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Borghesia mafiosa e società contemporanea

Umberto Santino

Borghesia mafiosa e società contemporanea


Premessa

Quando concordavo con gli organizzatori del convegno il titolo della relazione sapevo perfettamente che mi condannavo al ruolo del San Sebastiano che offre il suo corpo nudo al bersaglio delle frecce. L’espressione “borghesia mafiosa” è stata esplicitamente contestata da studiosi e politici, preoccupati di un’eccessiva dilatazione e diluizione dell’idea di mafia se non di una criminalizzazione generalizzata della società siciliana (il vecchio “tutto è mafia”, su cui ammoniva Leonardo Sciascia) e allarmati dalla riproposizione di schemi ideologici ormai coralmente considerati obsoleti, come un peccato di gioventù che è preferibile archiviare.
Nel mio catalogo delle idee di mafia, pubblicato sotto il titolo La mafia interpretata (1995), riportavo le critiche di uno storico (Pezzino) e di un economista (Centorrino) che quasi con le stesse parole facevano un’obiezione di fondo alla mia analisi fondata sul concetto di borghesia mafiosa: se il concetto di aggregato mafioso si dilata fino a comprendere intere classi sociali, non resta che sperare in un cambiamento sociale e politico generale. Bisogna invece limitarsi a considerare la mafia come Cosa nostra, cioè una struttura militare armata, colpendo così il polo più debole del pactum sceleris tra mafia e poteri legittimi (istituzioni ed economia) che ha consentito alla prima di affermarsi.
Come si vede, si sostiene, si dà quasi per scontato, che l’affermazione di Cosa nostra sia dovuta al patto con il mondo istituzionale ed economico, ma l’idea di mafia dovrebbe limitarsi all’organizzazione mentre dovrebbero rimanere nebulosi e imprecisati quei soggetti che avrebbero stipulato il patto con gli affiliati alla “struttura militare armata”.
Erano i tempi in cui si assisteva a un mutamento di paradigma, o più esattamente di stereotipo: si passava da una visione secondo cui la mafia-organizzazione non esisteva, la mafia era soltanto mentalità, subcultura, come affermavano testi che ebbero una notevole fortuna, come quello dell’antropologo tedesco Henner Hess (1973), a un’altra secondo cui la mafia era soltanto Cosa nostra, cioè l’organizzazione superstrutturata, piramidale e verticistica, disvelata dai mafiosi collaboratori di giustizia, in particolare da Buscetta. Fino a quel momento anche il mafiologo più gettonato (Arlacchi) sosteneva che la mafia-organizzazione non esisteva e avrebbe continuato a sostenerlo finché il mafioso-pentito Antonino Calderone non gli avrebbe rivelato l’arcano (Arlacchi 1992).
Dopo le rivelazioni dei pentiti si transitava (riprendo alcune espressioni usate in altri scritti) dall'”indigestione di informale” (i non corporate groups, il disorganized crime) all'”overdose del superstrutturato”, da una mafia amebica a una mafia cartesiana. La torsione veniva acriticamente accolta dagli studiosi che traghettavano da una polarizzazione all’altra.
Rimanevo tra i pochissimi, se non l’unico, a parlare di mafia come fenomeno composito, in cui l’organizzazione, che non era una scoperta dei pentiti ma era documentabile fin dal XIX secolo, si saldava con i codici culturali e il consenso sociale e i gruppi criminali venivano visti in stretto collegamento con un sistema relazionale; idea che è andata facendosi strada negli anni più recenti, ma in modo a mio avviso inadeguato e all’insegna di più o meno innocenti fraintendimenti.

 

Precedenti e puntualizzazioni

La mia analisi imperniata sul concetto di borghesia mafiosa ha dei precedenti, remoti e prossimi. Il precedente storico più remoto è dato dalle riflessioni di Franchetti (1877-1993) che com’è noto parlava di “facinorosi della classe media” che praticavano “l’industria della violenza” e sosteneva che tutti i capi della mafia erano “persone di condizione agiata” e che il capomafia, rispetto ai “facinorosi della classe infima”, esecutori dei delitti, svolgeva “la parte del capitalista, dell’impresario e del direttore”.
Sciascia in uno scritto del 1968 parla di “una categoria sociale, se non di una classe, che approssimativamente si può dire borghese, borghese-mafiosa più esattamente”, che si forma dentro il calderone del sicilianismo (Sciascia 1970, p. 77).
L’economista e dirigente politico Mario Mineo in un documento del novembre 1970 parlava di “borghesia capitalistico-mafiosa” come strato dominante della società siciliana, diffusa in tutta l’isola, Sicilia orientale compresa, e proponeva con 12 anni di anticipo sulla legge antimafia l’esproprio della proprietà mafiosa. Tesi che incontrò la disattenzione completa del Manifesto nazionale, a cui il gruppo diretto da Mineo aveva appena aderito ma restando sostanzialmente un corpo estraneo; suscitò le critiche di militanti siciliani dello stesso gruppo, che consideravano la mafia un residuo arcaico già emarginato se non seppellito dallo sviluppo capitalistico e per la Sicilia orientale parlavano di una borghesia imprenditoriale che niente aveva a che fare con la mafia (dopo si sarebbe visto di che pasta erano fatti i cosiddetti “cavalieri” di Catania). Critiche radicali da parte dell’allora segretario regionale del Pci Achille Occhetto, impegnato ad avviare il “patto autonomistico”, versione siciliana del compromesso storico, con i “ceti medi produttivi”, secondo cui il gruppo palermitano del Manifesto vedeva dappertutto mafia (Santino 2000a, pp. 233 s.)
In linea con quelle valutazioni le critiche di Emanuele Macaluso, storico dirigente comunista, che ritiene che lo “schema estremista di “borghesia mafiosa”” sia stato adottato “dalla pubblicistica antimafiosa: quella colta e contorta e quella dozzinale” e abbia portato a identificare la lotta alla mafia con quella contro la “borghesia imprenditrice e delle professioni”, con il risultato di giustificare “l’espansione oltre misura dell’industria pubblica, non come stimolo alla crescita dell’industria privata e di una borghesia imprenditrice, ma come alternativa ad essa. E questa “cultura antiborghese” metteva insieme la sinistra radicale antimafiosa e la Dc che esercitava il potere pubblico usando anche la mafia”. E aggiunge: “La borghesia siciliana nel dopoguerra tentò, usando l’autonomia regionale e i poteri dello statuto, l’emancipazione, ma venne schiacciata, negli anni del boom capitalistico, dalla grande industria del Nord, dalla “nuova classe” democristiana siciliana e dal radicalismo di sinistra” (Macaluso 1999, pp. 33 s.).
Avendo vissuto in prima persona le esperienze di quegli anni, posso solo ricordare che l’analisi di Mineo e del gruppo del Manifesto di Palermo non fu condivisa neppure all’interno del gruppo siciliano, trovò la più completa disattenzione presso le altre componenti della Nuova sinistra, troppo occupate a “fare la rivoluzione” per accorgersi della mafia, e che all’esterno trovò soltanto indifferenza o rifiuto. Non si vede come le si possano addebitare conseguenze così rilevanti come le politiche che favorirono la crescita dell’industria pubblica, su cui peraltro esprimevano un giudizio pesantissimo, giudicandola una serie di carrozzoni parassitari. Mettere insieme la “sinistra radicale antimafiosa” e la Dc collusa con la mafia e considerare il “radicalismo di sinistra” corresponsabile della sconfitta della borghesia siciliana vuol dire soltanto rinverdire l’atteggiamento dei dirigenti comunisti del tempo, pronti a vedere tradimenti e “pidocchi nella criniera del purosangue” anche nella più esile delle opposizioni alla linea dominante. Eravamo poche migliaia e la campagna per una petizione popolare per l’espropriazione della proprietà mafiosa si aprì e si chiuse con un comizio di chi scrive in provincia di Agrigento. Non c’erano le condizioni per continuare.
Andiamo ai nostri giorni. Negli ultimi tempi l’espressione “borghesia mafiosa” è stata rilanciata da qualche magistrato (in particolare da Pietro Grasso e da Roberto Scarpinato), che nel corso di indagini ha rilevato la presenza di soggetti del mondo imprenditoriale e professionale legati ai mafiosi e ne ha tratto l’idea che c’è una borghesia che si può definire mafiosa, per la consistenza dei legami, la condivisione di interessi e di comportamenti. Ma le critiche non sono mancate anche di recente. Salvatore Lupo ha parlato di “suggestione”: “In nessun modo la mafia può essere considerata una classe sociale (e viceversa) e dunque tale suggestione non aiuta nella necessaria distinzione tra i vari elementi costitutivi del network mafioso” (Lupo 2004, p. 41). Quindi: il network c’è ma non è analizzabile con la “suggestione” borghesia mafiosa. Meglio parlare di “richiesta di mafia nella società italiana”, di “bisogno di mafia” (Lupo 2002, p. 505 s.).
Giovanni Fiandaca contesta espressioni come “richiesta di mafia” e “voglia di mafia”, parla di “equivoche metafore”, richiama la necessità di “analisi più puntuali dell’attuale modo di funzionare della politica, dell’economia e più in generale della società siciliana”, ma giudica l’espressione “borghesia mafiosa” uno “pseudoconcetto comodo proprio per la sua indistinta genericità e vaghezza”. Considera una favola una borghesia “sempre intenta a ordire trame affaristiche in quei famosi e intramontabili “salotti buoni” rievocati e ridemonizzati da Leoluca Orlando. Sarà la mia pedanteria professorale, ma non mi rassegno a considerare strumenti validi di conoscenza e interpretazione della realtà quelli che non sono altro che comodi e usurati slogan” (Fiandaca 2005, p. 66).
Ora che il più delle volte si parli di borghesia mafiosa in modo generico e onnicomprensivo non ci sono dubbi, ma solo una lettura preconcetta e frettolosa può scambiare per slogan un’analisi che ha cercato di leggere la realtà con strumenti complessi e articolati, a fronte di stereotipi senza nessuna reale funzione conoscitiva eppure recepiti anche dalla letteratura più accreditata (dalla subcultura senza organizzazione di Hess alla mafia tradizionale in competizione per l’onore che solo negli anni ’70 scopre la competizione per la ricchezza, di Arlacchi).

 

Ruolo della violenza privata e sistema relazionale

Con l’espressione “borghesia mafiosa”, più che fare riferimento alla composizione sociale dei gruppi criminali (Franchetti come abbiamo visto rilevava l’appartenenza alla classe agiata dei capimafia), intendo denotare due fenomeni:
1) ruolo della violenza privata e dell’illegalità nei processi di accumulazione e di formazione dei rapporti di dominio e di subalternità;
2) sistema relazionale entro cui si muovono i gruppi criminali organizzati e senza di cui essi non potrebbero agire o comunque avere il ruolo che hanno avuto e continuano ad avere.
Riporto l’ipotesi definitoria che compendia questi due aspetti e i corollari che ne discendono:

Mafia è un insieme di gruppi criminali, di cui la più importante ma non l’unica è Cosa nostra, che agiscono all’interno di un contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale (Santino 1995, p. 129 s.).

I gruppi criminali hanno composizione transclassista, altrettanto si può dire del blocco sociale che ruota attorno ad essi, che percorre trasversalmente il tessuto sociale, dagli strati più svantaggiati a quelli intermedi e ai più alti, ed è dominato dai soggetti illegali-legali più ricchi e potenti, definibili come borghesia mafiosa: capimafia, professionisti, imprenditori, amministratori, politici, che risultano in rapporto continuativo con i criminali.

 

Accumulazione e dominio

Quando dico che la violenza e l’illegalità hanno avuto un ruolo decisivo nei processi di accumulazione e nei rapporti sociali faccio riferimento a fasi storiche determinate, anche se non si possono tagliare con l’accetta: il passaggio dal feudalesimo al capitalismo, l’affermazione del modo di produzione capitalistico, il tardo capitalismo o posdtfordismo e la globalizzazione. Un’analisi che usa criticamente categorie e strumenti di un marxismo non economicistico, ma aperto all’ibridazione con modelli scientifici di vario orientamento (Weber, per esempio), permette di individuare la funzione di soggetti e pratiche formalmente criminali nelle dinamiche sociali che hanno contrassegnato le varie fasi.
Nello studio del processo di transizione dal feudalesimo al capitalismo ritengo utilizzabile lo schema proposto da Wallerstein (centro, periferia, semiperiferia): la Sicilia come periferia anomala vede lo sviluppo di quelli che ho chiamato “fenomeni premafiosi”: l’impunità di delinquenti garantiti perché legati a soggetti di potere; reati con funzione accumulativa che implicano un dominio territoriale, come le estorsioni e l’abigeato (Santino 2000b).
Nella fase di affermazione del capitalismo con caratteri specifici (si è parlato di capitalismo di mediazione) la violenza mafiosa ha un ruolo fondamentale nel controllo della forza lavoro, con la repressione sanguinosa del movimento contadino, legittimata dall’impunità, e nel contrasto ai processi di rinnovamento, che arriva fino ai decenni scorsi, con le stragi e i delitti politico-mafiosi (di cui non sono mai stati individuati i mandanti). Qui ci sono utili anche riflessioni propriamente criminologiche, come quelle di Sutherland sui colletti bianchi (1949-1987) e quelle più recenti sulla criminalità dei potenti (Ruggiero 1999).
Nella fase attuale, designata correntemente come “globalizzazione”, il crimine organizzato non è un intruso sporadico o marginale ma un protagonista dei processi di modernizzazione, che utilizza le occasioni offerte dai processi di emarginazione dei quattro quinti della popolazione mondiale e dai processi di finanziarizzazione dell’economia (Santino 2002). Contrariamente a quello che sostengono alcuni studiosi che parlano tout court di globalizzazione criminale propendo per la tesi della criminogenicità dei processi di globalizzazione.
Questa analisi percorre una via alternativa alle due strade che mi sembrano dominate da eccessi di polarizzazione, tra il “tutto è mafia” delle piovre planetarie e il riduzionismo che vede i fenomeni criminali come marginali e puntuali, entrambe lontane dalla realtà. E non pretende di essere l’unica possibile ma chiede che venga considerata nelle sue implicazioni teoriche e per la base di documentazione su cui si regge.
Che queste analisi si rifacciano a modelli obsoleti è tutto da dimostrare. L’analisi di classe è stata più proclamata che praticata, più ridotta a schemi generalizzanti che articolata con studi di contesti reali. Nello stesso Marx è rimasta allo stato di frammento; il cinquantaduesimo capitolo del terzo libro del Capitale dedicato alle classi contiene solo una pagina e mezza e l’accenno alle “tre grandi classi della società moderna”, cioè gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari, è accompagnato da un’avvertenza: c’è un “infinito frazionamento di interessi e di posizioni” (Marx 1965, pp. 1003 s.). Il Marx storico (Il 18 brumaio, Lotte di classe in Francia) ha analizzato in concreto quel “frazionamento”, individuando una stratificazione articolata in classi e frazioni: aristocrazia finanziaria, proprietà fondiaria, borghesia industriale, piccola borghesia, contadini, proletariato industriale, sottoproletariato. E il concetto marxiano di “formazione economico-sociale” richiama una totalità formata di soggetti sociali, mezzi di produzione, modelli culturali, che può essere utile anche oggi, con una realtà più complessa (si pensi alle varie forme di lavoro, con prevalenza del precario e del sommerso), ma pure con divari tra ricchi e poveri che tendono ad aumentare.
Nel nostro Paese l’analisi delle classi sociali non ha avuto molti cultori e gli studi di Sylos Labini rimangono tra i pochi esempi che possono ricordarsi (Sylos Labini 1974, 1986).
In ogni caso, mi chiedo cosa ci sia in circolazione di significativo sul piano teorico e di rilevante per la documentazione raccolta e interpretata per lo studio della mafia-organizzazione e dei suoi rapporti con il contesto sociale. Non mi pare che il panorama offerto dalle scienze sociali sia molto affollato. Dopo la sbornia culturalista si parla di Cosa nostra in termini subalterni alle tesi giudiziarie, ma tornano ad affiorare tesi culturaliste (Santoro 1998); per quanto riguarda il contesto si parla di relazioni esterne e di capitale sociale, di voglia di mafia. Sul piano politico-istituzionale si è proposto di mettere in luce accanto alla responsabilità giudiziaria la responsabilità politica.

 

Il capitale sociale

Il concetto di capitale sociale è importato dalla sociologia americana, in particolare dagli studi di James S. Coleman che fa riferimento “all’insieme di risorse di cui dispone un individuo sulla base della sua collocazione in reti di relazioni sociali” (in Sciarrone 1998, p. 44). Lo studioso, di orientamento neoclassico, nel tentativo di temperare l’impostazione individualistica delle sue teorizzazioni, introduce il riferimento all’organizzazione sociale che costituirebbe il cosiddetto capitale sociale. Nasce così una concettualizzazione bivalente, per cui il capitale sociale è insieme attributo del sistema e risorsa individuale. Sotto questo ombrello concettuale c’è di tutto: “dalle relazioni di autorità alla fiducia, dalle norme sociali alla densità degli scambi esistenti in un determinato ambiente” (Bianco – Eve 1998, p. 3).
Quale utilità presenta l’uso del concetto di capitale sociale nell’analisi del fenomeno mafioso? Sciarrone scrive che “una lettura del fenomeno mafioso in termini di capitale sociale presuppone di focalizzare l’attenzione sulla capacità e sulle risorse relazionali dei mafiosi”. La forza della mafia “è conseguenza anche della sua capacità di networking: ciò permette ai mafiosi di porsi, a seconda delle circostanze, come mediatori, patroni, protettori in strutture relazionali di natura diversa che essi riescono a utilizzare per i propri obiettivi” (Sciarrone 1998, p. 47).
I gruppi mafiosi avrebbero una struttura organizzativa caratterizzata da una dualità: centralizzazione interna e fluidità esterna. La prima tendenza riguarda gli affiliati, la seconda le reti di alleanze dei mafiosi con altri soggetti. Ci sarebbero pertanto legami forti verso l’interno e legami deboli verso l’esterno. Questa visione mi pare inadeguata a rappresentare la complessità e la consistenza dei legami di quello che preferisco chiamare “sistema relazionale”, al cui interno si realizzano i rapporti, più forti che deboli, più persistenti nel tempo che episodici e sporadici, informali ma non per questo labili e sfuggenti, dei criminali di professione con il contesto sociale e in particolare con alcuni soggetti.
Nella ricerca pubblicata nel volume L’impresa mafiosa abbiamo ricostruito il sistema relazionale di Francesco Vassallo, promosso da carrettiere a costruttore principe sulla scena palermitana, indicando i soggetti che lo componevano: parenti mafiosi, tecnici, liberi professionisti, imprenditori, direttori di banche, funzionari della pubblica amministrazione, politici. Un quadro di cointeressenze senza di cui il costruttore non avrebbe potuto neppure muovere i primi passi della sua carriera imprenditoriale (Santino-La Fiura 1991).
Più recentemente, nel 1998, uno studente dell’Università di Messina, Antonello Mangano, ha ricostruito nella sua tesi di laurea attività, interessi, soggetti che compongono la “borghesia mafiosa” di quella città, che ha il suo terreno privilegiato nell’Università e non per caso la tesi ha incontrato l’aperta avversione dell’accademia locale, fino al ritiro della firma da parte del correlatore, l’economista Mario Centorrino che ha scritto vari volumi sull’economia mafiosa. Evidentemente questo tipo di ricerca non interessa i cattedratici dello Stretto, che hanno negato la lode a una tesi fuori dagli schemi. Solo con l’omicidio del professore Bottari il “caso Messina” è emerso nelle cronache italiane e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia ma non nella riflessione di studiosi e docenti, tolte poche eccezioni (Comitato messinese per la pace 1998).
I capimafia attuali, a cominciare da quelli che vengono indicati come capi dei capi, Riina e Provenzano, sono quasi analfabeti e tutte le attività che si attribuiscono loro, da quelle illegali, come il traffico di droghe, a quelle legali (imprese, appalti ecc.) non sarebbero possibili, neppure a livello di ideazione, senza la collaborazione di altri soggetti del mondo delle professioni, dell’imprenditoria e delle istituzioni.
Le riflessioni sul capitale sociale e sulle relazioni esterne anche se mi sembrano inadeguate sono indubbiamente apprezzabili sul piano teorico, mente parlare di richiesta o di bisogno di mafia o di voglia (espressione adoperata nell’uso corrente per i desideri alimentari delle donne incinte, che lascerebbero il segno sui corpi dei nascituri) di mafia, vuol dire soltanto usare espressioni ad effetto, buone per il titolo di libri di carattere giornalistico, anche ben documentati, ma prive di rilevanza scientifica.

 

Responsabilità giudiziaria e politica

La legislazione attuale, dopo la legge antimafia del 1982 (approvata una settimana dopo l’assassinio di Dalla Chiesa), è tutta all’insegna dell’emergenza. Comunque, per quanto riguarda l’organizzazione criminale, è servita per condannare gli affiliati, capi e gregari, rompendo con una prassi d’impunità che rimonta ai primi anni dello Stato unitario. Per ciò che riguarda il sistema relazionale, la creazione della fattispecie giurisprudenziale del concorso esterno ha dato vita a varie vicende processuali, con risultati diversi.
Il processo che ha dominato la scena giudiziaria degli ultimi anni, quello ad Andreotti, si è concluso con una sentenza di prescrizione del reato commesso (l’associazione a delinquere semplice) fino al 1980 e di assoluzione per il periodo successivo. Mi pare una sentenza all’italiana, buona per contentare tutti. Il termine del 1980 appare calcolato in modo da far scattare la prescrizione e aprire la strada all’assoluzione, che l’opinione pubblica quasi unanimemente ha considerato come esito unico del processo, in realtà bivalente. Non so se la fattispecie di associazione fosse la più adatta a rappresentare i rapporti effettivi di Andreotti con Lima e con mafiosi notori, comunque questi rapporti, almeno con Lima, sono perdurati ben oltre quella data, certamente fino alla morte del parlamentare europeo (marzo 1992) e se non sono stati considerati come criminosi dalla magistratura rimangono gravemente censurabili sul piano etico e politico.
Avrei delle perplessità sull’esito di alcuni processi a professionisti e politici, assolti anche in presenza di elementi consistenti come la collaborazione al riciclaggio del denaro sporco o l’ospitalità a mafiosi latitanti. Forse l’ipergarantismo di alcuni magistrati ha pesato sulle decisioni finali.
Com’è noto rimangono avvolti nel mistero, ed è fortemente probabile che lo rimarranno, i cosiddetti mandanti esterni dei delitti e delle stragi politico-mafiosi ed è rimasta interamente sulla carta la responsabilità politica di cui parlava la relazione su mafia e politica della Commissione parlamentare antimafia approvata a larga maggioranza nel 1993, sull’onda dell’emozione suscitata dalle stragi.
In mancanza di sanzioni la responsabilità politica è destinata a restare un pio desiderio che nessuna autoregolazione si propone di soddisfare. Nelle ultime elezioni politiche si è arrivati a candidare personaggi sotto processo per concorso esterno (Marcello Dell’Utri a Milano e Calogero Giudice a Palermo, entrambi eletti) e negli anni più recenti l’attacco alla magistratura ha avuto accenti inusitati, in piena delegittimazione della funzione giurisdizionale, bollata come persecutoria e gestita da uomini politicizzati (le “toghe rosse”) e antropologicamente tarati. Nella storia dello Stato italiano non si era mai arrivati a tanto, ma l’opposizione non è andata al di là di reazioni timide e precarie.
Una governo e una maggioranza in cui abbondano personaggi sotto inchiesta per mafia o per corruzione, affiancati da avvocati difensori di potenti incriminati, diventati parlamentari per meriti acquisiti nelle aule dei tribunali, con una politica esplicitamente intesa a tutelare interessi personali, avrebbero meritato un’analisi adeguata. Concetti poco rassicuranti come quello di borghesia mafiosa o della mafia come soggetto politico, in proprio attraverso la signoria territoriale e in interazione con le istituzioni (Santino 1994), forse avrebbero avuto una maggior presa sulla realtà di quanto ne abbiano avuto teorizzazioni appiattite sugli aspetti organizzativi e militari. I pochi che hanno provato a disegnare un quadro allarmato dell’attuale sistema di potere sono giornalisti e intellettuali che in gran parte non provengono dalle file di una sinistra in piena crisi d’identità. Anche i docenti e gli intellettuali impegnati nella stagione dei girotondi non hanno prodotto analisi convincenti e in ogni caso non sono riusciti ad andare al di là di colorite manifestazioni di protesta. In questo contesto la Commissione parlamentare antimafia non ha fatto sentire la sua voce, se non per indicare i rischi di un'”analisi politica”, anche distorcendo le analisi di chi scrive (Commissione parlamentare 2003, pp. 510 ss.). La mia proposta di continuare sul cammino intrapreso nella precedente legislatura con la relazione sul depistaggio, ad opera di rappresentanti delle istituzioni, per il delitto Impastato (Commissione parlamentare 2001), che poteva essere il primo capitolo di una storia dell’impunità, che avrebbe dovuto affrontare il problema delle stragi neofasciste e mafiose, non è stata accolta, certo per l’indisponibilità della maggioranza, ma anche per l’inerzia dell’opposizione, per cui ho preferito dare le dimissioni da consulente.
Il quadro politico attuale costituisce a mio avviso il contesto più favorevole dall’Unità d’Italia a oggi per l’inserimento della cosiddetta mafia sommersa, che ha rinunciato ai delitti eclatanti dopo gli effetti boomerang che essi hanno causato. Siamo di fronte alla legalizzazione dell’illegalità, a un’illegalità sistemica che va in scena quotidianamente e che mira a permeare d’illegalità il quadro istituzionale, sottraendolo alle prescrizioni costituzionali, e il modello di accumulazione, abolendo o riducendo i controlli, per cui il nemico non può non essere chi esercita il controllo di legalità. A fronte di un simile scenario l’approccio formalistico-legalitario delle attività di educazione alla legalità di gran parte dell’attivismo antimafia, dentro e fuori dalle scuole, è condannato alla predicazione ininfluente sui processi in atto. Se tutto si risolve nel rispetto delle leggi, a prescindere dalla valutazione del loro contenuto, anche le leggi razziali di Hitler e di Mussolini dal punto di vista formale-procedurale sono leggi a tutti gli effetti, e anche le leggi ad personam degli ultimi anni lo sono. Mentre sarebbero da escludere tutte le forme di disobbedienza civile, dalle occupazioni delle terre del movimento contadino alle pratiche più recenti (su cui c’è da dire che troppo spesso si riducono a forme discutibili di ribellismo estemporaneo, senza preparazione adeguata e con scarsa partecipazione).
Le pratiche generose della società civile organizzata, efficacemente impegnata sul terreno dell’uso sociale dei beni confiscati e dell’antiracket, ancora scarsamente diffuso sul territorio nazionale, non sono riuscite a elaborare un progetto complessivo e non c’è un’analisi condivisa, soprattutto sul rapporto mafia-politica, spesso inteso come rapporto privatistico di qualcuno con qualcuno.

 

Quale strategia per il futuro?

La strategia mirata a colpire i mafiosi ha conseguito risultati storici, incrinando la tradizione dell’impunità, ma ormai mostra la corda, per l’attenuazione e cancellazione di una legislazione tarata sull’emergenza (“la mafia esiste quando spara”) e le esperienze giudiziarie basate sul concorso esterno hanno avuto esiti pressoché fallimentari. Una strategia adeguata non pretende certo di avviare la palingenesi sociale, come vorrebbero i critici delle teorizzazioni sulla borghesia mafiosa, ma dovrebbe essere capace di colpire i mafiosi a prescindere dalle congiunture delittuose e di disarticolare il blocco sociale, con fattispecie penali che regolino esplicitamente i rapporti all’interno del sistema relazionale.
Ovviamente la repressione da sola non basta. E anche la prevenzione abbisogna di teorie e pratiche non suggestive e improvvisate. Occorrono politiche integrate che incoraggino la fuoruscita dall’illegalità sistemica degli strati popolari e anche degli strati borghesi. Il movimento antiracket ha difficoltà a estendersi e a radicarsi, non solo per l’efficacia dell’intimidazione mafiosa ma soprattutto perché prassi e metodi mafiosi, adattati al contesto attuale, continuano ad essere vie d’accesso al sistema di potere. Non è il desiderio di protezione, su cui si attardano studiosi attratti da formulazioni più o meno raffinate che orecchiano la teoria dei giochi, a richiamare sotto l’ala mafiosa commercianti e imprenditori, ma la consapevolezza che la mafia è soggetto di potere, con cui è conveniente convivere (l’affermazione del ministro Lunardi più che una gaffe è una voce dal sen fuggita che richiama una tangibile realtà), per le opportunità che offre e le strade che apre.
Vuoto quasi completo per quanto riguarda gli strati popolari. La mafia e le sue sorelle non producono sviluppo ma distribuiscono reddito e offrono occasioni di arricchimento e di scalata sociale, e questo lo sanno benissimo gli abitanti dello Zen di Palermo e di Scampia a Napoli. Poco importa se il denaro si tinge di morte: la convivenza con la morte fa parte della vita quotidiana, della cultura e della religiosità popolare, più acclimatata ai vernedì santi che alle pasque, certamente molto più del rispetto per la vita.
Se l’antimafia non fa tutt’uno con la lotta per la democrazia (insidiata da forme più o meno mascherate di leaderismo carismatico, più presunto che reale) e per un diverso modello di sviluppo che soddisfi i bisogni di tutti e non aggravi squilibri territoriali e divari sociali, la sconfitta è certa, fatta salva l’anima di testimoni controcorrente.
Anche se da più parti si insiste su un’antimafia pre-condizione della vita civile e lasciapassare alla normalità, che pertanto dovrebbe essere accolta e praticata da tutti, senza distinzione di colore politico, la lotta contro la mafia storicamente ha molti protagonisti esplicitamente schierati e pochi singoli personaggi che hanno pagato la colpa di avere cercato di staccarsi dalle politiche praticate dalle formazioni governative di cui facevano parte (da Pasquale Almerico, sindaco di Camporeale ucciso nel 1957 perché voleva impedire l’ingresso dei mafiosi del paese nella Democrazia cristiana, a Piersanti Mattarella, presidente della regione siciliana, ucciso nel 1980). Le formazioni di sinistra attraversano una crisi epocale che non si risolverà né con nostalgie del passato e rifondazioni più verbali che sostanziali, né con pratiche di neoliberismo temperato. Entrambe non hanno risposte adeguate ai problemi indotti dai processi di emarginazione che globalizzano la povertà e militarizzano i supermercati riservati a pochi privilegiati.
Si potranno trovare risposte ai problemi del nostro tempo, dentro cui c’è il problema del lievitare dell’accumulazione illegale, della simbiosi tra legale e illegale e del proliferare delle mafie, solo ricostruendo una capacità di analisi che non comincia da zero ma deve saper correre il rischio di inventare nuovi paradigmi e nuovi percorsi.
Se ci si guarda in giro, non c’è molto da rallegrarsi. Neppure per i comportamenti di quelli che dovrebbero essere i soggetti di un rinnovamento possibile, delle riflessioni e delle pratiche. Parlo dei centri studi e delle associazioni antimafia. Si parla di impegno comune, ma spesso si procede con ottiche di bottega. Soprattutto quando si tratta di assicurarsi i finanziamenti pubblici. Come è accaduto recentemente alla regione siciliana, dove alcuni centri studi hanno chiesto il ripristino di vecchie leggine-fotografie, isolando il Centro Impastato, operante da molti più anni, che è rimasto solo a chiedere una legge di carattere generale che fissi criteri oggettivi. Il primo esempio di cambiamento di rotta rispetto al sistema clientelare di spartizione del denaro pubblico dovrebbe venire dall’associazionismo antimafia, ma da questo orecchio non pare che siano in molti a volerci sentire.

 

Riferimenti bibliografici

Arlacchi Pino, Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Mondadori, Milano 1992.
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Comitato messinese per la pace e il disarmo unilaterale, Le mani sull’Università. Borghesi, mafiosi e massoni nell’ateneo messinese, Armando Siciliano, Messina 1998.
Commissione parlamentare antimafia, relatore Giovanni Russo Spena, Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio, Editori Riuniti, Roma 2001.
Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità mafiosa o similare, Relazione annuale, Roma 2003.
Fiandaca Giovanni, La magistratura non è la bocca della verità, in “Limes. Come mafia comanda”, n. 2, 2005, pp. 63-68.
Franchetti Leopoldo, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, in La Sicilia nel 1876, per Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, Tip. Barbera, Firenze 1877, ristampato da Donzelli, Roma 1993.
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Relazione al convegno su “Mafia e potere” di Magistratura Democratica, Palermo, 18-19 febbraio 2005