessore, si stigmatizza l’assenza di qualsiasi programmazione degli insediamenti turistici, correlata appunto ai vincoli di destinazione d’uso del territorio, rilevandosi peraltro come “la quasi totalità del territorio comunale risulta destinata ad insediamenti di carattere stagionale” ed il piano in oggetto “ha come presupposto principale il soddisfacimento di necessità derivanti da esigenze turistiche o stagionali”. Ma al contempo, “le previsioni urbanistiche proposte, sotto il profilo dimensionale, non risultano sorrette da adeguate indagini volte alla individuazione del reale fabbisogno di vani della popolazione fluttuante, dati che si sarebbero potuti desumere dall’Ente Provinciale Turismo”.
E a fronte di una popolazione residente che, ufficialmente, non superava alla data del 1971 le 7.106 unità, appare a dir poco eccessiva – come si legge nel documento – la previsione di un insediamento di n. 28.000 abitanti: salvo che una simile previsione non fosse giustificata da una situazione di fatto degli insediamenti abitativi sfuggita a qualsiasi controllo.
Il piano peraltro proponeva “soluzioni disorganiche o non correlate ai particolari problemi connessi con la presenza nel territorio comunale, dell’aeroporto internazionale di Punta Raisi”. Né era questo l’unico punto d’attrito del piano proposto con le esigenze di un’equilibrata gestione del territorio. Il Decreto, infatti, stigmatizza altresì che la fascia di rispetto cimiteriale fosse stata ridotta a m. 50, sottolineando la necessità di riportarla a m. 200 (ed era proprio questa una delle incombenti speculazioni contro cui aveva puntato il dito l’IMPASTATO in una delle puntate del suo programma radiofonico, come si ricorderà); e che non si fosse tenuto in debito conto, nel prefigurare le zone di espansione residenziale, l’ubicazione effettiva dell’autostrada Palermo-Mazzara del Vallo, in ordine alla quale il documento si limita eufemisticamente a rilevare che “non risulta più conforme alle indicazioni proposte”. (Anche i sospetti sui criteri di scelta dei tracciati del tronco autostradale e sui negativi effetti di impatto ambientale erano argomenti ricorrenti nelle pubbliche iniziative di denunzia dell’IMPASTATO).
Ma gli strali più severi vanno alle soluzioni proposte in ordine alle zone residenziali stagionali, cioè, in pratica, all’assetto da dare alle zone di villeggiatura o destinate ad accogliere gli insediamenti abitativi: soluzioni che, a giudicare dalle considerazioni critiche dell’Autorità tutoria, non avevano, in effetti, alcuna giustificazione plausibile, se non quella di legittimare in qualche modo una situazione ormai consolidata. Si censura in particolare la (prevista) espansione di tali zone “a macchia d’olio attorno al nucleo abitato”, senza che ci si preoccupi del fatto che “interessano aree destinate in atto ad agricoltura intensiva, agrumeti, frutteti etc., che costituiscono una delle fonti principali di reddito”; nonché il fatto che esse “risultano servite da uno schema di viabilità assolutamente inidoneo a configurare un organico insediamento di villeggiatura”. Inoltre, sempre per dette aree, “ricadendo, per la più parte, nelle fasce di servitù aeroportuale, così come risultano riportate nel P. di f., non si ritiene opportuna la destinazione a villeggiatura, trattandosi di zone soggette ad alto inquinamento acustico”. E, quasi a rimarcare l’incongruità di fondo delle soluzioni proposte, si sottolinea che “non si riscontra la necessità obiettiva di utilizzare a fini residenziali delle zone soggette a vincoli, avendo il Comune la possibilità di soddisfare le proprie necessità in altre aree, al di fuori di dette fasce”.
(La conclusione inevitabile è che “…il P. di f. in argomento, così come proposto, non appare idoneo a dare un organico assetto del territorio comunale di Cinisi, ad eccezione delle previsioni relative al vecchio centro abitato ed alle sue immediate zone di espansione, che si ritengono ammissibili”. Ne seguì, al fine dichiarato di consentire al Comune una certa attività edilizia, il suggerimento, recepito dall’Assessore, di un’approvazione per stralcio delle parti ammissibili, e con opportuna ri-classificazione di alcune delle zone indicate nel piano originario).
Anche alla luce di tale documento, tutto si può dire di Peppino IMPASTATO, fuor che attribuire a farneticazioni di un esagitato o a montature propagandistiche le sue ricorrenti polemiche e le pubbliche iniziative di denuncia contro le speculazioni e gli abusi edilizi in territorio di Cinisi.
Sotto altro profilo va ribadito che, anche nella dissacrante satira in cui si faceva beffe del ruolo attribuito a Gaetano BADALAMENTI quale supremo garante degli equilibri politico-mafiosi – con trovate e frasi che irridevano sì alla sua autorità, ma ancor di più stigmatizzavano la compiacenza o l’interessato servilismo di chi avrebbe dovuto contrastarne la pretesa di ingerirsi nella gestione dell’amministrazione locale e/o dell’ordine pubblico – non era la persona di Gaetano BADALAMENTI (uti singulus) ad essere oggetto di strali e battute corrosive. Lo era, piuttosto, il BADALAMENTI in quanto capo riconosciuto della famiglia mafiosa di Cinisi e quindi rappresentante e artefice di un sistema che elevava il potere mafioso ad istituzione equiordinata a quelle dello Stato.
Pertanto, quella critica, tanto irriverente quanto lucida nel cogliere i nodi della difficile lotta per il ripristino della legalità in un piccolo centro connotato da una forte presenza mafiosa, non consumava solo un’offesa personale, ma implicava un attacco al prestigio e all’autorità dell’intero sodalizio mafioso che in BADALAMENTI aveva il suo capo indiscusso e il più autorevole e influente rappresentante anche nei rapporti con la comunità locale.
Sul piano logico è quindi del tutto coerente e congruo che l’interesse a far tacere per sempre la voce di un così irriducibile oppositore trascendesse la persona del BADALAMENTI, chiamando in causa appunto l’intero gruppo mafioso da lui capeggiato. Né si trattava solo di lavare un’onta, perché le imminenti elezioni comunali, e la possibilità che Giuseppe IMPASTATO fosse eletto, rendevano più che concreto il pericolo che egli riuscisse a portare la sua battaglia all’interno del Consiglio comunale e a conquistare nuovi consensi alla sua instancabile opera di denunzia e contro-informazione.
Da qui la necessità di un coinvolgimento, nella deliberazione dell’omicidio, del gruppo mafioso facente a capo al BADALAMENTI, o almeno di quanti al suo interno ricoprivano cariche di vertice, che in qualche modo li legittimassero a partecipare alle deliberazioni più importanti e a condividerne la responsabilità.
Tanto più che si trattava di un omicidio che rischiava di provocare tensioni e lacerazioni all’interno del clan BADALAMENTI, essendo quella degli IMPASTATO una famiglia onorata e rispettata negli ambienti di Cosa Nostra. Ed anche il padre di Peppino, se non uomo d’onore lui stesso, tuttavia era notoriamente assai vicino al boss di Cinisi. Ed i suoi contrasti con il figlio traevano origine proprio dalla scelta di Peppino di rinnegare e combattere quel mondo (e quei personaggi) a cui Luigi IMPASTATO era rimasto legato.
Né, secondo un inveterato e mai abiurato costume mafioso, poteva escludersi, anzi, era del tutto prevedibile, un tentativo di reazione violenta della famiglia IMPASTATO, o la pretesa di chiedere conto e ragione dell’uccisione del proprio congiunto, con il rischio di innescare una faida interna alla cosca di Cinisi.
In questa prospettiva, la simulazione dell’attentato e il conseguente depistaggio sulla causale del delitto e sulla provenienza della mano omicida offrivano ad entrambe le parti un’onorevole via d’uscita. Più esattamente, quello stratagemma offriva, al clan BADALAMENTI, l’opportunità di non dover riconoscere la paternità di un delitto infamante; ai parenti dell’ucciso, la possibilità di sottrarsi al dovere, altrimenti imposto dalla tutela del proprio onore, di vendicarne la morte, senza che ne uscisse menomato il prestigio e la reputazione della stessa famiglia (secondo il concetto espresso dal collaboratore DI CARLO).
3. Altri riscontri logici e fattuali: l’esclusione della pista corleonese, le minacce ricevute dalla vittima e l’improvviso viaggio di Luigi IMPASTATO negli Stati Uniti; la mancata partecipazione di Gaetano BADALAMENTI ai funerali di Peppino.
Quest’ultimo argomento ci riporta al tema delle possibili piste alternative all’ipotesi accusatoria che ascrive al clan BADALAMENTI la paternità dell’omicidio.
Ed invero, acclarato che dietro l’omicidio ci fu la mano di un gruppo criminale ben organizzato e profondamente radicato nel territorio (v. supra); ed una volta esclusa, per le ragioni già esposte, la c.d. pista neofascista, va ancora vagliata la possibilità che ad agire sia stato un gruppo criminale altrettanto organizzato ed antagonista rispetto al clan BADALAMENTI, capace di agire nella zona, fino a commettere delitti eclatanti, affrancandosi dal controllo del boss di Cinisi e del potere criminale di cui egli era artefice e rappresentante.
In particolare già nella motivazione addotta a sostegno della seconda richiesta di archiviazione del procedimento sull’omicidio IMPASTATO (e cioè quella datata 27 febbraio 1992, a firma del P.M. dott. I. DE FRANCISCI) si adombrava il sospetto che il delitto potesse essere stato ordito dalla cosca emergente dei corleonesi: ciò allo scopo di delegittimare l’autorità del BADALAMENTI od offuscarne il prestigio, sfruttando la notorietà della campagna denigratoria messa in atto da Peppino IMPASTATO contro Gaetano BADALAMENTI per avvalorare il sospetto che fosse lui il mandante dell’omicidio.
Sennonché l’ipotesi è logicamente incompatibile proprio con la simulazione dell’attentato terroristico. È di tutta evidenza infatti che ove i corleonesi avessero inteso far credere ad una responsabilità diretta del BADALAMENTI, non avrebbero architettato quella messinscena, volta a fugare in radice il sospetto di un delitto di mafia; e meno che mai avrebbero avuto interesse ad allontanare i sospetti dal BADALAMENTI, quale possibile mandante.
D’altra parte, gli unici deboli indizi che residuavano a conforto della c.d. pista corleonese si sono rivelati privi di qualsiasi fondamento o del tutto fallaci.
Invero, è emerso, alla luce delle concordi dichiarazioni di numerosi collaboratori di Giustizia, che, in realtà, all’epoca dell’omicidio, Gaetano BADALAMENTI era ancora saldamente al comando della famiglia mafiosa di Cinisi, e non era stato espulso dall’organizzazione (anche se ciò si verificò di lì a poco e già da qualche tempo serpeggiavano contrasti e rancori con i corleonesi: cfr. tra gli altri, DI CARLO, BUSCETTA, MUTOLO e Marino MANNOIA).
Quanto alla collocazione negli organigrammi mafiosi di alcuni personaggi, come il geometra Giuseppe LIPARI, che erano stato negli ultimi tempi bersaglio di attacchi e denunce pubbliche da parte di Peppino IMPASTATO – in particolare per la vicenda del villaggio turistico “Z10” – è vero che le ulteriori acquisizioni processuali ne hanno confermato l’appartenenza allo schieramento corleonese (come accertato già in esito al Maxi-uno). Ma grazie alle rivelazioni del collaboratore Angelo SIINO, si è appurato altresì che, inizialmente, il LIPARI era in rapporti d’affari con Gaetano BADALAMENTI, cui era legato oltretutto da vincoli di frequentazione familiare: affari poi ereditato da Bernardo PROVENZANO. E tra questi affari figurava anche la gestione del camping “Z10”.
Infine, nessuno dei collaboratori di giustizia che provengono dalle fila dello schieramento corleonese e che hanno saputo riferire notizie in merito all’omicidio IMPASTATO, hanno mai nutrito o insinuato il minimo dubbio sul fatto che il delitto potesse ascriversi al medesimo schieramento.
Percorsa invano anche la pista corleonese, non può che seguirne, argomentando a contrariis, un ulteriore seppur indiretto elemento di conforto all’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie che indicano in Gaetano BADALAMENTI e negli uomini d’onore della famiglia mafiosa di Cinisi rispettivamente il mandante e gli autori del delitto.
Un ulteriore riscontro ad un tempo logico e fattuale viene anche dalle minacce ricevute dalla vittima.
Alcuni collaboratori (v. in particolare MUTOLO e DI CARLO) hanno riferito di reiterati e vani tentativi di indurre Giuseppe IMPASTATO a desistere dai suoi attacchi ad esponenti mafiosi locali. Ebbene, all’interno della cerchia familiare erano note non solo le minacce ricevute da Peppino anche per interposta persona; ma anche la provenienza di tali minacce. Proprio i suoi discorsi contro la mafia erano oggetto e fonte di aspri diverbi con il padre, che, a sua volta, non era animato solo da un profondo dissenso per le scelte di rottura rispetto ad una tradizione familiare che faceva degli IMPASTATO una famiglia organica ad ambienti mafiosi; ma era altresì pervaso da crescente preoccupazione per la sorte dell’irrequieto figliolo.
Ne hanno riferito sia Giovanni IMPASTATO che la madre, Felicia BARTOLOTTA. E in tale contesto, specifico rilievo assumono l’episodio davvero inquietante dell’improvviso viaggio di Luigi IMPASTATO negli Stati Uniti; e l’episodio che lo precede, costituendone l’immediato antefatto, della visita di Vito PALAZZOLO a casa IMPASTATO. Sulle vere ragioni di quel viaggio ha reso rivelazioni illuminanti una cugina americana, omonima della Sig. ra BARTOLOTTA, e moglie di Nicola IMPASTATO (a sua volta nipote di Luigi IMPASTATO e quindi cugino di Peppino). Sul secondo episodio hanno reso circostanziate dichiarazioni, oltre a Felicia BARTOLOTTA, ved. IMPASTATO, e a Giovanni IMPASTATO, anche la moglie di quest’ultimo, Felicia VITALE: entrambi hanno deposto su tali circostanze anche dinanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta.
Secondo quanto Felicia BARTOLOTTA ha raccontato nel suo libro-intervista e poi dichiarato anche al G.I., il figlio Peppino era ben consapevole dei rischi cui andava incontro; e negli ultimi tempi, non si preoccupava di nasconderli o di minimizzarne la portata (cfr. pag. 33: “Lo so che mi devono ammazzare”). La stessa Felicia gli prospettò l’opportunità di dotarsi di un’arma per autodifesa (“Una volta gli dissi: Perché non esci armato, tu? Caso mai, sempre ti puoi difendere, no?”). Aveva molta paura per lui, ma non meno preoccupato era il marito, tant’è che le diceva spesso: “Digli che smetta, perché fanno un fosso e lo…”. (Cfr. verbale di S.I. del 17.06.1986, f. 265, vol. 894).
A riprova della serietà dei timori che lo stesso Peppino nutriva, la Sig. ra Felicia ricorda che quando il marito Luigi decise inopinatamente di partire per gli Stati Uniti, (poco dopo l’ennesimo diverbio con Peppino a causa del volantino diffuso nell’aprile del 1977, in cui accusava tra l’altro il BADALAMENTI di traffico di eroina), lo stesso Peppino accusò il colpo per quel gesto inaspettato e apparentemente inspiegabile, arrivando a insinuare l’orribile sospetto che il padre avesse voluto abbandonarlo in balia di chi lo voleva morto (“Quando mio marito se ne andò in America, fu colpito di più Giuseppe. Dice: ‘È andato in America per fare ammazzare a me, e allora? Ora che mio padre se ne è andato in America…'”: Felicia BARTOLOTTA, pag. 38 de La mafia in casa mia).
La circostanza è stata richiamata e confermata anche nel corso delle S.I. rese al G.I. il 16.06.1986: “È vero che, come ho riferito a pag. 38 del libro, mio figlio, commentando con me la partenza di suo padre per l’America, ebbe ad esprimere la convinzione che egli fosse partito ‘per fare ammazzare lui’, cioè mio figlio”. Tuttavia, la stessa Felicia in quella sede ha avvertito l’esigenza di spiegare le parole del figlio: “Anzi, mi spiego meglio, perché forse non sono stata capita da chi mi intervistava. Mio figlio intese dire che, a suo giudizio, colla partenza di suo padre, egli sarebbe rimasto ‘scoperto’ e privo di protezioni” (cfr. f. 265, retro).
Anche Maria IMPASTATO, nipote di Felicia, rammenta che suo cugino Peppino era sconvolto e angosciato nel periodo in cui lo zio Luigi stette via. Questa la sua drammatica testimonianza sul punto:
“Ricordo bene che un certo giorno, sempre in quel periodo, verso mezzogiorno, giunse a casa mia mio cugino Giuseppe, che mi sembrò impaurito. Egli mi disse che era condannato, che era stato minacciato, e che, per uccidere lui, avevano allontanato suo padre. Gli consigliai di andarsene da Cinisi, o, almeno, di denunciare i fatti al maresciallo di Cinisi. Egli mi disse che non si fidava del maresciallo (NdR: si trattava del buon TRAVALI) ed allora gli suggerii di riferire i fatti a qualcuno della Giustizia a Palermo. Ma egli non aveva fiducia in nessuno, perché in quel momento la mafia fioriva meravigliosamente bene”. (Cfr. verbale di S.I. del 18.09.1986 f. 275 retro, vol. 894).
In effetti, Luigi IMPASTATO comunica la sua decisione di partire una decina di giorni dopo la visita del PALAZZOLO, lascando di stucco i suoi familiari perché non li degna di una sola parola di spiegazione; e solo dopo la sua partenza essi apprenderanno dal nipote Pinuzzo – figlio di Simone IMPASTATO a sua volta fratello di Luigi – che si era recato in America (lui stesso lo aveva accompagnato all’aeroporto). La Sig. ra BARTOLOTTA ricorda con amarezza che portò via persino il libretto di risparmio, lasciandola in pratica a corto di denaro. E Maria IMPASTATO conferma di avere appreso dalla zia Felicia che la stessa ignorava i motivi della sparizione di suo marito: “Mi disse soltanto: ‘Ha preso il danaro e se n’è andato. Sono confusa’” (cfr. ancora S.I. del 18.09.1986, f. 274). Starà via un mese e per tutto questo tempo non darà notizie di sé, né si metterà comunque in contatto con la famiglia. Una conferma alle sofferte rivelazioni sul punto della vedova IMPASTATO è venuta dalle dichiarazioni del cugino americano Nicola IMPASTATO, che ospitò lo zio Luigi, in occasione del viaggio negli States, per tre o quattro settimane. Per quanto ricordi, non lo vide mai chiamare telefonicamente la sua famiglia in Sicilia.
Ora, un simile comportamento è chiaramente indicativo di un profondo dissapore e di un lacerante strappo nei rapporti tra Luigi IMPASTATO e il suo nucleo familiare che, stando alla testimonianza di Felicia BARTOLOTTA, ancora una volta era scaturito dagli insanabili contrasti tra padre e figlio per le iniziative di lotta di quest’ultimo e le sue più recenti esternazioni pubbliche contro mafiosi e politici locali. (Cfr. ancora pag. 40 de La mafia in casa mia, a proposito del breve ma intenso sfogo di suo marito durante i preparativi per l’improvvisa partenza, allorché si presentò a casa “con una valigia che doveva riempire di vestiti perché doveva partire, perché questo figlio, diceva, era più cattivo del grande. Dice: ‘Qua dentro questa casa non ci posso stare più. Vergogna!’ ‘Ma quale vergogna? I tuoi figli non è che hanno rubato, non è che hanno ammazzato, non è che hanno fimmini tinti (donne cattive). Perciò quale vergogna hai?’. Risponde: ‘Non ci posso stare più, me ne devo andare’. Ma non ci disse dove andava, questo non lo disse, lo sapevano i mafiosi e suo fratello”.).
Esso suona altresì come una clamorosa manifestazione di dissenso e rabbiosa riprovazione, con cui Luigi IMPASTATO voleva forse lanciare anche un messaggio all’esterno, perché fosse chiara la sua volontà di punire i suoi congiunti: che infatti interpretarono e subirono quel gesto come punitivo nei loro confronti. (“Questa era una punizione che dava a noi… Sì, era per dare soddisfazione a BADALAMENTI, per dargli soddisfazione. ‘Io devo partire – dice – e ritorno quando si sono aggiustate le cose. Se questo non si mette a verso, io vendo tutte le cose e me ne vado non ci torno più qua’”).
Ma la ragione concreta dell’improvviso viaggio in America doveva avere a che fare, in qualche modo, pure con l’esigenza di trovare un accomodamento, una soluzione al problema che le intemperanze del figlio Peppino avevano creato nei rapporti con Gaetano BADALAMENTI. Giacché è un fatto che la decisione di partire segue di qualche giorno il litigio originato dall’ennesimo volantino in cui Peppino indicava tra l’altro il BADALAMENTI come esperto in lupara e in eroina. Come pure è un fatto che dal BADALAMENTI Luigi IMPASTATO si reca sia poco prima di partire, premurandosi di informarlo non solo della sua imminente partenza, ma anche dello scopo del viaggio, secondo quanto ha riferito nel suo interrogatorio lo stesso BADALAMENTI; sia appena fece ritorno dagli Stati Uniti, come confermato dal BADALAMENTI e dalla testimonianza della cugina IMPASTATO Maria.
E non è senza significato che in occasione di questa seconda visita – per ammissione dello stesso BADALAMENTI- egli abbia portato un piccolo presente, dono dei nipoti americani: un attestato di rispetto e di amicizia, certo; ma, con tutta probabilità, anche un tangibile segno dell’attenzione con cui i parenti d’oltre oceano seguivano e avevano a cuore i buoni rapporti tra la famiglia IMPASTATO e lo stesso BADALAMENTI.
Non è allora azzardato, sulla scorta di tali elementi, ipotizzare che le vere ragioni del viaggio siano condensate nelle poche e drammatiche battute pronunziate da Luigi IMPASTATO allorché mise a parte i nipoti americani – presente anche Vincenzina che poi ne riferirà in sede di rogatoria internazionale – delle sue preoccupazioni per la sorte del figlio. La stessa Felicia BARTOLOTTA precisa che “me lo raccontarono mia cognata Fara e mia cugina Vincenzina quando vennero dalla California”. Da loro, in particolare, ella apprese che “i nipoti di California si spaventarono, perché credevano che fosse perseguitato dalla giustizia. ‘Chissa che è successo?’. Poi lui cominciò a parlare e disse che se ne era andato in America a causa di suo figlio Giuseppe”. Più precisamente, “lui diceva che suo figlio parlava male dei mafiosi, che non era giusto, che li oltraggiava e ‘Io – dice – me ne sono venuto qua, ma gliel’ ho detto, prima di ammazzare mio figlio, dovete ammazzare me'”.
Tali circostanze hanno formato oggetto di verifica e approfondimento istruttorio per mezzo di due rogatorie internazionali.
Nel corso della prima rogatoria, sono stati escussi i predetti cugini americani, e cioè Giuseppe e Nicola IMPASTATO, che avevano ospitato il padre di Peppino in occasione del suo viaggio in America e per buona parte del periodo in cui vi soggiornò(v. verbali del 5 giugno 1987 ff. 255 e segg. vol. 894). Nessuno dei due ha saputo riferire alcunché di significativo sulle ragioni di quel viaggio, pur ammettendo che l’improvvisa visita dello zio Luigi non era stata preannunziata. Ma è innegabile che entrambi abbiano reso dichiarazioni a dir poco reticenti, trincerandosi dietro la versione secondo cui Luigi IMPASTATO era in vacanza ed era andato a trovarli sia per far loro visita – come s’usa fare nei riguardi di parenti che vivono lontano – sia per “visitare e vedere il posto”. Negano che si sia parlato di mafia o che lo zio Luigi avesse esternato preoccupazioni per il figlio Giuseppe. E di fronte all’obbiezione che era piuttosto singolare che lo zio avesse deciso di intraprendere quel viaggio per fini turistici, lasciando a casa la famiglia, Nicola IMPASTATO non ha trovato di meglio che replicare che al posto suo avrebbe fatto altrettanto, se fosse andato lui a visitare l’Italia. Lo stesso Nicola, peraltro, dopo che era emersa la circostanza che sua moglie e sua figlia si trovavano in Sicilia, in visita ai parenti di Cinisi, quando morì Peppino; e che da loro apprese la tragica notizia (“erano molto spaventate”), si rifiuta in pratica di dare l’indirizzo di sua figlia, asserendo di non ricordarlo e di non averlo mai scritto, né sa dare un recapito telefonico. Nega poi di avere appreso alcunché sul conto di Gaetano BADALAMENTI, al di fuori delle notizie di stampa.
Qualche ammissione è invece trapelata dalle pur prudenti risposte del fratello Giuseppe.
Così alla domanda – e fu la prima rivoltagli – se il padre del giovane ucciso parlava dei problemi che suo figlio stava avendo in Sicilia con la Mafia, egli risponde, inizialmente, in termini affermativi, limitandosi a puntualizzare che lo zio Luigi fu loro ospite solo tre settimane e non un anno, come era stato detto. Soggiunge che “non abbiamo parlato molto su certe cose”: il che lascerebbe intendere che qualcosa si dissero sull’argomento oggetto di quella prima domanda. Ma poi spiega che lo zio Luigi era venuto a far visita a sua figlia, vittima di un gravissimo incidente; e che “…non parlammo su ciò, sulla mafia, non una parola. Era una tragedia familiare, mia figlia ha diciannove anni ed è stata operata al cervello e al torace. Egli venne perché voleva vedere mia figlia. Mi disse che era venuto perché voleva vedere mia figlia”. (Curiosamente, però, il fratello Nicola non fa cenno di tale motivazione, quando riconduce le ragioni del viaggio dello zio Luigi a mere finalità turistiche).
Ma soprattutto, il suddetto Giuseppe IMPASTATO ha ammesso di avere scoperto già tre o quattro giorni dopo il fatto, che suo cugino Peppino era stato assassinato: a informarlo fu una telefonata proveniente dall’Italia, e precisamente dalla cognata Vincenzina, moglie di Nicola, che si era recata in visita ai parenti di Cinisi proprio in quei giorni: “Lei ci disse Giuseppe è stato assassinato”. E alla domanda se si fosse altresì parlato di una possibile responsabilità di Gaetano BADALAMENTI quale mandante dell’omicidio, oppone una risposta ambigua e allusiva: “Io penso che quando qualsiasi cosa accade c’è sempre un leggero mormorio ed io non posso realmente dirle se era lui o non era lui. Realmente non posso dirlo”.
Molto più esplicita su tutte le circostanze predette è stata la testimonianza resa dalla predetta Vincenzina, circa dieci anni dopo la rogatoria con cui vennero escussi i due fratelli IMPASTATO.
Sull’importanza di questa non facile testimonianza, e sull’identificazione di questa cugina americana (della madre, e per parte di padre), nonché sulle remore e le titubanze della stessa ad offrirla, si è soffermato Giovanni IMPASTATO nelle S.I. rese al P.M. il 26 settembre e il 5 ottobre 1996, nei termini che seguono:
“A D.R. : Mi presento spontaneamente alla S.V. per riferire dei contatti intercorsi recentemente tra la mia famiglia ed una mia parente di nome BARTOLOTTA Vincenza, già citata nella memoria presentata agli inquirenti il 16/6/1986.
La Bartolotta, se non erro cugina di mia madre per parte di padre, all’epoca dei funerali di mio fratello Peppino, riferì a mia madre di aver saputo che all’origine della decisione di mio padre di recarsi in America c’era la necessità di chiedere consiglio ai nostri parenti che là risiedono circa la posizione in cui si trovava all’epoca mio fratello Peppino a causa dei suoi continui attacchi a Gaetano Badalamenti.
La Bartolotta si era quindi resa conto della consapevolezza di mio padre circa i rischi che mio fratello Peppino stava correndo continuando ad ostacolare gli interessi criminali ed economici della famiglia mafiosa facente capo al Badalamenti, e lo aveva riferito a mia madre proprio durante il lutto per la morte di Peppino.
A D.R. Dopo la mia presentazione in Procura dello scorso giugno, come peraltro informalmente anticipato alla S.V. ho cercato di capire se esistesse la possibilità di ottenere da parte della Bartolotta una conferma ufficiale dell’episodio cui sopra ho fatto riferimento.
Contattata telefonicamente la predetta, questa in un primo momento, se non ricordo male lo scorso giugno, si era mostrata disponibile a inoltrare a me personalmente o al nostro avvocato una dichiarazione scritta che ripercorresse la vicenda che l’ha vista protagonista, manifestando nel contempo la disponibilità ad essere sentita dalla A.G. italiana.
Qualche giorno dopo questa prima presa di contatto con la Bartolotta, allorchè io le telefonai per sollecitare l’invio della dichiarazione scritta, appresi dalla stessa che su consiglio del marito e di altri parenti, ella aveva mutato opinione, ritenendo che non fosse opportuna una sua spontanea manifestazione di volontà di riferire quanto a sua conoscenza circa le circostanze che precedettero l’uccisione di mio fratello, ma che in ogni caso rimaneva a disposizione della A.G. qualora gli inquirenti avessero voluto sentirla.
A D.R. Ho sentito telefonicamente per l’ultima volta la Bartolotta due giorni fa, ed ella mi ha detto di aver spedito alla mia famiglia una lettera con la quale manifesta la sua disponibilità ad essere interrogata dagli inquirenti.
A D.R. Mi riprometto di consegnare alla S.V. la lettera sopra citata qualora questa dovesse effettivamente arrivare a me personalmente o alla mia famiglia. “
“A D.R. Mi presento spontaneamente alla S.V. per precisare che la parente di cui ho fatto riferimento nel verbale del 26 settembre scorso, chiamata da noi familiari Vincenza in realtà anagraficamente si chiama Felicia Bartolotta, coniugata con un Impastato e attualmente risiede negli USA, 760 N. CAMPUS, ONTARIO, CALIFORNIA 91764 USA”.
Nella lettera datata 26/09/96, e consegnata da Giovanni IMPASTATO in occasione delle S.I. del 5.10.96, la mittente, che si firma Felicia IMPASTATO, rivolgendosi alla cara cugina Felicia, manifesta la propria disponibilità a rendere la chiesta testimonianza e a “confermare davanti ai giudici, che tuo marito Luigi, durante il suo soggiorno in California ha casa nostra, molti anni fa, nel 1977, abbia detto a me queste seguenti parole: ‘Prima di uccidere ha Peppino devono uccidere a me'”.
In calce segue una formula di affettuoso salute “da me e da tutti noi in famiglia” e, sottoscritto con la stessa grafia della precedente firma, il nome Vincenzina.
In sede di rogatoria internazionale, effettivamente espletata il 16.01.1997 “in località che si omette di indicare per ragioni di sicurezza” (come recita il relativo verbale in atti), e dopo aver precisato che il suo nome di battesimo è Felicia, ma i parenti italiani la chiamano Vincenzina, la teste ha confermato che nella primavera del 1977 Luigi IMPASTATO (parente di suo marito in quanto fratello del padre di quest’ultimo) andò a trovarli nella loro abitazione nell’Ontario: con loro grande sorpresa perché “non ci aveva preavvertito di tale visita”. Luigi proveniva da New Orleans, dove era andato a trovare altri parenti e “rimase con noi per circa un mese”. Poi fece ritorno a New Orleans “ove aveva lasciato gran parte del suo bagaglio”.
Orbene, Vincenzina ha rivelato, confermando peraltro quanto anticipato al G.I. da Giovanni IMPASTATO, e già scritto nella lettera a sua firma prodotta dallo stesso Giovanni, che “nel corso di detta permanenza io ebbi modo di discutere con Luigi IMPASTATO nonché di suo figlio Giuseppe. Egli mi disse che suo figlio, detto Peppino, ‘parlava assai’ e faceva politica, in particolare muovendo aspre critiche ai mafiosi di Cinisi.
“A queste parole io esternai la mia preoccupazione chiedendogli esplicitamente se Peppino non stesse correndo il rischio di essere ucciso. A quel punto ricordo che Luigi rispose che ‘finché egli era in vita suo figlio Peppino non correva alcun pericolo’ in particolare disse: ‘Prima di uccidere Peppino devono uccidere me’ “.
Vincenzina ha confermato altresì che insieme a sua figlia si recò in Italia proprio nel maggio del 1978 per fare visita ai loro parenti di Cinisi e che “il nostro arrivo purtroppo coincise con l’uccisione di Peppino tanto che io non feci neanche in tempo ad incontrarlo”. E ha aggiunto che “nel corso dei funerali di Giuseppe IMPASTATO io ebbi modo di sentire che tutti i suoi parenti nonché altra gente presente ai detti funerali facevano il nome di Tano BADALAMENTI, dando una spiegazione del fatto assolutamente univoca e cioè che Giuseppe IMPASTATO era stato ucciso dalla mafia”. (Cfr. verbale di esame testimoniale del 16.01.1997, nell’ambito della rogatoria internazionale previamente autorizzata in relazione al procedimento penale n. 2013/95 concernente l’omicidio di Giuseppe IMPASTATO).
Secondo questa drammatica testimonianza dunque, Luigi IMPASTATO non mancò di esternare le sue preoccupazioni per la sorte del figlio; ma al contempo, parve voler rassicurare i nipoti che temevano per la vita di Peppino: “prima di ammazzare mio figlio, dovete ammazzare me”.
Da queste parole si evince che Luigi IMPASTATO era ben conscio del pericolo incombente su suo figlio: una consapevolezza pari però alla sua determinazione a tutelarne l’incolumità a costo della sua stessa vita. E queste parole forniscono anche il più probante riscontro oltre che una perspicua chiave di lettura del tipo di difficoltà e remore ad attuare il disegno di sopprimere Peppino: la sua famiglia, invero, non avrebbe subito senza opporre una disperata reazione.
Da questo punto di vista non c’è dubbio che la morte accidentale di Luigi IMPASTATO – vittima di un incidente d’auto il 19 settembre 1977 – valse a rimuovere l’ostacolo principale, anche se non l’unico, che si frapponeva all’esecuzione dell’omicidio, come del resto lo stesso Giuseppe IMPASTATO aveva preconizzato, nell’esternare i propri timori. Non è quindi un caso che Peppino sia stato ucciso solo dopo la morte di suo padre.
Vincenzina BARTOLOTTA IMPASTATO ha inoltre rivelato di avere confidato alla cugina Felicia, madre di Peppino, il contenuto della conversazione che aveva avuto con Luigi IMPASTATO in America proprio in occasione dei funerali di Peppino o subito dopo.
Certo è che all’indomani della tragica morte del giovane militante di D.P. si registra un clima pesante di sospetto e di reciproco risentimento, se non di manifesta ostilità, tra la famiglia IMPASTATO – o almeno i più stretti congiunti di Peppino – e il boss di Cinisi, Gaetano BADALAMENTI.
I primi manifestano già nell’immediatezza del fatto la convinzione che il loro congiunto sia stato assassinato e orientano i sospetti sul BADALAMENTI (come si evince dalle testimonianze dei cugini americani, oltre che dalle dichiarazioni di Felicia BARTOLOTTA e di Giovanni IMPASTATO).
In particolare, dalle parole di uno dei figli di SPUTAFUOCO e precisamente di Giuseppe IMPASTATO, si ricava la netta impressione che quella degli IMPASTATO non fosse un semplice sospetto, ma un fermo convincimento. Ciò non avrebbe comunque alcun valore indiziario, salvo indurre a rimeditare sulle ragioni per cui la famiglia IMPASTATO si ritrovasse unita non solo nel dolore per la perdita del congiunto, ma anche nel convincimento che egli fosse stato assassinato.
Ma il punto è che quel clima di sospetto e di rancori e risentimento trova eco e riscontro anche nel comportamento dello stesso BADALAMENTI.
Questi si astiene dal partecipare al funerale, né si preoccupa di far visita successivamente alla famiglia IMPASTATO, o di far pervenire alla Sig. ra BARTOLOTTA, vedova IMPASTATO, un messaggio o un qualsiasi segno di solidarietà per la perdita del figlio in circostanze così tragiche. E ciò ad onta dei vantati vincoli di amicizia e di affetto che lo legavano anche alla mamma di Peppino.
È pacifico poi che il BADALAMENTI, all’epoca non era sottoposto ad alcun provvedimento restrittivo; risiedeva effettivamente a Cinisi e abitava a non più di cento metri dall’abitazione degli IMPASTATO.
Lo stesso BADALAMENTI ha addotto a propria giustificazione – ed è già significativo che abbia avvertito l’esigenza di giustificarsi – la strumentalizzazione politica e la montatura propagandistica messa in atto contro di lui in occasione dei funerali. Ma è chiaro che non gli sarebbero mancati il modo e l’opportunità di far visita ai congiunti di Peppino in forma strettamente riservata e al riparo da occhi indiscreti; o quanto meno di far pervenire loro un messaggio di solidarietà e di cordoglio. Cosa che non fece.
Questo silenzio, per chiunque abbia un minimo di conoscenza della mentalità e del costume siciliani, è sintomatico di uno stato di profonda e insanabile frattura tra gli IMPASTATO e il BADALAMENTI e non trova una spiegazione plausibile se non nel perdurare e nel persistere di un bruciante risentimento da parte dello stesso BADALAMENTI per le offese che a suo tempo aveva ricevuto dall’ucciso; e che, evidentemente, la tragica fine di Peppino non era bastata ad emendare.
Certo, si può concedere – sebbene il diretto interessato non ne abbia fatto parola – che la consapevolezza dei sospetti nutriti sul suo conto fosse, per il BADALAMENTI, fonte di serio imbarazzo e di obbiettivo disagio nei riguardo dei congiunti della vittima. Ma, considerati i rapporti pregressi e i vantati vincoli di amicizia e affetto con tutta la famiglia e con la madre di Peppino in particolare, quell’imbarazzo avrebbe dovuto, con il trascorrere del tempo, convertirsi in una sollecitazione in più a cercare di ricucire lo strappo verificatosi nei loro rapporti; e a fugare per quanto possibile, quegli esecrabili sospetti, opponendo a dubbi e dicerie quanto meno una sua personale e sdegnata smentita. Ma così non fu.
È forse superfluo rimarcare che la rilevanza indiziaria di queste circostanze si staglia in rapporto al movente del delitto. Non a caso Gaetano BADALAMENTI, nei vari interrogatori cui è stato sottoposto, ha ripetutamente cercato di minimizzare la portata degli attacchi alla sua persona e la gravità dell’offesa derivante alla sua reputazione a al suo prestigio dalla campagna denigratoria messa in atto contro di lui dal giovane IMPASTATO. Ma la sua stessa condotta, in occasione dei funerali del giovane, e la profondità della frattura verificatasi nei rapporti con la famiglia IMPASTATO – o almeno con i più stretti congiunti dell’ucciso – ci dicono il contrario.
Per quanto concerne l’episodio cruciale che chiama direttamente in causa l’odierno imputato Vito PALAZZOLO, e cioè la sua visita a casa degli IMPASTATO poco dopo che, da parte di Peppino e compagni, era stato diffuso il famoso volantino contente pesanti attacchi al BADALAMENTI, è ancora il teste Giovanni IMPASTATO a richiamarlo alcuni anni dopo che ne aveva riferito al G.I. dott. CAPONNETTO la sig.ra BARTOLOTTA.
In particolare, nelle S.I. rese al P.M. in data 8 giugno 1996, l’IMPASTATO ha dichiarato:
“Preliminarmente confermo integralmente quanto dichiarato al G.I. dott. Chinnici il 7.12.1978 e poi successivamente il sette luglio 1979 relativamente alla circostanza della morte di mio fratello Peppino.
Ritengo di notevole importanza ribadire, come peraltro già scritto nell’esposto presentato alla procura di Palermo il 16.6.1996, la circostanza inerente la visita di Vito Palazzolo a mia madre per avvisarla che Tano Badalamenti voleva parlare con mio padre. Tale fatto avvenne nell’aprile del 1977, immediatamente dopo che mio fratello Peppino divulgò un volantino recante un preciso riferimento alle attività illecite di Gaetano Badalamenti e Giuseppe Finazzo.
Ricordo che dopo la visita del Palazzolo, mio padre effettivamente si recò a casa del Badalamenti e poi dieci giorni dopo partì, senza avvisare noi familiari, per recarsi in America a trovare alcuni nipoti. Anche tali fatti sono stati riferiti all’A.G. nell’esposto cui sopra ho fatto riferimento.
Io e mia madre abbiamo sempre avuto la convinzione che la visita di Vito Palazzolo fosse scaturita dal risentimento che Gaetano Badalamenti provava nei confronti di mio fratello per la sua attività politica. Tale risentimento era peraltro dovuto anche al fatto che, essendo mio padre un uomo d’onore, appariva assolutamente inconcepibile che Peppino potesse scagliarsi contro gli amici del padre”.
In effetti già nel libro-intervista La mafia in casa mia, Felicia BARTOLOTTA aveva affermato che il PALAZZOLO in quell’occasione era venuto a casa sua perché il BADALAMENTI voleva parlare con suo marito. Ma nella deposizione resa al Giudice Istruttore, la stessa BARTOLOTTA ha parzialmente rettificato quella versione, precisando che l’affermazione contenuta nel libro doveva intendersi alla stregua di una congettura, frutto di personale deduzione.
Tuttavia è certo – e su questo punto concordano e convergono le dichiarazioni della BARTOLOTTA di suo figlio Giovanni e della nuora Felicia VITALE, tutti e tre testimoni oculari dei fatti – che la visita del PALAZZOLO avviene poco dopo la diffusione del famoso volantino; che ad essa seguì un acceso diverbio tra Luigi IMPASTATO e suo figlio Giuseppe, motivato dall’ennesima sua provocazione politica con contorno di accuse al BADALAMENTI; e che pochi giorni dopo, il padre di Peppino comunicò la sua decisione di partire.
Al riguardo è opportuno riportare un passo dell’audizione dei tre testi sunnominati dinanzi alla Commissione parlamentare Anti-mafia (rectius, Comitato di inchiesta sul caso IMPASTATO) in cui, forse per la prima volta, l’episodio è stato ricostruito in dettaglio mediante la testimonianza simultanea appunto di tre dei suoi protagonisti:
“FIGURELLI. Lei non sapeva niente di quello che era successo quando arrivarono i carabinieri per perquisirle la casa?
BARTOLOTTA. Non mi dissero niente, ma lo immaginavo. Chiesi loro che cosa fosse successo e mi risposero che si trattava solo di fatti di ragazzi. Io avevo immaginato, perché vi erano state delle minacce forti.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Vorrei sapere chi fece le minacce forti.
BARTOLOTTA. Badalamenti, il quale chiamò mio marito e gli disse che gli avrebbe ammazzato suo figlio.
MICCICHÈ. A lei risulta questo perché glielo raccontò suo marito?
BARTOLOTTA. Sì. Mio marito gli disse che non gli dovevano toccare il figlio.
IMPASTATO. Dobbiamo parlare chiaro. Mio padre era un mafioso ed era un amico di Badalamenti, il quale molte volte veniva a casa nostra a chiamarlo. Sicuramente avranno avuto un dialogo in questo senso perché, nell’ultimo periodo, tramite Radio Aut o attraverso i volantini, Peppino aveva alzato il tiro nei confronti della mafia di Cinisi e, in particolare, contro Badalamenti. Sicuramente Badalamenti chiamò più volte mio padre per dirgli di far smettere Peppino, altrimenti sarebbe finito male.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Chi lo veniva a chiamare?
IMPASTATO. Palazzolo”.
Particolarmente puntuale il ricordo che dell’episodio serba Felicia VITALE:
“VITALE. Dopo uno degli ultimi volantini fatti da Peppino durante la campagna elettorale, assistemmo al solito, rito. Eravamo a cena e in quell’occasione era presente anche Peppino. Ho detto che c’era anche Peppino perché egli aveva dei periodi di alti e bassi con suo padre e spesso non stava a casa. Suonarono alla porta e andai io ad aprire: si trattava di Vito Palazzolo, detto ‘varvazzetta’, imputato nel processo e indicato come il mandante del delitto. Mi chiese di far uscire mio suocero da casa. Chiamai mio suocero, il quale uscì da casa e parlò con lui per un po’ di tempo. Quando rientrò, si scatenò l’ira di Dio. Mio suocero se la prese con Peppino, dicendogli che doveva smettere la sua attività, che voleva rovinare entrambi e che non ce la faceva più”.
Nella sua deposizione, la VITALE conferma esplicitamente che l’episodio così rievocato si inseriva nella catena di minacce ricevute da Peppino IMPASTATO, e le fanno eco anche le parole degli altri due testi:
“MICCICHÈ. Emergeva chiaramente che Palazzolo avesse fatto qualche minaccia precisa a Luigi del tipo: ‘Se tuo figlio non la smette noi ammazziamo lui o tè’?
VITALE. È una delle ultime minacce fatte a mio suocero. Questo fatto è avvenuto subito dopo il volantino, eravamo in campagna elettorale.
MICCICHÈ. Si parlò espressamente di pericolo di vita per qualcuno? Quando lei afferma che è successo il finimondo, al di là dell’arrabbiatura del suocero, del momento particolare della minaccia ricevuta, suo suocero disse qualcosa di preciso che potrebbe essere utile a questa Commissione nel senso: ‘Mi hanno detto che se non la finisci ti ammazzano’?
BARTOLOTTA. A casa non parlava mai di queste cose.
VITALE. È chiaro che il problema era quello.
IMPASTATO. Il viaggio compiuto da mio padre era importante anche a seguito di questi fatti che sono successi.
RUSSO SPENA COORDINATORE. Oltre a Palazzolo c’erano altri che minacciavano?
IMPASTATO. Erano state fatte anche dallo zio Giuseppe Impastato detto ‘sputafuoco’”.
(Cfr. pagg. 125-126 della Relazione in atti).
Parimenti è certo, perché ne ha riferito lo stesso BADALAMENTI, che prima di partire effettivamente Luigi IMPASTATO si incontrò con il boss di Cinisi: una visita di cortesia, a suo dire, per informarlo della imminente partenza e dello scopo del viaggio, che era quello, secondo la versione del BADALAMENTI, di andare a trovare dei parenti emigrati in America, uno dei quali versava in punto di morte. (Circostanze che però, come si è visto, tacque ai suoi più stretti congiunti, ai quali non rivelò neppure dove fosse diretto).
La sequenza logico-temporale degli avvenimenti testé ricordati conforta dunque l’ipotesi – sulla quale concordano Giovanni IMPASTATO, sua madre Felicia e VITALE Felicia, prospettandola solo come ipotesi perché di fatto non assistettero al colloquio tra Luigi IMPASTATO e Varvazzedda – che realmente il PALAZZOLO si fosse recato a casa di Luigi IMPASTATO per farsi latore delle rimostranze e del risentimento di Gaetano BADALAMENTI e degli altri notabili mafiosi per l’ennesimo attacco e le offese arrecate da Peppino; e che, questa volta, la protesta avesse toni ultimativi (tanto da innescare, prima, la violenta reazione dello stesso Luigi nei confronti dell’irrequieto figliolo; e da indurlo, poi, a lasciare bruscamente la famiglia, con il dichiarato proposito di non fare ritorno se le cose non si fossero rimesse a posto, come ricorda la vedova IMPASTATO).
Ne segue quindi un apprezzabile, seppur indiretto, riscontro all’attendibilità dell’accusa del collaborante PALAZZOLO Salvatore in ordine al coinvolgimento di PALAZZOLO Vito nella deliberazione dell’omicidio.
6. IL COMPENDIO PROBATORIO A CARICO DI VITO PALAZZOLO
6.1. Alla luce delle risultanze processuali fin qui esaminate, può dirsi accertato che Giuseppe IMPASTATO fu assassinato; e che l’omicidio, sebbene ordinato da Gaetano BADALAMENTI, fu ordito e attuato nell’ambito della famiglia mafiosa di Cinisi, all’epoca retta appunto dal BADALAMENTI; anzi, più precisamente, esso fu frutto di una decisione sofferta, che coinvolse diversi uomini d’onore di quel sodalizio. Alcuni di loro, in particolare, lo avrebbero confidato ad altri uomini d’onore – rispettivamente: Nino BADALAMENTI e Francesco DI TRAPANI a DI CARLO Francesco; e PALAZZOLO Vito a Salvatore PALAZZOLO – che, divenuti collaboratori di Giustizia, ne hanno riferito all’A.G.
Ebbene, Vito PALAZZOLO, già all’epoca dell’omicidio, non solo apparteneva alla cosca mafiosa di Cinisi, ma vi ricopriva una posizione ed una carica di assoluto rilievo.
La qualità di uomo d’onore e l’affiliazione dell’odierno imputato a Cosa Nostra, nonché il suo personale legame di vicinanza al capo riconosciuto della famiglia mafiosa di Cinisi, possono dirsi dati processualmente acquisiti, a seguito della sentenza in forza della quale egli è stato condannato ad anni otto di reclusione, ridotto in appello ad anni sei, siccome riconosciuto colpevole del reato di di cui all’art. 416 bis: condanna divenuta irrevocabile il 17.12.99 (v. sentenze emesse dal Tribunale di Palermo il 21/12/96 e dalla CdA il 28/01/99 nel proc. a carico di ALFANO Michelangelo+35).
Le dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia che ne asseverano l’affiliazione alla cosca capeggiata dal BADALAMENTI convergono altresì nell’accreditarlo di una posizione di rilievo e di prestigio all’interno di quel sodalizio, frutto anche dell’età e della lunga militanza in Cosa Nostra, che ne faceva uno degli uomini d’onore di più lungo corso.
In particolare, PALAZZOLO Salvatore lo indica come vice-rappresentante di Gaetano BADALAMENTI, precisando che aveva tale carica quando lui fu formalmente affiliato alla cosca del BADALAMENTI: il che avvenne quando questi era stato espulso da Cosa Nostra ed era stato costretto ad allontanarsi da Cinisi insieme ai suoi fedelissimi: e dunque in un’epoca non ben precisata, ma comunque successiva all’omicidio IMPASTATO, e che il collaborante colloca agli inizi degli anni ’80 (v. infra). Proprio in occasione della cerimonia di affiliazione gli fu detto che PALAZZOLO Vito lo avrebbe iniziato ai segreti di Cosa Nostra, cioè gliene ne avrebbe fatto conoscere le regole e chi ne faceva parte. (“… mi si disse che PALAZZOLO Vito mi avrebbe spiegato mano mano le regole di Cosa Nostra e mi avrebbe presentato a tutti i componenti della famiglia, fornendomi tutte le notizie che sarebbero state necessarie”: cfr. verbale di interrogatorio del 18.08.93).
In questa sede il collaborante ha precisato che l’odierno imputato è stato a lungo capo-decina, prima di assumere la carica di vice-rappresentante, ma comunque “ha avuto sempre gradi, ha avuto”; in particolare, a specifica domanda della Corte, ha risposto che nel ’78 era ancora capo-decina, mentre “vice-rappresentante credo che è passato quando è iniziata la guerra”, alludendo alla guerra di mafia esplosa anche a Cinisi a partire dall’agosto del 1981 con l’uccisione di Antonio BADALAMENTI. (Cfr. pag. 28 del verbale di trascrizione dell’udienza del 26.06.2000).
Da sempre schierato con Gaetano BADALAMENTI, gli era rimasto fedele anche dopo la sua espulsione, partecipando agli affari illeciti e alle più importanti decisioni del clan, compresi gli omicidi programmati e messi in atto tra il 1983 e il 1984 nel quadro del piano di riscossa ordito da Gaetano BADALAMENTI contro i corleonesi. (V. verbali degli interrogatori resi al P.M. il 18 e il 22 settembre 1993 ed ancora il 7 ottobre 1993).
Nell’interrogatorio reso al P.M. il 26.07.95, il collaborante ribadisce che PALAZZOLO Vito faceva le veci di Gaetano BADALAMENTI in sua assenza, sicché “tutto ciò che avveniva lui ne era a conoscenza, attesa la sua qualifica”; e “ogni decisione doveva passare per lui”.
In particolare era anche lui coinvolto nel traffico di stupefacenti, perché “se trafficavano i BADALAMENTI, li doveva trafficare automaticamente lui” (v. p. 18 del verbale dib. udienza del 18.12.95 Processo ALFANO+35). In pratica, a dire del collaborante, PALAZZOLO Vito gestiva il riparto dei proventi e fungeva da collettore delle somme ricavate dal traffico illecito. E, almeno per un certo periodo di tempo, aveva continuato a trafficare con gli altri affiliati in esilio del clan BADALAMENTI, anche dopo l’arresto del loro capo. Andava a trovarli nelle varie località del Centro-Nord in cui gli stessi avevano trovato rifugio o in cui si spostavano, ma spesso faceva ritorno alla sua casa di Cinisi, non avendo nulla da temere dalle Forze dell’Ordine perché non era latitante.
Al riguardo, nel corso della deposizione resa nel proc. ALFANO+35, il PALAZZOLO ha precisato che “noi a Cinisi non ci passavamo mai. Noi non avevamo contatti con siciliani per non essere ammazzati” (cfr. pag. 20).
Invece, PALAZZOLO Vito, “se ne andava delle volte a casa (NdR: cioè a Cinisi) perché lui non aveva il mandato di cattura. Andava dieci, quindici giorni giù, e stava con noi a Carpi o a La Spezia… E certe volte andava per un mese, quindici giorni giù e poi risaliva e stava con noi”.
Il collaboratore ha peraltro fornito una serie di dati ed elementi di identificazione che non lasciano dubbi sulla sua effettiva conoscenza dell’accusato.
(In particolare, ha riferito con sufficiente approssimazione della sua età avanzata; e ha fornito indicazioni precise sull’ubicazione della sua abitazione in Cinisi, sulla sua attività lavorativa e sulle vicende familiari, precisando che PALAZZOLO Vito ha sposato in seconde nozze, dopo che la prima moglie era morta per malattia; che era imparentato coni RIMI di Alcamo, che dalla prima moglie aveva avuto due figli, un maschio, emigrato negli Stati Uniti, e una femmina, sposata con RIMI Filippo; un terzo figlio, maschio, l’ha avuto dalla seconda moglie. Tutte notizie rispondenti al vero).
Le dichiarazioni del PALAZZOLO hanno trovato puntuale riscontro in quelle rese da DI CARLO Francesco, che pure indica il PALAZZOLO Vito come sotto-capo della famiglia mafiosa di Cinisi, e, quel che più conta, riferisce tale attribuzione ad un periodo anteriore a quello in cui il collaborante PALAZZOLO fa il suo ingresso in Cosa Nostra. Precisa infatti che PALAZZOLO Vito aveva questo incarico quando lui (DI CARLO) lo conobbe agli inizi degli anni 70. (Anche se, nel periodo in cui Gaetano BADALAMENTI era detenuto in carcere, “lui si riferiva a Nino BADALAMENTI, che sostituiva il proprio cugino Gaetano per attività di Cosa Nostra”). Aggiunge che egli ebbe modo di incontrarlo personalmente diverse volte, e sempre in compagnia di Gaetano BADALAMENTI, che glielo presentò. In particolare rammenta di averlo incontrato una o due volte a Palermo e un paio di volte a Cinisi. E l’ultima volta, lo vide “verso il 1977, 1978, fino a che c’era Gaetano BADALAMENTI in carica” (cfr. dichiarazioni rese nel processo Maxi-quater).
Una conferma del fatto che già in epoca pregressa PALAZZOLO Vito era uno degli uomini d’onore più noti della famiglia mafiosa di Cinisi – ovviamente solo in ambienti di Cosa Nostra e per affiliati ammessi ad avere rapporti diretti con esponenti di quel sodalizio – viene dalle circostanziate dichiarazioni rese, prima, dinanzi al G.I., e poi anche al dibattimento, dal collaboratore CALDERONE Antonino nel processo c.d. Maxi-quater.
Questi ha riferito la sua conoscenza del PALAZZOLO come uomo d’onore di Cinisi all’episodio del ferimento (al gluteo) per un colpo d’arma da fuoco di suo cugino MARCHESE Salvatore; e ha aggiunto di avere personalmente incontrato il PALAZZOLO in una casa che era nella disponibilità di Gaetano BADALAMENTI e già a lui nota come luogo di incontri riservati tra uomini d’onore (e ha fatto i nomi tra gli altri di RINELLA Salvatore, RIMI Leonardo, DI TRAPANI Francesco e DI TRAPANI Michele) e latitanti di spicco come RINELLA Angelo e DAVÌ Salvatore che appunto si nascondevano in quell’immobile.
D’altra parte, il CALDERONE ha fugato qualsiasi dubbio sulla identificazione del PALAZZOLO di cui ha riferito con l’odierno imputato, poiché lo ha riconosciuto in fotografia e ha fornito una serie di dati biografici assolutamente probanti: “Preciso che ho visto il PALAZZOLO diverse volte a Cinisi, oltre che a Catania, e mi risulta che andava e veniva dagli Stati Uniti. Ha circa sessant’anni; è alto, magro; credo che sia sposato in seconde nozze e che avesse famiglia negli U.S.A.” (cfr. pag. 56 della sentenza della CdA di Palermo, nel processo Maxi-quater).
In effetti dagli accertamenti di P. G. (v. scheda biografica in atti), e dalle ammissioni fatte dallo stesso imputato nel corso dell’interrogatorio reso al P.M. (v. infra) è emerso che il PALAZZOLO emigrò per un certo periodo negli Stati Uniti; e che un suo figlio si stabili definitivamente nello Stato del Michigan: per trovare il quale, dopo il 1953, a suo dire egli si sarebbe recato ancora negli Stati Uniti. Èpacifico poi che il PALAZZOLO ha sposato in seconde nozze.
Invero, dalla scheda in atti si evince che il PALAZZOLO, nel febbraio del 1953 rientrò dagli Stati Uniti, “ove trovavasi clandestinamente”; più volte sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, anche con obbligo di soggiorno, già in una nota informativa del Commissariato di P. S. datato 6.02.74, veniva indicato come “molto amico di BADALAMENTI Gaetano, Cesare e Antonino”; e ivi si legge che “rimasto vedovo, il 19.12.74 contrae matrimonio con tale RANDAZZO Michela, di 25 anni più giovane di lui”.
I medesimi dati sono richiamati dal collaboratore MUTOLO Gaspare per identificare il PALAZZOLO Vito, che ha riferito di aver conosciuto personalmente come uomo d’onore della famiglia di Cinisi, in un periodo particolare: quello della sua latitanza, trascorsa insieme al RICCOBONO appunto in quel di Cinisi, a metà degli anni ’70. E le circostanze in cui il collaboratore predetto ebbe contatti diretti con l’odierno imputato, ne confermano il ruolo di figura rappresentativa ed eminente tra gli uomini d’onore della famiglia di Cinisi, tanto da porsi agli uomini d’onore di altre famiglie, e in situazioni di particolare bisogno come quelle connesse alla latitanza, come sicuro referente a Cinisi: “Per quanto concerne PALAZZOLO Emanuele, PALAZZOLO Girolamo Vito e PALAZZOLO Vito, tutti di Cinisi, sono in grado di riferire sul conto di PALAZZOLO Vito da me conosciuto come uomo d’onore della famiglia mafiosa di Cinisi; sul suo conto posso dire che si è sposato una seconda volta e ha risieduto per molto tempo negli U.S.A. Posso aggiungere che a metà degli anni settanta, mentre io e il RICCOBONO passavamo un periodo di latitanza a Cinisi, ci siamo recati in diverse occasioni nell’abitazione del PALAZZOLO ed in una di queste si sono festeggiate le sue seconde nozze. Ricordo che ci portammo presso il PALAZZOLO a mezzanotte circa, dopo che tutti gli invitati alle nozze si fossero allontanati”. Al dibattimento ha aggiunto che “si sposò con una moglie molto più giovane di lui”; e che “… dopo la morte di Nino BADALAMENTI, sapevo che questi (NdR: cioè PALAZZOLO Vito) era molto amico di Procopio, insomma che in qualche modo si era inserito molto bene, però non so insomma ora…”; e ribadisce che “Lo conosco personalmente come uomo d’onore”.
A confutazione dell’attendibilità complessiva del collaborante, la difesa ha prodotto (anche in questo processo come già aveva fatto nel Maxi-quater) documentazione comprovante che l’imputato ebbe a soggiornare al Kafara Hotel di Cefalù proprio il giorno delle sue seconde nozze ed ivi trascorse anche la prima notte. Sarebbe quindi smentita la circostanza della visita a casa del PALAZZOLO, dopo che gli invitati (alle nozze) erano già andati via. Ma sul punto è significativo che la stessa difesa o l’imputato personalmente non abbiano mai smentito che una festa di matrimonio, con relativo ricevimento di ospiti e parenti, ci fu; né hanno precisato dove si tenne il ricevimento. E comunque, a tutto concedere, si può ipotizzare un cattivo ricordo del collaborante, nel senso che egli abbia errato nel ricollegare la visita (di felicitazioni per il nuovo matrimonio) a casa del PALAZZOLO ai festeggiamenti tenuti il giorno delle nozze. Deve comunque convenirsi – con i giudici del Maxi-quater – che si tratta di un particolare del tutto marginale, non connesso ad alcun episodio o attività illecita, e come tale non può certo infirmare l’attendibilità delle dichiarazioni rese da MUTOLO sul conto del PALAZZOLO o far dubitare della sua effettiva conoscenza.
Piuttosto, necessita di una maggiore attenzione l’altra circostanza cui ha ambiguamente alluso il MUTOLO; e cioè l’asserito inserimento, mercé la sua amicizia con Procopio DI MAGGIO (altro anziano uomo d’onore della famiglia mafiosa di Cinisi, di cui ha riferito anche BUSCETTA) nei circuiti mafiosi ormai soggetti all’egemonia dei corleonesi, non senza qualche ambiguità (in qualche modo).
In effetti, di questa collocazione del PALAZZOLO, in epoca successiva alla fuga di BADALAMENTI da Cinisi e all’assassinio di Nino BADALAMENTI, ha riferito, in termini conformi, anche MARCHESE Giuseppe.
Questi, nel processo ALFANO+35 aveva dichiarato di non sapere nulla della famiglia mafiosa di Cinisi, ma di avere sentito parlare “di PALAZZOLO Vito da GAMBINO Giacomo Giuseppe mentre eravamo detenuti a Palermo in occasione della celebrazione del giudizio di primo grado del c.d. maxi-uno. Ricordo che il GAMBINO me ne parlava come di una persona seria, posata, che sa il fatto suo; mi riferì anche che il PALAZZOLO Vito aveva sostituito Procopio DI MAGGIO nel periodo in cui questi era stato detenuto o meglio era stato impedito per vari motivi a esercitare le sue funzioni”. Anche in questa sede, sentito all’udienza del 29/09/2000, il MARCHESE ha ribadito tali affermazioni, giustificando la confidenza del GAMBINO, che all’epoca era reggente del mandamento di San Lorenzo, nonché fedelissimo di Totò RIINA (e dunque fonte autorevole negli ambienti di Cosa Nostra), con gli ottimi rapporti che li legavano: “… a parte che abbiamo fatto anche dei crimini assieme, della morte di Salvatore INZERILLO eravamo assieme quando abbiamo fatto l’omicidio, e in più ero diciamo il suo pupillo anche quando stavamo in carcere, che era uno che mi voleva un sacco bene”; e inoltre, “c’era il fatto della parentela con Totò RIINA e che ero cognato anche di Leoluca BAGARELLA”; e su molti argomenti “mi faceva delle confidenze”.
Ha poi spiegato il senso degli apprezzamenti espressigli dal GAMBINO sul conto del PALAZZOLO: “Sa il fatto suo nel senso che praticamente era persona fidata, era una persona che si può dare diciamo fiducia in… nell’organizzazione, va”. E ha aggiunto che, sempre secondo quanto ebbe a riferirgli il GAMBINO, quando si procedette alla ristrutturazione dei vari mandamenti, che durante la c.d. guerra di mafia si erano sfasciati (“a quell’epoca c’erano tutti i mandamenti sfasciati”) fu deciso di porre DI MAGGIO Procopio a reggere quello di Cinisi, e di affiancargli il PALAZZOLO “che praticamente era una persona di vecchio stampo, in senso una persona posata, una persona che ha il suo carisma, la sua base ferma…”.
Ora, da tali dichiarazioni viene un’ulteriore conferma in ordine alla qualità di uomo d’onore “di vecchio stampo” (il che sottintende una lunga militanza nell’organizzazione) e al ruolo di spicco che il PALAZZOLO aveva nell’ambito della famiglia mafiosa di Cinisi, anche in forza delle sue doti di equilibrio ed esperienza, tanto da imporlo alla considerazione della fazione vincente dei corleonesi. Ma le notizie riferite dal MARCHESE, esclusivamente sulla scorta delle occasionali confidenze fattegli da GAMBINO Giacomo Giuseppe, sembrano prospettare una collocazione del PALAZZOLO negli organigrammi mafiosi addirittura opposta a quella che gli attribuiscono gli altri collaboratori di Giustizia, e segnatamente DI CARLO e PALAZZOLO Salvatore, che lo hanno indicato come un fedelissimo di Gaetano BADALAMENTI.
Ma a ben vedere, storicizzando le vicende cui si riferiscono le rispettive dichiarazioni, deve convenirsi che quell’apparente contrasto, come rilevano anche i giudici del Maxi-quater, “si attenua di molto fino a divenire non significativo se si considera che lo stesso PALAZZOLO Salvatore, parlando specificamente delle vicende dell’imputato in Cosa Nostra, ha spiegato come costui, dopo l’arresto del BADALAMENTI nel 1984, non aveva guidato con la determinazione dovuta la controffensiva nei confronti dei corleonesi, così favorendo lo sfaldamento della cosca di Cinisi, almeno sotto l’aspetto dell’interessamento alla riconquista del territorio, di modo che i suoi componenti nel prosieguo avevano finito per dedicarsi esclusivamente all’attività del traffico di stupefacenti tramite canali fuori della Sicilia”.
In effetti, il collaborante ha indicato, tra le cause della mancata reazione della sua cosca, dopo l’arresto di Gaetano BADALAMENTI, proprio l’indecisione del vice-rappresentante, che “essendo un po’ sofferente di malattia, prendeva tempo a fare qualcosa”. E ha riferito un discorso ambiguo e allusivo che Vito BADALAMENTI – che era stato arrestato insieme al padre Gaetano – avrebbe rivolto agli affiliati superstiti quando si incontrarono dopo la sua scarcerazione, avvenuta quattro o cinque anni dopo l’arresto (“Vito è stato arrestato insieme al padre, dopo quattro, cinque anni è uscito”). In particolare, avrebbe detto: “So che siete state delle persone che avete avuto una buona volontà di fare, ma ci sono delle persone dentro la nostra famiglia che fermavano di fare quello che si programmava”. Con ciò alludendo evidentemente alla presenza tra gli affiliati di traditori o comunque di soggetti che remavano contro gli interessi della cosca, o frenavano gli ardori dei più decisi ad agire.
D’altra parte è anche vero che lo stesso collaborante PALAZZOLO Salvatore ha detto che PALAZZOLO Vito era stato l’unico di loro che, dopo l’arresto del BADALAMENTI, aveva continuato a fare la spola tra Cinisi e le varie località del Centro-Nord in cui gli altri affiliati di un clan ormai allo sbando avevano trovato rifugio. Anche se lo faceva con tutte le precauzioni del caso, come ha precisato il collaborante rispondendo a specifiche domande rivoltegli su questo punto nel corso del suo esame all’udienza del 26.06.2000: “Chiuso stava a casa sua. Stava sempre a casa quando poteva lui. Quando poteva stava a casa”. E ancora: “… aveva la cautela, si riguardava bene. La porta chiusa, non si affacciava, se doveva affacciare affacciava la mo… prendevate sue precauzioni” (cfr. pagg. 91-92 verbale di trascrizione in atti).
E in effetti è pacifico, perché documentalmente provato e ammesso dallo stesso imputato (v. infra), che egli, spesso per la precarietà delle sue condizioni di salute, tornava a Cinisi quando gli aggradava o ne sentiva il bisogno, fino a tornare a risiedere stabilmente nel suo paese d’origine.
È allora lecito inferirne, come evenienza niente affatto improbabile, che l’odierno imputato, un po’ perché ormai avanti negli anni e un po’ per la situazione di oggettivo sbandamento del clan BADALAMENTI seguito alla cattura del suo capo, abbia sostanzialmente desistito dal coltivare la volontà di opporsi all’egemonia dei corleonesi, lasciando loro campo libero; fino al punto di riguadagnarne la completa fiducia, grazie anche ai suoi buoni rapporti con un autorevole uomo d’onore della famiglia di Cinisi che apparteneva alla sua stessa generazione, ma era da tempo passato alla fazione avversa, come Procopio DI MAGGIO.
Da qui quella ri-collocazione nella geografia dei nuovi equilibri mafiosi ormai consolidatisi nel segno dell’egemonia dei corleonesi che trapela appunto dalle dichiarazioni di MUTOLO e di MARCHESE.
D’altra parte, se, in ipotesi, il PALAZZOLO Vito avesse mantenuto un legame sotterraneo, magari residuo di personali vincoli di amicizia, con alcuni uomini d’onore della fazione avversa, si sarebbe guardato dal farlo capire agli altri affiliati del suo clan. Sicché a nulla rileva che il collaborante PALAZZOLO Salvatore anche in questa sede abbia escluso (“Non c’era nessun tipo di rapporti”) che egli mantenesse rapporti con i nuovi rappresentanti della famiglia di Cinisi come appunto Procopio DI MAGGIO. Né è sfuggita alla Corte la nota di prudenza insita nelle sue affermazioni sul punto: “… erano rotti quei rapporti, almeno per quanto ne sapevo io fino al 1991 che io sono stato arrestato”.
Ma quel che importa rilevare, agli effetti del presente giudizio, è che non vi fu, per quanto si desume dalle convergenti dichiarazioni sul punto rese da collaboratori di Giustizia di provenienza disparata, nessuna soluzione di continuità non solo nell’appartenenza del PALAZZOLO Vito a Cosa Nostra (fatto scontato e ricavabile presuntivamente, e fino a prova contraria, dalle regole di vita interne all’associazione e ai rapporti tra i consociati), ma, più specificamente, nell’avere egli ricoperto un ruolo di spicco all’interno della famiglia mafiosa di Cinisi, anche all’epoca dell’omicidio IMPASTATO (“Ha avuto sempre i gradi, ha avuto”).
E l’avere egli trasferito la sua residenza al Nord – circostanza documentalmente provata e sulla quale tanto ha insistito la difesa dell’imputato – non gli impedì di continuare ad essere presente a Cinisi e ad occuparsi, nell’autorevole veste di consigliere o in quella di sotto-capo, dei più importanti affari di famiglia.
In altri termini, il PALAZZOLO ricopriva una carica o comunque occupava una posizione tale da renderlo partecipe a pieno titolo dei circuiti decisionali interni al sodalizio mafioso locale, per tutti gli affari e le vicende che coinvolgevano o interessavano l’intera cosca.
Ora, il caso di Peppino IMPASTATO, questo ragazzo appartenente ad una famiglia onorata e rispettata in Cosa Nostra, ma pazzo, tanto pazzo da attaccare pubblicamente la mafia locale, facendo nomi e cognomi e senza risparmiare neppure gli amici di suo padre; e arrivando persino ad insultare il boss riconosciuto e (fino ad allora) incontrastato di Cinisi, era certamente uno dei più importanti e delicati affari di famiglia occorsi in quegli ultimi anni.
Tutto ciò costituisce un quadro logico-indiziario di innegabile gravità a carico dell’odierno imputato. Ma ad inverare quel quadro indiziario, imprimendovi la forza e la consistenza di prova idonea e sufficiente di colpevolezza, si aggiunge la chiamata in reità che proviene dal collaboratore di Giustizia PALAZZOLO Salvatore, in quanto corroborata dagli elementi di riscontro logici e fattuali in parte già evidenziati.
6.2. Le dichiarazioni di PALAZZOLO Salvatore sull’omicidio IMPASTATO
PALAZZOLO Salvatore rende le sue prime dichiarazioni sul caso IMPASTATO al termine del primo interrogatorio in cui ha dato corso al proposito di collaborare con la Giustizia: un interrogatorio-fiume, nel corso del quale sono stati trattati o toccati gli argomenti più disparati, afferenti alla sua affiliazione in Cosa Nostra, alle vicende e alla composizione della famiglia mafiosa di Cinisi, alla sua carriera criminale, ai fatti di sangue cui partecipò direttamente o di cui apprese dai diretti protagonisti, nel quadro della c.d. guerra di mafia – e in particolare alcuni omicidi su cui avrebbe fornito dettagli nei successivi interrogatori – alle ragioni della sua scelta di collaborare con la Giustizia.
In questa sua prima sortita sul caso IMPASTATO, il collaborante si limita a poche e generiche notizie che dichiara di avere appreso da “discorsi in famiglia”, dopo che era divenuto uomo d’onore. Il fatto era accaduto invece quando lui era detenuto (e quindi alcuni anni prima della sua affiliazione):
“Per quanto concerne la morte di IMPASTATO Giuseppe, nulla so per diretta conoscenza. Credo che a quel tempo ero detenuto. Successivamente, quando divenni uomo d’onore, ebbi conferma, da discorsi che si facevano nella famiglia, che non si era trattato di un incidente ma di un omicidio, e che vi era coinvolto FINAZZO Giuseppe, uomo assai vicino a BADALAMENTI Gaetano, e che per questa sua vicinanza era stato ucciso nei primi anni ’80. Non ebbi mai percezione di altri particolari, nè avrei potuto fare domande” (cfr. verbale d’interrogatorio del 18.09.’93).
Sull’omicidio IMPASTATO, il collaboratore torna a soffermarsi, aggiungendo nuovi particolari, solo nell’interrogatorio del 18.11.94, cercando anzitutto di spiegare le ragioni della sua iniziale reticenza e delle sue remore ad affrontare questo argomento e riservandosi di fornire anche su questo delitto ulteriori dettagli:
“Quanto agli altri fatti a mia conoscenza di cui intendo parlare, preciso che si tratta:
1) OMISSIS
2) dell’omicidio di IMPASTATO Peppino, del quale non avevo parlato prima solo perché nel mio intimo lo considero un fatto particolarmente riprovevole, e di ciò non ho mai avuto piena consapevolezza, se non adesso, perché ho avuto modo di riflettere.
In realtà è difficile spiegare quello che penso, perché si tratta di valutazioni diverse di uno stesso fatto, dipendenti dalle diverse mentalità di un uomo d’onore e di chi ha scelto invece di combattere Cosa Nostra a costo di notevoli sacrifici.
Il vice rappresentante della nostra famiglia, PALAZZOLO Vito, mi ha raccontato del fatto pochi anni fa, e solo allora ho saputo che il padre di quel ragazzo era un uomo d’onore appartenente alla famiglia di Tano BADALAMENTI. La cosa mia ha sorpreso, anche perché mi rendevo conto che lo stesso padre era in certo modo responsabile della morte di quel ragazzo, ed è proprio ciò che mi ha fatto apparire l’episodio riprovevole. Sono infatti molto legato ai miei figli e non riesco a capire le ragioni di un fatto così grave.
Anche di tale omicidio parlerò dettagliatamente in altra occasione, ma posso dire sin da ora che, secondo quanto ho appreso dal PALAZZOLO, è stato voluto da BADALAMENTI Gaetano ed eseguito da DI TRAPANI Francesco e da BADALAMENTI Nino. Al momento del fatto io mi trovavo detenuto nel carcere dell’Ucciardone, sezione IV – infermeria. Era il 1976″.
E in effetti, nel successivo interrogatorio del 23.02.95, ha precisato le circostanze in cui ricevette dal PALAZZOLO Vito le scottanti rivelazioni sui retroscena del delitto, approfondendo il contesto in cui esso maturò, e il movente. Ha riferito altresì dei tentati vani e reiterati di far desistere Peppino IMPASTATO dai suoi attacchi ai mafiosi locali e a Gaetano BADALAMENTI in particolare; dell’imbarazzo del padre, che partì alla volta degli Stati Uniti proprio perché non era riuscito in questi tentativi; e di come la famiglia di Cinisi fosse stata alla fine costretta a procedere alla sua eliminazione. (Dal contesto delle dichiarazioni su questo punto non si capisce peraltro se il collaborante sapesse o intendesse dire che l’omicidio fu commesso durante oppure dopo il viaggio di Luigi IMPASTATO, ossia dopo che questi era tornato dagli Stati Uniti: v. infra). Ha quindi fatto cenno alle modalità esecutive del delitto, come riferitegli dallo stesso PALAZZOLO Vito. E ha precisato che il FINAZZO, indiziato come mandante, era in realtà del tutto estraneo al fatto. Ha preso atto, infine, dell’errore commesso nel precedente interrogatorio con riferimento alla data dell’omicidio, (avvenuto nel 1978 e non nel 1976), ribadendo però che era detenuto al carcere di Palermo quando ebbe notizia del fatto:
“In ordine all’omicidio di IMPASTATO Peppino confermo quanto già in precedenza dichiarato (interrogatorio del 18.11.94).
Le notizie che ho riferito le ho apprese dal mio vice rappresentante PALAZZOLO Vito in un’epoca in cui trascorrevamo insieme la latitanza in una casa nella periferia di Cinisi e ciò dopo l’ultimo arresto di BADALAMENTI Tano.
Io sono lontano parente di PALAZZOLO Vito e comunque con lo stesso ho sempre avuto molta confidenza e amicizia anche perché sono nato nella sua stessa strada e quindi egli mi conosce dalla nascita. Preciso inoltre che PALAZZOLO Vito ha sostituito BADALAMENTI Tano per tutti i periodi in cui questi è stato detenuto o al soggiorno obbligato; la conoscenza del PALAZZOLO sugli affari della famiglia di Cinisi è quindi estremamente precisa.
Egli mi riferì che IMPASTATO Peppino già da tempo dava fastidio a BADALAMENTI Tano con le trasmissioni radiofoniche e con le manifestazioni pubbliche che organizzava a Cinisi, nel corso delle trasmissioni radiofoniche accusava BADALAMENTI Tano di traffici di stupefacenti e di varie irregolarità in campo degli appalti pubblici e nella gestione dell’aeroporto; egli non usava minimamente perifrasi o allusioni ma pronunciava le sue accuse indicando il BADALAMENTI con nome e cognome.
Aggiunse il PALAZZOLO che avevano tentato più volte di far diminuire l’intensità di tali attacchi, ma l’IMPASTATO era andato avanti per la sua strada al punto che (era stato deciso) in una apposita riunione degli esponenti di spicco della famiglia di Cinisi era stata deliberata l’uccisione dell’IMPASTATO.
Tale delitto era stato per varie volte rinviato perché sino all’ultimo si cercava di evitarlo sperando in un mutamento dell’atteggiamento dell’IMPASTATO. Si sperava inoltre di evitare al padre dell’IMPASTATO questo dispiacere e ciò perché anch’egli era uomo d’onore della famiglia di Cinisi.
A D.R: Della qualità di uomo d’onore del padre di IMPASTATO Peppino mi ha riferito con assoluta certezza PALAZZOLO Vito ed io ricordo ancora la mia meraviglia nell’apprendere ciò in quanto ben conoscevo il padre di IMPASTATO Peppino e sapevo che era una brava persona del tutto lontano dalla mentalità mafiosa.
A D.R: Sono a conoscenza, sempre per averlo appreso da PALAZZOLO Vito, nella stessa occasione della quale ho testé parlato, di un viaggio negli Stati Uniti compiuto dal padre di IMPASTATO Peppino in epoca di poco precedente all’omicidio di Peppino. Secondo il racconto di PALAZZOLO Vito l’IMPASTATO (padre di Peppino) chiese il permesso a BADALAMENTI Tano di recarsi negli Stati Uniti ‘per rasserenarsi’ e ciò in relazione al comportamento del figlio Peppino.
In buona sostanza l’IMPASTATO voleva allontanarsi da Cinisi sia perché ‘imbarazzato’ per il comportamento del figlio sia soprattutto perché non era stato capace di farlo desistere dai suoi attacchi a BADALAMENTI Tano. Il viaggio negli Stati Uniti fu quindi effettuato e l’IMPASTATO fu ospite di alcuni dei suoi numerosi parenti che abitavano negli U.S.A. .
Il PALAZZOLO Vito al termine del suo racconto mi disse che alla fine erano proprio stati costretti a commettere l’omicidio pur avendo tentato in ogni modo di evitarlo.
Mi riferì che IMPASTATO Peppino era stato prelevato ‘all’uscita della sede della radio’ e ucciso. Era stato poi simulato l’attentato dinamitardo al treno all’ovvio scopo di depistare le indagini.
(De)gli esecutori materiali furono DI TRAPANI Francesco e BADALAMENTI Antonino, entrambi deceduti, mentre è ancora in vita PALAZZOLO Salvatore detto ‘turiddu’ uomo d’onore nonché uomo di fiducia di BADALAMENTI Gaetano per tutti i fatti di sangue.
La deliberazione di tale grave fatto criminoso è ovviamente da ascrivere a PALAZZOLO Vito che me ne ha personalmente parlato ed a BADALAMENTI Gaetano.
Aggiungo che in epoca immediatamente successiva a tale omicidio venne indiziato tale FINAZZO Giuseppe detto ‘u parrineddu’, uomo di fiducia di BADALAMENTI Gaetano ma non uomo d’onore. Ricordo ancora un titolo del giornale L’ORA tutto dedicato a questo FINAZZO che però era del tutto estraneo a questo omicidio.
A D.R: Prendo atto che l’omicidio di IMPASTATO Peppino è avvenuto nel 1978 mentre io ho dichiarato nel precedente verbale del 18.11.94 che appresi il fatto nel 76 in carcere; evidentemente si trattava di un ricordo errato visti gli anni trascorsi io, comunque, ricordo di avere appreso di tale episodio mentre ero al carcere di Palermo”.
Infine, nell’interrogatorio del 16.07.96, dopo aver ribadito che all’epoca dell’omicidio lui era detenuto e che apprese dal Giornale “L’Ora” che il FINAZZO era coinvolto nelle indagini, il collaborante ha aggiunto nuovi particolari sulle circostanze della confidenza fattagli da Vito PALAZZOLO, precisando altresì che, sempre a quell’epoca, Gaetano BADALAMENTI era ancora il capo della famiglia mafiosa di Cinisi:
“Preliminarmente confermo, per averne ricevuto integrale lettura quanto già dichiarato il 18.11.94 e il 23.02.95 all’A.G. in relazione all’omicidio di Peppino IMPASTATO.
A D.R. All’epoca dell’omicidio IMPASTATO io ero detenuto e ricordo di aver appreso dal giornale ‘L’ora’ del coinvolgimento nelle indagini di tale FINAZZO Giuseppe.
In epoca successiva e cioè dopo l’arresto di Tano BADALAMENTI, Vito PALAZZOLO mi raccontò quanto ho già riferito in relazione agli esecutori ed ai mandanti di tale omicidio. Ricordo che quando Vito PALAZZOLO mi riferì tali circostanze eravamo entrambi latitanti e ci nascondevamo in un villino sito in contrada Magaggiari tra Cinisi e Terrasini. Io sarei in condizione di riconoscere tale luogo.
A D.R. Nel maggio del 1978 epoca dell’uccisione di Peppino IMPASTATO, Gaetano BADALAMENTI era ancora il capo della famiglia mafiosa di Cinisi. Sono in condizione di affermare ciò perché come è noto anche in carcere arrivano le notizie relative alle famiglie mafiose di appartenenza”.
Questa Corte ha ravvisato la necessità di esaminare il collaboratore, nel contraddittorio delle parti, per chiarire alcune circostanze che potevano ingenerare equivoci o insinuare dubbi sull’attendibilità del dichiarante; nonché per approfondire alcuni aspetti e momenti del racconto de relato sui retroscena del delitto.
E in questa sede il PALAZZOLO ha sostanzialmente confermato quanto dichiarato in precedenza (almeno sui punti salienti) con le precisazioni di cui si dirà sui principali punti oggetto di approfondimento.
Anzitutto, come già aveva fatto nel nutrito esame dibattimentale cui venne sottoposto nell’ambito del processo ALFANO+35 (come da verbale in atti dell’udienza 18.12.95), il collaborante ha ripercorso le tappe salienti della sua carriera criminale, ribadendo che fin dal 1975 era vicino a tantissime persone di Cosa Nostra, anche se fu messo in famiglia solo “dagli anni 81 a venire fino a che ho iniziato a collaborare”.
Ha precisato che quella vicinanza si concretava in rapporti di conoscenza e frequentazione con uomini d’onore di Alcamo, Balestrate, Trapani, Cinisi, Carini e altre località, prima ancora di conoscerli come tali: gli venivano presentati quando accompagnava suo cognato Vito BADALAMENTI, insieme a Giovanbattista BADALAMENTI e a Vito MUTARI di Balestrate (indicato da PALAZZOLO come vice-rappresentante della famiglia mafiosa di Balestrate ed effettivamente condannato per il reato di associazione mafiosa), “ma non me le presentava come uomini d’onore perché io non ero uomo d’onore, però le conoscevo tutti queste persone”. E fa i nomi dei MUTARI di Balestrate, COLAMANNO di Alcamo, RIMI, sempre di Alcamo, e Vincenzo VIRGA, di Trapani.
Quando fu arrestato insieme a Vito MUTARI per un episodio di estorsione – sul quale si è soffermato anche nel suo esame al Maxi-quater – e fu portato all’infermeria dell’Ucciardone, dove “C’erano tutti… tutti questi mafiosi arrestati”, ebbe modo di rinsaldare quei rapporti. Infatti, pur non essendo uomo d’onore, godeva di molto rispetto, sia perché cognato di un BADALAMENTI, sia perché era stato arrestato insieme ad un uomo d’onore come Vito MUTARI e aveva resistito a tutte le pressioni fatte per indurlo a parlare. E quando terminò la sua prima carcerazione (nel 78, dice, sbagliando, il collaborante), “tutti quelli che già conoscevo mi ave… mi avevano più fiducia, perché io venivo da un processo negativo, arrestato insieme a Vito MUTARI…”.
Ha poi raccontato la sua affiliazione, precisando che avvenne “all’inizio degli anni 81 dopo che era già scoppiata la guerra”: il che ci riporta ad un’epoca successiva al 18 agosto 1981, data dell’uccisione di Nino BADALAMENTI (v. supra). Infatti, era già cominciata la diaspora degli affiliati al clan BADALAMENTI. In particolare, suo cognato e i suoi fratelli, che già mancavano di casa, gli avevano raccomandato di non farsi più vedere in giro e di allontanarsi, almeno provvisoriamente, andando al Nord: “a quel punto ho capito che c’era qualcosa, perché già si sentivano i morti, si è sentito il primo morto a Cinisi, agosto dell’81 Antonino BADALAMENTI e allora mi hanno detto cerca di non andare da nessuna parte”.
Lui andò in Toscana, dove si trovava un suo parente e dopo qualche tempo, vennero a trovarlo suo cognato (Vito BADALAMENTI) insieme a suo fratello Natale e a Leonardo RIMI per informarlo che “c’era Tano BADALAMENTI che mi doveva parlare a Carpi”. Così si recò a Carpi, in un appartamento (che se mal non ricorda apparteneva ad un certo Nofria, originario di Cinisi poi assassinato) nel quale trovò Giovannello GRECO, Leo Rimi, Natale BADALAMENTI, Vito PALAZZOLO e Giovanbattista BADALAMENTI oltre a Don Tano.
Ha precisato che nessuno di loro risiedeva a Carpi ma “si nascondevano, avevano qualche casa, che già si erano allontanati per la guerra che c’era a Cinisi”. E “qualcuno stava a Carpi, qualcuno stava in Toscana”.
Fu Don Tano in persona, da lui scelto come suo padrino, a pungerlo per il classico rito di iniziazione, e nella stessa occasione gli fu presentato come vice rappresentante Vito PALAZZOLO che lui conosceva fin da ragazzo, ma non come uomo d’onore (e che divenne il suo punto di riferimento); capo-decina era Natale BADALAMENTI.
All’epoca, la famiglia di Cinisi, sotto i colpi dell’offensiva scatenata dai Corleonesi e per le divisioni provocate dal tradimento di alcuni affiliati, come i cugini di Don Tano e DI TRAPANI Francesco, “era sbandata e smantellata”; e lo stesso Tano BADALAMENTI era stato messo fuori famiglia, e non era più nella Commissione di Cosa Nostra, mentre i corleonesi avevano imposto provvisoriamente come reggente a Cinisi Procopio DI MAGGIO. Diversi parenti del BADALAMENTI (come il cugino Emanuele), che erano vecchi uomini d’onore, lo avevano abbandonato, passando ai corleonesi, compreso, Nino BADALAMENTI, che venne ucciso perché non aveva saputo portare a termine l’incarico affidatogli di eliminare a sua volta il cugino Gaetano: “perciò siamo rimasti noi, io, Giovanni Natale, Salvatore BADALAMENTI, un altro Salvatore che di fu Cesare, di fu Vito, un po’ tutti i suoi nipoti, diciamo parenti e nipoti quelli che erano affiliati”. Era rimasta fedele invece la famiglia di Filippo RIMI, rappresentante di Alcamo e cognato di Gaetano BADALAMENTI.
Nel 1978, la composizione della famiglia era molto diversa perché mancavano questi più giovani. E ne indica l’ossatura nelle persone di “Nino, Cesare, Manuele, Vito PALAZZOLO, un altro Salv… un altro PALAZZOLO che abita nel corso a Cinisi”, alludendo, per quest’ultimo, al suo omonimo, Salvatore PALAZZOLO inteso Turidazzu che effettivamente risulta abitare in Corso Umberto a Cinisi. (Per i riferimenti alla lunga militanza e ai gradi di Vito PALAZZOLO si rinvia a quanto già richiamato in precedenza).
Il collaborante ha quindi ricordato le parole con cui Gaetano BADALAMENTI usava spronare i suoi, eccitandone l’orgoglio e il coraggio e accreditandosi come il vero e unico legittimo rappresentante della famiglia di Cinisi: “… lui non si sentiva messo fuori famiglia, perché lui diceva quelli messi fuori famiglia sono loro, i corleonesi e chi ci va dietro, io non mi sento fuori famiglia, mi sento… chi ha fiducia in me… chi ha fiducia in me mi segue in questa cosa, sapete che è una barca da prendere e remarla molto male. Chi ha coraggio mi segua, io sono il ‘rappresentante’, quello che comanda, il vice rappresentante è Vito PALAZZOLO e tutti gli altri vengono attorno…”.
La sua affiliazione fu caldeggiata dallo stesso Tano BADALAMENTI, che aveva bisogno delle sue mani, cioè della sua capacità di sparare (anche se ancora non aveva ucciso nessuno, aveva già partecipato, insieme a Giovan Battista BADALAMENTI e a Benedetto STABILE, della famiglia di Alcamo, subito dopo la sua scarcerazione, ad un tentativo di agguato ad una persona ad Alcamo, su mandato di Filippo RIMI e Tano BADALAMENTI): e ciò in vista dello scontro da ingaggiare con i corleonesi per riconquistare il controllo del suo territorio.
Ha confermato che dopo la sua affiliazione ha partecipato a tutte le attività illecite della cosca; ha personalmente commesso due omicidi e, fino a poco prima dell’arresto di Gaetano BADALAMENTI, era divenuto in pratica l’uomo di punta del gruppo di fuoco incaricato di dare corso ai piani di riscossa contro i corleonesi, che infatti lo cercavano per ammazzarlo, “perché sapevano che ero l’uomo di punta per sparare le persone”. E ciò anche in forza delle informazioni loro passate da Francesco DI TRAPANI che era costantemente informato dei movimenti della cosca grazie alle incaute confidenze del genero, Leonardo RIMI, che si fidava di lui (“… Leonardo RIMI che gli dice a suo suocero? Salvatore si è messo in famiglia, Salvatore tiene le armi ammucchiate, Salvatore u kalasnikov, Salvatore sparao a MONACÒ, Salvatore sparau a MAZZOLA”).
Ha spiegato poi la sua reticenza ad ammettere il suo personale coinvolgimento in traffici di droga (per esempio si protesta ancora innocente degli episodi di spaccio per i quali fu condannato dal Tribunale di Firenze) con il fatto che egli ha commerciato la droga solo per campare; e comunque “le grandi cose non sono mai riuscito a farle, perché le stavamo organizzando prima dell’arresto mio”, alludendo all’acquisto di un’ingente partita di cocaina (circa 800 chili) che gli era stato prospettato da Vito BADALAMENTI. Questi avrebbe dovuto curare gli interessi della cosca nel settore; e in effetti tirava le fila di grossi traffici internazionali, insieme al fratello Leonardo, ma di fatto ne escludeva gli altri affiliati (Sul punto si rinvia alle dichiarazioni rese al maxi-quater); e a lui di quel grosso affare non arrivò neppure una lira: neanche il necessario per pagare le spese legali. (Se ne lamentò anche con Vito PALAZZOLO, che fu evasivo e lo invitò a prendere contatto con Vito BADALAMENTI a Milano, dicendogli “io tante cose non le so”; e lo invitò a recarsi dal SAPUTO per farsi dare una pistola per sua sicurezza).
E anche questo comportamento, insieme alle negative impressioni riportate dai suoi colloqui con Vito PALAZZOLO e con SAPUTO Domenico subito dopo aver terminato di espiare la sua pena, nel luglio del 1993, e ai dissapori che ne seguirono, gli fece capire di essere ormai isolato e abbandonato dai suoi sodali alla mercé dei loro nemici e di chi voleva in particolare la sua morte; con l’effetto di consolidare in lui il proposito che aveva cominciato a nutrire in carcere di cambiare vita, sotto il peso della delusione e della stanchezza per un’esistenza sempre più grama:
“Quando ero in galera ho riflettuto un po’. Quando sono uscito e ho fatto questo incontro con lui e ho fatto un altro incontro con SAPUTO Domenico, anche uno membro della nostra ‘famiglia’, allora a quel punto mi sono staccato da loro e me ne sono andato… per quello che loro mi hanno detto e per quello che avevano fatto. Ho detto qui le cose si stanno mettendo male, adesso comincio a essere di nuovo latitante, domani mattina dovevo cominciare diciamo… domani mattina diciamo… x domani a sparare di nuovo a qualcuno che a me… a me non mi ha fatto niente, io non ho fatto niente. Ero un latitante di nuovo non per la giustizia ma bensì per le persone che mi cercavano per ammazzarmi. Mi incontro con Vito PALAZZOLO a casa sua, insieme c’è mio cognato Vito BADALAMENTI, era verso l’una di giorno il 24… il 25 luglio del ’93. Sì, il 25 luglio del ’93,a quel punto mi vado a incontrare pure con Domenico SAPUTO a casa sua a Cinisi, mi ci incontro per ben due volte con questo Domenico SAPUTO. Allora sono andato via di là e me ne sono andato a collaborare, sono andato al Commissariato di Partinico ho detto che voglio collaborare, ho qualcosa da dire”.
Soprattutto, non lo avevano convinto e anzi l’avevano insospettito i bellicosi propositi di riscossa esternatigli da PALAZZOLO Vito e dal capo-decina Natale BADALAMENTI con cui pure si incontrò e che, al pari del PALAZZOLO, gli disse “finalmente sei uscito, ora cominciamo di nuovo a sparare”. Non capiva perché avessero aspettato lui per ricominciare a sparare; e obbiettò loro che non avevano mezzi e forze sufficienti. Quando poi, seguendo il consiglio del PALAZZOLO, si recò dal SAPUTO per farsi dare una pistola, questi gli voleva rifilare una specie di ferrovecchio, che lui non accettò, dolendosene poi con il suo vice rappresentante. E in effetti, essi ricominciarono a sparare, ma lo fecero a sua insaputa, ammazzando un certo Tano u Uappu, che già dieci anni prima lui avrebbe dovuto eliminare su mandato di Gaetano BADALAMENTI, (non c’era riuscito dopo diversi vani appostamenti in campagna per non colpire i genitori). Ma la notizia dell’omicidio lui l’apprese dal telegiornale, e quando ne chiese conto e ragione ai suoi sodali, gli furono date spiegazioni evasive:
“A questo punto mi domando e dico ma come sono uscito ieri di galera, l’incontro, non mi dicono niente che stanno sparando Tano u Vappu e non mi avvisano? Mi metto sulla macchina e vado subito da… da… da… Domenico SAPUTO, ci ho detto ma che cosa state combinando? Dice tu non ti immischiare in queste cose, perché è una cosa che ho voluto fare io, perché non è giusto che lui doveva sparare prima a me, perché andava dicendo a Cinisi che mi doveva sparare in… ma scusa, ci ho detto, ma tu sai che sono uscito io, adesso questi sanno che sono uscito, dice, è lui che sta sparando. Dice vattene, non ti preoccupare, non ti interessare di queste cose. Vado da Vito PALAZZOLO, ci dico a Vito PALAZZOLO ma che state combinando, ci ho detto ora me ne vado, mi vado a perdere. Dice non ti preoccupare, si sistemerà tutto, non ti preoccupare non succede niente. A quel punto ho detto domani mattina ammazzano a me, perché io ero uno di quelli che dicevo no a questa cosa, uno di quelli ci ho detto prima aspettate che io esco e poi fate l’omicidio, ma perché non l’avessivo fatto in questi tre anni che io sono in galera?”.
La cosa lo fece riflettere anche sul discorso che aveva lasciato in sospeso dell’affare della vendita di 800 chili di cocaina, del cui ricavato non gli era stato dato nulla; e si convinse che se avesse chiesto spiegazioni di quel comportamento, come era suo diritto – perché un uomo che fa parte di una “famiglia” non si può tenere segreto una cosa che si fa, non si può dire che questa cosa non si deve fare, prima si deve aggiornare la “famiglia” – avrebbe fatto una brutta fine: “A questo punto ho detto domani quando chiedo spiegazioni, domani sera forse mi mettono alla corda a me. E allora a quel punto me ne sono andato in Questura”.
Passando alle dichiarazioni inerenti alla vicenda che ci occupa, il collaborante ha ribadito che la fonte delle sue conoscenze sui retroscena dell’omicidio IMPASTATO è Vito PALAZZOLO, che gliene parlò diversi anni dopo il fatto.
La notizia della tragica morte di Peppino IMPASTATO lui l’aveva appresa mentre era detenuto a Palermo. Era stato arrestato il 26 novembre 1976; e per quel che ricorda, il fatto avvenne nel ’77, poco dopo il suo arresto (“Mi sembra che io…è successo un mese dopo che ero arrestato”).
Si ricorda di avere letto, in un articolo sul giornale L’Ora, che Giuseppe IIMPASTATO era stato ammazzato, “dilaniato dai treni eccetere, eccetere”; e veniva indicato come indiziato del delitto lo strascinaquacina di Gaetano BADALAMENTI, e cioè Giuseppe FINAZZO: “Era uno che è stato poi ammazzato, uno che gestiva un poco i giardini, dava l’acqua ai limoni di Gaetano BADALAMENTI, gestiva qualcosa di Tano BADALAMENTI diciamo”.
All’epoca, non chiese spiegazioni a nessuno per la morte di IMPASTATO: non poteva permetterselo perché non era ancora entrato in Cosa Nostra. Le rivelazioni di Vito PALAZZOLO risalgono invece al periodo della sua latitanza, che durò sei anni, dal 1985 – quando la procura di Firenze spicco contro di lui un mandato di cattura – al ’91, quando fu arrestato a Latina.
Ha trascorso questo periodo nascondendosi in varie località del Nord Italia ma anche all’estero (Francia e Spagna); e spesso si è trovato insieme a Vito PALAZZOLO. Accadeva allora che “parlando del più e del meno delle cose passate si chiedeva qualcosa così sa, non è che si poteva chiedere tanto. Ma si chiedeva quello perché si è allontanato, quello perché così, perché non… come mai si è allontanato Tano BADALAMENTI. E allora devo dire… mi è venuta spontanea ci ho detto ma… Giuseppe IMPASTATO come mai sto fatto è successo? Dice come mai, dice, lui non l’ha voluto capire con i buoni di fare manifestazioni in piazza, di fare manifestazioni dietro la porta, faceva venire i colleghi del suo movimento, non so che tipo di movimento, da Palermo e altri paesi. A decine, decine di persone in piazza, manifesti contro Tano BADALAMENTI, manifestazioni contro Ciccio DI TRAPANI. Davanti la porta di Tano BADALAMENTI al corso. Facendo più volte queste cose ha cominciato un po’ a disturbare la… la… la presenza di Tano BADALAMENTI, perché lui parlava mafioso, droga, appalti aeroporti, dice che diceva… gli slogan erano questi. Essendo lui avvisato più volte del padre di Peppe IMPASTATO, nel senso di farlo smettere, più volte è stato richiamato. Credo che lui aveva una radio privata, non so se c’era a quei tempi… credo una radio privata dove anche parlava in questa casa, questo radio di Tano BADALAMENTI. La mattina quando facevano dei cosi la radio, dei comizi sulla radio. A quel punto è stato richiamato più volte dal padre e il padre non arrivò a far fare… mettere fine al figlio di fare questa cosa. E allora Vito PALAZZOLO mi disse che è stato deciso che si doveva fare ed è stato fatto. Ci ho detto… allora dice purtroppo Tanino ha deciso di farlo e l’abbiamo dovuto farlo. Ci ha detto dice sì, però, dice, mi ha detto anche mi raccomando sta cosa di tenerla stretta, di non manifestarla, perché non è giusto parlarne”.
Fu così che apprese che il mandante era stato Gaetano BADALAMENTI; ma il delitto era stato deciso da tutta la vecchia famiglia di Cinisi. (cfr. pag. 46 del verbale di trascrizione in atti).
Rispondendo ad una specifica domanda di uno dei difensori di parte civile, il collaborante ha poi ribadito che, secondo quanto gli disse il PALAZZOLO Vito, l’ordine fu dato dal BADALAMENTI in quanto rappresentante della famiglia di Cinisi, ma la decisione era ascrivibile all’intera famiglia: “Si è riunita la famiglia per deliberare… perché ogni omicidio si riunisce la famiglia per deliberarlo” (cfr. pag. 128 del verbale di trascrizione).
PALAZZOLO Vito gli fece intendere chiaramente che la decisione fu molto sofferta, ma non restò altro da fare (“Mi disse che è stato fatto, si doveva fare”), poiché la campagna di accuse e slogans contro Tano BADALAMENTI e la famiglia mafiosa di Cinisi si era fatta sempre più martellante, con attacchi sempre più frequenti: “prima ogni 15 giorni, dopo ogni mese, poi ogni settimana, poi due volte a settimana queste manifestazioni…” (cfr. pag. 74).
D’altra parte, lo stesso PALAZZOLO gli raccomandò di non fare parola con nessuno di quella vicenda. E il fatto che l’omicidio fosse stato deciso dalla famiglia di Cinisi doveva restare un segreto anche tra gli stessi affiliati: PALAZZOLO Vito cioè gli fece espresso divieto di parlarne anche tra di loro (cfr. pag. 127).
Il collaborante ricorda anche che quando (Vito PALAZZOLO) gliene parlò, aveva le lacrime agli occhi, pensando al padre di Peppino, che, come gli rivelò con suo grande stupore, era un uomo d’onore della famiglia di Tano BADALAMENTI: “Era una brava persona, un suo vecchio amico, un suo compagno di ‘famiglia’ ma una brava persona e gli… e mi diceva non se lo meritava questo. Perché aveva sto figlio, ha pianto tanto per questo figlio” (cfr. pag. 131).
Lui stesso, del resto, rimase perplesso e agghiacciato al pensiero che la famiglia di Cinisi avesse potuto decretare la morte del figlio di un proprio affiliato; ma non potè chiedere più di tanto, per discrezione. PALAZZOLO gli confidò anche che il padre di IMPASTATO fu allontanato per non dargli questo dispiacere: in pratica, l’omicidio fu fatto mentre lui era andato in America. Luigi IMPASTATO infatti era addolorato e imbarazzato “perché nei confronti di Tano BADALAMENTI praticamente faceva una brutta figura, non gli stava bene che il figlio faceva queste cose”. Diceva di lui il PALAZZOLO Vito che “poveraccio, si prendeva collera, aveva stu figlio sapeva che suo figlio faceva ste cose, sapeva che sta cosa era una cosa che non poteva esistere, essendo un ‘uomo d’onore’ non può avere un figlio in casa che sia uno che ha fatto multe o una nonna… mi scusi il termine, una nonna che nel passato avrebbe sbagliato diciamo di fare… o una mamma che avrebbe sbagliato, non potrebbe fare mai parte a ‘cosa nostra’. E allora avendo lui questo figlio coinvolto in questa… in questa religione, in questa cosa che lui faceva ste manifestazioni, sti slogan contro Tano BADALAMENTI e contro la ‘famiglia’ di Cinisi per lui non era una cosa molto piacevole, è normale. È intervenuto più volte per farlo smettere e non ce l’ha fatta. Prendeva dei dispiaceri per questo, allora mi sembra… ricordo che avrebbero cercato di ammazzare il figlio mentre lui non era a Cinisi”.
Gli è stato contestato che nei precedenti interrogatori aveva dichiarato che il viaggio in America del padre di Peppino era avvenuto prima dell’omicidio (ovvero che questo era stato consumato dopo che Luigi IMPASTATO era tornato dal viaggio). Ma il collaboratore ha risposto di non ricordare l’esatta sequenza dei fatti, e cioè se Luigi IMPASTATO fosse ancora in America, o fosse già tornato dal viaggio quando Peppino fu assassinato. D’altra parte lui di questo viaggio non sapeva nulla perché anche questa fu una notizia appresa da Vito PALAZZOLO. E comunque sa “che il padre doveva essere o è stato allontanato perché dovevano fare l’omicidio, per non ci dare questo dispiacere al padre, di essere anche il padre a Cinisi”. (cfr. pag. 75). Ribadisce però di non essere sicuro “se il padre già era ritornato o non era ritornato. Però questa cosa si potrebbe riscontrare se il padre era in America in quella data”.
A specifica domanda dell’avv. Gullo, il collaborante ha risposto di non poter sapere se il padre di IMPASTATO fosse consapevole del fatto che dovevano uccidergli il figlio; però è certo che “il padre sapeva quello che faceva il figlio”. E sa, perché così gli disse PALAZZOLO Vito, che “lui doveva fare o ha fatto questo viaggio perché dovevano ammazzare il figlio senza la sua presenza. Però non so, non ricordo se già lui… il padre era là o già il padre era ritornato”.
Sempre a domanda dello stesso difensore, il collaborante ha ribadito di essere stato lui a tirare fuori il discorso della morte di IMPASTATO, mentre “si parlava un po’ di qualche cosa vecchia…”. E allora Vito PALAZZOLO “dice non lo sai che faceva slogan manifestazioni contro Tano e cose. È stato richiamato più volte, così ha voluto. Dice praticamente l’unica cosa che è dispiaciuto è che il padre era un amico nostro” (cfr. pag. 178).
Quanto alle modalità esecutive del delitto, Vito PALAZZOLO gli disse ben poco: “Mi disse che sono andato a prenderlo con la macchina, l’hanno portato così amichevolmente che ci dovevano parlare e mi sembra se non ricordo c’è andato… non ricordo preciso, mi ha fatto… Nino BADALAMENTI, Francesco DI TRAPANI o Manuele. Insomma la vecchia ‘amiglia’, qualcuno di loro è andato a prenderlo in due, l’hanno portato via”. D’altra parte, lui non poteva chiedere ulteriori particolari. Così non sa se il povero IMPASTATO fu ucciso nello stesso luogo in cui poi vennero trovati i resti del cadavere; né come, ovvero con che mezzo fu ucciso (cfr. pag. 73-74). Conferma comunque che, secondo quanto gli riferì il PALAZZOLO, l’IMPASTATO fu prelevato all’uscita dalla sede di Radio Aut, che si trova a Terrasini.
In ordine agli esecutori materiali, gli è stato contestato che nei precedenti interrogatori aveva fatto anche il nome di PALAZZOLO Salvatore, inteso Turiddazzu: e lui lo conferma, aggiungendo di averlo conosciuto personalmente. Lo incontrava infatti presso la casa di campagna di Don Tano, dove aveva una stalla; anche Turiddazzu aveva le mucche. È un po’ più grande di lui (come età) e potrebbe riconoscerlo in fotografia e indicarne l’abitazione a Cinisi. Ma non ricorda se già la sua foto gli sia stata posta in visione. Ha precisato comunque di avere appreso che era un uomo d’onore della famiglia di Cinisi solo dopo essere stato formalmente affiliato. Seppe quindi che era l’uomo di fiducia di Tano BADALAMENTI soprattutto per fatti di sangue: “era un uomo aggressivo quando doveva fare una cosa, diciamo deciso, sicuro” (cfr. pagg. 78-79).
Il racconto del PALAZZOLO fu fatto mentre si trovavano insieme in un villino in campagna, tra Cinisi e Terrasini. Il collaborante si è soffermato ripetutamente sulle circostanze di tempo e di luogo dell’episodio, sforzandosi di circoscriverne la collocazione temporale rispetto alla più generica indicazione fornita nei precedenti interrogatori (dopo l’arresto di Gaetano BADALAMENTI) e anche rispetto alla prima sommaria indicazione fornita in questa sede (tra l’86 e l’88). Ma non ha saputo precisare l’anno, che oscillerebbe tra l’87 o l’88 o forse anche l’89, ma comunque “sotto gli anni ’90, prima degli anni ’90”; e quindi, un’epoca compresa tra il 1986 e il 1989.
Ha però fornito dei riferimenti temporali indiretti che dovrebbero consentire di circoscrivere ulteriormente la collocazione nel tempo dell’episodio. Infatti, ha detto che, all’epoca, entrambi i figli di Gaetano BADALAMENTI – e dunque anche Vito – erano liberi, in giro per il mondo. Ora il collaboratore sa benissimo, perché lo ha ricordato più volte e in più sedi processuali, che Vito BADALAMENTI fu arrestato insieme al padre Gaetano nell’aprile del 1984 e, nel processo maxi-quater, ha precisato che Vito fu rimesso in libertà circa tre o quattro anni dopo l’arresto.
Anche qui ha ricordato che gli affiliati superstiti del clan BADALAMENTI, messa da parte qualunque velleità di riscossa armata, avevano però cercato di riorganizzarsi con il traffico della droga “tramite i figli di Gaetano BADALAMENTI, tramite cocaina, che loro dovevano importare cocaina dal Sud America e venderla a noi per sopravvivere, per campare”. E ha poi precisato che ciò avvenne l’anno in cui Vito BADALAMENTI venne scarcerato: “Quando Vito è stato scarcerato e mandato dalla… dall’America in Spagna, ero io, suo figlio e suo fratello Leonardo ad aspettarlo lì a Madrid”. Ed ha aggiunto che “Subito dopo 3-4 mesi ci siamo… ci siamo riuniti per cercare… di cominciare a organizzarci”.
E poiché dalle informazioni acquisite (v. Nota datata 4 gennaio 2001 del Dipartimento della Giustizia Statunitense in risposta alla richiesta di rogatoria internazionale avanzata da questa Corte il 20.10.2000) risulta che Vito BADALAMENTI fu rilasciato in data 19.09.1988, dopo essere stato detenuto nelle carceri statunitensi (a seguito della sua estradizione dalla Spagna dove era stato arrestato insieme al padre tra il 7 e l’8 aprile 1984), l’episodio in questione si collocherebbe in epoca compresa tra la data predetta e il 1989.
Il collaborante ha anche detto che non fu quello l’unico incontro che ebbe a Cinisi con Vito PALAZZOLO durante la sua latitanza. Al contrario, ce ne furono altri. Una volta dormì a casa sua, per due o tre sere. In un’altra occasione, I Carabinieri lo avevano cercato a casa di sua madre e lui aveva dovuto fuggire attraverso i tetti, rifugiandosi proprio a casa del PALAZZOLO: “Sono stato una sera lì a dormire con lui e l’indomani sera me ne sono andato”.
In quel periodo si spostava continuamente e anche quando si trovava a Cinisi, vi restava solo qualche giorno: “Due giorni, tre giorni, cinque, perché mi cercavano, venivano sempre i Carabinieri”.
Lo descrive in effetti come un periodo assai duro per tutti loro e per lui in particolare, perché avevano bisogno di tutto: denaro, documenti, luoghi sicuri in cui nascondersi. Inoltre, non potevano avere contatti con nessuno “perché ci cercavano per ammazzarci” e stavano “come i topi nascosti”, con il timore di essere scoperti, al punto che la sera “stavamo a casa con la luce spenta, sempre con la paura che si potrebbe vedere u spiu di luce, che di un passante potrebbe dire lì c’è… possono essere latitanti” (cfr. pag. 134).
Senza dubbio, l’arresto di Tano BADALAMENTI aveva inferto un duro colpo alla cosca: “non siamo stati più in condizioni di poterci né finanziare né mantenere e neanche di fare nessuna azione criminale”. E infatti non spararono più a nessuno e “ci siamo isolati tutti. Ognuno cercava di sopravvivere e di potersi campare come meglio poteva”. Tuttavia la struttura associativa e anche le gerarchie interne alla cosca restavano immutate: essi costituivano pur sempre una famiglia retta da un rappresentante. E così Vito PALAZZOLO divenne più che mai per lui un punto di riferimento (cfr. pag. 54: “A quel punto doveva dirmi lui quello che dovevo fare o meno”). In quel momento era lui il suo rappresentante e a lui doveva dare conto di ogni suo movimento: “Perché nessuno poteva fare nulla di testa sua, perché avendo un vice capo e il capo arrestato, quello prende le stese capacità, le stesse doti che ci ha il rappresentante”. (Cfr. pagg. 147-148).
Gli sembra di ricordare che, all’epoca, lo stesso non fosse latitante e infatti si era spesso rifugiato a casa sua.
Su questo punto gli è stato contestato che in precedenti interrogatori, e proprio con riferimento alle confidenze di Vito PALAZZOLO sull’omicidio IMPASTATO, aveva dichiarato che in quel frangente trascorrevano la latitanza insieme. In un primo momento, il collaboratore sembra confermare che Vito PALAZZOLO fu, per qualche tempo, latitante, forse per una espiazione di pena; e allora, “quando lui è stato latitante e io abbiamo fatto della latitanza insieme”. Però non è certo di quella latitanza, che comunque si riferisce ad un periodo precedente, perché all’epoca considerata “lui non era latitante”. E l’affermazione contenuta nei verbali dei precedenti interrogatori è un’inesattezza, ovvero è frutto di un’interpretazione inesatta per la data. Il collaborante ha quindi confermato che – come aveva fatto già nel corso della sua deposizione al maxi-quater – egli ha usato il termine latitanza come sinonimo di “darsi alla macchia”, alludendo alla condizione comune un po’ a tutti gli affiliati al clan BADALAMENTI, costretti ad allontanarsi da Cinisi e a nascondersi per sfuggire qualcuno alla Polizia ma i più ai corleonesi che davano loro la caccia. E ciò ancor più dopo l’arresto di Tano BADALAMENTI:
“Quando è iniziata questa guerra è successo che siamo andati via per motivi… perché non eramo più… Tano BADALAMENTI non eramo più in condizioni di difenderci, noi siamo stati sempre nascosti. Chi veniva a Cinisi era sempre nascosto, camminava dentro la macchina corcato di notte o camminava dentro il cofano della macchina, era sempre nascosto. Noi siamo stati sempre nascosti da quando è iniziata la guerra dall’81-82 sempre. Perché eramo… eramo… cercati come i leoni che ci volevano ammazzare, che ci cercavano tutti i paesi della Sicilia, tutti quelli che erano correnti corleonesi ci cercavano a tutti. Di fatti Tano BADALAMENTI fa sapere che era meglio allontanarci tutti, perché lui pensava che ci macellava Totò RIINA a tutti. Andate, andatevi a perdere, se io non sarò scarcerato perché vi ammazzeranno tutti. Perché non ce la fate, non potete mai resistere a questa forza dei corleonesi. Perché sapeva che noi non avevamo strutture, non avevamo più nulla, avevamo solo la presenza e basta”.
Soggiunge il collaborante che “a quel punto noi eravamo sempre nascosti” e in questo senso deve intendersi il suo riferimento allo stato di latitanza: “Questo è il mio riferimento ‘eravamo latitanti’, siamo… perché noi eravamo latitanti perché nessuno poteva tornare. Se tornava, tornava nascosto”. (Cfr. pagg. 109-110).
Nel villino in campagna, che fu teatro delle rivelazioni di PALAZZOLO Vito sulla vicenda IMPASTATO, il collaborante si trattenne per quattro giorni e quattro notti: non sa a chi appartenesse, ma era stato Vito PALAZZOLO a procurarlo.
Ha quindi illustrato in modo dettagliato l’antefatto, ossia le ragioni per le quali si trovò insieme a Vito PALAZZOLO in quel frangente.
Era stato Benedetto STABILE, uomo d’onore della famiglia di Alcamo, a chiedergli di farlo incontrare con il suo vice rappresentante nonché, tramite lo stesso, con il reggente della famiglia di Alcamo per un chiarimento sul da farsi. Lo STABILE, appena scarcerato, era andato a trovare il PALAZZOLO Salvatore a Latina e gli aveva esternato tutto il suo disagio per la scarsa solidarietà da parte della loro cosca e per il loro modo di gestire l’interesse comune. Aggiunse anche che gli avrebbe fatto piacere che all’incontro partecipasse anche lui:
“Benedetto STABILE mi disse che aveva intenzione di parlare con il suo ‘rappresentante’ e con il mio ‘rappresentante’ perché non gli stava più bene il modo di loro, come gestire sta rimanenza della ‘famiglia’, che eravamo tutti morti di fame senza più casa, senza appoggi, non si sape… non si sapeva se… che pesci prendere. Ci cercavano per ammazzarci, ci cercavano… senza lavoro, ci cercavano la giustizia. Dice a questo punto voglio incontrare a tutti e due i ‘rappresentanti’ li voglio dire quello che devo fare, se sono in condizioni di aiutarmi finanziariamente oppure niente io abbandono sta cosa, me ne vado e domani non mi devono dire che io ho abbandonato per mio motivo personale, ho abbandonato bensì perché non sono stato più gestito. Allora a quel punto dice mi fa piacere che tu sei presente a questo fatto, perché dice voglio che tu assisti se è giusto quello che loro stanno facendo o se è giusto che Tano BADALAMENTI non ci fa avere i soldi per noi campare. Ci ho detto Va bene allora scendiamo insieme e vediamo di che cosa si tratta, quello che dicono. A quel punto io scendo, da Latina prendo il treno e scendo. Scendo a Termini Imerese con il treno, mi vengono a prendere con… con una macchina e mi portano già in questa… in questa abitazione. Prima vado da mia mamma, vado a posare da mia mamma la sera. Da mia mamma gli dico se sapeva, se ci aveva visto Vito PALAZZOLO lì, dice credo che è a casa, perché sta un po’ più sotto come le dissi. La sera io avvicinai a piedi da mia mamma, l’avvicinai a piedi rischiando, perché ho rischiato tanto, non avevo però altra alternativa, non avevo nessun tipo di appoggio. Ho rischiato quella sera, vado da lui ci ho detto io sono qua e ce ne dobbiamo andare perché non posso rimanere da mia mamma. Se qualcuno mi vede mi vengono ad arrestare a casa. Di fatti lui mi ha detto ora ci facciamo accompagnare che ci ho la chiave di una casa e ce ne andiamo. Ci hanno preso con la macchina e ci hanno accompagnato lì a questa… questa località in questa casa. L’indomani, dopo… dopo due giorni che io avevo preso l’appuntamento ben preciso con… con Benedetto STABILE, arriva Benedetto STABILE. Benedetto STABILE arriva al… alla Stazione di Cinisi, alla Stazione di Cinisi è arrivato Benedetto STABILE di sera, non mi ricordo se erano le 9, che cosa era… dovevano essere quest’ora. Ho rischiato ad andare a prendere con una macchina Benedetto STABILE e l’ho portato lì sul posto dove no… dove noi eravamo. La stessa sera verso le 11 e mezza è arrivato anche Filippo RIMI; hanno accompagnato anche a Filippo RIMI. E allora quella sera lì si è parlato del più e del meno, perché già eravamo un po’ stanchi, per cena abbiamo mangiato qualcosa. L’indomani di giorno siamo venuti alla discussione di quello che Benedetto STABILE aveva da dire a loro due. Chiudendo i discorsi… si è chiuso il discorso che Filippo RIMI gli ha detto io non ho soldi, non ci ho né soldi nascosti né qui, né in Germania né in Svizzera, a nessuna parte. Io non posso fare niente per potervi finanziare a te e ai tuoi cognati. Quello che volete fare, vi sentite di fare fate. Allora lui ci ha detto lei si offende che io mi vado a buscare u pane pi fatti miei, dice no, per carità, tu sei libero di fare quello che vuoi. Dice Va bene. L’indomani… l’indomani sera poi dopo che si è stata sciolta questa cosa Filippo RIMI si è fatto venire a prendere con una macchina, un suo amico, un suo ragazzo, non so chi era, che lo ha venuto a prendere una macchina e se l’ha… e se l’ha riportato di nuovo. Non lo so se l’ha portato ad Alcamo, se l’ha portato a Cinisi, se l’ha portato a Palermo. di lì se ne è andato Filippo RIMI. L’indomani sera parte anche Benedetto STABILE e io rimango con il mio vice ‘rappresentante’, rimaniamo altri due giorni lì io e lui e nell’attesa di organizzare la mia partenza per andarmene. Ero senza un soldo, ero senza niente e ha voluto il tempo di procurarmi un milione per io andarmene su. A quel punto vattene, ti do sti soldi, ora vediamo cosa farà sapere Vito e Leo. Leo e Vito sarebbero i figli di Tano BADALAMENTI, che loro erano in giro per il mondo liberi. Siccome lui era l’uomo che teneva i contatti con questi due figli di Tano BADALAMENTI, dice vediamo quello che loro possono fare o te ne vai all’estero con qualcuno di loro, vediamo dice qualcosa deve nascere, hai un po’ di pazienza. Praticamente il cerchio andava sempre stringendo attorno a me che ero ricercato dalle forze dell’ordine, facevano sempre più forza Carabinieri, Polizia andavano sempre a cercarmi da mia mamma, dalle mie sorelle, da tutte le parti giù. Allora a quel punto non avendo altro da fare me ne sono andato di nuovo a Latina. Stando in quelli due giorni là si è parlato del più e del meno e si parlava di questo episodio. Si è parlato un po’ delle cose passate, un po’… qualche domanda. Lì mi ha detto questo fatto, a Cinisi in questa casa dove… dove era successo questo fatto”.
Al collaborante è stato chiesto di spiegare per quale ragione sia stato così prodigo di particolari sulle rivelazioni fattegli da Vito PALAZZOLO solo a partire dall’interrogatorio del 18 novembre 1994, mentre nel suo primo interrogatorio aveva dichiarato di saperne poco o nulla. E lui ha ammesso che la versione resa nell’interrogatorio del 18 settembre ’93, che fu anche il suo primo interrogatorio da collaborante, non rifletteva tutte le sue conoscenze sull’argomento. Era, per così dire, una versione di comodo. E attribuisce questa iniziale reticenza ad un momento di confusione e al fatto che di riservava di approfondire in seguito l’argomento, quando si fosse ricordato di “quelle poche parole che mi sono state dette”.
Poi aggiunge che quella confusione era determinata in parte da un problema di memoria, in parte da uno stato di turbamento emotivo: aveva parlato di tante cose, in quel primo interrogatorio, e quando venne la volta di riferire sull’omicidio IMPASTATO “… devo dire la verità, ero indeciso di parlarne di questo Presidente, ero indeciso”.
Ma quando gli è stato chiesto di essere più esplicito sulle ragioni delle sue iniziali remore a parlare dell’omicidio IMPASTATO, il collaboratore, piuttosto significativamente, ha ripercorso in estrema sintesi il sofferto iter logico e anche psicologico che lo ha condotto solo gradualmente a determinarsi ad una collaborazione piena e senza più riserve di alcun genere:
“Poi ho detto ma io devo dire tutto, se ho preso questa strada devo dire le virgole, perché è giusto dire le virgole. Perché sta ‘cosa nostra’ è stata la ‘cosa nostra’ che mi ha rovinato totalmente, non mi ha dato niente, mi ha dato solo infelicità. Avere persone che mi cercano per ammazzarmi senza che io mai avevo fatto soldi, miliardi, niente. Sono stato messo in ‘famiglia’ per andare a sparare, per fare bisogno e fare un bene a qualcuno che ne ha avuto di bisogno, perché io non avevo di bisogno, perché io non ero nessuno. Non ero ‘rappresentante’, non ero ‘uomo d’onore’, non avevo fatto droga, non avevo fatto niente. A quel punto ho detto io devo dire tutto quello che so, perché a me mi hanno solo rovinato e basta. Mi hanno solo rovinato, ho fatto la latitanza, mi ho fatto la detenzione, mi ho fatto al tutto. Al momento… mi hanno abbandonato da tutte le parti, al momento in cui ho fatto il latitante per la giustizia e il latitante per… per le persone che mi dovevano amma… mi cercavano tutti i paesi per ammazzarmi Presidente, Partinico, Balestrate, Alcamo, Borgetto, tutti mi cercavano, perché? per fare un favore a Tano BADALAMENTI, perché io… mio padre ha sempre zappato. Allora a quel punto ho deciso di dire tutto, come stavano vero le cose”. (Cfr. pagg. 84-85).
Con molta franchezza il collaboratore ha anche aggiunto che quella sorta di riserva mentale era motivata pure da un calcolo utilitaristico: riteneva cioè che quello fosse ormai un fatto archiviato e senza più alcun interesse per gli Inquirenti, nel senso che il processo non sarebbe stato riaperto; e che non valesse la pena di sforzarsi per mettere a fuoco i suoi ricordi, correndo il rischio di non essere creduto (“chissà mi diranno che io sté cose chissà come le dico, ma come mai?”).
Altro punto che ha formato oggetto di specifica contestazione, in relazione alle dichiarazioni rese in fase di indagine preliminare, riguarda il presunto coinvolgimento di Giuseppe FINAZZO nella vicenda IMPASTATO. In questa sede il collaborante ha dichiarato di avere appreso da articoli di stampa dell’epoca che il FINAZZO era indiziato dell’omicidio. Stando al tenore delle dichiarazioni rese in occasione del suo primo interrogatorio, invece, egli avrebbe appreso la notizia da fonte interna alla sua cosca e cioè da quei “discorsi in famiglia” di cui ha parlato appunto nell’interrogatorio del 18.09.93.
Ma la risposta fornita alla Corte dal collaborante tradisce, come si vedrà, un evidente fraintendimento del senso della contestazione. È opportuno sul punto riportare integralmente il passo dell’esame dibattimentale, comprensivo delle domande poste dalla Corte a chiarimento:
“PRESIDENTE:
Va bene, PALAZZOLO l’avvocato… la difesa dell’imputato rileva questo, che lei, come si legge nel verbale del 18 settembre 93, disse che… della responsabilità di FINAZZO, del coinvolgimento di FINAZZO lei aveva saputo dai discorsi che si facevano in ‘famiglia’, mentre oggi sta dicendo… mentre oggi ha detto più di una volta che la… il coinvolgimento di FINAZZO fu indotto, fu suggerito, fu propiziato da… dagli articoli di giornale che lei in quel tempo lesse. C’è contraddizione secondo lei fra le due cose e se c’è come la spiega?
PALAZZOLO SALVATORE:
No, contraddizione io non vedo, perché quel periodo io ho visto, ho letto questo articolo e ho detto guarda qua che cosa. Dopodiché quando poi ho saputo che le cose non erano così, bensì le cose erano diverse come mi ha detto Vito PALAZZOLO. A quel punto ho detto come stavano le cose. Quelle erano un pochettino cose mie… supposizioni, un po’ le cose che avevo letto sul giornale, perché ancora non avevo gli occhi aperti e non potevo sapere se il FINAZZO poteva essere veramente un mafioso. Invece dopo ho saputo le cose come stavano”.
Infine, a proposito del vincolo di parentela con Vito PALAZZOLO, di cui aveva fatto cenno nell’interrogatorio del 23.02.95 (“Io sono lontano parente di PALAZZOLO Vito…”), il collaborante in questa sede lo ha negato, ma in termini che non contrastano a parere della Corte con il tenore (ambiguo e generico) delle precedenti dichiarazioni. Più esattamente, ha dichiarato che lui e il PALAZZOLO Vito non sono parenti, se non per “un’eredità molto lontana”, che comunque non sa ricostruire. Ma è certo che non c’era una parentela stretta: “non ci sono cugini in primo grado, non siamo zii in primo grado, nipoti… niente”. (Cfr. pag. 71).
6.3. Valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni di PALAZZOLO Salvatore
1. Nel sottoporre al necessario vaglio critico le rivelazioni di PALAZZOLO Salvatore sul caso IMPASTATO non si può prescindere da una considerazione preliminare. Tali rivelazioni si inseriscono in un contesto narrativo che, in questa sede come nelle precedenti occasioni e sedi processuali in cui il collaboratore è stato esaminato, è denso di riferimenti a fatti vicende e situazioni che hanno formato oggetto di svariati filoni di indagini cui il PALAZZOLO ha saputo offrire un considerevole apporto conoscitivo: un apporto che, talora, si è rivelato addirittura decisivo per far luce su gravissimi delitti rimasti impuniti per anni per esserne ignoti esecutori e mandanti e incerto il movente (v. infra).
In particolare, egli ha ricostruito – non solo e non tanto in questa sede, ma nelle deposizioni rese nel processo a carico di RIINA+7 e nel processo ALFANO+35, nonché in alcuni degli interrogatori di cui ai verbali in atti – con dovizia di dettagli specifici episodi delittuosi e complesse vicende della famiglia mafiosa di Cinisi, denotando una conoscenza sicura di personaggi e avvenimenti cruciali nella storia di questo sodalizio criminale e tanto più preziosa perché proposta da un angolo visuale interno alla stessa cosca mafiosa, sia pure dal lato della fazione perdente, tra quelle che per alcuni anni si contesero il predominio nei territori di Cinisi, Terrasini e Partinico.
E sulle vicende più importanti, come sui retroscena di molti delitti, nei limiti di consapevolezza e di conoscenza specifica consoni alla modesta statura criminale e al ruolo di semplice soldato ricoperto nel corso della sua militanza in Cosa Nostra, le sue dichiarazioni hanno trovato riscontro nelle rivelazioni – per lo più successive – di numerosi collaboratori, appartenenti alle più diverse famiglie mafiose, e ad opposti schieramenti. (Da BUSCETTA a DI CARLO; da CALDERONE a GANCI Calogero da MARINO MANNOIA a ANZELMO Francesco Paolo).
Così PALAZZOLO Salvatore è stato uno dei primi a raccontare e a spiegare che la catena di episodi omicidiari che insanguinarono Cinisi e dintorni a partire dall’assassinio di Nino BADALAMENTI si inquadravano nella faida che opponeva il gruppo ormai egemone dei corleonesi agli affiliati rimasti fedeli a Gaetano BADALAMENTI. E la sua personale testimonianza dei difficili anni vissuti alla macchia, e da esuli costretti a fuggire e a nascondersi per non essere uccisi dai sicari della fazione avversa, ha trovato ampie e ripetute conferme nelle dichiarazioni dei collaboratori (v. supra) che hanno riferito della campagna di sterminio messa in atto dai corleonesi ai danni appunto degli scappati e, in particolare, degli affiliati al clan BADALAMENTI.
Sempre il PALAZZOLO ha raccontato la sequenza degli episodi, i moventi e i retroscena di numerosi fatti di sangue delitti (gli omicidi di Nino BADALAMENTI, di BADALAMENTI Salvatore, figlio di Antonino; di Natale BADALAMENTI e di Agostino BADALAMENTI; di Luigi IMPASTATO; di MUNACÒ Saverio, di PALAZZOLO Giacomo e di MAZZOLA Salvatore; ed anche uno degli attentati a Procopio DI MAGGIO); e ha descritto le diverse fasi e congiunture attraversate dal clan BADALAMENTI: dall’iniziale diaspora, sotto i colpi della prima offensiva scatenata dai corleonesi, al tentativo di riscossa culminato in progetti di stragi poi sfumati ma anche in alcuni omicidi effettivamente consumati (MUNACÒ, MAZZOLA e PALAZZOLO), taluno dei quali in danno di affiliati che sarebbero passati alla fazione avversa (come il MAZZOLA).
Si è soffermato sulla sequela di tradimenti e di defezioni, come pure sulle trame incrociate di reciproche delazioni e tentativi di infiltrazione negli opposti schieramenti, riferendo in particolare, della vicenda della famiglia mafiosa dei D’ANNA di Terrasini; dell’ambiguo ruolo dei DI TRAPANI; dei mandati di morte conferiti a soggetti di spicco della vecchia famiglia mafiosa di Cinisi compresi alcuni cugini di Gaetano BADALAMENTI, per saggiarne l’affidabilità e l’obbedienza al nuovo gruppo egemone. E ha parlato della tragica fine di Nino BADALAMENTI come dell’opportunismo dei suoi fratelli (Manuele in particolare: lo ha ribadito in questa sede dopo aver detto di lui, nel maxi-quater, “mi risulta si sia avvicinato al gruppo dei corleonesi”) e dell’ennesimo tradimento di Francesco DI TRAPANI sfociato nell’uccisione del genero Leonardo RIMI: tutti punti su cui le sue dichiarazioni sono state riscontrate, come si è visto, da quelle di altri collaboratori e segnatamente DI CARLO Francesco.
Ha riferito altresì della capacità di Gaetano BADALAMENTI, ancorché esule e braccato dai corleonesi, di mantenere contatti e relazioni influenti negli ambienti di Cosa Nostra, che gli consentivano di essere perfettamente informato degli ultimi sviluppi (circostanza confermata anche da Tommaso BUSCETTA, oltre che dal DI CARLO); e di ricucire alleanze criminali forte del suo carisma personale ma anche dei collegamenti internazionali con organizzazioni dedite ad affari lucrosi come il traffico di stupefacenti.
A tal proposito, egli ha fatto riferimento (nel maxi-quater) non solo ai traffici di eroina tra l’Italia e gli Stati Uniti, oggetto delle indagini sfociate nel processo “Pizza connection”, ma anche a quelli di cocaina cui erano prevalentemente o esclusivamente dediti gli affiliati rimasti fedeli al BADALAMENTI, attraverso canali aperti con il Sudamerica, meta di frequenti viaggi di Gaetano BADALAMENTI con i figli Vito e Leonardo (come oggettivamente riscontrato dalle indagini di P. G.), unitamente anche a Giovannello GRECO, latitante di spicco di Cosa Nostra che proprio il PALAZZOLO (per primo) ha indicato come fedele alleato del BADALAMENTI nel tentativo di riscossa contro i corleonesi.
E su quei canali di illecito traffico preziose conferme alle sue rivelazioni sono venute da alcune testimonianze assunte nel processo a carico di ALFANO Michelangelo+34, come quella – di cui si dà conto nella motivazione della sentenza in atti – di Joseph CUFFARO. Questi, a sua volta coinvolto in quel traffico, “ha saputo riferire che l’importazione della cocaina dal Sudamerica da parte delle famiglie mafiose siciliane ed il conseguente utilizzo dei canali di riciclaggio in Svizzera, deve farsi iniziare alla fine degli anni ’70-primi anni ’80, e che in tale commercio erano rimasti coinvolti pure i BADALAMENTI, come fra l’altro confidatogli dai GALATOLO”. (Cfr. dalla motivazione della sentenza del Tribunale di Palermo 21.12.96 riportata a pag. 53 della citata sentenza di appello 28.01.99).
Con una dovizia di dettagli superiore a quella di qualsiasi altro collaboratore di Giustizia PALAZZOLO ha riferito delle vicende e della composizione interna alle famiglie mafiose di Cinisi e Terrasini anche in epoca anteriore alla sua formale affiliazione, ma sulla scorta di conoscenze e informazioni acquisite solo dopo essere stato messo in famiglia.
Ha ricordato come Cinisi e Terrasini fossero territori sicuri per affiliati di Cosa Nostra e latitanti di spicco, anticipando anche su questo punto le rivelazioni che sarebbero venute da numerosi altri collaboratori (v. DI CARLO, MONTICCIOLO, MUTOLO, MARCHESE ecc.).
Ha ricostruito organigrammi e composizione anche delle famiglie mafiose più vicine, come quelle di Carini, di Balestrate e di Partinico, facendo i nomi di uomini d’onore riservati e di figure emergenti come quelle dei fratelli VITALE di Partinico.
Ha descritto minuziosamente gli spostamenti di Gaetano BADALAMENTI fino al suo arresto (in Spagna, in Francia, in Sudamerica e in alcune località del Nord Italia) e i luoghi della diaspora del suo clan (Carpi, La Spezia,Viareggio, Torre del Lago e Sarzana). Ed anche su questi punti una notevole messe di riscontri è venuta dalle risultanze di autonome indagini di P.G. e persino da paziali ammissioni dello stesso BADALAMENTI nel corso dei suoi interrogatori.
Ed invero, sono state oggetto di specifici accertamenti di P.G., a seguito o nel corso di attività investigative sfociate poi nel c.d. “Maxi-quater”, l’effettiva partecipazione del PALAZZOLO ad alcune delle vicende narrate, con riferimento: alla diaspora della famiglia mafiosa di Cinisi, ai suoi incontri in continente con vari personaggi di estrazione mafiosa o attenzionati come tali dagli Inquirenti; alle frequentazioni di e tra i personaggi di cui ha parlato. Se ne dà conto nella motivazione della sentenza che è stata acquisita.
E resta questa, forse, la più probante conferma della sua attendibilità complessiva. Egli ha effettivamente preso parte alle vicende che ha detto di aver vissuto in prima persona; ed ha avuto rapporti diretti con persone effettivamente in grado di metterlo al corrente di vicende delicate e fatti delittuosi commessi anche da altri nel medesimo contesto associativo criminale.
Scrivono in proposito i giudici di primo grado del Maxi-quater che l’effettivo inserimento di PALAZZOLO Salvatore nel contesto mafioso di Cosa Nostra, e quindi anche la sua capacità di riferire per conoscenza diretta e non per sentito dire delle vicende in cui erano implicati i personaggi da lui chiamati in causa, è comprovata, “con riferimento alle indicazioni attinenti al soggiorno e ai traffici delittuosi nel centro nord delle persone indicate dal collaboratore come appartenenti alla cosca, da una serie di risultanze obbiettive desumibili dagli interogatori degli imputati, dai rapporti di polizia dell’epoca valutati nel corso del primo maxi processo e da quelli confermati dai verbalizzanti nel dibattimento di questo processo, nonché dai precedenti penali e di prevenzione di molti dei predetti soggetti.”
Aggiungono gli stessi giudici che “tali risultanze riguardano il trasferimento a Torre del Lago, vicino Viareggio, della residenza dell’imputato OFRIA Vito, spiegato dallo stesso anche come un tentativo di sfuggire a possibili vendette trasversali a Cinisi da parte di soggetti in contrasto con lo zio BADALAMENTI Gaetano; l’arresto nel 1985 di BADALAMENTI Vito (cl. 42) e BADALAMENTI Natale (cl. 51) proprio a Torre del Lago e quello, nelle medesime circostanze di tempo e di luogo, di PALAZZOLO Salvatore insieme al figlio di OFRIA Vito, mentre uscivano dall’abitazione di quest’ultimo; il trasferimento a Sarzana di BADALAMENTI Salvatore (cl. 61), nipote di BADALAMENTI Gaetano e fratello di BADALAMENTI Silvio, ucciso a Marsala nel giugno del 1983, dopo una permanenza di alcuni mesi a Firenze; le visite ricevute dal suddetto BADALAMENTI Salvatore a Sarzana da parte di OFRIA Vito; le visite di quest’ultimo a Carpi nel 1982 a tale CHIRCO Onofrio, anch’esso indicato come esponente mafioso; il soggiorno obbligato a Sassuolo, in provincia di Modena, a suo tempo imposto a BADALAMENTI Gaetano; il trasferimento nella stessa zona di BADALAMENTI Vito, fratello di BADALAMENTI Gaetano”.
E sul punto così concludono: “Più in generale, militano in tal senso tutte quelle risultanze di indagini – appunto sull’attività illecita in quegli anni nel centro nord di molti dei soggetti indicati dal PALAZZOLO salvatore e gravitanti nel contesto mafioso delle famiglie di Cinisi e dei paesi vicini – compendiate nei rapporti della Squadra Mobile di Modena del 28.10.1985 e del 5.11.1985, allegati alla nota del Nucleo Centrale Anticrimine Roma del 2.3.1988, confermata in dibattimento dall’estensore dottor Antonio MANGANELLI”. (Cfr. pag. 54 della citata sentenza).
Quanto agli ultimi spostamenti di Gaetano BADALAMENTI, anche in questa sede il PALAZZOLO ha ripetuto di aver visto per l’ultima volta il BADALAMENTI a Cannes, circa un mese prima che lo stesso venisse arrestato. Più esattamente si incontrarono in una località tra Cannes e Nizza, presenti anche il figlio Vito, RANDAZZO Enzo e Giovannello GRECO. Gaetano BADALAMENTI era andato a prenderlo insieme a suo nipote Enzo (si tratta di quello stesso RANDAZZO Vincenzo che già nel maxi-quater il PALAZZOLO aveva indicato come nipote di Gaetano BADLAMENTI in quanto figlio di una di lui sorella, accusandolo di essere implicato nel traffico di droga gestito dallo zio) alla Stazione di Nizza; dovevano discutere di come organizzarsi per passare al contrattacco nella lotta contro i corleonesi. BADALAMENTI doveva poi andare in Spagna, a Madrid e da lì partire alla volta del Brasile, e poi tornare. A lui diede mandato di preparare una strage a Partinico ai danni dei loro avversari (“Lui mi disse tu sarai la persona che manovrerai questa cosa, fai preparare le macchine e le moto che al mio rientro il primo obbiettivo è Partinico”).
Ebbene, Giovannello GRECO, già all’epoca latitante di spicco di Cosa Nostra, perché colpito da diversi mandati di cattura per associazione mafiosa finalizzata anche al traffico di stupefacenti, omicidio rapina e altro, è stato individuato come una delle persone che si accompagnavano al BADALAMENTI nei giorni o nelle settimane precedenti al suo arresto; e il figlio Vito è stato arrestato anche lui insieme al padre, alcuni giorni dopo essere giunto a Madrid proveniente dal Brasile. Più precisamente, dalla documentazione in atti si evince che la Polizia brasiliana ha accertato che Gaetano BADALAMENTI ha alloggiato insieme a GRECO Giovanni (cioè Giovannello GRECO, sotto le mentite spoglie di Renato PEREZ Silva) e a BADALAMENTI Vito (suo figlio) al Residence Copacabana di Rio de Janeiro dal 13 al 20 marzo 1984; ed è giunto a Madrid, proveniente da Rio, il 31 marzo ’84. E a Madrid fu arrestato l’8 aprile (v. Nota ROS. fg. 28 e delega A/10 in vol. 7). Insieme a loro sullo stesso volo era giunto a Madrid anche PEREZ Silva Renato, pseudonimo di Giovannello GRECO – identificato grazie al confronto delle impronte digitali – che però nella capitale iberica aveva fatto perdere le tracce, sfuggendo agli appostamenti dell’INTERPOL.
Anche RANDAZZO Vincenzo, nipote di Gaetano BADALAMENTI – e con il quale risultano contatti anche nel periodo predetto desumibili da alcune telefonate ad utenze allo stesso riconducibili – era già noto agli Inquirenti come soggetto legato alla cosca dei BADALAMENTI. E dalla nota dei ROS in evasione alla delega A/11, (fg. 45 vol. 7) risulta che il RANDAZZO insieme allo zio Gaetano BADALAMENTI, usando rispettivamente i falsi nomi di Faro LUPO e Francesco VITALE, nel maggio 1983 “si sono recati dal Brasile a Madrid per impiantare nella capitale spagnola un’attività di smercio di narcotici”.
Ora, la documentazione citata, mentre fornisce eccezionali riscontri alle dichiarazioni del PALAZZOLO – sotto il profilo dell’acclarata frequentazione, anche a ridosso dell’arresto del BADALAMENTI, dei personaggi menzionati dal PALAZZOLO come presenti al suo ultimo incontro con lo stesso boss di Cinisi; e degli spostamenti proprio in quel periodo accertati tra il Sudamerica e la Spagna – non prova affatto che il BADALAMENTI fosse già in Brasile un mese prima del suo arresto. Al contrario, la sua presenza a Rio non può dirsi accertata prima del 13 marzo ’84 e tale dato è compatibile con la sua presenza a Nizza tra fine febbraio e i primi di marzo ’84.
D’altra parte, il BADALAMENTI, pur negando decisamente di avere mai incontrato il PALAZZOLO e di essersi trovato a Nizza nel periodo indicato dal collaborante, ha tuttavia ammesso che a Nizza trascorse un periodo di tempo imprecisato (ma che colloca tra la fine del 1981 e la prima metà del 1982), quando fu costretto a lasciare Cinisi e a recarsi all’estero e prima di partire per il Brasile nel giugno 1982. Ha negato qualsiasi possidenza in quel di Nizza, ma non ha voluto precisare l’ubicazione degli appartamenti presso cui alloggiò.
Inoltre, i paesi stranieri nei quali, per sua stessa ammissione, consumò il suo volontario esilio prima dell’arresto sono proprio quelli indicati dal collaborante: la Francia, la Spagna e il Brasile.
Pertanto, gli accertamenti predetti, lungi dallo smentire le dichiarazioni del PALAZZOLO, forniscono semmai ulteriori elementi di conforto alla sua attendibilità.
Del resto, tale attendibilità è già stata accuratamente vagliata e favorevolmente apprezzata da diversi organi giurisdizionali; e non soltanto in tutte le istanze dei procedimenti de libertate che hanno interessato questo processo (con riferimento alla posizione dell’odierno imputato e a quella dell’originario coimputato, Gaetano BADALAMENTI), ma anche in diversi procedimenti definiti con le sentenze passate in giudicato e sopra richiamate.
In particolare, sulle sue dichiarazioni accusatorie si fondano alcune pronunce di condanna per il delitto di cui all’art. 416 bis. Così nel c.d. Maxi-quater, per quanto può evincersi dalla motivazione della sentenza acquisita, il suo apporto è stato ritenuto decisivo ai fini della condanna, tra gli altri, di Vito BADALAMENTI e dello stesso PALAZZOLO Vito. (L’altro figlio di Gaetano BADALAMENTI, Leonardo, è stato invece assolto in grado d’appello, perché le affermazioni del PALAZZOLO, che indicava anche lui come uomo d’onore della sua cosca, non hanno trovato riscontri altrettanto sicuri e univoci nelle dichiarazioni degli altri collaboratori di Giustizia).
Parimenti rilevante o addirittura decisivo è stato giudicato il suo apporto ai fini dell’accertamento delle responsabilità in ordine ad una serie di delitti che insanguinarono Cinisi e dintorni a partire dall’estate del 1981: ne fa fede la sentenza (irrevocabile) emessa nel processo a carico di RIINA+7.
Ed ancora, sulla scorta della chiamata in correità del solo PALAZZOLO Salvatore, sono stati rinviati a giudizio una serie di persone da lui accusate di essere mandanti o esecutori degli omicidi MUNACO’, PALAZZOLO Giacomo e MAZZOLA Salvatore: e tra loro, nella qualità di mandanti, anche PALAZZOLO Vito e Gaetano BADALAMENTI (la cui posizione è stata stralciata da quella degli altri coimputati).
2. Genesi e motivi della collaborazione
Elementi di sicuro conforto si traggono poi dalla genesi della collaborazione, sebbene debba subito evidenziarsi che, nel suo successivo svolgimento, essa si è snodata attraverso un percorso non facile né lineare, come del resto lo stesso PALAZZOLO ha ammesso – e cercato di spiegare – nell’interrogatorio del 23 febbraio 1995 e anche dinanzi a questa Corte.
Ed invero, PALAZZOLO inizia a collaborare presentandosi spontaneamente all’A.G., cui rende le sue prime dichiarazioni il 18 settembre 1993. Su di lui non pende nessun provvedimento restrittivo; non è indagato e neppure sospettato dei gravissimi delitti che avrebbe subito confessato.
Di contro, ha appena terminato di scontare una condanna per spaccio di stupefacenti (quattro anni di reclusione, due dei quali condonati), essendo uscito dal carcere circa due mesi prima.
Dalla sua scheda in atti si evince che era attenzionato dalle Forze dell’Ordine come soggetto socialmente pericoloso ed era ritenuto affiliato al clan BADALAMENTI. Ma non risultava alcuna indagine in corso a suo carico nell’estate del ’93.
Sui motivi che lo hanno indotto a compiere questo passo il PALAZZOLO si è soffermato diffusamente in più occasioni, adducendo varie spiegazioni per nulla in contrasto tra loro e coerentemente inscritte in una cornice psicologica che il collaborante ha sempre descritto (ed evocato) in modo costante e uniforme. In particolare, fin dal suo primo interrogatorio ha evidenziato un motivo addirittura troncante: la certezza di un incombente pericolo di vita per sé e la paura anche per l’incolumità dei suoi familiari. Per anni lui e gli altri affiliati rimasti fedeli a Gaetano BADALAMENTI avevano vissuto braccati dai corleonesi, oltre che dalle Forze dell’Ordine. Ma adesso a questa grama condizione si aggiungeva un inopinato senso di isolamento e un ripensamento profondo di tutta la sua esperienza di affiliato ad un’organizzazione mafiosa come Cosa Nostra: la sensazione cioè di essere stato abbandonato o addirittura tradito dal clan BADALAMENTI; e il sospetto di essere stato sempre usato dagli altri senza averne nulla in cambio: “La nostra famiglia non garantiva né la protezione né qualsiasi aiuto, e in realtà non lo aveva mai garantito, tanto che io non ho mai avuto una quota dei guadagni familiari e sono stato spesso strumentalizzato per interessi che non conosco o per ragioni che non condivido” (cfr. verbale di interrogatorio del 18.09.93: un passo questo da cui traspare anche il tentativo mal riuscito di prendere le distanze dalle finalità illecite della cosca).
Fin dal suo primo interrogatorio ha fatto balenare quel clima avvelenato di sfiducia e di sospetto di cui poi più esplicitamente ha riferito in questa sede, come di un portato non solo delle riflessioni e di ripensamenti maturati durante la sua detenzione, ma anche di alcuni episodi inquietanti, successivi alla sua scarcerazione: “Ognuno fa i propri interessi al punto tale che ciascuno deve guardarsi la propria vita con gli altri della stessa famiglia” (cfr. ancora verbale ult. cit.)
Certo è che, secondo quanto ha confermato anche in questa sede, la sua decisione matura dopo che ebbe modo di constatare il suo isolamento, anche rispetto ai personaggi cui si sentiva legato da vincoli personali di fedeltà e di lealtà. Vincoli che erano rimasti intatti nonostante le difficoltà e le traversie dei lunghi anni trascorsi prima da latitante e transfuga – per sottrarsi non solo all’arresto ma sopratutto alla caccia che i corleonesi avevano continuato a dare a tutti i c.d. scappati – e poi in carcere.
E non a caso, appena uscito dal carcere, egli volle incontrarsi con colui che ha indicato come il suo mentore, che lo aveva iniziato ai segreti e alla vita dell’associazione mafiosa Cosa Nostra. A lui, cioè a Vito PALAZZOLO, si era rivolto, come ha sempre riferito, per averne ragguagli su come comportarsi, e su come riallacciare certi contatti, pur avendo in cuor suo abbandonato da tempo qualsiasi velleità di riscossa e reputando ormai cessata qualsiasi possibilità di contendere ai corleonesi il controllo del territorio. Ma anche per chiedere una spiegazione, essendosi sentito abbandonato dalla cosca che, per quanto ne sapeva, aveva continuato a lucrare sugli affari intrapresi prima del suo arresto, senza che nessuno si preoccupasse di fargli avere almeno il minimo necessario per pagarsi le spese legali. Tanto da accogliere con scetticismo e persino con sospetto i bellicosi propositi esternatigli sia dal PALAZZOLO che da SAPUTO Domenico, insieme agli elogi profusi per la sua valentia, che ne faceva un elemento insostituibile all’interno della cosca.
Ma l’esito di questi incontri, come ci ha raccontato, non ebbe altro effetto che di rafforzare in lui il sospetto di essere stato abbandonato dai suoi sodali di un tempo.
La difesa dell’imputato ha rimarcato come dalle parole stesse del collaborante trapelerebbe un sordo risentimento contro i suoi asseriti ex sodali, per non aver avuto da loro l’appoggio sperato, ma soprattutto per essere stato escluso da lucrosi affari (illeciti). Ne verrebbe una controindicazione specifica all’attendibilità delle sue dichiarazioni.
Ma in contrario avviso è agevole replicare che di quel risentimento, e dei motivi che lo avrebbero generato, v’è traccia solo perché è stato lo stesso PALAZZOLO Salvatore a parlarne, auto-accusandosi in pratica di essere coinvolto, quanto meno, nella progettazione di delitti e nell’organizzazione di un vasto traffico di droga. Ed anche in questa sede ne ha parlato con accenti di insolita franchezza, e adducendo ragioni tanto plausibili da rendere più che verosimile il contesto in cui sarebbe maturata la sua scelta di rottura.
Ed è stato ancora lui stesso a rappresentare i motivi del suo risentimento, e tutto l’annesso coacervo di sentimenti contraddittori – rabbia, delusione, stanchezza per un’esistenza grama e senza alcuna prospettiva, paura di essere destinato ad una morte certa e insieme rimpianto e orgoglio per aver dato tutto se stesso ad un’organizzazione che lo ripagava lasciandolo in balia di chi lo voleva morto – come causa determinante del disagio che alla fine lo ha indotto ad intraprendere la non facile strada della collaborazione con la Giustizia.
3. Va ancora rammentato, sempre a conforto della sua attendibilità complessiva, che il PALAZZOLO ha subito confessato la sua appartenenza all’associazione mafiosa Cosa Nostra, precisando di essere stato formalmente affiliato (con il rito della panciuta) alla famiglia capeggiata da Tano BADALAMENTI. E se è vero che, come si è anticipato, la sua vicinanza alla cosca del BADALAMENTI era circostanza già nota agli Inquirenti (come confermato dalla Nota di ROS in atti), non erano stati tuttavia acquisiti elementi processualmente idonei per un’incriminazione nei suoi confronti.
Ma, soprattutto, egli ha subito ammesso di avere personalmente preso parte all’esecuzione e/o alla deliberazione di alcuni omicidi per i quali non era minimamente sospettato (MUNACÒ, PALAZZOLO Giacomo e MAZZOLA Salvatore. È il primo e, per quanto consta, unico collaboratore di Giustizia che proviene dalle fila della famiglia mafiosa di Cinisi; ed è quello che ha saputo descriverne e ricostruirne (dall’interno) le vicende con maggior dovizia di particolari.
Ed è stato uno dei primi a parlare delle principali fonti di introiti per il clan BADALAMENTI, costituita dai proventi del traffico della droga. Ed effettivamente, dalle indagini sfociate nel processo Pizza Connection, è emerso come Gaetano BADALAMENTI, fino al suo arresto avvenuto nell’aprile del 1984, gestiva “un colossale traffico di eroina tra gli Stati Uniti e l’Italia, avvalendosi della complicità di una serie di canali delinquenziali e di soggetti i chiara estrazione mafiosa” (v. pag. 50 della sentenza ALFANO+34).
4. Su presunte contraddizioni e incongruenze
Piuttosto deve darsi conto delle (presunte) contraddizioni e incongruenze in cui il PALAZZOLO sarebbe incorso sia nelle dichiarazioni di contorno che in quelle rese sull’omicidio IMPASTATO.
Di alcune s’è già fatto cenno, nel riportare le spiegazioni che ne ha dato lo stesso dichiarante, in termini sufficientemente persuasivi. Fermo restando che, come si verifica per molti collaboratori di Giustizia, egli vede come fumo negli occhi qualsiasi contestazione (in senso processuale) ed è disposto ad avventurarsi in spiegazioni improbabili o contorte per non essere smentito o per fugare il sospetto di poter essere caduto in contraddizione, anche quando non ve ne sarebbe motivo.
Così per le questioni relative alla fantomatica parentela con Vito PALAZZOLO e all’avere essi trascorso insieme la latitanza nel periodo in cui si colloca l’episodio delle rivelazioni sui retroscena dell’omicidio IMPASTATO.
In effetti il collaborante aveva detto – in uno degli interrogatori resi in precedenza – di essere lontano parente di Vito PALAZZOLO senza mai specificare però la natura e il grado di questa parentela. In questa sede ha, dapprima, negato l’esistenza di un vincolo di parentela. Ma quando gli è stato contestato che in precedenza aveva detto il contrario, ha finito per evocare un legame talmente sfumato e lontano nel tempo da essere indecifrabile e indimostrabile (“qualche cugino lontano di mio padre che doveva essere parente di qualche suo nonno”).
Ma il dato che conta è un altro: l’incidentale, fugace e assolutamente generico riferimento che il collaborante aveva fatto ad un presunto vincolo di parentela non è mai stato enfatizzato né in qualche modo strumentalizzato al fine di accreditare una suo pregresso rapporto privilegiato o di particolare confidenza con Vito PALAZZOLO, in epoca anteriore al suo ingresso nel clan BADALAMENTI. Fin dai primi interrogatori infatti egli ha dichiarato che conosceva l’odierno imputato fin da bambino, ma non perché parenti, bensì perché vicini di casa. E anche in questa sede ha ribadito – prima che venissero richiamate le sue dichiarazioni sul vincolo di parentela – che non c’era nessuna particolare confidenza con l’anziano uomo d’onore della famiglia di Cinisi prima della sua affiliazione. E, semmai, l’accampare un sia pur vago e lontano vincolo di parentela sembra rispondere all’esigenza di accreditare indirettamente una sua dignità o statura criminale, facendo balenare la sua appartenenza a circuiti familiari organici a Cosa Nostra; e rispecchia al contempo la convinzione, talora fondata e comunque diffusa nei piccoli centri, che i gruppi familiari che portano lo stesso cognome discendano da un originario ceppo comune, o siano variamente imparentati tra loro. (Così a Cinisi il cognome PALAZZOLO sarebbe uno dei più diffusi insieme a quello di BADALAMENTI).
Anche sull’uso improprio o a-tecnico del termine latitante, nel senso che egli lo avrebbe impiegato nelle sue precedenti dichiarazioni per designare la condizione del darsi o dell’essere alla macchia, comune a molti affiliati del clan BADALAMENTI in quanto costretti a fuggire e a nascondersi per sottrarsi non solo (e non tanto) alle Forze dell’Ordine, ma anche (e soprattutto) ai sicari della fazione avversa, ha fornito in questa sede una spiegazione più che convincente e del tutto in linea con la sua ricostruzione di quel periodo tormentato; un periodo in cui gli affiliati rimasti fedeli al vecchio boss di Cinisi – per usare le sue parole – stavano nascosti come topi. Ed è, peraltro, una spiegazione che trova un precedente significativo nelle dichiarazioni rese nel corso della sua deposizione al processo ALFANO: dichiarazioni non sospette perché rese in un contesto narrativo autonomo, in cui cioè il dichiarante non poteva ritenersi suggestionato dalla necessità di rispondere o replicare a specifiche contestazioni sul punto.
Ebbene, in quell’occasione il collaborante ebbe appunto a dichiarare che Vito PALAZZOLO era il solo che potesse tranquillamente andare e venire da Cinisi perché non aveva il mandato di cattura: con ciò non lasciando adito a dubbi sul fatto che lo stesso PALAZZOLO all’epoca non fosse latitante in senso tecnico, come ha ribadito in questa sede, rispondendo, sia pure non senza incertezze, a specifica domanda (“Credo di no. No, credo che non era latitante”).
Ma ancora una volta, quando sono state richiamate le precedenti dichiarazioni – quelle nelle quali aveva detto di essere stato latitante insieme a Vito PALAZZOLO – ha inizialmente ammesso che “quando lui è stato latitante e io abbiamo fatto della latitanza insieme”, alludendo ad un non meglio precisato mandato di cattura (“non ricordo di che cosa, per una definizione pena, qualcosa del genere, se non vado errato”). Salvo precisare che ciò sarebbe avvenuto in un’epoca successiva al tempo in cui gli furono confidate le notizie che ha riferito sull’omicidio IMPASTATO; e che a quell’epoca “no, no, lui (NdR: cioè Vito PALAZZOLO) non era latitante”. In realtà tali incertezze dimostrano, nulla di più, nulla di meno, che il collaborante non ha affatto un’idea o un ricordo sicuro delle vicissitudini giudiziarie di Vito PALAZZOLO; ovvero una conoscenza tale da consentirgli di poter distinguere tra una condizione di latitanza in senso tecnico e quell’uso lato del termine a cui sostanzialmente alludeva nel rappresentare la condizione di fuggitivi o clandestini comune, a suo dire, a tutti gli affiliati al clan BADALAMENTI nel pieno della loro diaspora.
Sotto altro profilo, la difesa ha attaccato la credibilità del collaborante insinuando persino il dubbio che egli non sia mai stato affiliato a Cosa Nostra.
Ora, non può essere la vaghezza delle indicazioni sulla data o sull’epoca della cerimonia di affiliazione a dare fondamento a tali dubbi, sia perché si parla di un evento che risalirebbe a vent’anni fa e non meno di dieci anni rispetto al primo interrogatorio; sia perché, in questa sede come in precedenza, il collaborante ha saputo fornire una serie di riferimenti temporali idonei a specificare la data orientativa che ha sempre indicato negli inizi degli anni ’80. In particolare ha detto che la guerra di mafia era già esplosa a Cinisi, costringendo gli affiliati fedeli a Gaetano BADALAMENTI a fuggire e a nascondersi; erano trascorsi diversi mesi dall’assassinio di Nino BADALAMENTI (agosto del 1981) ed era in pieno atto la diaspora dei medesimi affiliati verso varie località del centro e del nord Italia.
Piuttosto, queste ultime circostanze inducono a chiederci i motivi del suo ingresso in quella cosca proprio nel momento in cui era allo sbando o comunque stava attraversando un momento di grave difficoltà, tanto che persino i suoi simpatizzanti o fiancheggiatori erano sotto attacco e correvano seri pericoli per la loro incolumità.
Ma su questo punto, dalle dichiarazioni del collaborante e da obbiettive risultanze processuali in ordine alla forza, al prestigio e al seguito di cui godeva il BADALAMENTI negli ambienti della criminalità organizzata, viene una spiegazione più che convincente.
Anzitutto, il suo avvicinamento al clan BADALAMENTI era per così dire nell’ordine naturale delle cose, essendo egli imparentato con i fratelli BADALAMENTI: Natale, Vito, Giovanbattista, Emanuele e Agostino (quest’ultimo ucciso il 20.02.84 a Solingen in Germania). In particolare era cognato di Vito (che aveva sposato sua sorella) che accompagnava spesso a riunioni e incontri con uomini d’onore anche prima di essere a sua volta affiliato. E i fratelli BADALAMENTI nipoti di un fedelissimo di Tano BADALAMENTI, e cioè quel Natale BADALAMENTI che fu ucciso all’ospedale di Carini, hanno a loro volta pagato con il sangue di uno di loro (Agostino) il prezzo della loro fedeltà al boss di Cinisi.
Inoltre, dalla ricostruzione che ci ha riproposto lo stesso collaborante trapela come egli non fosse indifferente alla lusinga di un’elevazione al rango di uomo d’onore. E di come avesse assaporato già prima della sua formale affiliazione il gusto di sentirsi rispettato e considerato, già per il solo fatto di essere un parente dei BADALAMENTI; e poi per la prova di coraggio e di fermezza che, a suo dire, aveva dato, non cedendo alle pressioni per assumere un contegno collaborativo nel processo per l’estorsione commessa insieme al MUTARI.
Ed ancora, il carisma personale di Gaetano BADALAMENTI e la sua capacità di infondere coraggio e suscitare nuovi entusiasmi nei suoi fedelissimi – e soprattutto nei giovani appena reclutati – unitamente alla residua capacità di aggregazione che la cosca conservava, grazie a collegamenti internazionali che dischiudevano la prospettiva di lucrosi affari (illeciti) e al non inverosimile obbiettivo di raccogliere forze e risorse sufficienti per tentare la riconquista del territorio e degli spazi di potere perduto a vantaggio dei corleonesi; ma anche l’imperioso bisogno di reclutare nuovi adepti e rinfoltire i ranghi di una cosca allo sbando: sono tutte motivazioni che rendono credibile, da un lato, il proposito di un giovane malavitoso, desideroso di emergere nel mondo della criminalità, di aderire con entusiasmo all’invito ad essere messo in famiglia; e rendono, dall’altro, verosimile che egli sia stato accettato, benché avesse “problemi in famiglia”, come si dice nel gergo mafioso alludendo a problemi inerenti allo status familiare o alla condotta privata (come appunto nel suo caso: divorziato o separato dalla moglie e convivente con un’altra donna).
Neppure può additarsi a sospetto l’incerta collocazione temporale dell’episodio delle confidenze ricevute da Vito PALAZZOLO sulla vicenda IMPASTATO. Non fu certo quella, secondo il racconto del collaborante, l’unica volta in cui si incontrò con l’odierno imputato nel (non breve) periodo della sua latitanza; e si parla comunque di un episodio che risale a diversi anni prima di quell’interrogatorio del 18.11.94 in cui per la prima volta ne riferì.
D’altra parte, quando si è sollecitato il suo ricordo, come appunto è stato fatto in questa sede, egli ha saputo fornire quanto meno una serie di riferimenti temporali indiretti che consentono di circoscrivere notevolmente l’epoca in cui collocare l’episodio predetto (v. supra), pur senza pervenire ad una data precisa.
Inoltre, il PALAZZOLO ha ripetutamente dimostrato di avere una scarsa dimestichezza con le date, sbagliando, e più d’una volta, pure quelle che si riferiscono ad eventi certi e notori o quelle che lo riguardano personalmente, come per alcune sue vicende giudiziarie.
Così ci ha detto di essere stato arrestato il 26 novembre del 1976 per la tentata estorsione; invece ciò è accaduto il 29 novembre del 1977. Ha dichiarato di avere trascorso un periodo di carcerazione di diciotto mesi: invece furono circa quindici mesi. Ha detto di essere stato scarcerato nei primi mesi (febbraio o marzo) del 1978: in effetti fu a febbraio, il 23 febbraio per l’esattezza, ma dell’anno successivo. Ed ancora: ha detto che contro di lui la Procura di Firenze spicco un mandato di cattura (per spaccio di droga) nel 1985, ma ancora una volta si è sbagliato di un anno, perché il mandato in questione porta la data del 5 novembre 1986, come si evince sempre dalla scheda in atti.
Non stupisce quindi che abbia sbagliato anche la data dell’omicidio IMPASTATO, che colloca nel 1977 invece che nel ’78. Invece, non si discosta di molto dal vero quando soggiunge che il fatto avvenne pochi mesi dopo l’inizio della sua carcerazione. Ma in ogni caso ha fornito anche in questa sede, come riferimento sicuro, il fatto di avere appreso la notizia della tragica morte di IMPASTATO mentre era detenuto all’Ucciardone, il che risponde al vero. Ed è assai significativo, deponendo per l’assoluta buona fede del collaborante, il fatto che proprio questa circostanza relativa alla data in cui avrebbe appreso (in carcere) della morte di IMPASTATO aveva formato oggetto di contestazione in precedenza, nel senso che già in occasione dell’interrogatorio del 23.02.95 gli era stato fatto notare che il tragico evento risaliva al 1978, mentre lui aveva dichiarato, nell’interrogatorio del 18.11.94, di averlo appreso nel 1976. Evidentemente il PALAZZOLO non fa tesoro delle informazioni acquisite nelle vicende ed occasioni processuali della sua carriera da collaboratore di Giustizia; ed è ben lungi dallo stare attento a rettificare o adeguare le proprie dichiarazioni alle risultanze processuali di cui viene a conoscenza, come ha insinuato la difesa dell’imputato con riferimento alla questione della latitanza.
Nessun errore – e tanto meno il clamoroso scivolone di cui ha parlato la difesa,additandolo ad indice del mendacio del dichiarante – può invece addebitarsi al PALAZZOLO a proposito della data della scarcerazione di Vito BADALAMENTI che avrebbe collocato a circa tre o quattro mesi di distanza dall’arresto, mentre, con maggiore approssimazione alla verità dei fatti, nella deposizione resa al processo “Maxi-quater” parlò di quattro o cinque anni.
Contrariamente all’interpretazione della difesa, va rilevato infatti che il collaborante non ha mai detto che Vito BADALAMENTI venne scarcerato tre o quattro mesi dopo il suo arresto, che era avvenuto l’8 aprile 1984 a Madrid (nelle stesse circostanze di tempo e di luogo dell’arresto di suo padre Gaetano).
Una lettura attenta del passo dell’esame cui il PALAZZOLO è stato sottoposto all’udienza del 26.06.2000 non lascia adito ad alcun dubbio: non è l’arresto di Gaetano BADALAMENTI l’evento cui si riferiva il dichiarante, bensì proprio la scarcerazione di suo figlio Vito; e tre o quattro mesi era il tempo trascorso, a dire del collaborante, a decorrere da quell’evento, cioè dalla scarcerazione di Vito BADALAMENTI, per riunirsi e cominciare a ri-organizzarsi (gli affiliati superstiti del clan BADALAMENTI), gettando tra l’altro le basi per nuovi e ambiziosi traffici di stupefacenti.
Neppure può condividersi l’assunto difensivo secondo cui l’inattendibilità del PALAZZOLO sarebbe dimostrata anche dalle palesi incongruenze o falsità in cui è incorso nel rappresentare alcune modalità esecutive dell’omicidio IMPASTATO o la sua relazione logico-temporale con il viaggio di Luigi IMPASTATO.
Ed invero, anche dinanzi a questa Corte il collaborante, pur facendo presente che la sua fonte non gli rivelò i particolari dell’esecuzione dell’omicidio, ha ribadito di avere appreso che la vittima fu prelevata all’uscita di Radio Aut da due affiliati della (vecchia) famiglia di Cinisi, con un pretesto. E a specifica domanda, ha risposto che la sede dell’emittente predetta era a Terrasini.
Ciò contrasta con le risultanze obbiettive sugli ultimi movimenti dell’IMPASTATO, e con le testimonianze dei suoi compagni che lo videro allontanarsi in auto dalla sede della radio diretto a Cinisi (Uno di loro, Salvo VITALE, ha detto di essere stato accompagnato a casa da lui). E a Cinisi effettivamente giunse, fermandosi al bar MANIACI per sorseggiare un alcolico. Poi uscì dal bar e da quel momento se ne persero le tracce.
Tuttavia, il contrasto, che comunque è molto meno netto di quanto non sembri a prima vista, non può additarsi ad indice di inaffidabilità del dichiarante, né induce a dubbi o sospetti sull’attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni; e tanto meno può addursi a riscontro contrario.
Anzitutto, imprecisioni e inesattezze nella ricostruzione delle modalità esecutive non posso non mettersi nel conto ove si consideri che, al di là del tempo trascorso tra la confidenza ricevuta e il racconto che il collaborante ne fece all’A.G., né PALAZZOLO Salvatore né la sua fonte furono materialmente partecipi del fatto.
In secondo luogo la versione riportata de relato dal collaborante non si discosta poi tanto dalle risultanze acquisite, in ordine alla (probabile) dinamica del fatto, se solo si ha l’accortezza di dislocare nel tempo invece che nello spazio la sequenza raccontata.
In effetti, è innegabile, alla luce delle risultanze processuali, che Peppino IMPASTATO fu sequestrato dai suoi assassini, ovvero condotto con un pretesto nel luogo in cui poi avrebbe trovato la morte, dopo essere uscito dalla sede di Radio AUT per recarsi a cena dai suoi, e prima di arrivare a casa sua o di fare rientro alla Radio.
Piuttosto, il fatto che il collaborante non abbia mai modificato la sua versione sul punto, nonostante l’apparente contrasto con risultanze processuali che erano note fin dal maggio ’84 (epoca della sentenza CAPONNETTO), ma anche prima (attraverso i resoconti della vicenda processuale riportati sulla stampa locale), dimostra quanto poco egli si sia curato di adeguare o allineare le sue dichiarazioni ad emergenze processuali o a risultanze altrimenti note. E ciò depone, quanto meno, per la sua sincerità.
Tra gli esecutori materiali il PALAZZOLO ha riproposto anche in questa sede i nomi di Nino BADALAMENTI e di DI TRAPANI Francesco, per la prima volta indicando, in alternativa ad uno dei due, Manuele, che dovrebbe identificarsi nel BADALAMENTI Emanuele cugino di Gaetano e fratello di Nino, uomo d’onore della vecchia guardia che sarebbe poi passato alla fazione avversa. In realtà, questa nuova indicazione, oltre che alternativa, è formulata in termini dubitativi dal collaborante e si ricollega alla sua affermazione secondo cui nell’omicidio sarebbero coinvolto gli uomini d’onore della vecchia famiglia di Cinisi; non v’è quindi un effettivo contrasto con la precedente versione. Ha confermato invece che tra gli esecutori materiali, sempre secondo quanto gli riferì PALAZZOLO Vito, figurava anche il già menzionato PALAZZOLO Salvatore, suo omonimo di poco più grande di lui e valido uomo di fiducia di Gaetano BADALAMENTI (v. supra).
Non si può quindi insinuare che le accuse de relato del PALAZZOLO abbiano attinto solo persone decedute; e il fatto che non siano emersi elementi sufficienti ad incriminare il terzo soggetto indicato come esecutore materiale dell’omicidio e tuttora in vita non può addursi come riscontro di segno negativo all’attendibilità delle propalazioni del collaborante. In realtà non sappiamo quali atti di indagine siano stati compiuti, prima di addivenire all’archiviazione del procedimento a carico di PALAZZOLO Salvatore (inteso Turiddazzu); né poteva ragionevolmente prevedersi un esito diverso, atteso che neppure nell’immediatezza del fatto furono raccolte o preservate tracce utili all’identificazione degli esecutori materiali. Ma è utile riportare le notizie che sono contenute nella Nota a firma del (nuovo) Comandante della Stazione CC di Cinisi proprio sul conto del suddetto Turiddazzu.
In particolare, utili elementi di conoscenza sui trascorsi del predetto, sulle sue frequentazioni e sulla sua vicinanza al boss di Cinisi Gaetano BADALAMENTI ha fornito Giovanni IMPASTATO nelle S.I. rese il 27.01.99:
“PALAZZOLO Salvatore di anni 60 circa inteso Turiddazzu abitante in Cinisi, Corso Umberto I dirimpetto il distributore di benzina Q/8. Di lui posso dire con assoluta certezza che frequentava assiduamente da solo e unitamente a PALAZZOLO Vito detto ‘Varvazzedda’ la mia abitazione di Cinisi sita in Corso Umberto 220, allorquando mio padre Luigi era in vita. Tali ricordi risalgono a qualche anno prima dell’uccisione di mio fratello dove il PALAZZOLO Salvatore si incontrava con mio padre e con questi si appartava a discutere o altre volte uscivano assieme. Comunque non sono a conoscenza dei loro discorsi. PALAZZOLO Salvatore mi risulta uomo d’onore della famiglia di Cinisi per averlo appreso da mio padre Luigi, legato al clan BADALAEMENTI facente capo al noto Gaetano, allevatore di bestiame, con stalle in Contrada Carruba di Gabbia, Mircenni ed Arcitella. In particolare, ricordo che, nel periodo in cui è stato ucciso mio fratello, il PALAZZOLO Salvatore era titolare di una stalla nei pressi del luogo dove venne ucciso mio fratello. Mi risulta altresì sempre nel periodo degli anni ’70, per averlo appreso da mio padre, che questi, unitamente ad altri mafiosi e parenti di mio padre e suoi amici, fra cui ricordo IMPASTATO Luigi detto ‘U sinnacheddu’, PALAZZOLO Vito detto ‘u salitaneddu’, BADALAMENTI Salvatore detto ‘Turiddu’ (cugino di Gaetano) e PALAZZOLO Paolo, cognato di Bernardo PROVENZANO, avevano costituito una società di allevamento di bestiame facente capo al BADALAMENTI Gaetano”.
Oltre ad esternare i suoi sospetti sul coinvolgimento di Turiddazzu nell’uccisione del fratello, Giovanni IMPASTATO aggiunge che “è notorio nell’ambiente di Cinisi che il PALAZZOLO Salvatore ha carattere ritenuto violento ed attualmente gode di ‘rispetto’ nell’ambiente mafioso”.
Indi, lo stesso IMPASTATO ha riconosciuto in fotografia il personaggio in questione, ribadendo che “era assiduo frequentatore della mia abitazione, in particolare di mio padre Luigi quando questi era in vita. Aggiungo altresì che il PALAZZOLO è coniugato con tale FINAZZO Carolina”.
Prescindendo da elementi cui non può annettersi rilievo processuale o valore probatorio – come i sospetti di Giovanni IMPASTATO sulla responsabilità dell’indagato; o l’attribuzione nei suoi confronti della qualità di uomo d’onore, in quanto proveniente da una persona che a sua volta non ha mai fatto parte dell’associazione mafiosa Cosa nostra; ed ancora i riferimenti a voci correnti sulla personalità del medesimo soggetto – i dati di fatto, le notizie di carattere biografico e le circostanze obbiettive riferite da Giovanni IMPASTATO sono state puntualmente accertate dalle indagini espletate a riscontro delle sue dichiarazioni.
E si è accertato che PALAZZOLO Salvatore detto Turiddazzu, nato a Cinisi il 14/07/1932 ed ivi residente in Corso Umberto I, 360 (coniugato con FINAZZO Carolina) è allevatore e proprietario di una stalla sita in c/da carruba di Gabbia, nonché di due terreni rispettivamente in agro di Carini e di Cinisi (c/da Mioceni di Carini e Margi di Cinisi). Fu sottoposto alla diffida ex art. 1 Legge 1423/56 con provvedimento della questura di Palermo in data 31.05.1984; ed era stato “socio in affari con con presunti mafiosi quali IMPASTATO Luigi, figlio del mafioso Giacomo, detto ‘u sinnacheddu’, e ucciso in Palermo il 23.09.1981, e PALAZZOLO Vito, detto ‘salitaneddu’, nato a Cinisi il 26.10.1910, deceduto in data 23.06.1994, per avere con questi ed unitamente ad altri presunti mafiosi fra cui BADALAMENTI Salvatore cl. 1948, PALAZZOLO Paolo cl. 1937, cognato di Bernardo PROVENZANO, BADALAMENTI Salvatore cl. 1946 in atto detenuto per altro, tutti legati per rapporti di parentela o perché fiancheggiatori del clan BADALAMENTI, essere stati componenti della società cooperativa a r. l. denominata S.A.R.A.C. (società allevatori carni) con sede in Cinisi Corso Umberto n. 156”.
Così recita l’informativa del 13 aprile 1999 a firma del m.llo Tommaso FERRARA (v. vol. 17). Ed ivi si precisa che la società predetta “Di fatto parrebbe che fosse stata gestita, in quei tempi riferiti al 1975, dal capomafia Gaetano BADALAMENTI”.
In ordine alla stalla citata, si è accertato che “questa potrebbe essere stata realizzata intorno agli anni 1965 in contrada Carruba di Gabbia di Cinisi. Essa dista dalla strada (ora via Peppino IMPASTATO che costeggia i fabbricati della contrada Siino-Orsa nati successivamente alla fine degli anni ’70 inizio anni ’80) ed in linea d’aria circa 1 km. Comunque non è stato possibile accertare se dalla stalla è visibile la strada per i motivi sopra specificati, ma è stato riscontrato che dalla stalla alla linea ferroviaria ed in particolare nel punto dove è stato rinvenuto il cadavere di IMPASTATO, dista più di 1 km circa”.
Ne emerge dunque un quadro del soggetto in questione logicamente compatibile con il tenore delle accuse del collaborante PALAZZOLO Salvatore, almeno sotto il profilo del pieno inserimento in un circuito di rapporti di (assidue) frequentazioni e cointeressenze economiche con noti personaggi di estrazione mafiosa, ritenuti appartenenti al clan BADALAMENTI.
La difesa dell’imputato censura come palese incongruenza il nesso logico-temporale che il collaboratore, non senza ripetute incertezze, sembra delineare tra il misterioso viaggio di Luigi IMPASTATO e l’uccisione del figlio Peppino; e l’implicito riferimento all’essere il padre di Peppino ancora in vita quando si verificò il fatto, anche se non sa dire se, in quel momento, Luigi IMPASTATO fosse ancora in America o fosse già tornato.
In realtà nei precedenti interrogatori il PALAZZOLO non ha mai detto il contrario. E a questa Corte ha spiegato che di quel viaggio lui non sapeva nulla prima che PALAZZOLO Vito gliene facesse cenno. E quel che sa con certezza, e che ha riferito in questa sede in termini non dissimili da come ne aveva riferito in precedenza, è solo che c’era un nesso con l’omicidio che lui interpreta nel senso che la presenza del padre a Cinisi avrebbe costituito un ostacolo o una remora in più a commetterlo, perché Luigi IMPASTATO non meritava che gli si desse questo dispiacere.
È vero semmai che nel corso del suo esame dibattimentale, il collaborante ha posto l’accento su un aspetto diverso da quello evidenziato nell’interrogatorio del 23.02.95: qui è parso alludere ad un interessamento di chi aveva già progettato e deliberato l’omicidio a favorire l’allontanamento di Luigi IMPASTATO da Cinisi. In quella sede, invece, aveva detto che sarebbe stato desiderio dello stesso Luigi allontanarsi da Cinisi per l’imbarazzo e la vergogna provocati dalle iniziative (di lotta e di denunzia) del figlio e per non essere riuscito a farlo desistere. Ma ha detto anche che il viaggio di Luigi IMPASTATO era stato “autorizzato” da Tano BADALAMENTI, e ciò lascia intendere che, secondo la ricostruzione dello stesso dichiarante, il boss di Cinisi guardasse quanto meno con favore ad un allontanamento del padre della vittima designata.
Anche dinanzi a questa Corte, peraltro, il PALAZZOLO ha più volte messo in risalto il senso di imbarazzo e di vergogna che, a dire della sua fonte, Luigi IMPASTATO aveva provato per “questo figlio che faceva queste cose. Perché nei confronti di Tano BADALAMENTI praticamente faceva una brutta figura, non gli stava bene che il figlio faceva queste cose”. (cfr. pag. 72 verbale di trascrizione in atti). Sicché tra le due versioni del racconto sussiste una sostanziale coerenza e continuità logica.
Altra apparente incongruenza o incoerenza attiene alla notizia relativa al coinvolgimento di FINAZZO Giuseppe. In base alle dichiarazioni rese nel suo primo interrogatorio, sembrerebbe di capire che lo avesse appreso da quei medesimi discorsi in famiglia grazie ai quali era venuto a sapere che si era trattato di un omicidio camuffato da omicidio. Poi invece ha chiarito che, sulla scorta di quanto rivelatogli da PALAZZOLO Vito, il FINAZZO era del tutto estraneo all’omicidio; e che del suo coinvolgimento (nelle indagini) lui aveva saputo dalla stampa dell’epoca.
Anche questo punto ha formato oggetto di specifico approfondimento, come si è visto. Ed è evidente che il collaboratore non ha percepito o ha frainteso il senso della contestazione che gli è stata rivolta.
Questa infatti non si riferiva al fatto che inizialmente egli avesse appreso del coinvolgimento di FINAZZO e poi avesse dichiarato che lo stesso FINAZZO non c’entrava nulla con l’omicidio IMPASTATO e che quella era solo una sua supposizione scaturita dalla lettura dei giornali dell’epoca. Ma si riferiva invece all’avere egli al riguardo reso due diverse dichiarazioni.
E su questo punto, così correttamente inteso, deve darsi atto che il collaborante non ha dato alcuna spiegazione
È anche vero però che la contestazione è stata mal posta, perché completezza avrebbe voluto che si desse conto anche delle dichiarazioni rese dallo stesso PALAZZOLO già in fase di indagine preliminare, e precisamente nell’interrogatorio del 23.02.95. In quella sede infatti dichiarò testualmente:
“Aggiungo che in epoca immediatamente successiva a tale omicidio venne indiziato tale FINAZZO Giuseppe detto ‘U parrineddu’, uomo di fiducia di BADALAMENTI Gaetano ma non uomo d’onore. Ricordo ancora un titolo del giornale L’Ora tutto dedicato a questo FINAZZO che però era del tutto estraneo a questo omicidio”.
In altri termini, aveva già detto (cinque anni prima di ripeterlo a questa Corte) di avere appreso dai giornali del coinvolgimento del FINAZZO (“Ricordo ancora un titolo del giornale L’Ora…”), ma di sapere, sulla scorta delle rivelazioni fattegli dall’odierno imputato, che lo stesso FINAZZO “era del tutto estraneo a questo omicidio”. Lo ha ripetuto anche nel successivo interrogatorio del 16 luglio 1996: “Ricordo di avere appreso dal giornale L’Ora del coinvolgimento nelle indagini di tale FINAZZO Giuseppe”.
Pertanto, il contrasto non è tra quanto ha dichiarato (sul punto) in questa sede e la dichiarazione resa al P.M. in fase di indagine preliminare; ma, semmai, tra le dichiarazioni spontaneamente rese al P.M. a partire dall’interrogatorio del 23 febbraio 1995 e la prima incerta e reticente rivelazione sul caso IMPASTATO, fatta in occasione del suo primo interrogatorio in data 18.09.93: il primo, cioè in cui diede corso al proposito di collaborare con la Giustizia ed anche quello in cui – come ha spiegato dinanzi a questa Corte – i suoi ricordi su questo delitto erano offuscati sia da cattiva memoria delle poche notizie apprese, sia dallo stato di confusione e turbamento emotivo in cui versava.
Una confusione ed un turbamento del tutto verosimili considerato che si trattava appunto del primo interrogatorio; che il caso IMPASTATO venne affrontato al termine dell’interrogatorio, dopo che erano stati affrontati o toccati una molteplicità di fatti, temi e argomenti; che a quel delitto si associavano aspetti e risvolti sgradevoli (v. infra). E tutto ciò rende plausibile un certo affastellamento dei ricordi tra le notizie effettivamente apprese attraverso il racconto confidenziale di Vito PALAZZOLO; e quelle che a suo tempo il collaboratore aveva appreso da fonte giornalistica o che erano state frutto di sue supposizioni.
E veniamo così al nocciolo della questione che ha formato oggetto di specifico approfondimento anche in questo dibattimento e nel corso dell’esame di PALAZZOLO Salvatore.
La difesa – in sede di discussione – ha posto l’accento sul contrasto tra le dichiarazioni rese (sul caso IMPASTATO) nel primo interrogatorio e quelle rese a partire dall’interrogatorio del 18.11.94; ha stigmatizzato la progressione accusatoria delle dichiarazioni predette, nella parte che concernono l’asserito coinvolgimento di Vito PALAZZOLO nella deliberazione dell’omicidio; e insinua il sospetto che essa sia stata motivata unicamente dall’intento di compiacere gli Inquirenti, fornendo un materiale d’accusa utile alla riapertura delle indagini sulla morte di Giuseppe IMPASTATO. Ciò allo scopo di rilanciare l’importanza del suo apporto collaborativo e di ripristinare un rapporto di fiducia incrinato dalla sua stessa condotta. Infatti, mentre era in corso la collaborazione, e precisamente intorno al febbraio del ’94, egli era fuggito in Germania, ovvero aveva lasciato senza autorizzazione il suo domicilio protetto; e per tale violazione degli obblighi inerenti al suo status era stato nuovamente arrestato e si trovava detenuto all’atto in cui rese appunto l’interrogatorio del 18.11.94.
Tali circostanze si desumono da quanto dichiarato dal PALAZZOLO in apertura del successivo interrogatorio del 25.02.93, che fu da lui stesso sollecitato.
Orbene, ad avviso della Corte, è del tutto plausibile che, soprattutto su alcuni argomenti, le dichiarazioni del nuovo collaboratore scontino una certa reticenza o risultino obbiettivamente incomplete e lacunose e siano poi oggetto nel tempo di successivi approfondimenti e specificazioni. Questo si verifica con una certa frequenza soprattutto nella fase iniziale del percorso collaborativo di chi, dopo una vita consacrata al crimine, intraprende la strada della collaborazione con la Giustizia. E trova appunto una valida giustificazione, anzitutto, nella comprensibile difficoltà ad abbandonare qualsiasi remora ad una condotta di piena e aperta collaborazione, giacché questa implica una rottura potenzialmente irreversibile con il proprio passato criminale (o almeno con i legami e i referenti personali che vi si afferiscono) e, al contempo, l’abiura di una mentalità e di una (sub)cultura fortemente radicate nella formazione e nell’esperienza di vita di chi ha fatto parte di un’organizzazione mafiosa come Cosa Nostra.
E, in secondo luogo, nella progressiva agglutinazione dei ricordi via via sollecitati da interrogatori sempre più approfonditi su circostanze e particolari dei fatti oggetto di rivelazioni.
Orbene, nel caso di specie, le dichiarazioni rese sul caso IMPASTATO a partire dall’interrogatorio del 18.11.94 non contengono alcun elemento diverso o in contrasto con quelli in nuce abbozzati già nella sua prima dichiarazione (fatta eccezione per il punto relativo al coinvolgimento del FINAZZO, di cui s’è già detto).
Infatti, fin dal primo interrogatorio il collaborante aveva detto, in buona sostanza, di non saper nulla dell’omicidio per conoscenza diretta (e in effetti le sue conoscenze sono de relato); di avere saputo della tragica morte di Peppino IMPASTATO mentre si trovava detenuto (come poi ha sempre ribadito); ma di averne appreso i retroscena, e in particolare di avere avuto conferma che si era trattato di un omicidio e non di un incidente, dalle rivelazioni confidenziali che qualcuno della sua cosca gli fece solo successivamente, ossia dopo che lui stesso era divenuto uomo d’onore: il che corrisponde, nei suoi termini essenziali, alla versione che ha poi sempre ripetuto.
Ma è evidente che quella prima dichiarazione è a dir poco reticente, nel senso che da essa si evince che il dichiarante ne sapeva, sull’argomento, più di quanto fosse stato disposto a dichiarare. Un controllo rigoroso esigeva che il dichiarante precisasse il contenuto della confidenza ricevuta – ossia in che termini gli fu confermato che si era trattato di un omicidio e a chi fosse ascrivibile – le circostanze di tempo e di luogo in cui la ricevette; e l’identità dell’affiliato (o degli affiliati) che gliela fecero. Invece, quella prima sortita sul caso IMPASTATO si chiude con un’affermazione che denota una sostanziale indisponibilità ad ulteriori approfondimenti.
In altri termini, stando al tenore di quella prima dichiarazione, il caso IMPASTATO sembra essere un argomento sul quale il collaboratore non intendeva soffermarsi, pur essendo trasparente che egli sapesse o dovesse sapere qualcosa di più dei pochi e generici cenni cui si era limitato.
Quanto ai motivi della sua iniziale reticenza e alla svolta maturata con l’interrogatorio del 18.11.94 – ossia oltre un anno dopo: ma è anche vero che l’omicidio IMPASTATO, per quanto consta, non era stato più argomento dei successivi interrogatori e che in quello del 18.11.94 fu affrontato per iniziativa dello stesso collaboratore – alle plausibili e per certi versi assai franche spiegazioni che lo stesso PALAZZOLO ha dato nei termini sopra riportati, va aggiunto quanto segue.
Egli non è certamente credibile quando attribuisce la sua iniziale reticenza al disagio suscitato in lui dal convincimento che il padre di Peppino fosse in qualche modo responsabile (moralmente) della morte di suo figlio (per essersi volontariamente allontanato, o per avere accettato di essere allontanato da Cinisi, lasciando di fatto il figlio alla mercé di chi lo voleva morto): questo motivo è adombrato, insieme ad altri, dal PALAZZOLO nell’interrogatorio del 18.11.94 (“…mi rendevo conto che lo stesso padre era in certo modo responsabile della morte di quel ragazzo, ed è proprio ciò che mi ha fatto apparire l’episodio riprovevole. Sono infatti molto legato ai miei figli e non riesco a capire le ragioni di un fatto così grave”).
Ma è credibile nella parte in cui addita l’omicidio IMPASTATO come fonte e causa di perdurante disagio per chi si sia riconosciuto in certe scelte criminali e con molta fatica cerca di dimetterne (dis)valori e le connesse abitudini, convinzioni e schemi mentali e di giudizio. Così si esprime il collaborante la prima volta che ha cercato di spiegare la sua iniziale reticenza “…dell’omicidio di Peppino IMPASTATO, del quale non avevo parlato prima perché nel mio intimo lo considero un fatto particolarmente riprovevole, e di ciò non ho mai avuto piena consapevolezza, se non adesso, perché ho avuto modo di riflettere. In realtà è difficile spiegare quello che penso, perché si tratta di valutazioni diverse di uno stesso fatto, dipendenti dalle diverse mentalità di un uomo d’onore e di chi ha scelto invece di combattere Cosa Nostra a costo di notevoli sacrifici”.
Questo tipo di spiegazione riecheggia nella risposta che il PALAZZOLO ha dato, nel corso del suo esame dibattimentale, alla specifica domanda con la quale gli si chiedeva di chiarire le ragioni della sua iniziale reticenza (cfr. pag. 84 del verbale di trascrizione in atti). Risposta nella quale egli sembra appunto alludere alla graduale e sofferta presa di coscienza dell’irreversibilità della sua scelta di collaborare con la Giustizia e della necessità di compierla fino in fondo.
E l’ulteriore spiegazione addotta delle sue remore a parlarne non è affatto in contrasto con quella linea argomentativa.
Ed invero, l’omicidio IMPASTATO è un delitto infamante o comunque un delitto di cui il clan BADALAMENTI non poteva menar vanto; e infatti, ci ha rivelato il collaborante, Vito PALAZZOLO gli raccomandò di non farne parola neppure nei discorsi con gli altri affiliati al clan. Non era assimilabile a nessuno dei delitti commessi con lo spirito di un soldato che va alla guerra, come si è espresso il PALAZZOLO con riferimento agli omicidi progettati o commessi nel quadro dello scontro con i corleonesi per la conquista del territorio di Cinisi e dintorni. Quel delitto era stato l’epilogo di una vicenda lacerante ed era stato vissuto e rievocato con sincera sofferenza – secondo quanto può evincersi dal racconto circa la commozione con cui Vito PALAZZOLO gliene parlò – se non come un’onta da chi ne aveva condiviso la responsabilità.
Per parlarne senza più riserve o remore di qualsiasi genere un ex uomo d’onore come Salvatore PALAZZOLO doveva giungere ad una piena e irreversibile rottura di qualsiasi residuo legame con gli interessi ma anche la mentalità e i condizionamenti psicologici e culturali che potevano ancora alimentare un malinteso senso dell’onore e della lealtà nei confronti della propria cosca o di singoli associati. Oppure essere spinto da un movente forte e dall’aspettativa di un ricavarne un vantaggio apprezzabile.
In questo senso è vero o è credibile che per un omicidio ormai lontano nel tempo e già archiviato, tale da non rivestire più particolare interesse per gli stessi Inquirenti, non valesse la pena fare alcuno sforzo per raccogliere i propri ricordi e vincere le residue remore a parlarne, magari mettendo a rischio la propria credibilità, come pure il collaboratore ci ha detto con sconcertante franchezza.
Di contro, un analogo calcolo utilitaristico, riferito al bisogno di riguadagnarsi la fiducia degli Inquirenti nella lealtà e nell’utilità della sua collaborazione, poteva costituire – anche se a tanta franchezza il collaborante non è giunto – un movente sufficiente a vincere ogni residuo scrupolo a disvelare quanto a sua conoscenza su quel delitto: senza che per questo ne venga inficiata l’attendibilità delle sue dichiarazioni.
6.4. Valore probatorio della chiamata in reità nei riguardi di PALAZZOLO Vito e riscontri estrinseci
1.- Le dichiarazioni sopra esaminate integrano gli estremi di una vera e propria chiamata in reità. Infatti, le rivelazioni che il collaboratore PALAZZOLO Salvatore attribuisce all’odierno imputato sono di tal tenore da non lasciare dubbi sulla rivendicazione della paternità dell’omicidio, anche sotto il profilo dell’ammissione di avere lo stesso Vito PALAZZOLO (indicato come fonte di conoscenza dei fatti) concorso alla sua deliberazione.
Non v’è, nel racconto che ne fece al collaborante, alcuna presa di distanza, ma, piuttosto, la rappresentazione di una decisione sofferta, cui la vecchia famiglia mafiosa di Cinisi addivenne come scelta obbligata, dopo che si era rivelato vano ogni tentativo di indurre il giovane militante comunista a desistere dai suoi attacchi.
Premesso ancora che i riscontri all’attendibilità di una chiamata in reità possono essere di qualsivoglia natura e quindi anche di natura eminentemente logica, nel caso di specie l’attendibilità delle accuse nei riguardi dell’odierno imputato riceve piena conferma, sul piano logico, dalle risultanze già esaminate in ordine al movente e al contesto in cui maturò la decisione di uccidere Giuseppe IMPASTATO. Sul punto non può che rinviarsi alle considerazioni già esposte. Basterà rammentare che, ai fini del riscontro logico all’attendibilità dell’accusa, due sono i passaggi essenziali sui quali si è raggiunta, grazie anche al decisivo apporto delle convergenti propalazioni di numerosi collaboratori di Giustizia, una ragionevole certezza:
a) l’omicidio fu voluto e attuato dall’intera famiglia mafiosa di Cinisi, o quanto meno previa deliberazione – e fu una decisione sofferta, essendo l’IMPASTATO il rampollo di una famiglia onorata e rispettata in Cosa Nostra – degli uomini d’onore che all’epoca vi rivestivano ruoli di spicco e di comando;
b) all’interno della cosca mafiosa di Cinisi, Vito PALAZZOLO all’epoca dell’omicidio rivestiva certamente un ruolo di spicco ed era uno degli esponenti più autorevoli e conosciuti anche da uomini d’onore di altre famiglie mafiose.
Un prezioso seppur indiretto riscontro viene poi dalle dichiarazioni del collaboratore di Giustizia DI CARLO Francesco, specificamente nella parte in cui si riferiscono al coinvolgimento nell’omicidio di due soggetti, come DI TRAPANI Francesco e BADALAMENTI Antonino, che sono stati indicati anche da PALAZZOLO Salvatore, sulla scorta delle confidenze che gli fece l’odierno imputato, come esecutori materiali del delitto.
Va aggiunto ancora che Vito PALAZZOLO, all’epoca dell’omicidio, era ben presente a Cinisi, nonostante avesse formalmente trasferito la propria residenza al Nord: ciò almeno fino al 1981, come ricorda la sig.ra BARTOLOTTA Felicia, a dire della quale è in quell’anno che il PALAZZOLO non si vide più in paese. E non a caso quello è l’anno in cui anche a Cinisi esplode la guerra di mafia e i fedelissimi di Gaetano BADALAMENTI sono costretti ad allontanarsi, alcuni definitivamente altri provvisoriamente, dal paese.
Lo stesso PALAZZOLO ha tentato di contestare questo punto, anche nel corso dell’interrogatorio reso al P.M. il 17.06.1997, sostenendo che dal 1966 e fino al 1987 aveva trasferito al Nord il centro dei propri interessi oltre che la formale residenza. Certo è che si sposa per la seconda volta a Cinisi, nel 1974 e con una compaesana. E anche Giovanni IMPASTATO lo ricorda come uno dei più assidui frequentatori di casa sua (essendo nella cerchia delle persone di rispetto cui suo padre era legato), almeno fino a quando Luigi IMPASTATO fu in vita. Lo stesso imputato, del resto, ha finito per ammettere, nel corso del suo interrogatorio, che effettivamente andava e veniva da Cinisi quando voleva; e lo faceva spesso, vuoi per il bisogno di vedere la famiglia, che non si è mai trasferita da Cinisi, vuoi per ragioni di salute.
L’imputato era quindi perfettamente a conoscenza dell’irriducibile impegno politico e di lotta del giovane IMPASTATO, come d’altronde era noto a tutti in paese. Ma è provato che egli fu personalmente coinvolto in un momento cruciale della vicenda (l’episodio più volte rammentato della visita a casa IMPASTATO dopo che era stato diffuso il volantino contenente pesanti attacchi a Gaetano BADALAMENTI, cui seguì, a distanza di pochi giorni, l’improvviso e misterioso viaggio di Luigi IMPASTATO negli Stati Uniti) che dimostra come personalmente egli ebbe a partecipare ai reiterati tentativi di indurre Peppino a più miti consigli.
Né può obbiettarsi che quell’episodio precede di un anno la commissione del delitto, poiché, secondo la ricostruzione offerta dallo stesso collaborante, esso richiese una lunga gestazione: non tanto per difficoltà legate alla sua materiale esecuzione, quanto perché si tento fino all’ultimo di evitarlo, cercando varie vie per indurre Peppino IMPASTATO a cambiare atteggiamento.
2. Dichiarazione “de relato” e “chiamata diretta”.
2.1. È opinione comune che la dichiarazione de relato, nella parte in cui contempli accuse nei confronti di terzi, attribuendo loro dei fatti penalmente rilevanti, consista e debba essere valutata alla stregua di una chiamata solo “indiretta”. In realtà si impongono anche qui alcune precisazioni, non già per confutare la validità di tale assunto, ma per meglio determinarne, circoscrivendone significato e limiti, l’effettivo contenuto di verità.
Quando la dichiarazione de relato si sostanzi in una chiamata di correo, nel senso che l’autore della propalazione accusatoria di cui il dichiarante abbia riferito appunto gli abbia a suo tempo confidato di avere commesso un delitto insieme ad altre de relato persone, nei confronti di queste ultime il vero chiamante non è il dichiarante, ma la sua fonte di conoscenza del fatto. In altri termini, è la persona da cui il dichiarante ha appreso la notizia criminis (che poi riferisce in sede processuale) a chiamare in causa, con le sue rivelazioni, i propri correi.
Ma se è così, allora deve anche convenirsi che, avuto riguardo al punto di vista del vero chiamante, che si identifica con la fonte di conoscenza del dichiarante, e alla posizione reciproca di chiamante e chiamati, questo tipo di chiamata di correo è diretta e non già indiretta, e assume, nei confronti del chiamante, come in tutte le vere e proprie chiamate di correo, un contenuto ed una valenza confessoria: con le conseguenze che possono discenderne in ordine alla valutazione in concreto della sua efficacia probatoria.
Ora, al di là delle facili suggestioni che possono ricavarsi da astratti e sempre opinabili schematismi nella classificazione delle chiamate di correo, il vero problema posto da questo tipo di chiamata consiste pur sempre in quello preliminare e tipico di qualsiasi dichiarazione de relato: occorre infatti stabilire se il dichiarante abbia detto il vero o abbia mentito quando asserisce di aver appreso di un delitto dal suo stesso autore, ovvero da chi gli avrebbe rivelato di aver commesso, insieme ad altre persone, un determinato fatto delittuoso.
Ciò è tanto più vero quando il delitto sia di particolare gravità, e quindi altamente compromettente per chi riveli di esserne autore, chiunque egli sia, e a fortiori, quando il confidente sia un uomo d’onore. In questo caso, infatti, anche volendo prescindere da presunti obblighi associativi che imporrebbero all’uomo d’onore di dire la verità, ovvero di tacere piuttosto che mentire, si accentua l’interesse a mantenere il più stretto riserbo su fatti oggettivamente compromettenti non solo per le possibili conseguenze di fronte alla legge – un pericolo questo reso ancor più concreto dal dilagare del pentitismo – ma anche e prima di tutto per il rischio di una propalazione della notizia all’interno della stessa organizzazione criminale, e della conseguente esposizione della fonte a rappresaglie o ritorsioni.
Insomma, la possibilità che l’uomo d’onore falsamente riveli ad altro affiliato, sia o meno anche questi un uomo d’onore, di aver commesso un delitto, coinvolgendo altri affiliati tra i quali anche degli uomini d’onore, stride talmente con il buon senso e i dati di comune esperienza anche processuale, da potersi scartare siccome inverosimile, almeno fino a prova contraria.
Resta invece il problema di un possibile mendacio da parte dello stesso dichiarante de relato. E in questa prospettiva vanno ricercati e valutati con il massimo rigore i riscontri necessari a confermare l’attendibilità del suo racconto, dovendosi mettere in conto sia la possibilità di una propalazione del tutto falsa, sia la possibilità che il dichiarante sappia di un delitto per averlo commesso lui stesso e la dichiarazione de relato costituisca un artificio utile a creare uno schermo protettivo da frapporre tra sé e le conseguenze del fatto, scaricandone la responsabilità, in tutto o in parte su altri.
2.2. Non sembra dunque che possa assimilarsi ad una chiamata de relato, strutturalmente omogenea alla testimonianza indiretta, l’ipotesi in cui il chiamante abbia appreso la notizia del fatto costituente reato direttamente dal soggetto a cui attribuisce tale fatto: ossia l’ipotesi in cui referente e confidente sia lo stesso chiamato, in quanto autore o compartecipe del fatto oggetto della propalazione accusatoria nei suoi riguardi. Ed è proprio questa la caratteristica comune ad alcune delle chiamate formulate nei confronti degli unici due imputati dell’omicidio IMPASTATO, ovvero delle chiamate, che qui si prospettano come de relato, nei riguardi di Gaetano BADALAMENTI, e, per quanto interessa ai fini del presente giudizio, nei riguardi di PALAZZOLO Vito.
A corredo delle argomentazioni suesposte va peraltro rammentato che già la giurisprudenza di legittimità aveva statuito che “nell’ipotesi in cui il referente del testimone indiretto sia persona che abbia la qualità di imputato nel procedimento, ovvero che tale qualità avrebbe potuto assumere se ancora in vita, non è necessario che il giudice compia la verifica sull’esistenza di altri elementi di prova che confermano l’attendibilità della dichiarazione, come richiesto dall’art. 192 co. 3°; e ciò in quanto, mentre la dichiarazione resa al giudice da chi è coinvolto negli stessi fatti addebitati all’imputato può, per sua natura, ingenerare un erroneo convincimento, tanto che la legge pretende per la chiamata di correo maggior rigore valutativo e necessario riscontro probatorio, nell’ipotesi di testimonianza indiretta il racconto del referente è fatto fuori del processo, sicché la cautela imposta dal legislatore è limitata al controllo delle fonti di conoscenza del testimone de relato” (Cfr. Cass. 17/01/97, ACCARDO).
Con ciò si delineano le premesse della successiva elaborazione giurisprudenziale sull’obbiettiva distanza che separa l’ipotesi qui in esame dalla “testimonianza indiretta” ex art. 195, ovvero dalla chiamata de relato.
Elaborazione sfociata in recenti pronunzie con cui il S. C. ha statuito che l’art. 195 C.P.P., laddove prevede il potere-dovere del giudice di disporre che sia sentita la fonte diretta di prova, “non è applicabile nel caso che il testimone o l’imputato in un procedimento connesso si riferiscano, per la conoscenza dei fatti, all’imputato del medesimo procedimento in cui vengano assunte le loro dichiarazioni” (Cass. 22/09/98, TROVATO).
A sostegno di tale principio, militano anzitutto argomenti di natura testuale quali l’esclusiva riferibilità a persone aventi la qualità di testimone della locuzione: “chiamate a deporre” di cui al comma 1 dell’art. 195; ed ancora, l’espresso riferimento al “testimone che abbia una diretta conoscenza dei fatti”, che è contenuto nella relazione al progetto preliminare del codice; e la mancata previsione dell’esame dell’imputato nei casi di cui all’art. 195 C.P.P., a differenza di quanto previsto per gli imputati di reato connesso dall’art. 210, co. 1° C.P.P.
Ma a tali argomenti il S. C. aggiunge anche quello logico-sistematico, che fa ritenere del tutto incongruo l’obbligo o anche la mera facoltà del giudice di escutere la fonte diretta, ove questa si identifichi con l’imputato. Questi infatti, a norma dell’art. 494 C.P.P., ha facoltà di rendere le dichiarazioni che ritiene più opportune. E in tal senso interpretata, conclude la Corte, la norma si sottrae ai dubbi di legittimità costituzionale, con riguardo agli artt. 3 e 24 Cost., per la sostanziale differenza esistente fra le ipotesi in cui il dichiarante si riferisca ad una terza persona, estranea al processo, e quella in cui si riferisca all’imputato già presente nel processo con possibilità di ampia difesa, garantita appunto dall’art. 494 C.P.P.
A queste persuasive argomentazioni può poi aggiungersi che la tradizionale distinzione tra chiamata diretta e indiretta e la stessa ratio dell’art. 195 non sono giustificate soltanto da una sorta di “legittima suspicione” nei riguardi della testimonianza indiretta, ovvero da una presunzione di inaffidabilità originaria (in senso subbiettivo), motivata da regole di esperienze che si ricollegano alla posizione di chi, parlando attraverso le rivelazioni o le confidenze di terze persone, non si assume la responsabilità di quelle dichiarazioni (cfr. in termini, Cass. 3/05/96, NOCCHIERO).
Ed invero, quando la propalazione accusatoria si intreccia con le dichiarazioni confessorie, come nel caso della chiamata di correo in ordine a delitti commessi in un contesto associativo, ancorchè de relato – ed è appunto il caso delle dichiarazioni rese anche in questo processo da PALAZZOLO Salvatore nei riguardi di PALAZZOLO Vito – essa non è affatto scevra da responsabilità per il dichiarante. E comunque, a fugare quella presunzione di inaffidabilità originaria dovrebbe bastare un rigoroso vaglio in merito all’attendibilità del dichiarante stesso e della singola dichiarazione.
In realtà, v’è anche qualcosa di più di una remora a priori in ordine all’affidabilità di chi formula accuse de relato. Infatti, dubbi e riserve riguardano piuttosto e più semplicemente la minore prossimità al fatto (oggetto dell’enunciato accusatorio) del dichiarante e della conoscenza da questi acquisita: una conoscenza mediata appunto dalla confidenza di un “terzo”, e cioè di “altre persone”, come recita testualmente il primo comma dell’art. 195, con ciò alludendo evidentemente a soggetti diversi non solo dal dichiarante, ma anche dallo stesso chiamato.
Ma quando è lo stesso chiamato ad essere indicato come fonte primaria di cognizione, in forza di una confidenza di tipo confessorio che il dichiarante asserisce di aver ricevuto appunto dallo stesso autore del fatto oggetto dell’enunciato accusatorio, allora la situazione sul piano dell’efficacia probatoria non è dissimile, almeno quoad effectum, da quella che si delinea nell’ipotesi di chiamata diretta. Infatti, il carattere pur sempre mediato della conoscenza acquisita dal dichiarante in ordine alla commissione del fatto da parte del chiamato viene largamente compensato dalla suggestione legata al carattere confessorio della confidenza fatta dal chiamato. Ed anzi, quando una persona confida ad altri di aver personalmente partecipato ad un delitto di estrema gravità – e lo faccia in epoca e in circostanze non sospette, e cioè ben prima, oltre che al di fuori del processo in cui poi sia imputata di quel delitto – alla suggestione probatoria che sempre si accompagna a dichiarazioni di tipo confessorio si aggiunge un elemento rafforzativo che è dato proprio dall’epoca e dalle circostanze in cui è stata fatta la confidenza.
Ne segue che, in questa ipotesi, la chiamata de relato è sostanzialmente assimilabile, come valenza ed efficacia probatoria, ad una qualsiasi chiamata diretta, ferma restando l’esigenza di vagliare l’attendibilità e di rinvenire i riscontri richiesti dall’art. 192, co. 3°.
Un ulteriore argomento di tipo presuntivo ricorre poi quando la rivelazione compromettente (anche per chi la fa) sia fatta da un uomo d’onore ad altro uomo d’onore. E ciò non solo per regole di esperienza enucleate in relazione al preteso obbligo che ogni uomo d’onore avrebbe di dire sempre la verità o comunque di non mentire ad altro uomo d’onore. Ma più semplicemente perché all’ovvia convenienza che l’autore di un grave delitto ha a mantenere il massimo riserbo sulla propria responsabilità si aggiunge, nei rapporti tra gli affiliati di un’organizzazione criminale, un motivo di opportunità in più a non compromettersi nei riguardi di soggetti che, seppur appartenenti allo stesso sodalizio mafioso, non abbiano preso parte al delitto in questione. (V. supra, con riferimento al rischio che la notizia si propaghi, esponendo l’autore della confidenza a ritorsioni o vendette; o al pericolo di essere coinvolto nelle propalazioni accusatorie di qualche nuovo collaboratore di Giustizia).
Peraltro, la regola che impone ad un uomo d’onore di non mentire, al pari di tutte le presunte regole di Cosa Nostra, ben può essere violata. Ma il fatto stesso che tale regola esiste o comunque che sia avvertita come tale in seno al “popolo” di Cosa Nostra – come acquisito in innumerevoli processi a carico di affiliati o presunti esponenti di tale organizzazione – fa ragionevolmente presumere che essa possa essere violata solo in presenza di un forte interesse a farlo e sulla base di una motivazione plausibile.
Nel caso di specie, PALAZZOLO Vito avrebbe avuto interesse a mentire (o più semplicemente a tacere) di fronte al suo giovane sodale, piuttosto che ammettere il proprio coinvolgimento in un delitto del quale non si poteva menar vanto nelle confidenze tra affiliati, e che a distanza di tanti anni gli procurava ancora un forte turbamento, se è vero che ne parlò con accenti di sincera commozione.
CONCLUSIONI
Alla luce delle considerazioni che precedono va dunque affermata la penale responsabilità di Vito PALAZZOLO per il delitto ascrittogli di omicidio premeditato in danno di Giuseppe IMPASTATO.
L’imputato va invece prosciolto dall’imputazione relativa ai connessi delitti di detenzione porto abusivo di esplosivi, essendo entrambi reati estinti per intervenuta prescrizione.
Ed invero, a tutto concedere la prescrizione sarebbe maturata a novembre del 2000. In realtà, i delitti predetti si erano già prescritti nel termine ordinario di anni quindici nel maggio del ’93, non essendo fino ad allora intervenuto alcun atto interruttivo della prescrizione nei confronti dell’odierno imputato.
Il primo atto interruttivo è costituito infatti dal provvedimento con cui il P.M. ne dispose l’iscrizione nel registro degli indagati; e tale provvedimento porta la data del 18/11/96. (Ivi si dispone altresì che l’iscrizione abbia effetto dal 21/10/96).
Ma anche aderendo all’indirizzo interpretativo secondo cui l’interruzione del corso della prescrizione nei riguardi di uno dei correi (e in questo caso Gaetano BADALAMENTI venne iscritto nel registro degli indagati il 15 marzo 1991, sia pure nell’ambito del procedimento poi archiviato con decreto del 16 marzo 1992: v. supra) ha effetto anche per ciascuno degli altri eventuali correi, sarebbe comunque decorso, appunto a novembre del 2000, il termine massimo, pari a 22 anni e sei mesi.
Il PALAZZOLO va quindi condannato per il solo delitto di omicidio.
Ne segue che, ai fini del trattamento sanzionatorio, nulla osta all’applicazione in favore dell’imputato del beneficio previsto dall’art. 442 cpv., nella parte in cui prevede la sostituzione della pena dell’ergastolo – cui l’imputato andrebbe condannato, non ravvisando questa Corte idonei motivi per concedere le circostanze generiche attenuanti, a fronte dell’eccezionale gravità del delitto – con la sanzione di trent’anni di reclusione.
Alla condanna segue come per legge il pagamento delle spese processuali e di mantenimento in carcere durante la custodia cautelare; nonché, dopo l’esecuzione della pena, la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di anni tre, attesa la pericolosità sociale insita nel perdurare dei legami dell’imputato con i circuiti mafiosi locali che, per quanto consta, non sono mai venuti meno.
Va altresì applicata la pena accessoria dell’interdizione legale per tutta la durata della pena e quella dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
L’imputato va inoltre condannato alla rifusione delle spese in favore delle parti civili, da liquidarsi secondo gli importi rispettivamente specificati in dispositivo. A ciascuna di loro va infatti riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni derivanti dall’efferata uccisione di Giuseppe IMPASTATO, danni da liquidarsi in separata sede.
In particolare, appare fondata la pretesa al risarcimento del danno morte per gli eredi legittimi e prossimi congiunti della vittima, atteso l’intenso legame affettivo emerso nei riguardi della stessa anche al di là dello strettissimo vincolo di sangue. E va riconosciuta altresì la fondatezza della pretesa azionata dagli Enti pubblici territoriali costituitisi parte civile (Comune e Regione), avuto riguardo sia al danno derivato da un efferato delitto di mafia alla sicurezza delle comunità locali e all’ordinato svolgimento delle attività produttive, sottoposte alla minaccia incombente della violenza mafiosa; sia al danno che ne deriva all’ordinato svolgimento della vita civile e politica e anche all’immagine dei centri interessati, con gravi ricadute anche per lo sviluppo del turismo.
P. Q. M.
Visti gli artt. 28, 29, 32, 133, 230 c.p., 533, 535 c.p.p.;
D I C H I A R A
PALAZZOLO Vito colpevole del reato di omicidio aggravato a lui ascritto al capo A) della rubrica, e, con la diminuente per il rito prevista dall’art. 442 c.p.p. come modificato dall’art. 30 della legge 16.12.1999, n. 479, in relazione all’art. 223 del D.L.vo 19.2.1998, n. 51, lo condanna alla pena della reclusione per anni trenta, nonché al pagamento delle spese processuali e di mantenimento in carcere durante la custodia cautelare.
D I C H I A R A
Il suddetto imputato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, e inoltre, per tutta la durata della pena, interdetto legale.
ORDINA
Che l’imputato sia sottoposto, dopo l’espiazione della pena, alla misura di sicurezza della libertà vigilata per un tempo non inferiore a tre anni.
Visti gli artt. 538 e seguenti c.p.p.;
CONDANNA
PALAZZOLO Vito al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore di BARTOLOTTA IMPASTATO Felicia e IMPASTATO Giovanni, del Comune di Cinisi, in persona del Sindaco pro-tempore, e della Regione Siciliana, in persona del Presidente pro-tempore, costituitisi parti civili, nonché alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle stesse parti civili, liquidate in favore di Bartolotta Impastato Felicia e Impastato Giovanni, giusta la nota presentata, in complessive lire 60.060.000, in esse comprese lire 40.000.000 per diritti di procuratore e lire 20.000.000 per onorari di avvocato, oltre al CPA e all’IVA come per legge, e in favore del Comune di Cinisi e della Regione Siciliana, d’ufficio – in mancanza della relativa nota, in complessive lire 6.060.000 ciascuno, in esse comprese lire 6.000.000 per onorari.
Visto l’art. 531 c.p.p.
DICHIARA
Non doversi procedere nei confronti di Palazzolo Vito in ordine al reato di cui al capo B) della rubrica, perché estinto per prescrizione.
Visto l’art, 544 c.p.p.
INDICA
il termine di giorni 90 per la stesura della motivazione della sentenza.
Palermo, 5 marzo 2001
Il Giudice estensore A. Pellino
Il Presidente A. Monteleone