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Elementi per un approccio non violento al superamento del sistema mafioso

Andrea Cozzo

Elementi per un approccio nonviolento al superamento del sistema mafioso

(alcuni appunti e considerazioni da sviluppare)
In un suo articolo sulle possibilità di rapportarsi alla mafia in modo nonviolento Enzo Sanfilippo ha ricordato i limiti della strategia repressiva e, sulla scia di un pensiero che era anche di Giovanni Falcone, l’importanza di un approccio sistemico che non separasse troppo nettamente la gente “perbene” dai “mafiosi”, “noi” da “loro”. In ottica nonviolenta, come suggerisce ancora Enzo Sanfilippo, è utile impostare la questione nei termini del “superamento” del sistema mafioso1. Vorrei provare a sviluppare ulteriormente il discorso sull’aggiunta che l’approccio nonviolento può apportare in questa direzione.
Parto dal presupposto che pensare in modo sistemico e nonviolento significa non polarizzare il conflitto (parola che, di per sé, non è ancora sinonimo di “violenza”), dare spazio a ciò che congiunge gli esseri umani più che a ciò che li separa, fare appello alle energie e capacità solitamente trascurate quando lo scopo è quello di contrapporsi a qualcuno, e mettere in atto una dinamica realmente comunicativa che arrivi al cuore (nel senso emotivo) dell’avversario (“avversario” e non “nemico”)2.
Vediamo quali elementi, strutturali e conflittuali, possiamo considerare parti in causa allo scopo di un’azione sociale che contribuisca al superamento del sistema mafioso (mi riferisco ai soli fattori che permettono di pensare un cambiamento della mafia in quanto fenomeno dotato di specifiche caratteristiche3:
1) Attori mafiosi, di vario livello gerarchico, sottostanti ad un sistema di regole che favoriscono la solidarietà del gruppo e l’anonimato, ed agenti attraverso il controllo del territorio e sulla base della minaccia diretta o trasversale (intimidazione).
2) Pentiti di mafia.
3) Familiari di membri della mafia4.
4) Politici5.
5) Vittime, sottoposte a minaccia di subire danni di vario genere – da quelli economici a quelli fisici, fino al rischio della vita loro o dei loro familiari.
6) Istituzioni dello Stato con il loro apparato a) politico, b) giuridico-repressivo, c) culturale (scuola, università, mass media, linguaggio, sistema generale dei valori).
7) Società civile, nella sua articolazione in: a) associazioni o singole espressioni religiose attive nell’analizzare e contrastare il fenomeno mafioso; b) opinione pubblica, solitamente inerte, e capace di scendere in piazza solo in occasione di eventi tragici eclatanti; c) cittadini che costituiscono, a causa delle condizioni di emarginazione socio-culturale in cui vivono, il bacino principale per l”arruolamento’ mafioso.
Il quadro si presenta dunque articolato e complesso ma, così tratteggiato, permette forse di pensare la tipologia del conflitto e le forme di intervento possibile. Ci troviamo di fronte ad un conflitto asimmetrico, che chiamerei complesso. Con “asimmetrico” si intende un conflitto in cui la parte che opprime ha maggior forza (in questo caso per l’anonimato e l’uso illimitato della violenza diretta sulle vittime designate o, trasversale, sui parenti di queste ultime). Chiamo il conflitto anche “complesso” perché la parte che opprime opera per così dire in due direzioni: verso le vittime specifiche e, al contempo, verso le leggi e la società in generale; e perché esso vede la presenza di diverse terze parti che possono svolgere un ruolo di interposizione e, nel momento in cui il potere delle parti risulta bilanciato (dunque, adesso, “simmetrico”), di mediazione.

Mediazione
Comincio da quest’ultima che si presenta forse con caratteristiche più facili da delineare.
Relativa al momento in cui il singolo affiliato di mafia ha già scelto di cooperare, o anche in cui è semplicemente stato scoperto ed è già in mano alla giustizia, la mediazione tra l’attore mafioso e la vittima – nei suoi diversi attributi: dialogante, di prossimità, rigenerativa o restaurativa, comprensiva, riparativa – può rientrare nel percorso che va sotto il nome di mediazione penale, volta in prima istanza all’espressione delle “verità personali”, cioè degli esseri umani in quanto tali, distinti dai loro ruoli 6. Si tratta di un iter che ha la sua gradualità ei suoi tempi, le sue tecniche (ascolto, rispecchiamento, parafrasi, empatia), nonché i suoi criteri di ‘prova’ della reale dissociazione, fondata non solo sulla collaborazione, diciamo così, pentitistica, ma anche sull’attività di risarcimento, concreto o simbolico, verso le vittime o la società. Forse si può pensare addirittura ad uno spazio di confessione pubblico, diffuso e aperto (come avveniva nelle sedute della Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica), per il processo di dissociazione. Sarebbe direttamente la società nella sua interezza ad essere informata.
Dunque, in primo luogo, dare spazio all’ascolto, alla costruzione di ponti, alla visibilità collettiva – operazioni che, sia chiaro, non mettono sullo stesso piano le azioni dei responsabili di crimini e quelle di chi gli effetti di questi crimini ha subito, bensì offrono l’occasione, a chi è incorso nel reato, di una vera presa di coscienza della sofferenza da lui causata.
“Mediazione” si può intendere anche nel senso della mediazione comunitaria. In questo caso il livello di intervento è dunque un altro e interessa l’aspetto dell’azione mafiosa che svolge un ruolo mediatore-clientelare tra la gente comune e i potenti, o mediatore delle liti tra soggetti; le stesse persone qui si possono presentare come vittime della mafia e al contempo suoi complici non solo passivi 7. In questo caso, si possono prospettare come rimedi due elementi: l’introduzione di principi di democrazia partecipativa (sulla scia dei COS capitiniani) e la formazione alla risoluzione nonviolenta dei conflitti privati (attraverso negoziazione o mediazione sul modello delle boutiques du droit introdotte in Francia da J.-P.Bonafè-Schmitt)8: Luoghi di aggregazione già esistenti (parrocchie, centri sociali, associazioni) potrebbero costituire validi supporti a tale ripresa del territorio come spazio di comunicazione sociale. Questo non è solo un momento conflittuale, ma è anche parte di un programma costruttivo di una società alternativa.

(Interposizione e) Difesa Popolare Nonviolenta
Andiamo all’altro caso, più difficile e necessitante di un’azione coordinata e su più versanti, cioè quello dell’interposizione; essa però, nella misura in cui la nonviolenza viene praticata anche direttamente dalle vittime, o dalla società civile già consapevole di essere essa, nella sua interezza, vittima, -insomma nella misura in cui il conflitto si immagina a due attori-, si viene a trovare in una situazione che rientra nell’orizzonte della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN). Quest’ultima nozione designa propriamente la possibilità degli abitanti di un Paese di difendersi da attacchi stranieri senza l’uso della violenza; ma, poiché essa ha come suo principio di base l’idea che l’occupazione straniera del territorio non coincide ancora con la sconfitta degli abitanti, mi pare che almeno alcune sue modalità possano valere anche come pratiche di comportamento nei confronti della mafia che proprio sul controllo del territorio fonda essenzialmente il suo potere 9.
La DPN è innanzitutto una capacità, anche tecnica, di comunicare con gli avversari. Sono principalmente tre i messaggi che da parte di chi adotta la DPN devono giungere con chiarezza a chi opera mafiosamente:
1) l’ingiustizia e, più specificamente, la sofferenza che si sta patendo (“dire all’altro il male che fa”)10;
2) la propria volontà di rispettare l’avversario;
3) la ferma intenzione di resistere senza minacciare a propria volta (il rifiuto nonviolento di accettare intimidazioni).
Tutti e tre i fattori appena menzionati sono indispensabili per la buona riuscita della comunicazione e, all’interno della DPN, vanno attuati contemporaneamente perché, legati circolarmente, rafforzano reciprocamente ognuno l’effetto degli altri (considerati isolatamente essi corrispondono tendenzialmente ai tre meccanismi dell’azione nonviolenta che Gene Sharp ha studiato e ha chiamato rispettivamente persuasione, accomodamento, coercizione  nonviolenta)11.
Il primo, solitamente trascurato perché ritenuto ovvio, è fondamentale per far comprendere all’altra parte la concretezza della sofferenza che essa infligge, per fare appello alla sua coscienza. È bene precisare che non si tratta di ostentare quella che in siciliano si chiama piatusaria, debolezza lamentosa e priva di dignità. Richiamare l’ingiustizia e presentare la sofferenza come una propria scelta, al contempo fiera ma richiedente la cessazione dell’ingiustizia, e non come una passiva accettazione, significa tentare un’opera di coscientizzazione, mettere l’altra parte di fronte agli effetti della sua azione, mostrare un’evidenza che essa, con gli occhi fissi sui propri scopi, rifiuta di vedere. Dunque, anziché condannare e, per così dire quasi prima di protestare, è importante far conoscere e rendere esplicito il male a colui stesso che lo commette (la trasformazione dell’avversario, a questo livello, è una sua persuasione).
Sull’importanza del rispetto dell’avversario nel libro di Giovanni Falcone, Cose di Cosa Nostra, si trovano diverse osservazioni, oltre a quelle già citate nel saggio di Sanfilippo, che a mio parere possono costituire altri preziosi suggerimenti per l’elaborazione di un approccio nonviolento al superamento della mafia: si tratta di applicare queste indicazioni sia al livello istituzionale (come era per Falcone; ed in questo caso esse valgono anche per il caso presentato nel paragrafo precedente), sia al livello diffuso, civile. Così, in alcune pagine, leggiamo: “perché questi uomini d’onore hanno mostrato di fidarsi di me? Credo perché sanno quale rispetto io abbia per i loro tormenti, perché sono sicuri che non li inganno, che non interpreto la mia parte di magistrato in modo burocratico, e che non provo nessun timore reverenziale nei confronti di nessuno. (…) Sono dunque diventato una sorta di difensore di tutti i pentiti perché, in un modo o nell’altro, li rispetto tutti, anche coloro che mi hanno deluso, come in parte Contorno. Ho condiviso la loro dolorosa avventura, ho sentito quanto faticavano a parlare di sé, a raccontare misfatti di cui ignoravano le possibili ripercussioni negative personali, sapendo che su entrambi i lati della barricata si annidano nemici in agguato pronti a far loro pagare cara la violazione della legge dell’omertà. Provate a mettervi al loro posto: erano uomini d’onore, riveriti, stipendiati da un’organizzazione più seria e più solida di uno Stato sovrano (…), che all’improvviso si trovano a doversi confrontare con uno Stato indifferente, da una parte, e con un’organizzazione inferocita per il tradimento, dall’altra. Io ho cercato di immedesimarmi nel loro dramma umano e prima di passare agli interrogatori veri e propri, mi sono sforzato sempre di comprendere i problemi personali di ognuno e di collocarli in un contesto preciso. Scegliendo argomenti che, possono confortare il pentito nella sua ansia di parlare. Ma non ingannandolo mai sulle difficoltà che lo attendono per il semplice fatto di collaborare con la giustizia. Non gli ho mai dato del tu, al contrario di tanti altri; non lo ho mai insultato, come alcuni credono di essere autorizzati a fare12.
Dunque, innanzitutto rispetto e, addirittura, empatia (“Provate a mettervi al loro posto”, ” Io ho cercato di immedesimarmi”). Del resto, quest’ultima è in qualche modo strettamente connessa col primo, e tutto ciò ha a che fare con la verità: Falcone sostiene perfino di avere avuto in questo “una lezione di moralità” dalla mafi13. Sul rispetto e sulla sincerità, sul suo desiderio di non ingannare, Falcone insiste ripetutamente14; non solo in quanto atteggiamenti etici ma anche come veri e propri strumenti comunicativi: “I membri di Cosa Nostra esigono di essere rispettati. E rispettano solo chi manifesta nei loro confronti un minimo di riguardo”15.
La cultura dell’onore, che il comportamento mafioso enfatizza, è un dato antropologico non da estirpare ma da incanalare correttamente16, e in ogni caso da tenere nella dovuta considerazione per rapportarsi in modo chiaro a chi vive in ambiente mafioso. (Tra l’altro proprio il senso dell’onore può essere importante per permettere una riformulazione del principio, non-nonviolento, della legalità in quello, nonviolento, della responsabilità, che evita la trappola del concetto di obbedienza all’autorità – legale o mafiosa, dal punto di vista della maturazione critica e spirituale non è molto differente – per sancire il diritto alla disubbidienza civile.)
Ancora: “Giudico inammissibile, ad esempio, – sostiene Falcone – che le forze dell’ordine non tengano un comportamento di assoluta correttezza nei confronti dei sospettati. So di un commissario di polizia che, recatosi per l’ennesima volta a perquisire la casa di un capomafia in quel periodo detenuto, di fronte alla moglie che lamentava “Ma siamo perseguitati, presto ci ritroveremo senza un soldo”, si permise di tirar fuori di tasca 500 lire e dargliele. Umiliazione inutile, servita solo a procurare un attimo di soddisfazione al commissario in questione ma molto rancore dall’altra parte17. Quest’ultima osservazione ci induce a riflettere sull’importanza del rispetto e della comunicazione nonviolenta anche nella fase giuridico-repressiva.
Come si può tradurre l’azione di rispetto al livello sociale della DPN? Abbozzo la risposta che qui rispetto può significare non-emarginazione dell’avversario, non-separazione scostante da esso, non-rottura del ponte comunicativo, non-disprezzo, e, di più, ricerca del dialogo per scoprire la “verità dell’altro” e quella che Aldo Capitini chiamava “apertura al tu” (forse attraverso manifestazioni che giungano sotto casa dei boss o anche attraverso franchi colloqui diretti richiesti da parte di gruppi di cittadini, non per accusare ma per comprendere -e per dire la propria)18.  (Se si considera il rispetto nella sua doppia direzione -dato e ricevuto-, quando si fosse raggiunto questo risultato si avrebbe qualcosa di simile ad un accomodamento, perché l’affiliato di mafia decide di non ricorrere alla violenza).
Passo all’ultimo punto: il fermo rifiuto di accettare intimidazioni. L’azione di mostrare rispetto (come del resto quella di presentare la propria sofferenza se appare piatusaria), da sé sola, può essere ancora scambiata per sottomissione. In questo caso, se cioè l’avversario crede che il nonviolento abbia paura, si resterà lontani dalla possibilità di venire rispettati. Perciò è indispensabile che si sappia anche comunicare all’altro il coraggio e la determinazione da cui si è mossi.
Anche questo fatto appena menzionato era già chiaro a Falcone che, in un passo sopra citato dichiarava che gli affiliati di mafia con cui aveva a che fare sapevano non solo che egli aveva per loro vero rispetto, ma anche che non provava verso di loro “nessun timore reverenziale”. Ancora una volta, nonviolenza vuol dire buona capacità di comunicare, e perché lo stato di chiarezza sia raggiunto occorre quindi che il rispetto sia accompagnato dalla ferma dimostrazione di coraggio: valgono qui interamente le parole di Gian Carlo Caselli secondo cui il coraggio e la determinazione sono “requisiti oggi indispensabili al pari dell’onestà e della preparazione”19.
La situazione in cui può bastare il solo coraggio (in quanto elemento di coercizione nonviolenta) è quella che vede anche la messa in atto di una interposizione ad opera di pochi attori della società civile come sola terza parte. (Ma ribadisco che, in quanto tecniche della DPN, i tre fattori discussi vanni concepiti in funzione integrata). A questo livello, azioni di diplomazia popolare, oltre a svolgere eventualmente operazioni di scorta nonviolenta o empowerment della parte oppressa, organizzeranno pubblicazioni di manifesti e volantini, dimostrazioni e azioni simboliche, digiuni, boicottaggi economici, trasmissioni radiofoniche e televisive ecc., per un allargamento del conflitto che riesca a coinvolgere la restante società civile come parte attiva. Quest’ultimo elemento si rivela praticamente decisivo, come decisiva è al momento la sua indifferenza che abbandona le vittime alla solitudine di un rapporto polarizzato con i loro oppressori.
Da questo punto di vista è fondamentale sottolineare che non ci sono parti estranee al conflitto o non responsabili per una loro mancanza di complicità con gli aggressori. Chi non reputa proprio il problema della mafia solo perché non aderisce ad essa o non ne approva l’operato, chi forse ne ignora addirittura l’esistenza, non è innocente. In un insieme considerato sistemicamente l’ignoranza nonè più un alibi, c’è un dovere di attenzione che fa sì che qualsiasi disattenzione sia essa stessa già responsabile. Come viene detto da A. Bendaña e C. Villa-Vicencio a proposito della situazione dell’apartheid sudafricano, “perché si produca una vera riconciliazione, l’attenzione della nazione deve in ultima analisi allontanarsi dalla considerazione dei soli autori dei reati (…) per concentrarsi su coloro che hanno beneficiato del regime di apartheid, e richiedere che tutti coloro che hanno tratto vantaggio dall’apartheid contribuiscano a risarcire materialmente quelli che ne hanno subito le conseguenze”20. Di più, “la riconciliazione richiede inoltre che anche gli aggressori, i beneficiari e coloro che hanno assistito senza reagire ai soprusi commessi contro altre persone, prendano atto della disumanizzazione che li ha marchiati. Spesso si tratta di sete di privilegi, arroganza, avidità, indifferenza, ignoranza, paura21.Nemmeno l’ignoranza è innocente, perché è egocentrica, chiusa nel “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, non orientata all’altro, non attenta, non in ascolto al bisogno e alla sofferenza degli altri, non volta a “fare agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”.
Senza riconoscere la responsabilità di tutti, la riconciliazione (della società civile con le vittime) sarà tutt’al più momentanea perché non potrà trasformarsi in una lezione per il futuro.

Note

1 E. Sanfilippo, Il contributo della nonviolenza al superamento del sistema mafioso, in ‘Satyagraha’ 3, 2003, pp. 195-215.
2 Anche questo elemento è sottolineato bene nel saggio di Enzo Sanfilippo.
3 Pertanto indirizzarne l’evoluzione nel senso di un’organizzazione criminale comune può essere già uno scopo positivo.
4 Su questo elemento cfr. ancora Sanfilippo, Il contributo della nonviolenza, cit., che lo tratta come “area di contiguità affettiva”.
5 Per un’analisi attenta e puntuale su questo versante cfr. U. Santino, Introduzione allo studio del fenomeno mafioso, in A. Cavadi (a cura di), A scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro di Documentazione Giuseppe Impastato Palermo 1994, pp. 15-35, part. alle pp. 25 sgg. si suggerisce che la soggettività politica della mafia è data dal suo essere organizzata come un gruppo politico (con norme, ambito territoriale, coercizione fisica, apparato amministrativo) e dal fatto che essa, attraverso un rapporto di identificazione o compenetrazione con gli apparati burocratici e istituzionali, “determina o contribuisce a determinare le decisioni e le scelte riguardanti la gestione del potere e la distribuzione delle risorse”.
6 Cfr. A. Cozzo, Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa, Mimesis Milano 2004, pp. 244-255.
7 Cfr. U. Santino, Appunti su mafia e pedagogia alternativa, in A. Cavadi (a cura di), A scuola di antimafia, cit., pp. 67-71. A p. 68 si legge dell’azione intermediaria della mafia, “ruolo tradizionale, ma non per questo obsoleto”. Proprio su questo ruolo che oggi torna ad essere pienamente attuale fanno luce E. Bellavia e S. Palazzolo, Voglia di mafia, Roma Carocci 2004.
8 Cfr. J.-P.Bonafè-Schmitt, Les médiations: logiques et pratiques sociales, GLYSI Lyon 2001; R. Di Rosa, La Mediazione. Gestione del conflitto e (ri)costruzione sociale, La Zisa Palermo 2002.
9 Cfr. per esempio, P. Borsellino, Mafia: il nodo è politico, in F. Petruzzella (a cura di), Sulla pelle dello Stato, La Zisa Palermo 1991, pp. 158-165 (già in “Segno” n. 100, 1988).
10 Jean e Hildegard Goss-Mayr, La non-violenza evangelica, Molfetta (Ba) La Meridiana 1991, p. 88. E, forse anche meglio, direi: “dire all’altro il male che ci fa”.
11 G. Sharp, Politica dell’azione nonviolenta. 3. La dinamica, tr. it. EGA Torino1997, cap. XIV. La persuasione (o conversione) si ha quando l’avversario perviene ad una trasformazione del proprio punto di vista in modo tale da comprendere ed includere i fini dell’attore nonviolento; l’accomodamento avviene quando l’avversario rinuncia alla sua azione di oppressione, pur potendo continuarla, per timore di riuscire danneggiato: non si ha un mutamento di opinione, ma un mutamento di azione per evitare un proprio rischio; la coercizione nonviolenta si realizza quando l’avversario, per comportamenti nonviolenti come la noncollaborazione e la disobbedienza civile, pur non avendo cambiato opinione, non è più in grado di opprimere.
12 G. Falcone, Cose di Cosa Nostra, Milano Feltrinelli 2004 (II ed.), pp. 67-69 (corss. miei).
13 Falcone, Cose di Cosa Nostra, cit., pp. 70-71: “Ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni. (…) L’imperativo categorico dei mafiosi, di “dire la verità”, è diventato un principio cardine della mia etica personale, almeno riguardo ai rapporti veramente importanti della mia vita. Per quanto possa sembrare strano, la mafia mi ha impartito una lezione di moralità”.
14 Falcone, Cose di Cosa Nostra, cit., p. 49: “esprimendo il mio rispetto ed esigendo il loro”; p. 58: “mi sono sempre espresso con i mafiosi che interrogavo e che affermavano di voler collaborare in modo crudo, distaccato, scettico e quindi sincero. (…) I mafiosi, al pari di chiunque altro, devono essere trattati con franchezza e correttamente”.
15 Falcone, Cose di Cosa Nostra, cit., p. 50. Naturalmente non si tratta di un automatismo, ma di un processo che, tanto più quanto ci si riferisce a rapporti non diretti, ha tempi suoi. Per le dinamiche sociali in generale Sharp, Politica dell’azione nonviolenta. 3., cit., p. 238, elenca cinque fasi: l’indifferenza, lo scherno, le ingiurie, la repressione e il rispetto.
16 Cfr. A. Cavadi, Per una pedagogia antimafia, in A. Cavadi (a cura di), A scuola di antimafia, cit., pp. 72-113, part. pp. 97-98.
17 Falcone, Cose di Cosa Nostra, cit., p. 156 (cors. mio).
18 La nonviolenza di Gandhi è, in altro contesto e con altri interlocutori, ricca di esempi di incontri di tal genere.
19 G.C. Caselli, Prefazione a Bellavia e Palazzolo, Voglia di mafia, cit., p. VIII.
20 A. Bendaña e C. Villa-Vicencio, La riconciliazione difficile. Dalla guerra a una pace sostenibile, Torino EGA 2002, p. 38.
21 Bendaña e Villa-Vicencio, La riconciliazione difficile, cit., p. 79 (il corsivo della frase è mio).