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La Sinistra e la lotta alla mafia.

La Sinistra e la lotta alla mafia.

Intervista di Gennaro Montuoro a Umberto Santino, per la rivista “ERRE”.

Gli ultimi fatti di cronaca narrano, a grandi linee, una mafia transnazionale con capacità di accumulazione del capitale superiore a molte potenti multinazionali presenti sul mercato. Dai tempi dei Fasci siciliani e della mafia agraria al crimine transnazionale, quali evoluzioni di natura economica ha elaborato la mafia? .

La mafia, come del resto tutti i fenomeni di durata, ha intrecciato nella sua storia continuità e trasformazione. Ci sono aspetti arcaici che si sono mantenuti nel tempo e ne costituiscono lo zoccolo duro. Penso per esempio alle estorsioni, una forma di fiscalità parallela e autonoma rispetto a quella istituzionale, che costituisce la modalità più esemplare di esercizio di quella che ho chiamato “signoria territoriale”, un dominio tendenzialmente assoluto su tutto ciò che avviene in una determinata area geografica, dai fatti economici ai rapporti interpersonali. Il “pizzo” è documentato a Palermo fin dal XVI secolo, quando più che di mafia si può parlare di “fenomeni premafiosi”, ed è insieme forma di dominio territoriale e fonte di accumulazione.
Questi aspetti premoderni convivono e sono funzionali all’innesto di aspetti moderni come i traffici internazionali di droghe. Non per caso, ad esempio, negli anni ’80 alcune raffinerie di eroina sono state collocate nelle vicinanze dell’aeroporto palermitano di Punta Raisi, area sotto il controllo di Badalamenti, il mandante dell’assassinio di Peppino Impastato, e del suo clan. L’internazionalizzazione e la transnazionalizzazione non elidono il dominio sulle aree originarie e i processi di modernizzazione non cancellano le pratiche e attività precedenti. Spesso si dimentica questa costante dell’evoluzione storica: la convivenza di vecchio e nuovo, e si fa della mafia una sorta di mutante alla deriva. Mentre la sua forza sta proprio nella capacità di legare aspetti “tradizionali” con le opportunità offerte dallo scenario contemporaneo.
Si è parlato negli ultimi decenni di “mafia imprenditrice”, in base a una lettura frettolosa e dilettantesca, con una “mafia tradizionale”, inchiodata a rigidi codici onorifici, che avrebbe scoperto la competizione per la ricchezza solo negli anni ’70, inserendosi nei traffici internazionali. In realtà la competizione per l’arricchimento caratterizza la mafia fin dalle origini e dalla fase di incubazione.
I mutamenti nella storia del fenomeno mafioso sono adattamenti ai mutamenti del contesto, per cui si può parlare di una periodizzazione (mafia agraria fino agli anni ’50 del secolo scorso, mafia urbano-imprenditoriale negli anni ’60 e ’70, mafia finanziaria negli anni successivi), mettendo l’accento sugli aspetti innovativi, ma senza dimenticare che questi si innestano sul tronco della continuità.

Siamo in piena crisi economica ed ecologica con ricadute davvero drammatiche in termini di occupazione e di difesa dell’ecosistema globale. Nonostante ciò le mafie riescono ad immettere sul mercato nazionale ed internazionale nuovi capitali controllando di fatto quei settori che oggi risultano essere emergenti quali rifiuti e fonti rinnovabili. Un tuo commento sull’ultimo Rapporto Ecomafie di Legambiente.

Ho cominciato a parlare di “ecomafia” nei primi anni ’90, prima che il termine divenisse di largo consumo. Scrivevo nel 1993 in una relazione tenuta a un convegno svoltosi a Gibellina, uno dei paesi del Belice distrutti dal terremoto del 1968: “Possiamo parlare di un’ecomafia in servizio permanente effettivo come sezione specifica di un’ecocriminalità istituzionale e diffusa”. E il saccheggio del territorio era al centro dell’attività di Peppino Impastato, ma non è una specialità della mafia. Essa inserisce l’aspetto specifico della violenza privata in un contesto strutturalmente fondato sull’uso privatistico e distruttivo dell’ambiente. La mercificazione dell’ambiente e del territorio è prassi abituale e legalizzata e favorisce l’incrocio con pratiche mafiose. Se non si ha presente questo carattere generale della produzione capitalistica si finisce con l’addossare tutto alla mafia, come una malattia sviluppatasi in un corpo sano. Bisogna aver chiaro che la mafia c’è, le mafie ci sono, perché il contesto è ospitale al loro insediamento e al loro sviluppo.
Il business dei rifiuti comincia per i gruppi di criminalità organizzata di tipo mafioso negli Stati Uniti, nelle grandi aree metropolitane, già negli anni ’50 e ’60, si sviluppa successivamente anche in Italia, quando lo smaltimento dei rifiuti, da quelli solidi urbani a quelli industriali, tossici e pericolosi, diventa un problema troppo costoso se si affronta nel rispetto delle regole che cominciano a prendere corpo, anche se tardive e inadeguate. Le mafia offrono un servizio a costi minori, più rapido e più efficiente, calpestando ogni regola. Ma il servizio viene offerto a chi lo domanda, cioè alle comunità e alle imprese che producono rifiuti e non hanno nessuna voglia di smaltirli seguendo le procedure legali. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin indagavano sull’intreccio traffico d’armi e di rifiuti e sono rimasti vittime di questo business internazionale. Le varie mafie lucrano sulle contraddizioni di un sistema che essendo fondato sulla bulimia dei consumi produce rifiuti su scala sempre più grande e limita il culto dell’ambiente al recinto dei parchi naturali.
Il nuovo business dei parchi eolici e delle fonti rinnovabili dimostra la capacità delle “borghesie mafiose” di individuare e sfruttare le occasioni offerte dal mondo contemporaneo.
I rapporti di Legambiente danno un quadro affidabile dell’affarismo mafioso in tutte le sue articolazioni, dal ciclo del cemento ai rifiuti, alle zoomafie, archeomafie, agromafie, dalle cave all’acqua, ma coltivano lo stereotipo della mafia che “impedisce lo sviluppo”, ignorando che non c’è solo essa a impedire il cosiddetto “sviluppo sostenibile”, impossibile con la mercificazione generalizzata e il totalitarismo neoliberista. Le mafie in questo contesto sono figlie naturali anche se formalmente illegittime.

Esistono legami organici, oramai ampiamente documentabili, tra parti consistenti del capitalismo nostrano ed internazionale e le organizzazioni mafiose. Oggi, più che nel passato, credo si possa asserire che la mafia sia diventata un vero e proprio soggetto politico, non più, quindi, soltanto fiancheggiatore del potere politico di turno, ma direttamente impegnata nella gestione della “cosa pubblica”. A tuo avviso quale influenza esercita il potere mafioso sulla politica locale e nazionale.

Sono contrario alle criminalizzazioni generalizzate, del tipo: capitalismo uguale mafia. Il rapporto tra mafie e capitalismo nella mia analisi si basa su distinzioni spazio-temporali. Nella transizione dal feudalesimo al capitalismo si formano organizzazioni di tipo mafioso nelle aree in cui non riesce ad affermarsi il monopolio statale della forza; nel capitalismo maturo ci sono organizzazioni mafiose in presenza di determinate condizioni: mercati neri originati dai proibizionismi, dall’immigrazione all’alcol e alle droghe, e flussi migratori imponenti al cui interno operano soggetti che usano il crimine come accumulazione primitiva e canale di mobilità sociale, impossibile o difficilissima per altre vie (ciò non significa che tutti gli immigrati sono criminali come si vorrebbe far credere anche oggi nel nostro Paese); nel capitalismo globalizzato la diffusione delle mafie si spiega con le opportunità offerte dai processi di globalizzazione, con l’aumento degli squilibri territoriali e dei divari sociali, per cui molte aree sono tagliate fuori dal mercato e ricorrono alle attività illegali come unica fonte di accumulazione o la più conveniente, e i processi di finanziarizzazione dell’economia che rendono sempre più difficile distinguere i flussi di capitale illegale e legale.
La mafia come soggetto politico è una delle linee fondamentali della mia analisi della mafia siciliana e più in generale dei fenomeni ad essa assimilabili, che ha cercato di utilizzare criticamente strumenti teorici della tradizione marxista ibridandoli con le elaborazioni della sociologia contemporanea, da Max Weber ai teorici dell’azione sociale.
Il rapporto con la politica, in duplice forma: signoria territoriale esercitata in proprio e interazione con le istituzioni, è un elemento costitutivo del fenomeno mafioso e non un aspetto eventuale e sporadico, circoscritto nell’ambito del legame di qualcuno con qualcuno.
In tutta la fase del potere democristiano la mafia ha avuto un ruolo fondamentale come baluardo contro il comunismo, prestando l’arma della violenza privata legittimata dall’impunità, quando il conflitto sociale non era gestibile con gli strumenti legali. È la fase delle lotte contadine, che erano cominciate già nell’ultima decade dell’800 con i Fasci siciliani, con la partecipazione di 300-400 mila persone, riprese negli anni precedenti e seguenti il fascismo e culminate nella vera e propria lotta di liberazione degli anni ’40 e ’50, con la partecipazione di più di mezzo milione di persone. Ci sono
stati 108 morti tra il 1893 e il 1894: sparavano i campieri mafiosi e i soldati inviati da Crispi; decine di morti nei periodi successivi, con la strage di Portella della Ginestra del primo maggio 1947, dieci giorni dopo la prima e ultima vittoria delle sinistre alle elezioni regionali del 20 aprile. Il risultato è stato: un milione di emigrati nei primi anni del ‘900 su 3 milioni e mezzo di abitanti, un milione e mezzo di emigrati su 4 milioni e mezzo negli anni ’50-’70. Un dissanguamento delle energie migliori che ha ipotecato il futuro.
Successivamente la mafia si configura come borghesia di Stato, accaparrandosi i fondi pubblici della Regione Sicilia e della Cassa del Mezzogiorno. Svanito il potere democristiano,compaiono sulla scena i suoi successori, nella versione cuffariana e lombardiana. Negli ultimi anni la mafia militare ha pagato il prezzo del deliri di onnipotenza criminale con i grandi delitti e le stragi degli anni ’80 e ’90, la borghesia mafiosa è andata in cerca di alleanze tra i nuovi detentori del potere. La situazione è peggiorata. Se la Dc era il partito delle mediazioni tra tutti i poteri reali, compresa la mafia, e Andreotti è l’icona di questa strategia mediatoria, Forza Italia e il cosiddetto Partito della libertà si identificano con il modello mafioso che usa l’illegalità come risorsa e l’impunità come status symbol, e Berlusconi ne è la sintesi più spudorata, convogliando potere economico, mediatico e politico. Il dramma è che questo processo di appropriazione dello Stato, frutto di un imbarbarimento culturale e sociale, a cui il razzismo leghista conferisce i caratteri propri del populismo fascista, gode del consenso di gran parte dei cittadini anche perché, dopo la sconfitta delle lotte contadine, che finora sono il più grande soggetto del movimento antimafia, la dissoluzione della grande fabbrica e l’implosione del socialismo reale, le sinistre in Italia hanno perso la loro identità di forze alternative. Se non si riesce a costruire un’alternativa concreta, la partita è persa. I magistrati, con armi spuntate, processeranno e condanneranno mafiosi e qualche esemplare della borghesia mafiosa, segnando qualche successo ma pure penose compromissioni, come le sentenze per Andreotti e per Dell’Utri, mezzi condannati, con prescrizione o meno, e mezzi assolti, ma il potere attuale si perpetuerà in un quadro di decomposizione della democrazia. La lotta alla mafia dev’essere una componente essenziale di una lotta per la democrazia, così come lo era nelle fasi precedenti.

Sicuramente la gestione del patrimonio mafioso è uno dei nodi centrali della lotta alle organizzazioni criminali. La nuova agenzia per la gestione dei beni confiscati alla mafia – fiore all’occhiello del governo Berlusconi – può rappresentare la soluzione necessaria? Non sarebbe più interessante una gestione dal basso con una partecipazione democratica e popolare?

Abbiamo lanciato la proposta dell’espropriazione dei patrimoni mafiosi in un documento del Manifesto siciliano dell’aprile 1971. La proposta non ebbe nessuna attenzione nella cosiddetta Sinistra rivoluzionaria. Il Pci ci considerava dei pericolosi estremisti e ci accusava di vedere dappertutto mafia. Anche quando, dopo l’assassinio di Peppino, abbiamo proposto una manifestazione nazionale contro la mafia, l’interesse è stato inadeguato. Ricordo che “il manifesto” non diede neppure la notizia. Allora vi scriveva un certo Gianni Riotta. Se non avessero ucciso Dalla Chiesa non ci sarebbe stata la legge antimafia, arrivata nel 1982, con un ritardo di più di un secolo e bloccata sull’idea della mafia imprenditrice, mentre già era abbastanza sviluppato il processo di finanziarizzazione.
L’uso sociale dei beni confiscati può essere uno dei pilastri dell’antimafia attuale, ma i beni confiscati sono ancora troppo pochi rispetto alla portata dell’accumulazione illegale, e vengono assegnati con grande ritardo. L’agenzia dovrebbe servire a snellire i tempi, ma non c’è da fidarsi per nulla di Berlusconi e di Maroni che si vantano di essere il governo che ha fatto più di tutti nella lotta alla mafia, attribuendosi le catture dei boss operati da magistrati attaccati quotidianamente e da forze dell’ordine che non hanno la benzina per le macchine.
Negli ultimi anni sono nate alcune cooperative che gestiscono i beni confiscati, svolgono un’opera significativa ma sono ancora poche. Sono, embrionalmente,una forma di gestione dal basso.

Reputiamo interessante il tuo concetto di “borghesia mafiosa”. E’ possibile oggi con la crisi della sinistra d’alternativa sostenere, rinnovandola, una lettura di classe del fenomeno mafioso? Visto l’assenza, nei programmi della sinistra, di un intervento organico di antimafia sociale, può la tua ipotesi definitoria di “borghesia mafiosa” segnare un punto di partenza per la ricostruzione della sinistra soprattutto nel Mezzogiorno?

Ora anche qualche magistrato ha scoperto la “borghesia mafiosa”, ma ne parlo da quarant’anni in grande isolamento. Se si toglie qualche saggio pubblicato su “Marx 101” e su “Alternative”, negli anni ’90, il disinteresse è stato quasi completo. “il manifesto” e “Liberazione” non hanno dedicato spazio al lavoro mio e del Centro. Sono prevalse logiche personalistiche e di clan e uno studioso e militante fuori dal coro è scomodo per tutti. Mi chiedo: c’è la volontà di costruire una sinistra non solo nel Mezzogiorno ma in tutto il Paese? Il quadro attuale è desolante: il Pd è uno stentato assemblaggio di forze eterogenee incapaci di darsi un programma e un orizzonte culturale; quel che rimane di sinistra è un arcipelago di brandelli, senza base sociale, con una serie di leaderini autoreferenziali e in via di rottamazione e un bagaglio culturale obsoleto. E non credo a una generalizzazione del “modello pugliese”, l’unico sopravvissuto ai tracolli elettorali, fondato sul ruolo e sulle doti del leader. L’astensionismo cresce a vista d’occhio e non fa da incubatore di nuovi modi di fare politica. Le varie esperienze di Forum sociali, centri sociali ecc., sono preziose ma frammentarie e discontinue. Oggi si è sinistra non sulla base di liturgie del passato, di aspirazioni alla palingenesi universale, ma di scommesse con il presente. Il mercato del lavoro e il disagio sociale oggi mettono al centro figure eterogenee di disoccupati, precari, flessibili, senza diritti e senza prospettive. Se non si riesce dare forma a questo mondo pulviscolare e composito, dandogli rappresentanza istituzionale ma anche, o soprattutto, costruendo legami e luoghi di socialità, potremo dirci di sinistra per vezzo verbale ma senza esserlo di fatto.

Sulla scorta delle tue riflessioni, una nuova antimafia sociale su quali basi oggi deve fondarsi? I movimenti impegnati territorialmente in comitati di difesa dei beni comuni, a tua avviso, possono essere un punto di rottura rispetto all’antimafia istituzionale improntato sul concetto molto ambiguo di educazione alla legalità? Quale insegnamento possono ancora trasmettere i tanti militanti che nel corso degli anni hanno sacrificato la propria esistenza per smascherare il potere mafioso?

Parlo di antimafia integrata, capace di rispondere alla complessità del fenomeno mafioso. Se la mafia è crimine, accumulazione, potere, codice culturale e consenso sociale, se è insieme associazionismo criminale e blocco sociale, bisogna guardare a tutti questi aspetti. L’antimafia sociale può svilupparsi se c’è un’azione seria e coerente a livello istituzionale, con la decriminalizzazione delle istituzioni, se si spezza il legame con la politica. La fase più significativa delle lotte contadine è quella del 1944-47 quando c’era al governo la coalizione antifascista e il ministro comunista dell’Agricoltura Fausto Gullo, con i suoi decreti sulla ripartizione dei prodotti a favore dei coltivatori e l’assegnazione delle terre incolte alle cooperative contadine, rianimò e sostenne le lotte di quegli anni.
Nell’attuale contesto i governi Berlusconi costituiscono forme di legalizzazione dell’illegalità e di ricerca dell’impunità a ogni costo, agendo al di fuori della Costituzione, rinnegata come il prodotto dell’influsso comunista. Ma questo è il frutto di una debolezza della cultura democratica nel nostro Paese. Ricordiamo che la Resistenza fu opera di qualche centinaio di migliaia di persone e che il patto sociale all’origine del testo costituzionale fu rotto in corso d’opera, con l’esclusione delle sinistre dal governo nel maggio 1947. La strage di Portella ebbe un suo ruolo nel processo che portò alla rottura di quel patto (l’iniziativa con cui è nato il Centro siciliano di documentazione, nel 1977, fu un convegno nazionale dal titolo: “Portella della Ginestra: una strage per il centrismo”).
Nella mia Storia del movimento antimafia valorizzo soprattutto le iniziative continuative, nella scuola, con l’associazionismo antiracket, con l’uso sociale dei beni confiscati. Nelle scuole l’educazione alla legalità è spesso formale e astratta, bisognerebbe almeno parlare di legalità democratica, nel rispetto della Costituzione; per l’antiracket si sono formate un centinaio di associazioni con alcune migliaia di soci, ma solo nel Meridione, perché nel Centro-Nord cresce sempre di più la cultura leghista dell’autodifesa personale; l’uso sociale dei beni confiscati è praticato da alcune decine di cooperative con qualche centinaio di soci. Ad essere impegnati quotidianamente contro le mafie siamo minoranze. E, dopo la caduta delle grandi narrazioni, manca un progetto complessivo che, come dicevo prima, a mio avviso oggi può fondarsi sull’organizzazione dei soggetti che vivono maggiormente il disagio sociale. Vedo all’interno di questo quadro la difesa dei beni comuni, dall’acqua all’ambiente, aggrediti dalla privatizzazione ad opera delle multinazionali che fanno proprio il modello mafioso dell’uso privato di risorse pubbliche.
Con la Storia del movimento antimafia ho cercato di recuperare una memoria collettiva, quasi completamente ignorata, o riduttivamente filtrata attraverso il culto dell’eroe, si chiami Placido Rizzotto o Peppino Impastato, nelle versioni cinematografiche. Più che “smascherare ” il potere mafioso” le lotte del passato erano la forma concreta di costruzione di un’alternativa.
L’insegnamento che questa storia ci lascia è quello dell’impegno collettivo, radicato sui bisogni e sulla vita quotidiana e non su gesti isolati, più o meno spettacolari.

Pubblicato sul numero 39, luglio-agosto 2010, pp. 21-27.