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Mafia e camorra, Palermo e Napoli

Umberto Santino

Mafia e camorra, Palermo e Napoli

Nelle ultime settimane, in seguito al replicarsi di eventi delittuosi a Napoli e dintorni, l’interesse di giornalisti e studiosi si è polarizzato sulle differenze, reali e presunte, tra mafia siciliana e camorra campana e tra Palermo e Napoli.
Un recente libro di Isaia Sales, Le strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2006, affronta l’argomento e credo che dia un contributo utile per evitare la solita pioggia di luoghi comuni. Sales, per dare un quadro degli esiti a cui sono pervenuti gli studi sulla mafia, ritiene che l’ipotesi definitoria “più esauriente e convincente” sia il mio “paradigma della complessità”, così riassumibile: i gruppi criminali più o meno rigidamente strutturati (Cosa nostra e altri gruppi, come la Stidda e i clan catanesi) agiscono all’interno di un contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale. L’organizzazioni criminale è una componente di un blocco sociale transclassista, dominato dai soggetti illegali e legali (professionisti, imprenditori, politici, rappresentanti delle istituzioni ) più ricchi e potenti, definibili come “borghesia mafiosa”; il fenomeno mafioso è un prisma a più facce, risultato del combinarsi di aspetti criminali, economici, politici e culturali; la sua specificità consiste nel non riconoscimento del monopolio statale della forza e nella “signoria territoriale”, intesa come controllo capillare della vita quotidiana e delle attività che si svolgono sul territorio e nell’intreccio con le istituzioni; il rapporto mafia-Stato si configura come confronto-interazione tra due doppiezze: la mafia è insieme fuori e contro e dentro e con lo Stato; quest’ultimo coniuga il monopolio formale della giustizia con la tolleranza nel confronti della mafia, che ha goduto di un alto tasso di impunità.
Sales ritiene che questo schema non sia applicabile in toto alla camorra, che viene così definita: un insieme di organizzazioni criminali senza gerarchie al proprio interno e senza una regia unitaria o una comune strategia criminale, che agisce all’interno di un contesto relazionale radicato nei vicoli, nei quartieri, nelle periferie di Napoli e nel territorio urbano nel raggio di 40 chilometri attorno a Napoli, all’interno cioè di un ambiente sociale degradato, da cui si parte e su cui ci si basa per estendere relazioni al di fuori di esso, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale – e dunque all’acquisizione e gestione di posizioni di potere – che viene in gran parte reinvestito e riutilizzato nei mercati illegali, che si avvalgono di un loro codice culturale e di un vasto consenso sociale ma al tempo stesso più circoscritto ai ceti di cui sono espressione. Non c’è attorno a loro un’estesa borghesia camorristica, così come nella mafia, in quanto l’integrazione tra camorristi e l’insieme della società circostante è meno agevole e trova più barriere che in Sicilia.
Anche il fenomeno camorristico è un prisma a più facce, ma la sua principale caratteristica è una simbiosi fortissima con il contesto sociale da cui nasce e in cui opera. La “signoria territoriale” è totale e asfissiante, ma fuori del territorio in cui è insediata si diluisce e non è in grado di esercitare un controllo e un’influenza altrettanto simbiotica. L’intreccio con le istituzioni pubbliche è meno forte e duraturo nel tempo. La camorra resiste e prospera anche senza un rapporto organico con la politica. Ha bisogno di godere della tolleranza delle istituzioni dello Stato per dominare sui mercati illegali, ma non può vantare un intreccio stabile. Fanno eccezione alcune bande delle province di Napoli, Salerno e Caserta, più simili alla mafia.
Lo schema proposto da Sales ci dà un quadro dominato dalla frammentazione e certamente è da cercare in essa la causa principale della guerra permanente che caratterizza la camorra napoletana. Il quadro si complica ulteriormente se si allarga fino a comprendere la gamma della criminalità disorganizzata e della microcriminalità e se si considera quanto diffusa e radicata sia la cultura della violenza in ampi strati della popolazione, a cominciare dai giovanissimi (un insegnante riferisce che gli alunni vanno a scuola con i coltelli in tasca). Non per caso a Napoli si parla di “sistema”, per indicare un universo composito e onnicomprensivo, anche se sembrerebbe più adeguato parlare di coacervo. Resta da vedere, rispetto allo schema profilato da Sales, se e quanto siano coinvolti soggetti classificabili come borghesi (è documentata da tempo la presenza di imprenditori legati alla camorra e di camorristi-imprenditori, soprattutto nel mercato edilizio) e se la consistenza dell’accumulazione illegale (si parla di 28 miliardi di euro l’anno, anche se queste cifre vanno prese con le pinze, si tratta in ogni caso di stime) non costituisca il terreno di formazione di una borghesia camorristica. Rimanderei inoltre a verifiche ulteriori l’affermazione secondo cui l’integrazione dei camorristi nel contesto sociale sia meno agevole rispetto a quella della mafia nella società siciliana e l’altra che vorrebbe l’intreccio con le istituzioni meno forte e duraturo (si pensi a cos’è stata l'”economia di catastrofe” innescata dal terremoto irpino).
Quel che è certo è che non c’è in Campania un governo del crimine esercitato dai gruppi camorristici, in conflitto tra loro, e non c’è un soggetto istituzionale in grado di imporre il monopolio della forza. Ma il ricorso alla violenza da parte dei gruppi camorristici e degli altri criminali è pur sempre finalizzato alla conquista di spazi economici e di potere e la ferocia della guerra in corso si spiega soprattutto con il fatto che il controllo delle risorse può ottenersi con la supremazia, anche precaria, in gioco nello scontro militare. Quindi una strategia di prevenzione e di contrasto non può fermarsi alla repressione della violenza in una prospettiva almeno di contenimento, deve necessariamente mirare a una diversa articolazione delle risorse. Se la risorsa principale di Napoli e dintorni resta l’economia illegale, non c’è nulla da fare.
Tanto a Napoli che a Palermo, si tratta di mirare a una riappropriazione del territorio e a tal fine occorre una strategia integrata, che agisca su più terreni. Se un numero adeguato di uomini delle forze dell’ordine, dislocate sul teatro urbano in modo efficace, e la certezza della punizione, improbabile in tutta l’Italia e nel Mezzogiorno in particolare, possono scoraggiare la commissione di reati, solo una rete di servizi e di spazi di socializzazione possono dare il senso di una vita comunitaria, diversa dalla barbarica contrapposizione di tutti contro tutti, ma senza il rafforzamento dell’economia legale si lascerà terreno libero alle molteplici risorse dell’accumulazione illegale. Lo smantellamento dell’Italsider di Bagnoli ha lasciato un vuoto che i gruppi camorristici riempiono a loro modo e che non può certo essere colmato dal lavoro precario o peggio da quello nero. Una fabbrica non è solo un luogo di produzione, ma anche, o soprattutto, un laboratorio di cultura e di vita civile. E lo Stato rimarrà un soggetto estraneo e nemico se non c’è un adeguato sviluppo della società civile organizzata. Gli stessi servizi istituzionali sono visti come corpi estranei se non si educano gli abitanti alla partecipazione. Valga per tutti l’esempio delle scuole dello Zen di Palermo, regolarmente soggette a vandalismi: se non si coinvolgono i genitori e gli alunni e se questi non li considerano come beni propri, non basterà qualche custode a far cessare le devastazioni.
A differenza da Palermo, dove alla parentesi della cosiddetta “primavera” è succeduto, non per caso, il trionfo del berlusconismo, che ha trionfato anche in molti comuni siciliani amministrati per anni dal centrosinistra (qualcuno si è chiesto perchè?), a Napoli governa ormai da tempo il centrosinistra e non si può gridare alla strumentalizzazione da parte delle forze di centrodestra quando si indicano limiti ed errori. Se le sinistre napoletane e campane vogliono svolgere un ruolo positivo in un processo di liberazione e ricostruzione, necessariamente lungo e ovviamente difficile, non possono non guardarsi al loro interno e vedere cosa non ha funzionato e in cosa si è sbagliato. Se nella “primavera” palermitana volavano le rondini dell’effimero, a cominciare dal dispendioso neobarocchisno del festino, il “rinascimento” napoletano, a dire di un artista napoletanissimo come Roberto De Simone, puntava più sull’evento che sul progetto.
In ogni caso, tanto a Napoli che a Palermo servono a ben poco gli appelli al rispetto della legalità, in un contesto in cui l’illegalità è insieme fonte di arricchimento e cultura sedimentata e condivisa, e non occorrono miracolatori, né nuovi né vecchi né tanto meno riciclati. Se si vuole cambiare pagina sono controindicati gli emuli terreni di san Gennaro e di santa Rosalia. Il recente esito positivo delle lotte dei senzacasa palermitani dimostra che è possibile percorrere altre vie, senza patroni e contro i padrini.

Pubblicato su “la Repubblica Palermo”, 10 novembre 2005