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Sul delitto Fragalà

Umberto Santino

Sul delitto Fragalà

L’assassinio dell’avvocato Fragalà, oltre ai problemi che un delitto di particolare gravità pone agli investigatori, ha suscitato interrogativi sulla violenza in una città come Palermo nel contesto attuale.
Si tratta di un delitto di criminalità comune o c’è la mano della mafia? La città vive una fase di transizione in cui la violenza assume sempre più le caratteristiche che ha in altre aree metropolitane o ha ancora una sua specificità?
Se si tratta di un delitto dovuto a un criminale comune, dato che l’omicidio di un uomo politico di lungo corso e di un avvocato notissimo come Fragalà non poteva non destare scalpore, ci si chiede se esso si sia potuto consumare senza che l’organizzazione mafiosa ne sapesse niente e senza un suo benestare. Viviamo una situazione contraddittoria: Cosa nostra negli ultimi anni ha ricevuto colpi consistenti, con l’arresto e le condanne di capi e gregari che ne hanno scompaginato l’organigramma, mentre il modello mafioso di accumulazione e di gestione del potere, dai vertici alle articolazioni periferiche, all’insegna dell’illegalità impunita, si è diffuso su tutto il territorio nazionale. Si è detto che il controllo del territorio sia un attributo inderogabile del fenomeno mafioso e chi scrive ha parlato di “signoria territoriale mafiosa”, intesa come dominio tendenzialmente totalitario sulle attività e anche sulle relazioni interpersonali che si svolgono su un’area determinata. Ma tale signoria oggi ha quel carattere dittatoriale e onnicomprensivo che ha avuto nei tempi in cui la mafia godeva di un’impunità assoluta o quasi, o si sono aperte delle falle? Il “governo del crimine”, esercitato in passato anche con il ricorso a delitti emblematici, come l’uccisione di piccoli delinquenti che agivano fuori dal seminato, è oggi esercitato a tappeto o i problemi interni all’organizzazione ne impediscono o limitano l’esercizio?
Che interesse poteva avere la mafia a eliminare un personaggio pubblico, dal punto di vista politico e professionale, come Fragalà? Si dice che ultimamente avesse difeso qualche mafioso “dichiarante” ma questo bastava a farne un bersaglio dei gruppi mafiosi?
Quel che si può dire è che non bisogna farsi prendere troppo la mano dalle modalità del delitto, in base a una visione statica del fenomeno mafioso per cui un omicidio di mafia non può essere eseguito che in un certo modo, con la lupara, con il kalashnikov o con altre armi da fuoco. Anche per Peppino Impastato si disse che la dinamica del delitto non seguiva il copione canonico e c’è voluto del tempo per capire che una mafiologia dogmatica e datata non è in grado di leggere un fenomeno che intreccia rigidità formali ed elasticità di fatto, sia per le modalità di esecuzione dei delitti sia per le attività che coniugano continuità e trasformazione, per cui le estorsioni convivono con le innovazioni finanziarie postmoderne. Questa capacità di camminare con i tempi, di adeguarsi a contesti diversi da quelli originari, spiega la persistenza del fenomeno mafioso e di altri fenomeni ad esso assimilabili. E qui più che le capacità militari dei vari padrini ha un ruolo fondamentale il sistema di rapporti, formato da soggetti delle professioni, dell’imprenditoria, della pubblica amministrazione, della politica, delle istituzioni, che sono in grado di elaborare strategie e pianificare modelli di espansione. Un delitto compiuto con una spranga o un bastone sembra lontano mille miglia dalle esecuzioni mafiose ma questo non basta da solo ad escludere la mano della mafia.
Il delitto Fragalà non è il primo che colpisce un avvocato. Il 6 maggio1986 a Messina, durante un processo a 280 appartenenti alle cosche mafiose, fu ucciso Antonino D’Uva, difensore di tredici imputati. Il 31 ottobre 1989 a Palermo fu ucciso l’avvocato Giuseppe Ramirez; come mandante del delitto è stato condannato l’ex impiegato regionale Antonino Sprio, mandante anche degli omicidi dei funzionari regionali Giovanni Bonsignore e Filippo Basile. Il 9 novembre 1995 a Catania fu ucciso Serafino Famà, legale di mafiosi, tra cui Giuseppe “Piddu” Madonia, boss di Gela, e Giuseppe Pulvirenti prima del suo “pentimento”. Si parlò di contrasti tra l’avvocato e Madonia, ma non si escluse che l’omicidio potesse essere un avvertimento agli avvocati perché assumessero un ruolo più attivo nella difesa dei mafiosi. Il primo febbraio del 2000 a Palermo venne ucciso nel suo studio a colpi di roncola l’avvocato Antonio Cipolla, un giallo ancora oggi irrisolto. Ora è toccato a un personaggio molto più noto degli altri colleghi come Fragalà. E dopo l’omicidio molti avvocati hanno detto di temere per la loro incolumità e più di un magistrato ha dichiarato che il delitto è un messaggio rivolto a tutto il mondo della giustizia. Per una giustizia che attraversa una crisi profonda, priva com’è di uomini e di mezzi, ed è attaccata frontalmente dal capo del governo, che considera i magistrati cosiddetti “politicizzati”, che risultano tra i più attivi nel contrasto alla criminalità organizzata, come una patologia più grave delle mafie, ci voleva pure questo. Anche se il delitto fosse il frutto della reazione di un cliente insoddisfatto del lavoro dell’avvocato o della ritorsione di qualcuno che si è sentito colpito dalla sua attività, gli interrogativi di cui parlavamo all’inizio non possiamo non porceli, in attesa di una risposta che non può venire solo dagli investigatori. La ripresa di atti di intimidazione rivolti contro commercianti e imprenditori che vogliono liberarsi dal giogo del pizzo dimostra che la mafia, anche se duramente falcidiata, non ha nessuna intenzione di abbandonare il campo e non credo che sia maturo il tempo per considerarla ormai avviata a una sconfitta irreversibile e definitiva. I proclami del leghista Maroni, che vanta grandi successi nella lotta alle mafie come se fossero dovuti alla sua gestione del ministero dell’Interno, sono la foglia di fico a un governo che è solo interessato a sottrarre alla giustizia un presidente che vuole drasticamente limitare uno strumento fondamentale come le intercettazioni, considera Dell’Utri un perseguitato dalle “toghe rosse” e ha proclamato il capomafia Mangano un eroe, per la sua indiscussa devozione alla religione dell’omertà.