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Dopo Riina

Umberto Santino

Dopo Riina

Che succede nella mafia quando muore, o viene scalzato o esautorato, un capo o un capo dei capi come Totò Riina? Per trovare una risposta a questa domanda possiamo fare una breve incursione nel passato dell’organizzazione mafiosa. Di capo supremo, a Palermo e dintorni, parlavano già le relazioni del questore Ermanno Sangiorgi di fine Ottocento. Gli otto gruppi mafiosi operanti in quel periodo hanno avuto per qualche tempo come capo un Francesco Siino, che a un certo punto, vedendo che la sua leadership non era riconosciuta, si dimette e comincia uno scontro tra i vari gruppi. Da allora inizia una storia in cui ci sono dei capi, ma non è detto che ci sia un capo dei capi.

Andando a tempi più recenti, troviamo capimafia riconosciuti per il loro prestigio, ma sempre in un territorio limitato. Nel secondo dopoguerra a capo della cosca corleonese c’è il dottore Michele Navarra, consacrato dalla devozione popolare come “u patri nostru”, asceso al potere dopo uno scontro sanguinoso (dal 1944 al 1948 ci sono 44 omicidi e 26 tentati omicidi). Ha forti agganci politici (prima separatista, poi liberale, infine democristiano), è cavaliere della Repubblica, ma deve tenere a bada la leva dei viddani che fanno parte dell’organizzazione. Tra essi c’è il giovane Luciano Leggio (per un errore di trascrizione Liggio) che mal sopporta il potere di Navarra e nell’agosto del 1958 gli tende un agguato e lo uccide. Con lui ci sono Provenzano e Riina. Sono loro che successivamente muoveranno all’assedio delle famiglie mafiose di Palermo. Sempre nel secondo dopoguerra, un altro capo storico è Calogero Vizzini, protagonista dell’attentato a Li Causi del 16 settembre 1944, che terrà la scena per molti anni. Ai funerali di don Calò, morto di morte naturale nel 1954, a reggere i cordoni della bara, ostentazione di una vicinanza al corpo del capo, c’è Giuseppe Genco Russo, che sarà il successore. Ma, che si sappia, non c’era allora un’organizzazione con un centro di comando unitario in tutta la Sicilia, o almeno nelle province occidentali.

Di un gruppo di capimafia, designati al fine di definire la linea di condotta per far fronte alle misure predisposte dopo la strage di Ciaculli, parla una sentenza istruttoria del magistrato Cesare Terranova del giugno 1964. Ne facevano parte Cesare Manzella e Gaetano Badalamenti di Cinisi, Salvatore Greco e Salvatore La Barbera di Palermo, Giuseppe Panno di Casteldaccia, Luciano Liggio di Corleone. Di “commissione” parla sempre Terranova in una sentenza del maggio 1965. Era composta da quindici capimafia e il capo riconosciuto sarebbe stato Giuseppe Panzeca di Caccamo. Siamo alle prime informazioni su quella che sarà la cupola. Gli avvenimenti più recenti dovrebbero essere noti. La  scalata al potere dei corleonesi, alleati con mafiosi delle famiglie palermitane che tradiscono i loro capi, come Bontate e Inzerillo; la guerra di mafia dei primi anni ’80, con un migliaio di morti – ma alcune centinaia sarebbero lupare bianche, difficili da documentare -, che ha come effetto boomerang l’emorragia dei “pentiti” (e tra essi, Buscetta che rivela l’organigramma di Cosa nostra); la violenza esterna che decapita la classe dirigente, con l’uccisione, tra molti altri, di Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa, con un altro effetto boomerang: la legge antimafia del 13 settembre 1982, il maxiprocesso con molte condanne di capi e gregari.

Lo stratega di questa guerra è Totò Riina che fa della violenza, portata all’estremo, la risorsa fondamentale per assicurarsi il comando e per l’attacco allo Stato con le stragi del ’92 e del ’93. Un capomafia tirannico e feroce che non si preoccupa delle conseguenze o confida in misteriose coperture, che non gli hanno evitato 26 ergastoli e il carcere duro. Sarà stato grande capo fino alla fine, ma muore sconfitto. Se l’hanno ispirato e spalleggiato soggetti esterni a Cosa nostra, proveranno ad accertarlo indagini e processi in corso. Che succede adesso, dopo la morte di Rina? Da intercettazioni risulta che dentro Cosa nostra c’è stata una vacatio: “finché non muoiono Riina e Provenzano non si vede lustro”, si dicono due mafiosi. Che vuol dire? Che Cosa nostra ha osservato una regola o, trincerandosi dietro l’ossequio simbolico ai capi storici, non è stata in grado di esprimere una nuova leadership? Intanto ci sono capimafia che escono dal carcere ed è molto probabile che nascano frizioni con i reggenti che hanno preso il loro posto. Nei mesi a venire potrebbe riprendere la contesa per il potere. In una fase che si dice di transizione, ma potrebbe essere di crisi. Vedremo se irreversibile o meno.

Pubblicato il 18 novembre 2017 su “Repubblica Palermo”, con il titolo: Don Calò, Siina e gli altri capi.