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Umberto Santino: Inferni territoriali e paradisi finanziari

Politiche di sicurezza e di riduzione del danno in territori a signoria mafiosa

Scaletta di relazione

  1. La mafia come organizzazione criminale e come componente di un blocco sociale è un soggetto politico-istituzionale, che esercita il suo dominio come una vera e propria signoria territoriale, cioè con un comando totalitario sulle attività illegali e legali, sulla vita quotidiana, intrecciandosi o scontrandosi con le istituzioni operanti sul territorio.Tale signoria si esercita in varie forme, con l’imposizione violenta ma anche con la ricerca del consenso, fondato sulla convergenza di interessi e sull’introiezione del potere mafioso (cultura della sudditanza).
  2. L’organizzazione Cosa nostra, che è la più storica e consistente organizzazione mafiosa, ma non l’unica, attualmente paga gli effetti boomerang dell’accentuazione del ricorso alla violenza da parte dei cosiddetti corleonesi, che hanno imposto il loro dominio all’interno dell’organizzazione e hanno compiuto delitti eclatanti e stragi su tutto il territorio nazionale. Ciò ha innescato la reazione delle istituzioni, ha portato molti mafiosi a collaborare con la giustizia e ha ridotto, ma non annullato, il consenso sociale.Altre organizzazioni di tipo mafioso, per esempio i clan catanesi, sono in guerra permanente con gravissimi rischi per l’incolumità dei cittadini e l’imbarbarimento della vita quotidiana.Organizzazioni assimilabili alla mafia sono radicate in altre regioni dell’Italia meridionale e si vanno diffondendo su tutto il territorio nazionale. A livello internazionale si sviluppa sempre più l’accumulazione illegale e proliferano gruppi di tipo mafioso e ciò è dovuto alle caratteristiche dell’economia capitalistica nella fase di lobalizzazione: aggravamento degli squilibri territoriali e dei divari sociali, crisi dell’economia legale, processi di finanziarizzazione, facilità di riciclaggio del capitale illegale etc.
  3. In Italia la risposta istituzionale, quando non opera l’interazione, è caratterizzata dall’ottica dell’emergenza, si configura cioè come repressione, aggravamento delle norme penali (iperpenalizzazione), militarizzazione del territorio (scorte, invio dell’esercito) dopo i grandi delitti e le stragi (Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino). In tale quadro di politica antimafia emergenziale il ruolo di protagonista è della magistratura, in funzione di supplenza rispetto ad altre istituzioni inerti o complici (doppio Stato).
  4. Non bisogna guardare solo all’associazionismo mafioso ma alla società mafiogena: una società che accetta violenza e illegalità come fatti normali, in cui l’economia legale è troppo esigua e quindi il ricorso all’economia illegale è considerato lecito e conveniente, lo Stato e le istituzioni sono lontani, raggiungibili attraverso la mediazione mafiosa e fortemente collusi, manca una vita associata, domina la cultura dell’aggressività e del fatalismo, vige la solidarietà nell’illegalità.
  5. Nei territori a signoria mafiosa e nella società mafiogena c’è una bassissima densità di socializzazione, manca, o è gravemente carente, una rete di strutture pubblico-istituzionali e di privato sociale che assicurino i servizi e costituiscano un fitto e articolato tessuto comunitario.
  6. Una politica di sicurezza deve svilupparsi all’interno di una strategia di appropriazione del territorio e delle sue risorse, da parte delle istituzioni e dei cittadini. L’azione di contrasto nei confronti delle organizzazioni criminali e di sgretolamento del blocco sociale a egemonia mafiosa deve andare di pari passo con quella preventiva e progettuale, mirante a un profondo rinnovamento della società mafiogena.
  7. In tale strategia un ruolo essenziale ha la democratizzazione-legalizzazione dello Stato, passando dallo Stato centralistico, burocratico, sistemicamente criminogeno (corruzione, rapporti con le mafie) allo Stato diffuso: una struttura del potere articolata, basata su un nuovo concetto di cittadinanza, fondato non sulla delega ma sull’impegno e la partecipazione. E’ possibile espellere le forme di criminalità del potere e recidere i legami delle istituzioni con la mafie solo se ogni cittadino si comporta come soggetto di democrazia e di legalità.
  8. Bisogna elaborare-praticare un nuovo concetto di cittadinanza che ridefinisca le forme storiche (cittadinanza politica, civile, sociale) e coniughi l’educazione alla legalità, in una scuola aperta al territorio e al di fuori della scuola, con un progetto socio-economico solidaristico e un’etica comune di rinnovamento della vita quotidiana.
  9. All’interno di questa politica complessiva può avere un ruolo decisivo la riduzione del danno come filosofia e pratica del “realismo responsabile”, della prevenzione e della concretezza: non l’intervento occasionale, nell’ottica dell’emergenza, ma progetti di servizi integrati, coinvolgendo vari soggetti e promovendo un’azione capillare di socializzazione del territorio.Esempi: “eroina killer” a Palermo (12 morti da luglio a novembre ’95): solo dopo queste morti si sono avviate le prime forme di riduzione del danno; minori sfruttati dai pedofili: si riscoprono le enormi carenze di servizi, la situazione abitativa disastrosa, la mancata ricostruzione del centro storico a 53 dalla fine della guerra… Senza questa politica complessiva qualsiasi azione di tipo emergenziale è destinata al fallimento.
  10. Se è da respingere l’ottica dei “giustizieri della notte” bisogna porsi seriamente il problema di una dislocazione efficace delle forze dell’ordine, con presidi pluriforze in grado di controllare il territorio, di un coinvolgimento della società civile attraverso la gestione dei servizi ma anche in altre forme di vigilanza nonviolenta.

Esempio: contro la pratica sempre più diffusa delle estorsioni, occorre sviluppare capillarmente il movimento antiracket, attualmente debolissimo a Palermo.

 

INFERNI TERRITORIALI E PARADISI FINANZIARI
Convegno internazionale. Venezia 11 – 13 ottobre 1996
Umberto Santino
Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato – Palermo

Politiche di sicurezza e di riduzione del danno in territori a signoria mafiosa

Premessa

La problematica delle nuove politiche di sicurezza e della riduzione del danno finora non ha avuto un’adeguata diffusione in Sicilia e in Italia meridionale, aree tradizionalmente dominate dalla mafia e da gruppi criminali assimilabili alla mafia siciliana. La spiegazione di ciò non è difficile. Questi temi sono legati alla contestazione dell’impostazione della domanda di sicurezza in termini sicuritari, cioè di ricorso al diritto penale come risorsa esclusiva o privilegiata, ma l’impunità dei delitti di mafia, in pratica la non applicazione della norma penale nei confronti dei mafiosi, è stata una costante fino agli anni ’80 e solo dopo il delitto Dalla Chiesa molti mafiosi sono stati sottoposti a processo e condannati. L’impunità è stata una forma di legittimazione della violenza mafiosa e l’applicazione della norma penale ai mafiosi costituisce certamente un fatto storico, maturato però nel clima e nella logica dell’emergenza, cioè come risposta all’escalation della violenza mafiosa e come tale soggetto a pericolose oscillazioni. Le vicende dello smantellamento del pool antimafia di Palermo, l’eliminazione di alcuni dei suoi membri più rappresentativi, come Chinnici, Falcone e Borsellino, sono ben note e hanno riproposto con preoccupante regolarità una sorta di ciclo (delitti mafiosi particolarmente eclatanti, reazione dello Stato con leggi antimafia, processi, condanne, sequestri e confische di beni, poi allentamento della tensione e ripresa dell’interazione mafia-istituzioni) che può riprodursi anche ai nostri giorni.
Bisogna pertanto partire da questo dato di fatto: in Italia la risposta istituzionale alla criminalità mafiosa non si configura come progetto globale, complessivo, fondato su un’analisi adeguata del fenomeno mafioso e articolato su una vasta gamma di interventi e di mezzi, ma come risposta, frettolosa e precaria, alle sfide mafiose, quando esse con i grandi delitti e le stragi raggiungono livelli troppo alti per poter essere ulteriormente tollerate. In un’ottica emergenziale, tale risposta privilegia le forme eclatanti e simboliche: aggravamento delle norme penali, retate di mafiosi e maxiprocessi, militarizzazione del territorio (scorte, invio dell’esercito). In questo quadro il ruolo di protagonista è della magistratura, in funzione di supplenza rispetto ad altre istituzioni, inerti o complici.

Va detto chiaramente che il diritto penale è una risorsa indispensabile e ineliminabile nella lotta repressiva contro la mafia ma si pone il problema di una sua utilizzazione che coniughi progettualità, tempestività ed efficacia, abolendo qualsiasi forma di impunità e di legittimazione dell’attività mafiosa. E per operare in questa direzione, mantenendo l’obbligatorietà dell’azione penale, che è un pilastro della nostra civiltà giuridica, bisogna limitare il diritto penale alle fattispecie di reato più gravi e passare da una “giustizia diffusa”, che con l’ambizione di perseguire tutto rischia la paralisi, a una “giustizia mirata”. Sono d’accordo con chi parla di diritto penale minimo, ma con un’ottica ben precisa, che porti alla concentrazione delle risorse per contrastare efficacemente le attività criminali che costituiscono un serio pericolo per la convivenza civile. Sinteticamente: occorre il progetto, non il pronto soccorso.

Le tematiche della sicurezza si sono sviluppate altrove, soprattutto nelle grandi aree urbane che vivono le contraddizioni della società contemporanea e dove la presenza della criminalità organizzata è più recente e meno radicata nel territorio. Anche le città meridionali vivono le contraddizioni delle metropoli che hanno suscitato, in maniera spesso distorta, la domanda di sicurezza (la presenza di immigrati, la microcriminalità, un numero rilevante di tossicodipendenti etc.), anzi se si considera l’entità della popolazione emarginata questa è certamente più consistente nel Mezzogiorno, quindi parlare delle regioni meridionali come di aree a signoria mafiosa non vuol dire considerarle delle realtà tropicali e relegarle in un orizzonte chiuso e ristretto. Al contrario, se si pensa al proliferare di gruppi criminali di tipo mafioso, le caratteristiche delle città meridionali, che assommano vecchie e nuove tensioni, può costituire un modello che, adattandosi alle specificità locali, può impiantarsi al di fuori delle aree originarie. Il problema perciò è trovare il punto d’incontro tra riflessioni ed esperienze maturate in contesti diversi, sottolineando gli aspetti più rilevanti e più facilmente “esportabili”.

 

1. La mafia come soggetto politico-istituzionale e la signoria territoriale mafiosa

Richiamo sinteticamente l’analisi condotta in questi anni, nel tentativo di andare oltre le idee correnti, sia nella forma di stereotipi privi di qualsiasi scientificità eppure diffusissimi e difficili da sradicare (la mafia come emergenza o antistato, imperante nei mezzi d’informazione) che di paradigmi che colgono solo una parte del fenomeno mafioso scambiandola per il tutto (la mafia come associazione a delinquere specifica e impresa, l’idea ufficiale delle istituzioni e più accreditata presso gli studiosi).
La mafia è associazione a delinquere specifica ed è impresa, sia perché combina razionalmente mezzi e fini di arricchimento nell’impresa illecita, sia perché gestisce direttamente o indirettamente attività economiche lecite, ma il fenomeno mafioso non si esaurisce nell’associazionismo criminale e nelle finalità economiche. Per dare un’idea della complessità del fenomeno mafioso ho usato un’ipotesi definitoria articolata e aperta (il “paradigma della complessità”), secondo cui mafia è un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l’unica è Cosa nostra, che agiscono all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale. I gruppi criminali agiscono all’interno di un blocco sociale che attraversa i vari strati sociali, al cui interno la funzione dominante è svolta dai soggetti illegali e legali più ricchi e potenti, definibili come borghesia mafiosa.

La mafia come organizzazione criminale e come componente di un blocco sociale è un soggetto politico-istituzionale, che esercita il suo dominio come una vera e propria signoria territoriale, cioè con un comando totalitario sulle attività illegali e legali, sulla vita quotidiana, intrecciandosi o scontrandosi con le istituzioni operanti sul territorio.

Riguardo ai rapporti con lo Stato e le istituzioni periferiche ho parlato di doppia mafia in doppio Stato: la mafia è insieme fuori e contro lo Stato, in quanto non riconosce il monopolio statale della forza; dentro e con lo Stato, perché una serie di attività implicano l’uso del denaro pubblico e il rapporto con i centri decisionali pubblici. La doppiezza dello Stato consiste nel suo essere formalmente contro la mafia, in quanto associazione criminale, ma nell’averla di fatto legittimata con l’impunità per il suo ruolo di compartecipe del sistema di potere e la funzionalità dei suoi delitti alla perpetuazione di quel sistema (la democrazia italiana nel corso della prima Repubblica è stata definita “democrazia bloccata”, formalmente aperta ma in realtà preclusa alle forze di sinistra, con il ricorso alle stragi e l’utilizzazione della violenza mafiosa; il sistema maggioritario oggi rischia di fare della seconda Repubblica una “democrazia espropriata”, all’insegna della delega e del decisionismo del leader-miracolatore).

La signoria mafiosa viene esercitata in varie forme, con l’imposizione violenta ma anche con la ricerca del consenso, fondato sulla convergenza di interessi e sull’introiezione del potere mafioso (cultura della sudditanza). L’estorsione, che è una delle più antiche attività mafiose, è stata e continua ad essere una forma di tassazione e di riconoscimento della signoria mafiosa e negli ultimi anni è diventata un primo passo verso l’appropriazione dell’esercizio commerciale e dell’impresa, e questa funzione è andata assumendo anche l’usura, un’altra forma di attività mafiosa sperimentata da lungo tempo e oggi dilagante, anche per effetto della crisi economica e delle difficoltà di accesso al credito.

La signoria territoriale può assumere i caratteri di vera e propria espulsione degli indesiderati, come si è verificato nel quartiere Ciaculli, regno della famiglia Greco, dove nel 1983 sono state inviate delle lettere ad alcuni abitanti non graditi ingiungendo loro di lasciare il quartiere. Ma l’isolamento di chi non rispetta il codice mafioso può scattare anche senza un esplicito comando mafioso: è il caso delle donne del popolo palermitano costituitesi parti civili in processi di mafia. Pietra Lo Verso, Vita Rugnetta, Michela Buscemi sono state isolate in tutti i modi: i parenti hanno preso le distanze, i clienti dei loro negozi si sono eclissati, qualcuno ha detto chiaramente di non condividere le loro scelte, altri ha reagito con un silenzio ancora più esplicito delle espressioni di dissenso.

Anche il delitto più grave, l’omicidio, che per la mafia costituisce l’applicazione della pena di morte per le violazioni delle sue regole e uno strumento per condurre la gara egemonica interna ed esterna e per reprimere la ribellione e soffocare le istanze di mutamento che mettono in pericolo il suo dominio, da strati consistenti della popolazione viene accettato come un atto “normale”, cioè previsto dall’ordinamento mafioso e prevedibile, anzi ineluttabile, se si commette qualche “sgarro”. In un articolo su “Narcomafie” del gennaio 1995 citavo il caso di un giovane del quartiere Albergheria di Palermo che parlando del padre scomparso per “lupara bianca” commentava: «qualcosa deve aver fatto», come dire: «se la mafia lo ha ucciso, la colpa è sua che ha trasgredito le regole mafiose».

Negli ultimi tempi si è molto parlato di “protezione mafiosa”, sulla scorta di un’interpretazione sociologica tanto fortunata quanto schematica e approssimativa, che ha rilanciato l’immagine della mafia come “industria della protezione privata”, che sfrutta la sfiducia e l’insicurezza diffuse nel contesto sociale. In realtà la mafia induce sfiducia e insicurezza con le sue minacce e non le attua se le sue richieste vengono soddisfatte; la sua fortuna si deve più al fatto di essere protetta dalle istituzioni che di “proteggere” i cittadini insicuri, anche se il mito della “mafia d’ordine” storicamente ha qualche fondamento nella sua capacità di controllo del mondo criminale (in occasione di furti era più facile trovare la refurtiva ricorrendo al capomafia che alle forze dell’ordine, ma queste erano spesso colluse) e perdura ancora oggi. Nel luglio del 1994, nel centro storico di Palermo è stato distribuito un volantino in cui si invocava il boss della zona perché ripulisse il quartiere da prostitute e travestiti. Si potrebbe parlare di una versione mafiosa dell’impostazione sicuritaria: la mafia viene considerata soggetto d’ordine, capace di imporre la sua legalità. Il volantino non è un pezzo unico, prima c’erano stati i cartelli inalberati dai disoccupati con scritte inneggianti alla mafia che “dà lavoro”. «Alla base di tali atti presentati-camuffati come provocatori – scrivevo nell’articolo su “Narcomafie” già richiamato – c’è la percezione della mafia come datrice di lavoro, dispensatrice di protezione e sicurezza: una mafia d’ordine che svolge funzioni istituzionali».

Ci sono stati mutamenti negli ultimi anni nel mondo mafioso, nel contesto sociale, nella percezione del fenomeno mafioso, nel consenso verso di esso?

In seguito agli arresti dei boss latitanti, tenendo anche conto dell’incremento del numero dei mafiosi pentiti, si è detto che la mafia è alle corde, vicina alla fine. In realtà l’organizzazione Cosa nostra, che è la più storica e consistente organizzazione mafiosa, attualmente paga gli effetti boomerang dell’accentuazione del ricorso alla violenza da parte dei “corleonesi”, che hanno imposto il loro dominio all’interno dell’organizzazione e hanno compiuto delitti eclatanti e stragi su tutto il territorio nazionale. I capi dei corleonesi hanno agito sulla spinta di una sorta di delirio di onnipotenza criminale, che li ha portati al centro dell’attenzione ma li ha pure resi vulnerabili. I delitti e le stragi hanno innescato la reazione delle istituzioni, molti mafiosi hanno preferito collaborare con la giustizia, spinti dal pericolo in cui si trovavano ma pure dalla consapevolezza che il “pentimento” poteva diventare una nuova strada per ottenere l’impunità (e ultimamente si è visto che alcuni mafiosi hanno simulato il pentimento e hanno continuato a fare i mafiosi). Le grandi dimostrazioni dopo le stragi del ’92, la collaborazione con la giustizia di molti cittadini dimostrano che il consenso sociale si è ridotto, ma bisogna fare molta attenzione e non dare per compiuti processi in corso, ricchi di contraddizioni. In ogni caso, il movimento antimafia in Sicilia non è nato solo ora, esso ha più di un secolo e la lotta contro la mafia ai tempi del movimento contadino era ancorata a un progetto complessivo, mentre adesso, il più delle volte, si agisce in base a spinte emotive, le grandi manifestazioni durano alcune ore e coloro che sono impegnati continuativamente sono poche centinaia.

Se i corleonesi stanno pagando lo scotto del loro delirio di onnipotenza, altre organizzazioni di tipo mafioso, per esempio i clan catanesi, sono in piena attività e in guerra permanente tra loro, con gravissimi rischi per l’incolumità dei cittadini e l’imbarbarimento della vita quotidiana. E non si vede una reazione adeguata, se si toglie un certo impegno delle associazioni antiracket, più attive nella Sicilia orientale, dove solo da qualche decennio le delinquenze locali si sono evolute in mafie e dove non c’è una sedimentata “cultura della sudditanza”, ma sono abbastanza diffuse nella stragrande maggioranza della popolazione l’indifferenza e la passività.

Com’è noto, organizzazioni assimilabili alla mafia sono radicate in altre regioni dell’Italia meridionale e si vanno diffondendo su tutto il territorio nazionale. Nelle grandi città del Nord, come Milano e Torino, sono presenti tutte le mafie in circolazione e il problema che bisogna porsi è se già non si sia realizzata, almeno su alcune aree, quella signoria territoriale di cui parlavo.

A livello internazionale sono ormai un dato scontato lo sviluppo dell’accumulazione illegale e la proliferazione di gruppi di tipo mafioso, ma ciò più che il frutto della “giungla”, cioè del capitalismo senza regole e senza Stato che si svilupperebbe nei paesi ex socialisti e in quelli sottosviluppati, tesi cara ai rappresentanti della Nazioni Unite, è il prodotto delle caratteristiche dell’economia capitalistica nella fase di globalizzazione. L’aggravamento degli squilibri territoriali e dei divari sociali, la crisi dell’economia legale, i processi di finanziarizzazione, la liberalizzazione della circolazione dei capitali e la facilità di riciclaggio del capitale illegale, anche attraverso le innovazioni finanziarie, temi che sono al centro di questo convegno, compongono un contesto che rende sempre più conveniente il ricorso all’accumulazione illegale e favorisce il formarsi di mafie. Le responsabilità sono delle agenzie internazionali, la Banca mondiale, il Fondo monetario, che con le loro politiche – si pensi alle conseguenze dell’aggiustamento strutturale in interi continenti come l’America Latina – si può dire che costituiscano i più potenti fattori criminogeni del nostro tempo.

 

2. La società mafiogena

Sia che si parli delle aree originarie che di nuove aree, l’attenzione non va rivolta solo ai gruppi criminali ma bisogna guardare contestualmente al quadro sociale che produce e riproduce il fenomeno mafioso e altri fenomeni ad esso assimilabili.
Possiamo parlare di società mafiogena, intendendo per tale una società in cui:

  • violenza e illegalità sono moralmente accettate da buona parte della popolazione, sono considerate mezzi di sopravvivenza e canali per l’acquisizione di un ruolo sociale, di impossibile o difficile ottenimento per altre vie, e sono normalmente impunite;
  • l’economia legale è troppo esigua per offrire opportunità consistenti e appetibili;
  • lo Stato e le istituzioni in genere sono sentiti come mondi lontani ed estranei, chiusi e inaccessibili, se non attraverso la mediazione dei mafiosi e dei loro amici; fortemente collusi, anche perché le lotte precedenti hanno dimostrato che istituzioni e mafia erano uniti per respingere gli assalti al potere costituito. Delle lotte contro la mafia, sviluppatesi con il movimento contadino dagli ultimi anni del secolo scorso agli anni ’50, lotte dissoltesi nell’emigrazione e quasi completamente ignorate a livello nazionale, nella memoria collettiva locale è rimasta, come senso comune, l’idea dell’invincibilità della mafia, dell’immodificabilità del potere e dell’ineluttabilità della sconfitta;
  • manca una vita associata, il tessuto di società civile è troppo fragile e precario per costituire un efficace antidoto all`organizzazione mafiosa; domina la cultura dell’aggressività e del fatalismo, vige la solidarietà nell’illegalità.

Nei territori a signoria mafiosa e nella società mafiogena c’è una bassissima densità di socializzazione, manca, o è gravemente carente, una rete di strutture pubblico-istituzionali e di privato sociale che assicurino i servizi e costituiscano un fitto e articolato tessuto comunitario.
Sono crollate o sono in via di smantellamento le forme storiche della partecipazione popolare. I Fasci siciliani avevano un’organizzazione capillare nei quartieri cittadini e nei paesi e averne decretato lo scioglimento, dopo le sparatorie sui contadini dei soldati e dei campieri mafiosi, fu un colpo mortale non solo al movimento contadino ma alla nascente democrazia. Nel dopoguerra, anche se l’emigrazione aveva dissanguato la Sicilia e il Mezzogiorno, le sezioni di partiti e sindacati erano centri di maturazione democratica e sono ormai un lontano ricordo. Ci sono ancora le parrocchie e alcune di esse agiscono come luoghi di socializzazione. I centri sociali e le associazioni riescono a coinvolgere solo una piccola parte della popolazione e spesso sono privi dei mezzi necessari per poter svolgere una funzione di socializzazione.

Anche al di fuori delle aree storiche di dominio mafioso si può parlare di società mafiogena? Se non ci sono gli aspetti più antichi, legati a retaggi culturali specifici, possono riscontrarsi altri caratteri riportabili alla moderna fenomenologia dell’emarginazione che si prestano benissimo a rendere i contesti più diversi disponibili all’insediamento di mafie esterne e alla produzione di mafie indigene. Elemento decisivo è la partecipazione dei cittadini alla vita associata e alla politica. Quanto più passivi e indifferenti sono i cittadini, tanto più facili sono l’allignamento e la genesi di mafie.

 

3. Stato diffuso, politica di sicurezza e appropriazione del territorio

Una politica di sicurezza, che miri a superare l’impostazione sicuritaria, fondata sull’aggravamento della repressione penale e dell’esclusione sociale e che non voglia suscitare azioni del tipo “giustizieri della notte”, deve svilupparsi all’interno di una strategia di appropriazione del territorio e delle sue risorse, da parte delle istituzioni e dei cittadini. L’azione di contrasto nei confronti delle organizzazioni criminali e di sgretolamento del blocco sociale a egemonia mafiosa deve andare di pari passo con quella preventiva e progettuale, mirante a un profondo rinnovamento della società mafiogena.
In tale strategia un ruolo essenziale ha la democratizzazione-legalizzazione dello Stato. Senza l’interazione con lo Stato e le altre istituzioni la mafia non si sarebbe sviluppata nelle forme che conosciamo. Ho già accennato al “doppio Stato” e alla democrazia bloccata, ma lo Stato italiano non è stato soltanto complice della mafia, rendendola una criminalità istituzionalizzata, ha coltivato al suo interno le istituzioni criminali (a cominciare dai servizi segreti regolarmente deviati) che hanno fatto ricorso al delitto (le stragi di Stato regolarmente impunite) per conservare l’assetto di potere costituito, impedendo qualsiasi possibilità di ricambio.

Abbiamo avuto in Italia uno Stato centralistico, burocratico, sistemicamente criminogeno (oltre alle stragi e ai rapporti con le mafie, si pensi alla corruzione che va ben al di là della casistica delle varie Tangentopoli) e se vogliamo realmente cambiare pagina la scelta da fare non dev’essere né il presidenzialismo né un federalismo che riproduca il centralismo a livello di regioni o di macroregioni. Per fondare una democrazia reale abbiamo bisogno di uno Stato diffuso, cioè di una struttura del potere articolata, una forma di federalismo comunale, basata su un nuovo concetto di cittadinanza, fondato non sulla delega ma sull’impegno e la partecipazione. E’ possibile espellere le forme di criminalità del potere e recidere i legami delle istituzioni con la mafie solo se ogni cittadino si comporta come soggetto di democrazia e di legalità.

A tal fine bisogna elaborare e praticare un nuovo concetto di cittadinanza che ridefinisca le forme storiche (cittadinanza politica, civile, sociale) e coniughi l’educazione alla legalità, in una scuola aperta al territorio e al di fuori della scuola, con un progetto socio-economico solidaristico e un’etica comune di rinnovamento della vita quotidiana.

Nel dibattito sulle nuove politiche di sicurezza un’attenzione particolare è rivolta verso le vittime delle azioni criminali. In territori a signoria mafiosa un ruolo significativo va assegnato alle vittime delle attività mafiose, nel caso delle vittime di omicidio ai loro familiari. Tra questi ci sono personaggi ben noti sul piano nazionale, per il ruolo che hanno assunto nelle attività antimafia, come fondatori e animatori di centri ed associazioni e come protagonisti di varie iniziative, soprattutto nelle scuole. Ma accanto ad essi ci sono tantissime persone dimenticate, che spesso hanno avuto gravi problemi di sopravvivenza. Si pensi a Giuseppe Costanza, autista del giudice Falcone, casualmente scampato alla strage di Capaci, che ha dovuto sopportare umilianti “disattenzioni” da parte delle istituzioni.

Anche per chi si oppone al racket, per chi denuncia gli autori di un delitto, le condizioni di vita sono durissime. Finora non c’è una legge che regoli la posizione dei testimoni, cioè dei collaboratori di giustizia che non provengono dal mondo criminale (67, stando al rapporto del Ministero dell’Interno del settembre scorso), strappati al loro ambiente assieme ai familiari e costretti a una vita blindata. Questi problemi non possono essere totalmente delegati alle istituzioni, la società civile dovrebbe trovare le modalità adatte per farsene carico.

All’interno di una politica complessiva di appropriazione del territorio può avere un ruolo decisivo la riduzione del danno come filosofia e pratica del “realismo responsabile”, della prevenzione e della concretezza: non l’intervento occasionale, nell’ottica dell’emergenza, ma progetti di servizi integrati, coinvolgendo vari soggetti e promovendo un’azione capillare di socializzazione del territorio.

Anche su questo terreno in tutta l’Italia meridionale siamo ai primissimi passi. A Palermo solo dopo la cosiddetta “eroina killer” (12 morti da luglio a novembre ’95) si sono avviate le prime forme di riduzione del danno, con l’impiego di un’unità mobile che ha salvato molte vite. Non c’è stata una riflessione adeguata né si può dire che l’occasione sia stata colta per avviare una politica preventiva. Domina ancora la logica dell’emergenza e del pronto soccorso. Anche recentemente, per il caso dei minori sfruttati dai pedofili, si sono riscoperte per l’ennesima volta le enormi carenze di servizi, la situazione abitativa disastrosa, la mancata ricostruzione del centro storico a 53 anni dalla fine della guerra e si sono svolte una serie di riunioni per elaborare un progetto integrato sulla condizione dei minori, ma non si è riusciti ad andare avanti su questa strada. La situazione a Palermo va modificandosi: nascono centri sociali istituzionali, si comincia ad assumere assistenti sociali, ma tutto procede con estrema lentezza, i problemi si aggravano ed è difficile avviare una collaborazione tra istituzioni locali e associazionismo privato, per il prevalere di logiche personalistiche e settarie.

 

4. Giustizieri della notte e vigilanza nonviolenta

Se è da respingere l’ottica dei “giustizieri della notte”, della caccia al diverso e all’escluso, considerato come l’attentatore alla sicurezza dei cittadini perbene, bisogna porsi seriamente il problema del rapporto tra istituzioni e cittadini per un’efficace politica di sicurezza nelle aree urbane, al di là delle percezioni distorte e delle ipotesi di soluzione inaccettabili.
In Sicilia abbiamo vissuto l’esperienza dell’esercito inviato dopo le stragi a presidiare le case dei magistrati, gli uffici pubblici, i negozi dei commercianti minacciati dal racket etc. Si dice che le forze dell’ordine, liberate da compiti di vigilanza, hanno potuto dedicarsi proficuamente ai compiti istituzionali, che è diminuita la microcriminalità, che molti cittadini, per esempio commercianti e gestori di servizi, si sono sentiti rassicurati e vorrebbero che i soldati restassero per sempre. Non ho elementi per contestare le statistiche e le informazioni ufficiali, ma dubito che i soldati con il fucile spianato possano indurre sicurezza e avere un ruolo effettivo nel controllo del territorio, che non conoscono (molti di essi mettono piede in Sicilia per la prima volta).

A mio avviso occorre coniugare una dislocazione efficace delle forze dell’ordine, con presidi pluriforze in grado di controllare effettivamente il territorio (di questi presidi possono far parte anche i soldati, preventivamente attrezzati), con il coinvolgimento della società civile attraverso la gestione dei servizi ma anche in altre forme di vigilanza nonviolenta.

Un esempio: contro la pratica sempre più diffusa delle estorsioni, bisognerebbe sviluppare capillarmente il movimento antiracket, debolissimo a Palermo anche dopo l’uccisione di Libero Grassi, un esempio poco seguito in vita e anche dopo la morte. Contrariamente a quanto ci sarebbe da attendersi, stando alle dichiarazioni nel corso di interviste e convegni, SOS Impresa è soltanto una segreteria telefonica a cui è inutile lasciare messaggi, dato che non si viene richiamati, come mi è accaduto quando vi ho fatto ricorso nel tentativo di dare una mano a persone che avevano bisogno di aiuto. Non ci si meravigli poi se le denunce sono pochissime. Se non si costruiscono strutture in grado di funzionare si ottiene soltanto il risultato di aggravare la sfiducia e l’insicurezzza.

Pubblicato in M. Campedelli – L. Pepino, Droga: Le alternative possibili, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1997, pp. 138-148.