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Nei tempi che cambiano il protagonismo degli ex

Giovanni Abbagnato

Nei tempi che cambiano il protagonismo degli ex

Una proposta di riflessione sulla compatibilità tra il pensiero e l’opera di don Pino Puglisi – e di tutti gli operatori impegnati per l’affermazione concreta della libertà e dei diritti di cittadinanza – con il nuovo corso politico – sociale inaugurato con le ultime consultazioni elettorali.

L’ottimismo della ragione e il pessimismo della situazione
Sono questi tempi travagliati nei quali l’esercizio della comprensione viene reso sempre più difficile dal succedersi caotico, spesso drammatico, degli avvenimenti riguardanti, sia le grandi questioni nazionali che quelle internazionali. Risulta quindi particolarmente arduo tentare di interpretare la complessità del pensiero di tanti comuni cittadini – quelli, ovviamente, liberi dalla “beatitudine” dell’ignavia o, nonostante tutto, non rassegnati – sgomenti per il clima di profonda incertezza presente nello scenario internazionale e del progressivo imbarbarimento della vita politica e sociale nel nostro Paese.
Nella nostra Sicilia tale involuzione assume, se possibile, forme ancora più inquietanti e retrive, giacché si cerca di porre in essere un perverso tentativo di deformazione e reiscrizione della storia degli ultimi tragici decenni. Un’operazione, quest’ultima che alcuni personaggi e i loro “delfini” ritengono di potere impunemente attuare sulla scorta di alcune assoluzioni giudiziarie che, di là dalle responsabilità accertate per i singoli imputati, peraltro attinenti solo ai fatti per i quali è stato possibile verificare la rilevanza penale, nulla tolgono, anzi in larga misura confermano, la definitiva condanna, sotto il profilo storico ed etico-morale di una mostruosa gestione politica-mafiosa-clientelare. Tale processo ha alimentato e diffuso “prassi” di degrado civile e di controllo malavitoso della società e delle risorse pubbliche delle quali anche i quartieri della nostra città di Palermo (come, per esempio, Brancaccio, sul quale torneremo più avanti) portano tali segni tanto da assurgere, loro malgrado, a luoghi simbolici di degrado, violenza e corruzione, nonostante i generosi tentativi di rivolta morale e culturale intrapresi da tante “belle energie” coraggiosamente attive anche nei luoghi dove la brutalità e la sopraffazione sono presenze costanti e apparentemente intangibili.
La “società civile” rischia di precipitare nel silenzio, e la crisi dell’impegno corale rende più agevole l’affermazione di disvalori spacciati, con subdola arte mistificatoria, per elementi di “modernità”. Anche le consuete forme di rappresentanza (partiti e sindacati) sembrano ormai svuotate, o comunque decisamente affaticate, nella loro funzione di sintesi di istanze collettive e di interessi diffusi.
Stanti così le cose, la ragione ha più di qualche motivo per volgersi al pessimismo. E tuttavia, pur nell’inevitabile constatazione della crisi dell’impegno civile – soprattutto sul fronte politico – e dell’affermazione potente e prepotente di disvalori, è ancora necessario, anzi indispensabile, tentare di riannodare i fili della memoria, leggere le connessioni tra fatti nazionali e locali , concentrarsi su battaglie di particolare rilevanza per la democrazia, non esitando ad evidenziare e denunciare i comportamenti incompatibili con un’idea di società giusta e solidale, soprattutto quando questi sono agiti da coloro che, in un passato assai prossimo, si sono proposti in un ruolo di impegno per la trasformazione della nostra società e per la promozione umana di larghe fasce di individui, contestualmente intrisi di cultura clientelare e mafiosa, per poi scegliere un diverso “protagonismo” inconciliabile con tali valori di civiltà.
L’evidente involuzione nella società siciliana di un processo di liberazione sociale, che solo chi è in mala fede può non vedere, diviene dunque luogo di un necessitato ottimismo della volontà, terreno di lotta e resistenza, al contempo civile e politica, per evitare la definitiva sconfitta di quegli ideali che anche recentemente – e sia pure tra errori e contraddizioni – avevano alimentato la speranza di una società più conforme a giustizia e, conseguentemente, più democratica e solidale.
Chi ha inteso e continua a concepire l’esercizio dell’analisi e della denuncia solo se coniugata con l’operatività dell’intervento, deve forse (non sono questi tempi di certezze, se mai tali tempi siano esistititi) considerare che per combattere il tarlo dell’apatia e del “tanto non serve a nulla”, anche il semplice levare la propria dissonante voce, non solo contro i grandi scandali – dalla sospensione dei diritti costituzionali, alla delegittimazione delle Istituzioni, al vandalismo ambientale, alle scandalose misure d’impunità per i “potenti”, agli attacchi inauditi all’esercizio di una giustizia uguale per tutti – ma anche contro le storie di ordinaria incoerenza che proprio per il riferimento a personaggi simbolici e a situazioni vicine alla gente comune, generano ancor di più disorientamento, disaffezione e indolenza, determinano un sottrazione d’energia al già sufficientemente difficile tentativo di edificazione di una cultura della convivenza fondata sul riconoscimento dei diritti di cittadinanza e della solidarietà.
Per questo, crediamo non privo di senso – contravvenendo ai canoni di una “educazione” meramente formale – l’espressione di un sentimento di onesta, aperta, libera riprovazione, non solo verso quegli accadimenti talora così lontani da assumere quasi i connotati dell’astrattezza, e i cui protagonisti sembrano svanire nell’immaterialità, ma anche nei confronti di situazioni vicine che per il loro spessore, anche in termini fortemente simbolici, sfuggono alla specificità per assumere significati emblematici di un “clima sociale” diffuso.

Società civile e suggestioni del sistema politico “avvolgente”
Per questo può essere utile focalizzare l’attenzione sulla nomina a consulente del neo Governatore di Sicilia – Onorevole, Dottor Salvatore Cuffaro, per gli amici – tantissimi – Totò – di don Mario Golesano, parroco della “frontaliera” parrocchia di Brancaccio, nonché Presidente del Centro Padre Nostro, fondato da Padre Giuseppe Puglisi.
Don Golesano non se la prenda più di tanto per l’assurgere del suo caso, a motivo di riflessione e Lo accetti come parte del “prezzo” dovuto al suo recente, per tanti opinabile, “nuovo protagonismo” ed alla sua scelta di coinvolgimento diretto nell’attuale governo dell’Istituzione regionale nonché, conseguentemente (eventuali sofistici distinguo non reggerebbero), nei “valori” di riferimento della compagine attualmente al potere in Sicilia.
Più che di valori si potrebbe parlare di costume politico o, addirittura, di “abito mentale” al servizio di un conservatorismo tanto cinico quanto paternalistico, malamente dissimulato con una sorta di “curiale”, mellifluo susseguo che costituisce il substrato “culturale” dei potenti siciliani ( i quali non si possono nemmeno definire di turno per il semplice motivo che sono sempre gli stessi ).
Su questo “sfondo” l’opzione di Padre Golesano è esemplificativa di una disinvolta “noncuranza” per le refluenze pubbliche di talune scelte, operate soltanto in ragione dell’utilità soggettiva di chi le compie – e di chi le accetta – secondo la vecchia legge del perpetuarsi di un consenso ottenuto intercettando, alimentando e soddisfacendo le ambizioni più individualistiche.
L’intento di comprendere i motivi della scelta del parroco di Brancaccio suscita – inutile negarlo – sentimenti non sereni, e se il tentativo di omettere ogni giudizio che possa ledere la libertà e l’autonomia di giudizio di una persona è doveroso, non sarebbe, però, giusto e intellettualmente corretto – né don Mario può ragionevolmente pretenderlo – un atteggiamento generalizzato di distratta ignavia su quello che è il “gesto” pubblico non solo del signor, o se si preferisce del reverendo Golesano, ma di un uomo che ha avuto un ruolo, non secondario, di attore sociale in un contesto la cui valenza simbolica, in termini di lotta per l’affermazione della democrazia in terra di mafia, è di tutta evidenza.
Dal sacerdote e dall’operatore sociale che si è assunto il pesante onere, ma anche l’onore, di proseguire il cammino di un uomo di fede e di libertà come Padre Puglisi e di gestirne con i suoi collaboratori – forse non sempre in modo convincente – anche il patrimonio delle idee e delle concrete realizzazioni, ci saremmo aspettati ben altro che la scelta di una “ingabbiante” politicizzazione, la quale, già di per sé improvvida, assume a riferimento una compagine politica palesemente lontanissima dalla pensiero e dal “modus operandi” che furono di don Pino Puglisi, uomo libero da qualsiasi condizionamento di parte, ma testimone rigoroso dei valori autentici del suo ministero.
L’arrivo del consulente don Golesano a Palazzo d’Orleans appare parte di un’operazione ad ampio spettro e di furbizia politica del neo Presidente regionale che, in linea con il suo noto “tatticismo avvolgente”, orientato dalla stella polare dello stile democristiano (peraltro mai rinnegato e anzi spregiudicatamente rivendicato), prova a permeare anche quegli ambienti che dovrebbero essere “geneticamente” refrattari alla cultura del diritto trasformato in favore, e cioè l’ambientalismo, il mondo del volontariato sociale e la cosiddetta “Chiesa di frontiera”.
Una presenza, quest’ultima, indubbiamente viva e importante che, in terra di “missione” del terzo e quarto mondo come a Brancaccio, non relegando a pura presa d’atto la diretta conoscenza della negazione dei diritti umani, e per semplice adesione al Vangelo, si è a volte manifestata con una radicalità d’azione, anche dai contenuti sociali, non derivante da protervia, ma dall’indisponibilità a derogare alla dedizione verso gli ultimi e al senso profetico di un annuncio di vita nella giustizia. Questa presenza “militante” – va detto con chiarezza – ha, il più delle volte, sperimentato la disattenzione (se non addirittura l’ostracismo) delle gerarchie ecclesiali, “abituate” a svolgere una funzione fluidificante tra “poteri costituiti” per il mantenimento dello “status quo” che in Sicilia (don Golesano converrà ) non è mai stato esaltante.
Sapere don Mario Golesano inserito nella “corte” (o nella “coorte”?) di Totò “Vasavasa” Cuffaro, Governatore di Sicilia, richiama alla mente, forse inopportunamente (ma, come si sa, per fortuna i percorsi della mente talvolta seguono solo l’intelligenza nella lettura degli eventi e non le prudenti convenzioni), la testimonianza di quanti, avendo ben conosciuto don Puglisi, sanno per certo che il desiderio più grande di quest’uomo di indomita speranza era riuscire a vedere la sconfitta delle cause e degli effetti della schiavitù delle clientele, dei diritti trasformati in favori, dei “comparati”, di tutto il deleterio armamentario “familistico-amorale” e della “carità pelosa” usata come mezzo per occultare il diritto.
Per esempio, ci sono fondati motivi per pensare che don Pino, avrebbe commentato amaramente, come suo costume, con la mitezza che il suo alto senso della carità gli ispirava, ma anche con santa indignazione la cena dei poveri tirati a lucido e portati nei saloni di Palazzo d’Orleans per farsi servire dal potente Governatore e dai suoi azzimati lacchè.
Una volgare forma di ostentazione di presunti valori, rispetto alla quale, probabilmente avrebbe abbassato il capo ma non la voce, caricandosi, come generoso uomo di Chiesa, della sua parte di mortificazione ma richiamando, in tutte le occasioni possibili, le coscienze ai valori della dignità degli uomini, soprattutto dei più deboli davanti alle miserabili lusinghe del potere.
Oggi, forse ad altri, soprattutto dentro la Chiesa toccherebbe alzare la voce in difesa dell’autenticità del messaggio evangelico, ma lo sdegno privato, si sa, è sempre meno impegnativo e l’esercizio della prudenza è utile alibi per allontanare il senso dell’ignavia, quand’anche ancora riconosciuto..
Come farà don Golesano a fare convivere questo patrimonio d’idee quotidianamente vissuto da don Pino con il costume e la pratica politica dei “dominatori” della Regione Siciliana, evidentemente tanto meritevoli della sua stima da farlo scendere in campo al loro fianco, è uno dei misteri della fede (della Sua fede personale, ovviamente).Verrebbe da dire, con linguaggio semplice e diretto, che come farà “lo sa solo Dio”, mentre chi non ha un canale privilegiato con il “cielo” può solo arrischiare l’ipotesi che Dio con quest’affare non c’entri proprio niente, non essendosi mai occupato, per le notizie di cui al momento si dispone, di pratiche di sottogoverno.
Va dunque lasciata al discernimento dell’attuale parroco di Brancaccio una lettura rigorosa dell’opera di don Pino, con l’auspicio che egli sappia ritrovare gli strumenti di analisi per comprendere se la politica sociale, effettiva e concreta, del Governo regionale, alla quale contribuirà con la sua consulenza, potrà essere quella di chi ha le idee chiare tra diritto e favore o di chi continua ad alimentare meccanismi clientelari e di gestione di gruppi di pressione interessati a vanificare qualsiasi ipotesi di affermazione e rispetto di regole di civile convivenza, unici parametri di riferimento per valutare la crescita sociale, tanto individuale quanto collettiva. Più in generale, toccherà a don Mario, valutare quanto gli atti che passeranno sulla sua scrivania, e soprattutto quelli che non passeranno, saranno compatibili con la solita legge non scritta, ma notissima, del consenso generato attraverso la difesa di piccoli e grandi interessi di natura individualistica configurabili nell’ambito vischioso e spesso di difficile definizione del privilegio.
Sarebbe utile interrogarsi sulle ragioni “profonde” – magari maturate dopo un lungo, faticoso travaglio – della scelta di don Golesano? Probabilmente no, perché se tali ragioni esistono, attengono ad una sfera privata che non s’intende invadere, giacchè è forse più rispettoso per tutti lasciare motivazioni e riflessioni a chi ha operato delle scelte.
Quello che pubblicamente appare (e, in questo caso, l’apparenza sembra collimare esattamente con la sostanza) è un innaturale riposizionamento. Su questo, è su questo soltanto, va rivendicato il diritto il esercitare la critica.
Lentamente e, soprattutto, silenziosamente don Golesano – come tanti altri, del resto – si è semplicemente posizionato o – per dirla con più aderenza al vero – si è utilmente “riposizionato”.

Gli “scambisti” del potere
D’altra parte, siamo ormai abituati alle “rivoluzioni copernicane” di quanti (parecchi) anche nel mondo cattolico e dell’associazionismo ad esso collegato hanno tempo fa scommesso, in alcuni casi con sensibili margini di ambiguità, sulla riforma della Democrazia Cristiana. Ricordiamo uno degli esempi di questo percorso? Centomila voti di preferenza ad Orlando, e di conseguenza anche alla lista della “balena bianca” democristiana, un grande “contenitore” in grado di assorbire tutto e il contrario di tutto. Veramente un’ennesima scommessa vinta e un’operazione politica di alto profilo in direzione del cambiamento!
Alla luce dei sempre più frequenti “traslochi ” di “cattolici illuminati” degli ultimi tempi, quella scelta di allora di alcuni ambienti “cattolici progressisti” perde i connotati dell’ingenuità (comunque colposa, ma non gravissima) per assumere quelli di un gelidamente ponderato opportunismo. Del resto, nel “salto della quaglia” don Mario risulta in ottima (o pessima, dipende dai punti vista) compagnia: padre Pintacuda insegna! Proprio così, don Ennio l’ispiratore, nemmeno tanto occulto, delle strategie per imporre la buona politica e per battere sul terreno culturale la mafia, è ancora oggi nume tutelare della formazione culturale e delle strategie politiche, ma stavolta al servizio del centro-destra e – visto che si ci “trovava” – anche “beneficiario” del non disprezzabile incarico di Presidente del Centro studi della regione Siciliana (il “CERISDI”) passato sotto l’influenza della nuova maggioranza all’Assemblea regionale (in Sicilia, anche gli “strumenti” di elaborazione e diffusione di cultura economica ed amministrativa necessitano di precisi e forti riferimenti politici).
Ma il “gesuitismo” fa proseliti ben oltre gli stessi Gesuiti e, talvolta, senza nemmeno la profondità teorica dei seguaci di S. Ignazio. Un esempio per tutti, il recente passaggio della famiglia Capitummino a Forza Italia.
Il “capostipite” della famiglia, il dirigente nazionale delle Acli Angelo, il quale nel momento del tracollo della DC, utilizzando rotte tortuose e “bizantine, che solo certo professionismo politico sa percorrere, era approdato nel “porto di mare” dei Democratici di Sinistra, all’alzarsi di un altro più (per lui) favorevole vento ha sollecitamente mollato gli ormeggi per veleggiare verso il “nuovo”, accogliente scalo del partito di Forza Italia. Da parte sua, il Partito della Quercia, avendo “sposato”, contro la vetero concezione della lenta risalita dell’apparato, i più arditi e rapidi dettami del rampante carrierismo, verificata la perfetta aderenza del “costume politico” dell’ex Presidente dell’Ars con “l’ideal tipo” del dirigente di sinistra o, forse, fatto il solito calcolo maldestro sui pacchetti di voti portati in dote dal nuovo alto dirigente, ne determinava l’immediata “assunzione” (la parola mostrava un certo fascino per il neo – diessino) per chiamata diretta, addirittura, alla Direzione regionale del Partito, massima sede di elaborazione delle politiche regionali. Così va il mondo “a sinistra” dell’Isola.
Anche Luisa Capitummino – figlia del sopracitato “compagno” Angelo, già ricordato componente della Direzione della Quercia in Sicilia – alla quale era stato inopinatamente affidato il coordinamento della massima espressione della società civile organizzata, il Cartello delle Associazioni LIBERA, si è rivelata donna “in carriera” del partito di Berlusconi, per cui è stata candidata (e non eletta, ma – come si dice – ammessa “nel giro”) nelle ultime elezioni regionali.
Sia ben chiaro non se ne fa un problema di bottega, l’aver dato la patente di rinnovatore della politica in Sicilia al gesuita Pintacuda e ai suoi seguaci, l’aver affidato il rinnovamento del maggiore partito della sinistra alla confluenza devastante dell’azione di vecchi settori del partito dal know-how politico da notabilato democristiano, a transfughi clientelar-popolari dalla “Balena bianca” e a “fulgidi esempi” di socialismo (si fa per dire) corsaro e arrogante da craxismo in “salsa siciliana”, è il segno di una perdita d’identità a favore di un arrembaggio al potere di piccoli “arrivisti” della politica di basso cabotaggio che hanno scalzato tanti soggetti di altra impostazione politico-culturale, emarginati per la loro incompatibilità con una prospettiva di politica autoreferente e rivolta, piuttosto che a “progettare” – attraverso l’impegno quotidiano – un’ipotesi di società migliore conformata ad alcuni valori di riferimento – a determinare personalistiche rendite di posizione finalizzate alla scalata del potere.
Ciò chiama in causa le gravissime responsabilità di chi, nella Politica e nella Società Civile, ognuno per la sua parte, non è riuscito costruire nuovi, credibili percorsi d’impegno per la società, né a prestare l’indispensabile attenzione alla selezione di un gruppo dirigente realmente votato ad un’ipotesi di cambiamento della società siciliana e ad una liberazione dal pesante retaggio di una politica vogliosa del potere fine a se stesso. Paradossalmente, in tali circostanze, riesce ad affiorare perfino un certa “nostalgia” per l’indottrinamento dogmatico e la disciplina di partito della “vecchia” sinistra che giustamente è stata superata, ma forse non nella migliore direzione.
Ma tornando al caso Golesano” – le digressioni sono determinate dalla convinzione che in Sicilia tutto si tenga: la politica dominante, Cuffaro, i suoi consulenti, i suoi oppositori finti o sciocchi (o entrambe le qualità nelle stesse persone) … – esso è, a ben vedere, soltanto un “ordinario” esempio di trasformismo al quale non sarebbe il caso di prestare particolare interesse se, probabilmente, non palesasse una qualche difficoltà di riferimento con l’eredità morale di don Puglisi.
L’attuale parroco di Brancaccio – ne prendiamo malinconicamente atto – è saltato con insospettabile agilità ad occupare uno strapuntino nel “famoso” e sempre affollatissimo carro del vincitore, dove il rubicondo Cuffaro sta cercando, come si dice nei “quartieri alti”, di “appattare la settanta”, ossia di mettere insieme coppe, mazze, spade e denari (anche i denari ci vogliono!) per bilanciare forze interne ed esterne della sua coalizione e per arrivare, attraverso una melassa di populismo e di deteriore mediazione, al tradizionale obiettivo principe della politica siciliana: alimentare il potere attraverso il peggiore utilizzo delle risorse pubbliche e assecondare le peggiori attese clientelari. E in questo “volare alto” ci sembra di riconoscere l’ectoplasmatica presenza del mai dimenticato “vate” del ceto politico-affaristico isolano, quel Salvo Lima che sosteneva, con mirabile finezza intellettuale e ineguagliabile tensione etica che: “a pignata avi a vugghiri ppi tutt”.

Il Consociativismo in “salsa acida siculo-romano”
Ma, d’altronde, oggi, in fondo, tutta la politica siciliana – spesso in modo trasversale – ha assunto caratteristiche di difficile definizione e chi si ostina a strizzare l’occhio ai ceti “moderati” (oggi questa definizione ha perso ogni riferimento con il significato letterale) riesce soltanto a perdere, in modo sinora inarrestabile, il consenso delle tradizionali aree sociali di riferimento. Perché mai un soggetto, sensibile al proprio esclusivo tornaconto e non attratto da particolari riferimenti etico-morali, al quale il “Polo dell’Impunità” promette un paradiso in cui non paga le tasse, può sanare ogni illegalità, da quella contabile a quella ambientale, o nel quale può licenziare senza che sia necessaria una giusta causa, dovrebbe votare a “sinistra”, magari dovendo sperare nel vecchio “trasversalismo” che raccoglie consensi in tutte le direzioni? Meglio rivolgersi direttamente a chi del clientelar-populismo ha il copy-right.
E, d’altra parte, perché mai chi, con passione e buona fede, ha, per decenni, politicamente combattuto uomini portatori di idee e metodi del peggiore notabilato democristiano meridionale, da sempre ambigui e più spesso ossequiosi, con i potenti e chiacchieratissimi “raisi ” della politica siciliana, dovrebbe oggi votare gli stessi personaggi, o i loro cloni, solo perché questi hanno giudicato conveniente indossare un’altra casacca (magari di centro-sinistra), ma sempre pronti a saltare dall’altra parte non appena qualcuno è in grado di sollecitare la loro brama di potere?
Chi non molto tempo fa ha definito Cuffaro una risorsa del centro-sinistra, più che mostrare una imbarazzante spregiudicatezza politica e una grave irresponsabilità nella gestione di un patrimonio d’idee e di battaglie, ha dimostrato, oltre ad un atteggiamento impolitico, una discreta idiozia.

Palermo, Roma, Genova: ieri come oggi, così lontane e così vicine
Ma tornando ancora una volta “all’affaire Golesano” (si auspica risulti chiaro a chi legge che le digressioni solo apparentemente si allontanano dal motivo principale del ragionamento), viene in mente che il connubio fra “trono” e “altare” è veramente duro a morire. Per una parte dei cattolici, e del clero in particolare modo, la non condivisione del potere sembra dare luogo ad autentiche crisi d’astinenza.
Pensiamo, ad esempio, nel campo “laico”, all’On.le Mastella che ha fondato un partito “semovente” trasportabile indifferentemente a destra o a sinistra, purché gli si consenta l’uso del governo per rinnovare il potere, ma oggi “incastrato” nella coalizione perdente solo per un eccesso di polemica; pensiamo ancora, nell’ambito ecclesiale, ai vescovi che hanno ottenuto dal “centrosinistra” aperture significative sul finanziamento (alla faccia della Costituzione e dei minchioni che credono nella laicità dello stato e nelle pari opportunità!) delle scuole cattoliche ed ora passano all’incasso anche con il governo Berlusconi, che hanno “amorevolmente” accompagnato durante la campagna elettorale con le loro paterne e sollecite indicazioni per i buoni cristiani, al fine di mettere in discussione la legge sull’aborto, stroncare sul nascere ogni iniziativa legislativa tendente a tutelare le unioni di fatto e giungere, infine, attraverso diverse iniziative, a mettere in discussione la laicità dello Stato che, indipendentemente dalle diverse idee sui temi specifici, è garanzia delle libertà di tutti.
Rispetto ai “pendolari delle appartenenze” – e anche nel caso di don Golesano – capire le motivazioni che li hanno indotti a scegliere di aderire all’area della conservazione e della reazione è relativamente interessante. Eppure occorre evitare di volgere lo sguardo solo alle grandi questioni, sottovalutando che è proprio dal concreto delle realtà locali che si sta cercando di porre in essere il ridimensionamento di ogni ipotesi ed esperienza di liberazione che la società (italiana, siciliana, palermitana) per qualche “capriccio” della storia di tanto in tanto riesce ad esprimere.

Certo, può sembrare perfino inutile occuparsi di Cuffaro e dei suoi consulenti, dopo avere visto all’opera, a Genova, i manganellatori in divisa, braccio armato del governo del Cavalier Berlusconi (del quale quello regionale è copia conforme ma, con qualche ulteriore deprecabile “specialità”) ai quali è stato consentito di rendere palese il finora occultato dispregio per l’essenza della democrazia (ovvero la tutela dell’espressione del dissenso) e la volontà di instaurare un regime che solo per un accidente della geografia non si trova in Sud America. Questi drammatici fatti hanno dissipato ogni residuo dubbio sull’illiberalità di questa destra italiana dai contenuti, al contempo, reazionari e dettati da chiari interessi privati assolutamente inconcepibili nel resto dell’Europa (paradossalmente, persino il “buon” Haider, confrontato al duo Berlusconi-Fini appare un distinto signore, solo dai toni un po’ duri). Alla luce di queste constatazioni ogni sincero democratico, di qualsiasi sensibilità, non può non schierarsi perché tacere, o impelagarsi in sofistiche distinzioni fra l’errore e l’errante non è più possibile.
E intanto, mentre il Paese era scosso dalle immagini genovesi, il Parlamento, egemonizzato dalla maggioranza di centro-destra, non si occupava di questioni istituzionali, ma più utilmente (per l’attuale Presidente del Consiglio), le Camere varavano le leggi per consentire di “accomodare”, senza grossi rischi, un po’ di bilanci “allegri”, magari fatti in famiglia, per neutralizzare precedenti acquisizioni della magistratura e, financo, per fare risparmiare un po’ di soldi nella successione dei grandi patrimoni (che, è notorio, non sono nella disponibilità di un gran numero di italiani!).
Questo è stato l’impegno del governo nazionale di riferimento del Presidente Cuffaro che poi ha proseguito, per rimanere in ambito di giustizia, nel rendere molto difficili le rogatorie internazionali, unico mezzo per tentare di contrastare l’internazionalizzazione del crimine collegato con l’alta finanza, e per scoprire gli “altarini” di qualche potente della “nuova” politica che, evidentemente, aveva fatto affidamento sulla tradizionale riservatezza di certi “santuari” esteri.
Per continuare in questo “edificante” elenco di impegni del governo si possono evidenziare tutta una serie di discutibili, in qualche caso incredibili, provvedimenti di “raffreddamento” delle tutele assegnate a personalità particolarmente esposte sul fronte, guarda caso, della lotta alla mafia e delle indagini sulla corruzione pubblica e, addirittura, un provvedimento legislativo, veramente al di là di ogni scandalo, per neutralizzare alcuni processi ormai prossimi al giudizio su noti intoccabili.
Naturalmente, nei fatti di Genova si sono coniugate – mutuando con ciò la terribile tradizione dei regimi similfascisti sudamericani – inefficienza e gravi ambiguità nel controllo del territorio. Dopo l’incredibile, quanto sospetta brutalità negli interventi effettuati, ormai è del tutto evidente, in assoluto dispregio di diritti elementari, si è alzato, da parte del governo nazionale, il monito e la minaccia di accomunamento con il terrorismo di ogni forma di dissenso interno ed esterno (e ciò, malauguratamente, con la sostanziale, intermittente acquiescenza di settori dell’opposizione caratterizzati da un presunto “senso di responsabilità” tanto fuori luogo quanto – è lecito dubitare – interessato a mantenere aperti percorsi per possibili “intese”).
Siamo, ormai, alla contrapposizione frontale fra valori e disvalori. E con chi disprezza la democrazia e finanche l’abc della convivenza civile il dialogo risulta difficile (a meno che non si organizzi una qualche “sede ravvicinata”, per esempio una bella simil-bicamerale dove tentare una mediazione di potere tanto ignobile, quanto impossibile).
Soprattutto in Sicilia risulta forte, si può dire totale, questo affido al centro-destra, che adesso don Golesano “benedice”, e che nasce da quel gruppo dirigente che, con complicità trasversali, tanto ha fatto per distruggere l’ambiente e la vocazione al turismo compatibile, per annichilire la cultura del lavoro attraverso “caritatevoli” e opportunamente durevoli forme di precariato (straordinari investimenti per la costruzione di capaci bacini elettorali in vari settori: dagli uffici pubblici alla forestazione) dove sono impiegati schiere infinite di potenziali o – meglio ancora – di sicuri elettori che, spesso mortificati nel loro diritto ad un lavoro vero e stabile sono sollecitati, al momento opportuno, ad impegnarsi in “utili” – non si sa bene per chi (o, forse, si sa fin troppo bene) – campagne elettorali.
Certo la trinità programmatica Cuffaro – Formigoni – Bossi può rappresentare il laboratorio politico più “interessante” del secolo, ma intanto questa miscela di “veterodemocristianità” e di populismo razzista presenta anche l’insorgenza di preoccupanti fenomeni involutivi della nostra democrazia con l’affermazione di un autoritarismo “cialtrone” che, come insegna la storia dei già citati regimi militari sudamericani, è capace di coniugare incredibili livelli di inefficienza ed incompetenza con una spietata brutalità. Proprio quello che è successo a Genova, sul fronte dell’ordine pubblico, e quello che si sta verificando a Bruxelles, con le continue reprimende dell’Unione Europea rispetto agli imbrogli del ministro “creativo” Tremonti.
E’ noto – e se ne deve tenere dolorosamente conto – che tanti italiani vogliono “ordine e disciplina”, intesa come attenzione ossessiva alla delinquenza dei disperati e impunità per quella dei potenti (fra i quali, evidentemente, inscrivono, essi stessi) e sentono impetuoso un grande “bisogno di illegalità” che hanno pensato bene di affidare alle sapienti cure di Berlusconi, di Cuffaro e dei loro collaboratori. Ma, a voler proporre un parallelismo, volutamente eccessivo, che, però, parte dall’osservazione dei pericoli di un’opinione pubblica “drogata” dalle grandi mistificazioni, è forse utile ricordare che la storia insegna che fu la maggioranza dei tedeschi a volere Hitler cancelliere. La stessa storia ha ampiamente e drammaticamente dimostrato a tutta l’umanità che quella maggioranza dei tedeschi aveva torto.
Ma che c’entra il reverendo don Golesano con l’autoritarismo, l’attentato alla democrazia e, soprattutto, che c’entra Cuffaro che, dipendesse da lui “vaserebbe” tutti: antiglobalizzatori sfigati, poliziotti e carabinieri assatanati, e perfino i black-block. C’entra, perché – come la storia siciliana insegna – quando un tessuto sociale in movimento positivo prova a regolare i conti con i retaggi negativi del suo passato, intraprendendo la via del riscatto si possono innescare cicli evolutivi importanti per il meridione e per l’intera comunità nazionale, potenzialmente micidiali per la gestione del potere non come servizio ma come dominio. Pertanto, com’è nella tradizione, questi aneliti di dignità e di consapevolezza vengono spezzati dalla conservazione e ricondotti al “all’ordine costituito”, con i mezzi drastici e risoluti del potere, ma anche attraverso la confusione costruita ad arte con un falso unanimismo d’intenti e un costante appiattimento di modelli.
Il Reverendo Golesano, colto ed avvertito, ha tutti gli strumenti per andare indietro nel tempo, rivisitare le politiche dei primi anni dello Stato Unitario, dello sviluppo e della distruzione violenta dei Fasci siciliani come del grande movimento per la terra del secondo dopoguerra e, insieme ai fatti drammatici della nostra storia, conoscerà gli artefici della condizione della Sicilia, “quei potenti e pericolosi signori siciliani” (come li hanno appellati, in epoche tra loro tanto lontane ma con parole sorprendentemente quasi uguali, statisti come Giovanni Giolitti e Aldo Moro).
Seguendo le “gesta” di questi antichi signori della politica e dell’economia siciliana, e fatte le debite differenziazioni temporali, verrà istintivo rivederli nelle arroganti sembianze di qualche attuale protagonista della politica isolana sperando che tanti, a quel punto, provino un certo imbarazzo per questi paladini dei diritti dei siciliani che, oggi come ieri usurpano una rappresentanza che dovrebbe avere ben altra caratura (e qui verrebbe comodo ricorrere all’arcinota citazione dal “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa sul “cambiamento in Sicilia”, di cui però, a prescindere dai diversi giudizi sul valore civile e culturale dell’opera, francamente non se ne può più.

L’irresistibile attrazione tra il Trono e l’Altare
Prendiamo dunque atto della nuova (?) “collocazione” dell’attuale parroco di Brancaccio che lo rende oggettivamente sodale di chi considera il dissenso una bestemmia e coloro che manifestano tutti teppisti o – manco a dirlo – i “soliti comunisti”. E, ben sapendo, che don Golesano non è certo aduso a funzioni gregarie, è giocoforza ritenere che abbia un qualche disegno da perseguire, di concerto, quasi certamente, con l’Eminentissimo Cardinale di Palermo con il quale, per dovere “istituzionale”, deve sempre essere/apparire in “comunione”. Prosegue, insomma, la strategia dei buoni rapporti dell’Arcivescovado palermitano con il nuovo potere politico siciliano, culminato nel recente finanziamento, disposto dall'”ottimo” Assessore alla sanità del precedente Governo regionale di centro-destra, On.le Prof. Provenzano – e confermate dal deferente Presidente Cuffaro che sa bene che le “cambiali” si pagano, specialmente quelle firmate “all’Alto Clero – delle prestazioni dei preti “in corsia” che in questo modo vengono inserite, a pieno titolo, nel processo di “aziendalizzazione” della sanità, con tanto di indici produttivi e dati di monitoraggio in grado di valutare, sulla base dei costi sostenuti, i risultati , riportati (dato un livello standard di prestazioni, quante confessioni, quante comunioni e, soprattutto, quante le estreme unzioni eseguite, naturalmente, in rapporto sinergico con i vari reparti dell’ospedale!).
Il nuovo “status” di consulente del “governatore” regionale rende, evidentemente, don Golesano, come tutti quelli che hanno fatto scelte simili, partecipe di un progetto di un ceto politico – quello, per intenderci, che sotto l’ipocrita espressione di “sistemazione delle coste”, in realtà garantisce che neppure un mattone abusivo sarà abbattuto e che dileggia i lenzuoli antimafiosi. Anzi, a tale proposito, sarebbe interessante comprendere come farà il reverendo don Golesano a giustificare il disprezzo di Cuffaro verso “i lenzuoli” e tutto quello che rappresentano, sapendo benissimo che qualche hanno fa anche a Brancaccio, durante le fiaccolate in ricordo di Padre Puglisi, l’esposizione di non molti ma significativi lenzuoli rappresentò una straordinaria rottura e una coraggiosa assunzione di responsabilità di uomini e donne di un quartiere che durante quella manifestazione aveva, prevalentemente, mantenuto un tono, ancora più torvo del solito?

La difficile eredità di un’etica della responsabilità civile in terra di mafia
Alla luce di una vasta gamma di considerazioni, sia detto con tutto il rispetto possibile, non sembra coerente, anzi appare piuttosto problematica, la cura di don Golesano dell’opera avviata da don Puglisi. D’altra parte non è la prima volta che Il Centro Padre Nostro mostra una certa insofferenza per le regole oggettive della trasparenza che valgono a prescindere dalla buona fede dei soggetti “in gioco” (buona fede che non è nostro compito né nostra intenzione mettere in discussione).
Il problema è che, come qualcuno ha sostenuto in tempi e con riferimenti non sospetti, quando si ha un ruolo di gestione di associazioni con relazioni con Enti pubblici, anche con finalità di finanziamento pubblico, è buona norma di civiltà e corretto rapporto con l’amministrazione non accettare da essa ruoli di collaborazione, specie se, come da ormai diffusa e pessima abitudine, le consulenze tendono a sovrapporsi agli uffici divenendo una sorta di amministrazione parallela. Per esempio, il caso di un responsabile del “Centro Padre Nostro” nominato consulente da un Assessore del centro-sinistra (ma con evidenti retaggi di vecchia cultura politica) è la prova di quanto non si è compreso, con grave danno per lo sviluppo di un nuovo modo di intendere l’amministrazione della società, che la trasparenza e la coerenza dei comportamenti non sono un accessorio, un’indicazione generica di possibili comportamenti, ma – e in special modo per chi vuole esprimere una “diversità positiva” – un imperativo categorico. specialmente nella vita pubblica, che deve essere pretesa, prima che dagli altri, da se stessi.
La coerenza (il senso di questo termine, per molti versi, è forse ormai dai più considerato di oscuro significato, se non anacronistico ) impone, più che qualche travaglio di prammatica, scelte precise e determinate giacché non ci si può fatalisticamente rassegnare all’idea che morti i fondatori, lo spirito delle loro opere scompaia con loro. Per esempio, come farà il successore di Pino Puglisi, a non meditare sulle terribili, ignobili affermazioni del Ministro Lunardi, componente di quella maggioranza che in Sicilia è rappresentata da Cuffaro, che invita a “convivere con la mafia”?
Don Golesano avrà capito sicuramente che se Padre Puglisi avesse deciso di convivere con i “mammasantissima” di Brancaccio, “anestetizzando” il Vangelo e zittendo con qualche facile alibi la sua “impertinente” coscienza religiosa e civile, non sarebbe finito come è finito e gli “amici” avrebbero capito subito eventuali segnali di “ragionevolezza” – proprio come oggi stanno comprendendo quelli dell’ineffabile, sopracitato Ministro di Berlusconi – e non avrebbero fatto mancare al reverendo “padre parraco” onori e considerazioni. Anzi, sicuramente, da qualche politico avrebbe pure ottenuto un campetto o qualche altro “regalo” per il quartiere di cui vantarsi, invece che andare “sbattendo” per uffici senza alcun risultato, per ottenere – pensa un po’ che tipo! – locali per la scuola, magari sottraendoli all’uso illegale di qualche “amico degli amici.
Come tanti altri, anche questo prete dal sorriso angelico è stato ingenuo, “non ha capito nulla della vita” tanto da mettere in conto perfino la possibilità della morte del suo corpo, ma forse non del suo spirito e della sua opera, la cui “scomparsa”, se drammaticamente si verificherà, solo in parte sarà imputabile ai boss e ai politici ammiccanti.
Per il resto, bisogna rimanere ancorati ai fatti. Il reverendo don Golesano è (come da sua pubblica affermazione), oltre che naturale, convintissimo riferimento sul territorio della Curia palermitana e quindi, presumiamo, in perfetta sintonia, con chi – scegliendo di “infischiarsene” del segnale di disimpegno civile che ciò sottendeva – ha deciso di non costituirsi parte civile contro gli assassini di Don Puglisi, in ossequio ad un equivoco principio d’alterità rispetto allo Stato che, però, il clero nazionale e locale si riserva di superare “alla bisogna” – in relazione a esigenze contingenti, il più delle volte ben poco “spirituali” – bacchettando o blandendo i “signori politici” d’ogni partito, risma e colore.
Questa presuntuosa affermazione d’alterità manifesta il suo apice nel processo di canonizzazione di Don Pino, che, beninteso, va rispettata in quanto riferimento di fede di tanti uomini e donne di buona volontà, ma del quale non si può non temere anche qualche ricaduta non auspicabile come, ad esempio, un frettoloso ricondurre il martirio di don Pino, oltre che alla esclusiva appartenenza ecclesiale ad una perfetta corrispondenza del suo pensiero e della sua opera con quello curiale. Ciò realizzerebbe il doppio scempio di “imbalsamarlo” in versione santino e di “vampirizzarne” le virtù da accreditare genericamente all’intera Chiesa locale che, invero, non sempre è sembrata annunciare lo stesso Vangelo di 3P (al secolo Padre Pino Puglisi).
Nell’ultima ricorrenza dell’assassinio, anche se con grande amarezza, molti hanno ritenuto di dovere disertare la fiaccolata per le vie di Brancaccio che è sembrata ridotta, tra l’altro e al di là della buona fede e della sincera partecipazione di tanti dei presenti, a passerella per elementi del “nuovo corso” politico e sociale, forse gradito solo ai nuovi frequentatori della fiaccolata che prima si guardavano bene dal farsi vedere in queste occasioni che ,anzi, dileggiavano come “vuote manifestazioni esteriori”.
Alcuni palermitani, amici e non di don Pino – o 3 P come si autodefiniva, Padre Peppino Puglisi – hanno preferito – anonimi fra gli anonimi – una visita alla tomba, davanti alla quale, anche con qualcuno mai visto prima, è stata condivisa la nostalgia per il sorriso di un prete di strada, ma soprattutto di un esempio, sempre più raro, di fedeltà ad una vocazione e di coerenza, fino alle estreme conseguenze, di un uomo e di un sacerdote tra la gente e per la gente.
Pazienza 3 P, tu hai fatto tutto il possibile e qualche volta – come dicono le carte del tuo processo di beatificazione – anche l’impossibile e, in ogni caso, tanto di te rimane. Ma anche un santo come te deve rassegnarsi ai tempi che cambiano. E, comunque, grazie per averci provato.
Palermo, Ottobre 2001