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Borsellino 25 anni dopo

Umberto Santino

Borsellino 25 anni dopo: più domande che risposte…

Dopo 25 anni dalla strage di via d’Amelio sono più le domande che le risposte. Perché, a 57 giorni dalla strage di Capaci, la mafia tornava a colpire in modo così eclatante? Perché Borsellino era l’erede di Falcone, perché sarebbe diventato Procuratore nazionale antimafia, perché stava indagando sulla strage del 23 maggio, perché si opponeva a una trattativa in cui la mafia, in cambio della cessazione della violenza, chiedeva la revisione del maxiprocesso e altre concessioni e per rafforzare il suo peso contrattuale ricorreva a un nuovo atto di guerra?

Dopo le smentite delle dichiarazioni del falso pentito Scarantino, l’annullamento delle condanne di alcuni capimafia e l’individuazione di altri responsabili della strage, in seguito alla collaborazione di Spatuzza, con i processi in corso a Caltanissetta e a Palermo, si sta cercando di decrittare le intercettazioni dei colloqui di Giuseppe Graviano per ricavarne qualche altro scampolo di verità. Il capomafia di Brancaccio parla di una “cortesia” che gli sarebbe stata chiesta da Berlusconi che, una volta assicuratosi il potere, non sarebbe stato ai patti. Confessione di una mezza verità, centellinata per lasciare tutti con il fiato sospeso (collaborerà o non collaborerà?) o millantato credito? Che interesse poteva avere Berlusconi a una strage per assassinare Borsellino? Possiamo richiamare quello che sappiamo: si è messo in casa Vittorio Mangano per proteggere se stesso e i suoi figli da un possibile sequestro e lo ha esaltato come “eroe” perché non ha aperto bocca su un ruolo che non era propriamente quello di stalliere. La nascita di Forza Italia ha convinto i mafiosi a mettere da parte il ricatto separatista per puntare sul cavallo vincente. Dell’Utri , che è molto più di un compagno di strada, è in carcere per concorso esterno e pensa di seguire l’esempio di Contrada che ha ottenuto dalla Cassazione la revoca della condanna. Le inchieste sul ruolo di Berlusconi nelle stragi sono state archiviate, ma lasciando aperto uno spiraglio con l’accenno “a possibilità di contatto tra Cosa nostra e gruppi societari controllati dagli indagati” (Alfa -Berlusconi e Beta-Dell’Utri), ma finora tutto lascia pensare che molte pagine di una storia in gran parte da scrivere rimarranno vuote. Intanto un personaggio che sembrava fuorigioco è di nuovo al centro della scena politica e rischia di tornare in sella, sospinto da una sinistra disancorata dalla realtà, inconcludente e rissosa.

“Non fu solo mafia”, si dice, lo si è detto per tutte le stragi e i delitti politico-mafiosi, ma le inchieste non sono mai andate oltre la mafia, lasciando spazio a una probabile verità storica, spesso parziale e ipotetica. I mafiosi hanno progettato ed eseguito una strage dopo l’altra per vendicarsi e fare sfoggio del loro potere, o hanno confidato nella copertura di altri, coinvolti o comunque interessati alla strategia stragista? La violenza mafiosa aveva già avuto un effetto boomerang, dopo i delitti dei primi anni ’80, e in particolare con l’assassinio di dalla Chiesa, con la legge antimafia e il maxiprocesso. Non era prevedibile che le stragi del ’92 e del ’93 avrebbero reinnescato la reazione istituzionale, ma ha preso la mano un delirio di onnipotenza criminale?

“Una strage semplice”, è il titolo di un libro di Nando dalla Chiesa che indica la causale della “doppia strage” nell’istituzione della Superprocura.“Prendersi l’Italia nelle mani”: nel lessico mafioso questa era il progetto di Falcone e Borsellino avrebbe preso il suo posto con lo stesso proposito. Si potrebbe osservare che Falcone vivo la Superprocura non l’avrebbe avuta e Borsellino aveva mostrato segni di non aspirarvi. Era stato tra i firmatari di un documento che ne segnalava i pericoli e ne contestava l’utilità. Ma poi, per le insistenze del ministro Scotti, che lo candidava a Superprocuratore (e non si accorgeva di indicarlo come prossimo bersaglio) si sarebbe messo a disposizione. E a quella disponibilità la mafia, da sola o accompagnata, rispondeva con l’inferno del 19 luglio? E a spingere in quella direzione potrebbero essere state l’intervista ai giornalisti francesi sul traffico di droga a Milano, gestito da Vittorio Mangano, e l‘ inchiesta sugli appalti?

Qualunque sia l’esito dei processi in corso, Borsellino, con Falcone e pochi altri, rimane il protagonista di una stagione decisiva nella storia del contrasto istituzionale al prepotere mafioso. Con una contraddizione di fondo: lo Stato era impegnato fino a un certo punto. E il punto era stato segnato con lo scioglimento del pool antimafia dopo l’esito del primo grado del maxiprocesso. Il “voltare pagina”, di cui parlava l’ordinanza-sentenza che ne era la premessa, con riferimento agli omicidi politici, in cui si sarebbe realizzata “una singolare convergenza di interessi mafiosi ed oscuri interessi attinenti alla gestione della Cosa Pubblica”, era insieme un programma, non realizzato, e un messaggio, non accolto. “Ho visto la mafia in diretta” avrebbe detto Borsellino alla moglie. E i magistrati Russo e Camassa riferiscono che avrebbe accennato a un amico traditore. Aveva scoperto che la doppiezza era una trappola e che la trattativa era permanente? E da quel momento aveva cominciato a contare i giorni che lo separavano dal 19 luglio?

Pubblicato su “Repubblica Palermo” del 19 luglio 2017, con il titolo: Le risposte che mancano.