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Umberto Santino

La trattativa Mafia-Stato: una storia che si ripete

Le dichiarazioni di Massimo Ciancimino hanno portato alla ribalta il tema della trattativa tra capimafia e rappresentanti dello Stato e da più parti si grida alla novità. Certo, il “papello” con le richieste dei mafiosi, irricevibili anche dallo Stato più scalcagnato, può essere considerato un fatto nuovo ma il rapporto tra mafia siciliana e uomini e settori delle istituzioni è una costante nella storia della mafia e ne ha costituito insieme la forza e la specificità.
Un breve promemoria. Già in quelli che possono definirsi “fenomeni premafiosi”, documentabili dal XVI secolo alla prima metà dell’Ottocento, periodo d’incubazione del fenomeno mafioso, ci sono reati che coniugano signoria territoriale e modalità di accumulazione, come per esempio l’abigeato, che non sarebbero possibili senza la complicità delle compagnie d’armi, forze dell’ordine del tempo, o il coinvolgimento in prima persona dei loro capitani. E’ il caso di Mario de Tomasi, prima arruolato tra le guardie a piedi, poi capitano d’armi, capostipite della famiglia in cui nascerà lo scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Come dire che all’inizio della dinastia più che un gattopardo è uno sciacallo, un personaggio di umili origini che all’interno delle istituzioni usa il crimine per arricchirsi e per scalare posizioni sociali.
Fin dai primi anni della formazione dello Stato unitario si parla di “mafia politica”. Nel 1861 il deputato Diomede Pantaleoni in un rapporto al ministro dell’Interno Bettino Ricasoli scriveva che molti delitti rimanevano impuniti nonostante che gli autori fossero notori e che i “facinorosi” erano legati al partito della Società nazionale, il partito governativo. Si legge nel rapporto di Pantaleoni: “Si legano a questo partito… persone di mal affare, facinorosi , accoltellatori, che spesso con grandissimo scandalo e danno del governo si veggono nominati anco a posti governativi”. Dieci anni dopo, nel 1871, il procuratore di Palermo Diego Tajani incrimina il questore Giuseppe Albanese che arruolava mafiosi arcinoti nella polizia e si serviva di alcuni di essi per eliminare altri delinquenti. Albanese fu prosciolto e Tajani annotava: “La maffia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale”. Pochi anni dopo Leopoldo Franchetti, nella sua inchiesta privata sulla Sicilia condotta assieme a Sidney Sonnino, parlava della mafia come “industria del delitto” praticata dai “facinorosi della classe media”, cioè della nuova classe dirigente e sottolineava che lo Stato infieriva sulle classi popolari ma era impotente contro la mafia e la “classe abbiente” o almeno “sopra la parte dominante di essa”. Era impotente o albergava la serpe in seno? Com’è noto, l’inchiesta di Franchetti e Sonnino destò un vespaio di polemiche ma per molti aspetti è ancor oggi attuale.
L’Italia scopriva la mafia con il delitto Notarbartolo del primo febbraio 1893 e nonostante l’esito del processo, conclusosi con l’assoluzione del principale imputato, il deputato Raffaele Palizzolo, sono emerse le compromissioni di uomini di potere con la malavita organizzata. Scriveva Napoleone Colajanni: “è risultato a luce meridiana che polizia, magistratura, autorità altissime di ogni genere prese nel loro insieme tutto fecero per riuscire all’impunità del presunto reo, per deviare la giustizia dalla scoperta della verità”. E ne traeva motivo per concludere: “la mafia di governo ha rigenerato la mafia dei cittadini“.
Il questore di Palermo Sangiorgi in una serie di rapporti redatti tra il 1898 e il 1900 ricostruiva un organigramma dei gruppi mafiosi molto simile a quello attuale e rilevava complicità di rappresentanti delle forze dell’ordine e della magistratura. Il processo nato dalle denunce di Sangiorgi, celebratosi tra il maggio e il giugno del 1901, non accolse la tesi che esistesse l’associazione mafiosa e quelle carte sono rimaste sepolte per più di ottant’anni.
Sarebbe troppo lungo parlare della repressione delle lotte contadine, dai Fasci siciliani di fine Ottocento agli anni ’50 del secolo scorso, dell’impunità dei responsabili di innumerevoli delitti e della strage di Portella della Ginestra, punto d’incontro di vari soggetti che miravano all’esclusione delle sinistre dal governo nazionale e regionale e ci riuscirono pienamente già nel maggio del ’47, con la rottura della coalizione antifascista al governo dal ’44. Quell’impunità ha una sola spiegazione: la mafia faceva parte del blocco agrario al potere assieme agli industriali del Nord e la violenza aveva una funzione irrinunciabile, era la risorsa a cui si ricorreva tutte le volte che quel potere veniva messo in forse dal movimento contadino.
Per andare a tempi più vicini, penso che non si sia riflettuto abbastanza sull’esito del processo ad Andreotti. Il processo è finito “all’italiana”: con un reato di associazione a delinquere semplice accertato fino al 1980 (quando non c’era ancora il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso introdotto dalla legge antimafia del 13 settembre 1982, dieci giorni dopo il delitto Dalla Chiesa), ma prescritto, e l’assoluzione per gli anni successivi. Ma è pure “all’italiana” l’archiviazione di una verità giudiziariamente conclamata, cioè che un uomo politico per molti anni al vertice delle istituzioni è stato associato a delinquere. Questo risulta da sentenze definitive ma bisognerebbe sapere che se il tramite dei rapporti con l’universo mafioso era Salvo Lima, i rapporti di Andreotti con l’ex sindaco di Palermo sono durati fino alla sua morte, nel marzo 1992.
Ora stiamo assistendo a una sorta di balletto delle amnesie e dei ricordi ripescati dopo molti anni.
Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha richiamato atti giudiziari precedenti e prima in un’intervista alla televisione e poi parlando davanti alla Commissione antimafia ha affermato che ci sono stati almeno due tentativi di intavolare la trattativa e a proposito della strage di Capaci ha evocato un'”entità esterna”. Il problema è se questa “entità esterna” assumerà un volto o se resterà vaga ed astratta e se sulle stragi di mafia si riuscirà a ricostruire per intero il quadro delle responsabilità. Le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, frutto delle confidenze dei Graviano, portano a Dell’Utri e a Berlusconi. Ma c’è una bella differenza tra l’accenno generico, il sentito dire e la prova giudiziaria. Se non si raccoglieranno prove sufficienti, si potranno riscrivere le sentenze dei processi per le stragi del ’92 e del ’93, individuando altri responsabili all’interno del mondo mafioso, ma per l’ennesima volta si dissolveranno nelle nebbie le figure dei mandanti esterni. E il lascito del passato non potrà non ipotecare il futuro.

Pubblicato su “la Repubblica Palermo”, 7 novembre 2009, con il titolo: Dal Gattopardo al “papello”: una lunga storia di patti oscuri