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Giovanni Falcone: avversato da vivo e santificato da morto

Umberto Santino

Giovanni Falcone: avversato da vivo e santificato da morto

L’ultima volta che ho visto Giovanni Falcone è stato il 21 febbraio del ’92. Nell’aula magna della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo si presentava la ricerca del Centro Impastato, su commissione del Centro Terranova, sui processi per omicidio, pubblicata nel volume Gabbie vuote, con un mio saggio sul maxiprocesso. Il titolo del libro rispecchiava una realtà allarmante: nel 1986 gli imputati detenuti erano 335, nel febbraio del ’91 erano solo 20. Però a fine gennaio del ’92 la Cassazione aveva confermato l’impianto del maxiprocesso: una vittoria della linea e del metodo elaborati da Falcone e dai magistrati del pool antimafia, avviato da Rocco Chinnici e poi formalizzato da Antonino Caponnetto.
L’intervento di Falcone rispecchiava la sua soddisfazione per la sentenza della Cassazione: le gabbie si sarebbero riempite di nuovo e il maxiprocesso diventava la pietra miliare dell’azione giudiziaria contro la mafia. Ma le amarezze per Falcone non erano finite. Erano cominciate dopo il maxiprocesso, con lo smantellamento del pool, erano continuate con la scelta di affidare l’Ufficio istruzione a Meli e con la sua nomina a procuratore aggiunto in un ufficio in cui dettava legge il procuratore Giammanco. Da ciò la decisione di Falcone di lasciare Palermo e accettare la proposta del ministro della Giustizia Martelli di dirigere l’Ufficio affari penali. Al Ministero Falcone aveva lavorato al progetto della Superprocura antimafia, ma le avversioni nei suoi confronti invece di attenuarsi si erano acuite. Dopo il dibattito mi avvicino a Falcone e gli manifesto le mie perplessità: è proprio necessario istituire la Superprocura ed è proprio certo che sarà affidata a lui? Falcone è sicuro: la Superprocura è necessaria e il Superprocuratore sarà lui. È l’ultimo ricordo che ho di Falcone: visibilmente amareggiato, ma fiducioso. Un po’ appesantito ma sempre battagliero. Per nulla stanco o arreso. Nei mesi successivi per lui non saranno rose e fiori. Ricordo un titolo su “l’Unità” del 12 marzo: Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché (autore dell’articolo Alessandro Pizzorusso). Il perché era esplicito: troppo legato a Martelli. Meglio Cordova, l’ex procuratore di Palmi approdato a Napoli.
Ora che sono passati dieci anni dalla strage di Capaci, le commemorazioni rischiano di piallare la memoria e di darci un’immagine molto lontana dalla realtà. Falcone, ma non solo lui, è stato avversato, denigrato, isolato da vivo e santificato da morto. E sarà bene ricordare brevemente le tappe della via crucis che ha dovuto percorrere prima di trovare la morte assieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani (unico scampato l’autista Giuseppe Costanza, totalmente dimenticato, come se avesse il torto di essere sopravvissuto).
Per anni Falcone è stato considerato il San Giorgio contro il drago mafioso ma ha cessato di esserlo, per una parte della società civile, quando (siamo nell’ottobre del 1989) ha compiuto un atto che non ci si aspettava: l’incriminazione per calunnia di un certo Giuseppe Pellegriti che aveva indicato Salvo Lima come mandante dell’omicidio Mattarella. Ma come? Non l’aveva detto lui che c’era un terzo livello e ora che si cominciavano a fare nomi e cognomi proprio lui si tirava indietro? C’era un equivoco di fondo. Falcone aveva parlato di tre livelli dei reati di mafia, non aveva mai detto e non dirà mai che la mafia era un edificio a tre piani: al primo piano i gregari e i killer, al secondo i capimafia, al terzo la supercupola, formata da politici, finanzieri, massoni ecc. ecc. E su quel discorso del terzo livello si scatenò un’offensiva nei confronti di Falcone che aveva come protagonisti vari personaggi che allora godevano di molto credito e dominavano gli schermi televisivi e le prime pagine dei giornali. Ne ricordo qualcuno. Il sindaco Orlando a “Samarcanda”, nel maggio del ’90, dopo l’omicidio Bonsignore, afferma che dentro i cassetti del palazzo di giustizia ce n’è abbastanza per fare chiarezza sui delitti Mattarella, La Torre e Insalaco. Falcone replica: “Se il sindaco sa qualcosa, lo dica. Ma non faccia politica usando il sistema giudiziario”. E ribadisce, ma inutilmente, che non ha mai parlato di terzo livello, nel senso che parecchi intendono. Già per l’attentato dell’Addaura (21 giugno 1989) qualcuno aveva insinuato che Falcone se l’era fatto da sé e i superantimafiosi raccolti nel sedicente Coordinamento antimafia (in realtà una singola associazione che aveva mantenuta la denominazione del coordinamento nato nel 1984 su proposta del Centro Impastato e successivamente naufragato) avevano sempre di più accentuato le loro critiche al magistrato. Ora lo scontro si fa più duro e sempre su “l’Unità” il 23 maggio ’90 c’è un grosso titolo in prima pagina: “Pintacuda contro Falcone: fa’ tu i nomi”. E nell’interno altro titolone: “Pintacuda: Sì, io accuso Falcone”. Allora il padre gesuita teorizzava che il sospetto era l’anticamera della verità ma queste teorizzazioni non gli impediranno di avvicinarsi successivamente a forze politiche che candidano e fanno eleggere personaggi sotto processo per mafia. Cosa volete? I tempi cambiano e le persone non sono da meno.
Possiamo chiudere qui. Anche perché per chi ama le commemorazioni, riducendo uomini in carne e ossa a icone dissanguate, ricordare queste cose è peggio di un’indigestione. Molto meglio abbondanarsi all’overdose di smemoratezza che caratterizza le liturgie ufficiali.

Pubblicato su “centonove”, n. 21, 24 maggio 2002, p. 2