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Chiesa e mafia dieci anni dopo l’assassinio di padre Puglisi

Augusto Cavadi

Chiesa e mafia dieci anni dopo l’assassinio di padre Puglisi

Il 15 settembre scorso in varie parti della Sicilia, e con varie modalità, si è commemorato il decennale della morte di don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio che – come “per delicatezza” evita di dire la targa affissa alla facciata del suo centro di accoglienza “Padre nostro” – è stato assassinato sotto casa su commissione dei mafiosi del quartiere. Un colpo micidiale per quanti lo conoscevamo e, in generale, per la coscienza civile di chi aveva tentato di reagire alle stragi di Capaci e via d’Amelio del terribile anno precedente. Come spesso accade nella storia, la tragedia non fu priva di risvolti positivi: anche la Chiesa cattolica, sino a quel momento presente solo marginalmente nel movimento antimafia, sembrò scuotersi dal letargo e fare fronte comune con la costernazione dei concittadini migliori. Poi è trascorso del tempo, quel tempo che il pitagorico Parone definiva “molto ignorante” perché “è in esso che si dimentica”. E il dovere della memoria c’incombe in un’altra epoca, quasi in un altro mondo. In quale contesto?

Alla questione più generale – a che punto siano i rapporti fra Chiesa e mafia – non è facile dare risposte secche. Da una parte, infatti, sembrerebbe che, ancora una volta, il sangue dei martiri sia stato fecondo: lo sparuto manipolo di preti coraggiosi attestati nei quartieri difficili resiste, anche senza riflettori accesi; ai vertici della gerarchia arrivano personalità come gli arcivescovi di Monreale Pio Vigo prima, e Cataldo Naro ora, distanti dal predecessore Salvatore Cassisa quanto il giorno dalla notte; case editrici cattoliche, come le Paoline, non lesinano né titoli di libri né articoli su riviste (cfr. lo ‘speciale’ sul mensile “Jesus” in edicola) dedicati all’analisi del fenomeno e a possibili terapie. Dall’altra parte, però, abbondano segnali in direzione opposta. Recentemente una sociologa attenta come Alessandra Dino ha ricordato, nel corso di un seminario, la valutazione che un parroco dava dei collaboratori di giustizia rispondendo alle domande di un’inchiesta: “Tradire è sempre un peccato. Chi lo fa è nemico a Dio e agli amici suoi”. Esponenti di primo piano del laicato cattolico impegnato in politica sono inquisiti per reati attinenti alle attività delle cosche mafiose e, invece di dimettersi, invocano la protezione della Madonna per evitare esiti giudiziari imbarazzanti. Con le mie orecchie, poi, ho udito, in occasioni di riunioni alquanto riservate, delle dichiarazioni allucinanti sull’operato dei giudici negli ultimi dieci anni (“un vero e proprio regime totalitario”) da parte di intellettuali organicamente legati alla Curia: i magistrati presenti hanno potuto solo balbettare, esterrefatti, qualche ovvia obiezione.
Come si spiegano queste tendenze contraddittorie nella medesima area religiosa? A parte le considerazioni – che mi è capitato di proporre altre volte – riguardanti l’incredibile pluralismo brulicante nel mondo cattolico, va tenuta presente una disastrosa lacuna culturale (non certo esclusiva di questo ambiente): una visione parziale della mafia. Intesa soprattutto, o esclusivamente, come fabbrica militare di omicidi e stragi, non anche – e soprattutto – come articolato sistema di potere ideologico, economico, politico. Per cui può apparire pacifico stigmatizzare il killer o l’esecutore di attentati e “convivere” con i loro mandanti e con i “manutengoli” in colletto bianco che li affiancano (dal docente universitario che presta la sua consulenza finanziaria all’assessore regionale che stipula patti elettorali sottobanco). La partita si gioca tutta qui. Per dirla con una formula brutalmente semplificatoria, ma scientificamente corretta: o fallisce la riproduzione, sotto altra etichetta, del sistema politico-mafioso di stampo democristiano o la dialettica fra Chiesa e mafia non si sposterà di un centimetro rispetto al 15 settembre del 1993.

Un breve cenno non si può non dedicare all’interrogativo, più volte ricorrente, circa l’opportunità di canonizzare don Pino Puglisi. I motivi a favore sono evidenti: sarebbe, da parte dell’istituzione ecclesiastica, un messaggio forte di approvazione dell’atteggiamento radicalmente antimafioso di un suo ministro, di carattere mite e bonario. Meno noti, ma non meno fondati, i motivi di perplessità: un don Puglisi elevato alla gloria degli altari non è anche strappato alla ‘normalità’ sociologica, proiettato in una nicchia che – nel momento stesso in cui ne sottolinea l’eroicità – lo rende per ciò stesso meno imitabile nella quotidianità? Francamente anche a questa domanda non so rispondere con nettezza. Ci sono motivi per supporre che il culto dei santi continui a subire quel ridimensionamento che, anche nell’ambito cattolico, ha registrato negli ultimi quarant’anni dal Concilio Vaticano II in poi (con eccezioni clamorose come Padre Pio da Pietralcina): la fede nel vangelo di Gesù Cristo ne guadagnerebbe in essenzialità e le manifestazioni religiose in serietà. Ma, in questa fase di possibile transizione, tutto sommato penso che una solenne celebrazione a Roma che evidenziasse il coraggio del piccolo prete palermitano avrebbe effetti più positivi che negativi. Servirebbe per far capire senza equivoci, a chi non ha tempo da investire in sottili distinzioni teologiche, che non si può essere contemporaneamente cristiani e mafiosi (né amici di mafiosi né amici degli amici dei mafiosi). Come è noto, la proclamazione di un santo presuppone l’identificazione di alcuni miracoli operati da Dio per sua intercessione: se le comunità credenti (in quanto tali, non solo nei casi di singole persone illuminate) imparassero a considerare peccaminoso votare per partiti o candidati adusi ad alimentare clientelismi, raccomandazioni, abusivismi e “scambi di favori”, la nuova tendenza potrebbe considerarsi un primo ‘miracolo’ da accreditare al parroco di Brancaccio.

Pubblicato su “Centonove”, 26 settembre 2003, p. 45.