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La mafia siciliana dalle stragi alla mediazione

Academy & Finance
Observatoire du Crime Organisé (OCO)

1er Forum de Genève sur le Crime Organisé

28-30 Octobre 2003

Etats, Banques, Entreprises: tournez-vous vers les menaces criminelles d’aujourd’hui

Les structures criminelles en mutation

L’évolution des structures criminelles en Italie: structure historiques,
structures étrangères, marchés captifs

Umberto Santino

La mafia siciliana dalle stragi alla mediazione

Premessa

Negli ultimi anni si è parlato della mafia siciliana, in particolare dell’organizzazione mafiosa più nota, cioè Cosa nostra, come di una “mafia invisibile” o “inabissata” e tali espressioni hanno spesso avallato l’idea di una mafia inesistente o comunque molto meno pericolosa rispetto a quella precedente.
In realtà cos’è accaduto? Dopo fasi particolarmente sanguinose, nei primi anni ’80 e nei primi anni ’90, soprattutto dopo i delitti che hanno colpito il generale-prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa (3 settembre 1982) e i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo (23 maggio 1992) e Paolo Borsellino (19 luglio 1992), e dopo gli attentati e le stragi del ’93 di Roma, Firenze e Milano, la mafia siciliana ha ricevuto dei colpi, con l’arresto, i processi e le condanne di capi e gregari, e i boss rimasti a piede libero hanno capito che bisognava chiudere la stagione delle stragi e dei grandi delitti e controllare la violenza, soprattutto quella rivolta verso l’alto, contro politici, magistrati e uomini delle istituzioni. Il controllo della violenza era la condizione necessaria per ricomporre l’organizzazione, messa in crisi anche dal gran numero di mafiosi diventati collaboratori di giustizia, e per riprendere e consolidare i rapporti con il contesto sociale e con settori delle istituzioni.
Questo non significa che la mafia ha radicalmente mutato la sua fisionomia, rinunciando totalmente alla violenza. Significa che essa ha ripristinato una dimensione storica, quella della mediazione, rafforzando alcuni settori d’attività “classici”, come le estorsioni e gli appalti di opere pubbliche, e limitando l’uso della violenza alla regolazioni di alcune “questioni interne”. In tal modo ha potuto riavviare i rapporti con il mondo politico, in particolare con i soggetti che si presentano come i nuovi detentori del potere.
Oggi ci troviamo di fronte a una mafia che non uccide più magistrati, poliziotti, uomini politici, che ha ridotto notevolmente anche la violenza interna e anche se l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine è continuata, l’attenzione verso il fenomeno mafioso dell’opinione pubblica e delle istituzioni si è affievolita. Ciò non deve suscitare particolare meraviglia: in Italia le istituzioni si sono mobilitate contro la mafia solo quando la violenza mafiosa ha toccato livelli altissimi, colpendo personaggi notissimi, appunto come Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino, e anche gran parte dell’opinione pubblica si è mobilitata solo in risposta all’escalation della violenza mafiosa.
Alla base di queste reazioni sta una visione della mafia inadeguata, che si può così riassumere: la mafia esiste quando spara, è un fenomeno preoccupante quando uccide molte persone, diventa una “questione nazionale” quando colpisce i vertici istituzionali.

Per un’analisi adeguata del fenomeno mafioso

In realtà la mafia è un fenomeno permanente, dalle molteplici attività e con una struttura complessa. La legge antimafia del 1982, con più di un secolo di ritardo, ha definito l’associazione di tipo mafioso, un’associazione segreta i cui membri si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà (legge del silenzio) che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri.
La mafia è pertanto un soggetto polimorfico, risultante dal convergere di vari aspetti: la violenza e l’illegalità, la sua funzionalizzazione all’accumulazione della ricchezza e all’acquisizione di potere, un codice culturale, un certo consenso sociale. E l’associazione e i suoi affiliati non operano nel vuoto, agiscono all’interno di un sistema di rapporti sociali senza di cui molte delle attività sarebbero impossibili. Questi rapporti attraversano il corpo sociale, dal basso verso l’alto, coinvolgendo professionisti, imprenditori, amministratori pubblici, uomini politici, soggetti che assieme ai capi della mafia formano quella che ho definito “borghesia mafiosa”.
Questa rappresentazione del fenomeno mafioso (che ho chiamato “paradigma della complessità”) si fonda non su visioni ideologiche ma sull’osservazione della realtà. Si prendano come esempio gli appalti di opere pubbliche. I capimafia, anche i più noti, sono quasi degli analfabeti, eppure gestiscono direttamente o indirettamente imprese che elaborano progetti, li presentano alle pubbliche amministrazioni e riescono a vincere le gare d’appalto e a realizzare le opere. Tutto ciò sarebbe impensabile se non ci fossero degli imprenditori legati ai boss, dei tecnici per la redazione dei progetti, degli amministratori e dei politici che contribuiscano al successo delle attività direttamente o indirettamente gestite dai mafiosi.
Lo stesso può dirsi per le operazioni di riciclaggio dei capitali accumulati illecitamente, impossibili senza il contributo di esperti che operano a livello locale, nazionale e internazionale.

Il periodo delle stragi

Palermo e la Sicilia hanno vissuto un periodo particolarmente sanguinoso nei primi anni ’80, quando era in corso una guerra di mafia che ha causato centinaia di morti e la violenza mafiosa si è spinta anche all’esterno, colpendo uomini politici, magistrati e rappresentanti delle forze dell’ordine. Questo straripare della violenza mafiosa si spiega con l’affermazione al comando dell’organizzazione mafiosa Cosa nostra del gruppo dei cosiddetti “corleonesi” (originari di Corleone, in provincia di Palermo, un centro che ha avuto un ruolo di primo piano nella storia della mafia come pure dell’antimafia) e con l’arricchimento dei gruppi mafiosi, in particolare collegato con il traffico di droghe, che ha portato alla lievitazione della richiesta di potere e di occasioni di investimento.
Dopo questa prima ondata di violenza, soprattutto dopo i grandi delitti che hanno colpito uomini delle istituzioni, in particolare dopo il delitto Dalla Chiesa, lo Stato ha reagito, con l’approvazione della legge antimafia, il 13 settembre 1982, pochi giorni dopo l’uccisione di Dalla Chiesa, con il maxiprocesso di Palermo che si è concluso con pesanti condanne, confermate in appello e in Cassazione. Ci troviamo di fronte a un fatto storico. Per la prima volta l’impunità mafiosa veniva intaccata e questo era il frutto dell’azione dei magistrati raccolti in pool come pure della collaborazione di alcuni mafiosi che per sfuggire alla morte per mano dei loro avversari hanno fatto ricorso alla protezione dello Stato.
La violenza mafiosa è ripresa nei primi anni ’90, con le stragi di Capaci (in cui sono morti Giovanni Falcone, la moglie e tre uomini della scorta) e di Via D’Amelio (in cui sono morti Paolo Borsellino e cinque uomini di scorta) del 1992 e nel 1993 con gli attentati di Roma e le stragi di Firenze (5 morti) e di Milano (altri 5 morti). Questa volta la violenza si sposta sul territorio nazionale e prende di mira il patrimonio monumentale: a Roma le chiese, a Firenze la Galleria degli Uffizi, a Milano il Padiglione d’arte contemporanea. Ci sono nuove leggi, altri processi e altre condanne.
Resta fino ad oggi aperto il problema se gli uomini di Cosa nostra hanno agito da soli o in collaborazione con altri soggetti. I cosiddetti “delitti politico-mafiosi”, cioè quei delitti che colpiscono uomini delle istituzioni e hanno come scopo il condizionamento del quadro socio-politico, arrestando processi (dinamiche sociali e politiche) che potrebbero toccare interessi di mafiosi e dei loro complici, possono essere ideati e attuati da più soggetti, ma finora non si è riusciti a individuare e a punire per questi delitti soggetti diversi dai capimafia. Ciò vale a maggior ragione per le stragi del ’92 e del ’93: sono stati puniti i mafiosi ma le inchieste su altri possibili colpevoli, esterni a Cosa nostra, non hanno dato finora nessun frutto, anche se le indagini rimangono aperte.

La mafia sommersa

Nel corso degli anni ’90 e nei primi anni del nuovo millennio la mafia siciliana non ha più compiuto delitti eclatanti. Ciò si spiega con i colpi che i mafiosi hanno ricevuto, con i processi e le condanne, che hanno portato i capimafia a un mutamento di strategia. I capi della mafia hanno capito che i grandi delitti e le stragi hanno avuto un effetto boomerang e che se vogliono ricomporre l’organizzazione e riavviare i rapporti con il contesto sociale e istituzionale, debbono controllare la violenza, soprattutto quella rivolta verso l’alto. La nuova strategia in realtà è in gran parte un ritorno al passato, quando si puntava più sulla mediazione che sullo scontro con le istituzioni e non per caso quello che viene indicato come il “capo dei capi” è l’anziano Bernardo Provenzano, un “corleonese” che ha condiviso la scelta stragista voluta soprattutto dal capomafia Totò Riina e che è latitante da più di 40 anni.
Come dicevo all’inizio la mafia attuale viene definita “sommersa” o “invisibile” e per molti questi sono sinonimi di inesistente o comunque di poco preoccupante. A livello legislativo di recente è stato confermato il carcere duro ma molte delle leggi “ad personam” che ha approvato l’attuale maggioranza possono favorire il rientro della mafia. La depenalizzazione del falso in bilancio, gli ostacoli all’uso delle rogatorie internazionali, le facilitazioni al rientro dei capitali dall’estero, la legge che prevede lo spostamento dei processi sono in primo luogo leggi che favoriscono singole persone ma offrono spazi d’impunità che possono essere utilizzati anche dai mafiosi e l’attacco alla magistratura, ribadito quasi quotidianamente fino alle dichiarazioni recenti del capo del governo secondo cui i giudici sono matti e antropologicamente tarati caratterizza un clima che rende sempre più difficile lo svolgimento dell’azione giudiziaria. In Italia si sta realizzando un progetto fondato sulla personalizzazione e il rafforzamento del potere esecutivo, sull’asservimento del potere legislativo e sulla riduzione se non l’abolizione dell’indipendenza del potere giudiziario. Questo contesto è quanto mai favorevole a un rilancio della mafia e delle altre organizzazioni di criminalità organizzata.
Nel dibattito attuale molte voci parlano di una mafia sconfitta o comunque fortemente ridimensionata, mentre altri dipingono la mafia più forte di prima e prevedono che essa prima o poi tornerà a colpire.
Cosa nostra è attraversata da una dialettica interna che ha come protagonisti i mafiosi in carcere e i latitanti. I primi mirano all’abolizione del carcere duro e dell’ergastolo e alla revisione dei processi e hanno più volte lanciato messaggi con più o meno esplicite minacce. Essi si rivolgono in particolare ai loro avvocati difensori nel frattempo eletti al Parlamento e li richiamano al rispetto dei “patti”. I latitanti sono interessati soprattutto a fare buoni affari e a ricucire la rete dei rapporti. Su questo terreno potrebbero affondare le radici una nuova guerra di mafia e una nuova offensiva contro uomini delle istituzioni. Ma finora il controllo della violenza ha sostanzialmente tenuto, eccezion fatta per qualche omicidio all’interno del mondo mafioso consumatosi nei mesi più recenti.
È in atto una ristrutturazione organizzativa, con sistemi di reclutamento più rigidi, maggiormente ancorati ai vincoli di sangue, con la ridefinizione delle famiglie (gruppi di base) e dei mandamenti (raggruppamenti di più famiglie) e con la formazione di un vertice ristretto che ruota attorno alla figura di Bernardo Provenzano, la cui azione sarebbe diretta alla pacificazione tra “stragisti” (uomini legati a Riina) e “moderati”.
Nelle province di Agrigento e Caltanissetta Cosa nostra deve fare i conti con altre organizzazioni come le Stidde (Stelle), con cui negli anni scorsi ci sono stati scontri violenti (si parla di 480 omicidi tra il 1984 e il 1998).

Quel che è certo è che la mafia continua ad esercitare la sua signoria territoriale attraverso un uso capillare delle estorsioni. “Pagare meno, pagare tutti”: questa è la filosofia degli estorsori e la regola è l’omertà delle vittime. Le denunce sono poche e il movimento antiracket, soprattutto in città come Palermo, non si è sviluppato adeguatamente.
Un altro terreno su cui si sviluppa il fenomeno mafioso è quello degli appalti di opere pubbliche.
Dalle dichiarazioni dei mafiosi collaboratori e dalle indagini risulterebbe che vengono versati a Cosa nostra tangenti dal 2 al 10 per cento del valore dell’appalto.
Imprese legate alla mafia operano in vari settori: l’edilizia, il settore agro-alimentare, quello sanitario, quello dei rifiuti, dell’acqua, mentre proliferano le società finanziarie aventi come scopo il riciclaggio del denaro di provenienza illecita.
Particolari preoccupazioni destano le grandi opere in programma, a cominciare dalla realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina, su cui le organizzazioni mafiose siciliane e calabresi potrebbero stendere le mani. Uno studio di qualche anno fa individuava due modalità di inserimento delle organizzazioni mafiose nei lavori del ponte: la pratica delle estorsioni, derivante dal controllo esercitato sul territorio, e il coinvolgimento nelle attività imprenditoriali necessarie per la costruzione del ponte e per la realizzazione delle infrastrutture di accesso, di collegamento e di servizio. I gruppi mafiosi potrebbero gestire l’approvvigionamento e il trasporto dei materiali necessari per costruire il ponte e potrebbero avere un ruolo anche maggiore nella realizzazione di opere come i collegamenti ferroviari e stradali e nelle pratiche di esproprio dei terreni su cui dovrebbero sorgere le nuove opere. L’inserimento dei gruppi criminali sarebbe favorito dal ricorso a procedure d’urgenza, con l’abolizione o la forte riduzione dei controlli di legalità.
Altre attività svolte dai mafiosi: riciclaggio del denaro sporco, traffico di stupefacenti, mentre è tutto da esplorare il rapporto tra mafia locale e gruppi criminali stranieri coinvolti nel traffico di persone e nello sfruttamento della prostituzione. Gli immigrati clandestini spesso viaggiano assieme a carichi di droghe e di armi e ciò porta a pensare a una collaborazione tra criminali mafiosi italiani e stranieri.

Mafia e politica oggi

Il ruolo della mafia negli appalti di opere pubblica rimanda necessariamente al tema dei rapporti tra mafia, pubblica amministrazione e politica nel contesto attuale.
Una relazione della Commissione parlamentare antimafia del 1993 parlava di “coabitazione” tra mafia e politica protrattasi per quasi mezzo secolo. La stagione dei grandi delitti e delle stragi ha interrotto quella “coabitazione” e, attraverso l’eliminazione di alcuni personaggi che ebbero un ruolo di primo piano nella cosiddetta “prima repubblica” (valga per tutti il nome dell’esponente democristiano ed europarlamentare Salvo Lima) ha aperto la strada ai nuovi detentori del potere.
L’azione giudiziaria ha coinvolto uomini di potere, come il sette volte presidente del consiglio Giulio Andreotti, imputato di associazione mafiosa, che è stato assolto in primo grado per insufficienza di prove mentre la sentenza d’appello ha dichiarato prescritto il reato di associazione a delinquere semplice fino al 1980 (la legge che definisce l’associazione di tipo mafioso è del 1982), riconfermando l’assoluzione per il periodo successivo.
Sono in corso processi riguardanti rappresentanti del potere attuale, come il vecchio amico di Silvio Berlusconi Marcello Dell’Utri e indagini sull’attuale presidente della Regione Sicilia Salvatore Cuffaro e su un esponente dell’opposizione, Vladimiro Crisafulli. Il reato che viene contestato è quello di “concorso esterno in associazione mafiosa”, una figura di reato elaborata dalla giurisprudenza, per primo da Giovanni Falcone, e che mira a colpire l’area di “contiguità” rispetto all’organizzazione mafiosa. Per l’attuale capo del governo, Silvio Berlusconi, si tratterebbe di un’invenzione dei giudici siciliani “comunisti”.
A prescindere dall’esito delle indagini giudiziarie, c’è da dire che il rapporto mafia-politica, mafia-istituzioni, ha un ruolo centrale, costitutivo, nel fenomeno mafioso.
Se si utilizzano le categorie elaborate dalla moderna scienza politologica, la mafia siciliana è già di per sé un soggetto politico in senso weberiano. Weber definisce il gruppo politico in base alla presenza dei seguenti elementi: un ordinamento vigente nell’ambito di un determinato territorio mediante l’impiego e la minaccia di una coercizione fisica da parte di un apparato amministrativo. La mafia siciliana possiede tutte queste caratteristiche: un ordinamento inteso come insieme di norme, una dimensione territoriale, l’uso della forza, un’organizzazione in grado di assicurare l’osservanza delle norme e mettere in atto la coercizione fisica.
La mafia inoltre concorre alla produzione della politica, intesa come determinazione delle decisioni e delle scelte relative alla gestione del potere e alla distribuzione delle risorse, in vari modi. Con l’uso politico della violenza (i cosiddetti delitti politico-mafiosi), concorrendo alla formazione delle rappresentanze nelle istituzioni, attraverso il controllo sul voto o anche con la partecipazione diretta di membri delle organizzazioni mafiose alle competizioni elettorali e alle assemblee elettive, esercitando un controllo sull’attività politico-amministrativa.
Con una legge del 1992 è stata introdotta la figura dello scambio elettorale politico-mafioso che consisterebbe nella promessa di voti in cambio di una somma di denaro. La formulazione iniziale era più ampia e più rispondente alla realtà: più che uno scambio voti-denaro, si tratta in realtà di uno scambio ben più significativo che si estende alle concessioni, alle autorizzazioni, agli appalti, ai finanziamenti pubblici e ad altre forme di realizzazione di profitti illeciti.
Il controllo sulle attività politico-amministrative, in particolare degli enti locali, è previsto da una legge del 1991 che ha portato fino al giugno del 2003 allo scioglimento per infiltrazioni mafiose di 132 consigli comunali, di cui 37 in Sicilia.
I decreti di scioglimento sono motivati dalla presenza diretta di mafiosi come consiglieri, assessori o sindaci, da rapporti di parentela, amicizia e affari, dal ricorso a forme di intimidazione ma più spesso dall’accertamento di interessi comuni tra amministratori e mafiosi. Tutto ciò determina la permeabilità e il condizionamento del consiglio, per cui non viene osservato il principio di legalità e viene trascurato il soddisfacimento dei diritti dei cittadini.

L’azione antimafia: istituzioni e società civile

In un contesto in cui l’attenzione per la mafia è notevolmente diminuita, le leggi approvate nelle fasi di emergenza, come risposta alla sfida mafiosa, sono state attenuate o cancellate, e un ministro del nuovo governo arriva a dire che “bisogna convivere con la mafia”, l’impegno delle istituzioni contro la mafia continua tra gravi difficoltà, soprattutto con il lavoro di una Commissione parlamentare antimafia, con le inchieste giudiziarie e con la confisca dei beni dei mafiosi, prevista dalla legge antimafia del 1982.
Dopo l’approvazione della legge antimafia, la Commissione parlamentare viene rinnovata a ogni legislatura e produce delle relazioni generali e dei documenti specifici sulle varie forme di criminalità organizzata e su temi particolari (come, per esempio, il traffico di esseri umani e il delitto Impastato).
In seguito all’approvazione della legge n. 109 del 1996 c’è stata un’intensificazione dei sequestri e delle confische dei beni appartenenti ai mafiosi e molti beni sono stati assegnati a istituzioni e a organizzazioni della società civile per promuoverne un uso sociale. Così una villa di Totò Riina a Corleone è diventata una scuola, nei terreni confiscati a Bernardo Provenzano e ad altri capimafia operano delle cooperative che producono alimenti (olio, pasta, vino).
In alcune aree della Sicilia, tra vari comuni sono stati siglati dei protocolli di legalità volti a prevenire e a contrastare fenomeni di infiltrazione e condizionamento mafiosi nel settore degli appalti pubblici, ad attuare forme di collaborazione per diffondere la cultura della legalità e prevenire e contrastare fenomeni come l’estorsione e l’usura.
Programmi di educazione alla legalità sono attuati nelle scuole italiane, in seguito a una circolare del Ministero della Pubblica istruzione del 1993, ma in Sicilia attività del genere erano già cominciate prima, in seguito a una legge regionale del 1980.
Già a partire degli anni ’70 si sono formate in Sicilia associazioni e centri studio sulla mafia e negli ultimi anni si sono costituite in alcune regioni delle associazioni antiracket, formate da commercianti e piccoli imprenditori, taglieggiati dalle estorsioni.
Nel 1995 si è costituita Libera, un’associazione nazionale che raccoglie centinaia di associazioni presenti in tutta l’Italia. Rispetto a un’antimafia emotiva, suscitata dall’indignazione per i grandi delitti e le stragi, che ha portato a grandi manifestazioni di piazza ma che è ben presto rifluita, negli ultimi anni si è imboccata la strada della progettazione dell’azione della società civile, per darle contenuti concreti e continuità.