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Gli stereotipi

Gli stereotipi

Gli stereotipi sono i luoghi comuni, le idee correnti, le “certezze” consolidate, tutti quegli espedienti adoperati nella comunicazione che non trasmettono informazioni, che cioè non modificano la conoscenza che abbiamo di un determinato aspetto della realtà, ma al contrario producono disinformazione e confermano il già noto, o meglio il presunto noto, facendolo apparire come qualcosa di ovvio, di scontato, che non ha e non può avere altra possibilità di rappresentazione che quella tramandata.

Gli stereotipi assolvono soprattutto a due funzioni: la prima è una funzione rassicuratrice, di avallo della giustezza delle rappresentazione e dei comportamenti dati, cioè dei conformismi sedimentati; la seconda è quella di rimozione e demotivazione di processi di conoscenza che porterebbero alla problematizzazione e messa in crisi delle idee e dei comportamenti correnti.

La mafia, fenomeno complesso per la molteplicità dei suoi aspetti, ma su cui sono stati prodotti molti materiali improvvisati ma poca analisi, quindi poca informazione, si presta benissimo a comunicazioni inquinate da un’alta densità di stereotipi, anzi si può dire sia uno dei terreni più adatti alla loro proliferazione.

Gran parte degli stereotipi sulla mafia rispondono a una preoccupazione fondamentale: distinguere nettamente, e dare per scontato che tale distinzione sia non solo possibile ma necessaria, meglio ancora “naturale”, tra una società fondamentalmente sana e una serie di fenomeni, prima limitati alla Sicilia e a qualche altra regione meridionale, da qualche tempo sempre più diffusi (si parla di “mafia” nordamericana, marsigliese, turca, cinese, giapponese, latino-americana, russa ecc.), considerati come eventi patologici, esterni ed aggressivi rispetto alle società in cui si presentano. Si tratta di malattie, anche gravi o mortali, come il cancro, non sempre localizzabili, anzi la metafora “cancro” rimanda necessariamente alle immancabili metastasi, che non si capisce bene perché si sviluppano in un corpo integro.

Presentiamo una rassegna degli stereotipi più diffusi sulla mafia:

1. Recrudescenza, emergenza e dintorni. Uno dei termini maggiormente in uso, soprattutto sulla stampa e alla televisione, è quello di “recrudescenza” del fenomeno mafioso, impiegato ogniqualvolta, sempre più spesso, c’è un delitto addebitabile alla mafia o ad altre forme di criminalità organizzata assimilabili alla mafia (in particolare la ’ndrangheta calabrese, la camorra campana, la criminalità organizzata pugliese). Se i delitti superano un certo numero, ovviamente imprecisato, si parla di “emergenza”.

Sembrano termini innocui, ma in realtà essi sottintendono una visione riduttiva e fuorviante, secondo cui la mafia esiste quando spara. Essa sarebbe una mera fabbrica di omicidi, che “sospende le attività” tra un omicidio e l’altro. Una visione che potremmo definire di tipo “congiunturale”.

La mafia invece è un fenomeno continuativo, strutturale, che svolge molteplici attività e usa l’omicidio secondo una logica di “violenza programmata”.

Anche l’espressione “guerra di mafia” è usata ad effetto, in pratica per qualsiasi delitto all’interno degli ambienti criminali. È indubbio che il proliferare dei soggetti e gruppi criminali ha portato in molte situazioni ad una sorta di guerra permanente, ma non si può fare di ogni erba un fascio, inducendo l’immagine, se non l’aspettativa, che mafiosi e affini si distruggono con le loro stesse armi.

2. “Fatti loro“. Secondo affermazioni diffusissime “i mafiosi si uccidono tra di loro. Se ti fai i fatti tuoi non ti toccano”. La morale che c’è dietro è duplice: gli omicidi dei mafiosi sono come un fatto naturale, che non riguarda il tessuto sociale; il comportamento consigliato è il “farsi i fatti propri”, cioè la passività, l’astensione non solo dall’intervenire ma pure dal vedere e sentire.

In seguito alle uccisioni di magistrati, poliziotti, politici, giornalisti ecc. lo stereotipo si è dovuto aggiornare, ma sempre per confermare l’inazione come conformismo di massa: quelli sono del mestiere, cioè sono professionalmente chiamati a occuparsi di mafia. E la moglie di Dalla Chiesa, il portiere della casa del giudice Chinnici, la madre e i due bambini della strage di Pizzolungo? Sono “poveri innocenti che non c’entravano”: qui “innocenti” vuol dire “non addetti ai lavori”.

La mafia, quando uccide gli “innocenti”, è “disumana”, aggredisce l’intera “comunità umana”, come se uccidendo un giudice o un giornalista eliminasse un “colpevole” e desse prova di umanità.

3. Dall’Eden al disonore. Si dice: “Una volta la mafia proteggeva i deboli, rispettava i valori tradizionali, non uccideva le donne e i bambini, e neppure i magistrati e gli uomini delle forze dell’ordine, aveva un “codice d’onore”; adesso non c’è più mafia, c’è solo delinquenza”. Stereotipo tra i più diffusi, prima circolante come distinzione tra “mafia vecchia” e “mafia nuova”, rinfrescato dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, avallato anche da teorizzazioni colte sulla mafia tradizionale “in competizione per l’onore”.

Il primo punto da chiarire riguarda proprio l’onore, che gli antropologi più seri hanno definito un “idioma di stratificazione sociale”, per niente astratto, anzi strettamente collegato alle differenze di ricchezza. Pertanto il disinteresse della cosiddetta “mafia tradizionale” per questioni economiche è decisamente fuori bersaglio, perché anche studiando i “fenomeni premafiosi” è dato riscontrare la funzionalità economica di pratiche criminose.

C’è da dire poi che i “valori tradizionali” della società rurale erano usati come maschere delle attività criminali, perché la mafia è sempre stata associazione a delinquere e le dichiarazioni di Buscetta sotto tale profilo sono soltanto frottole, come le autodifese di mafiosi americani che parlano di un’antica e rispettabile “tradition”, calpestata dalle “nuove leve”.

Le trasformazioni della mafia ci sono state, ma non nel senso che prima era “associazione di mutuo soccorso” e adesso, o da qualche tempo, è associazione criminale. Si tratta di modificazioni, aggiornamenti, adattamenti, avvenuti nel tempo per adeguarsi a compiti illegali-legali sempre più complessi e a contesti anch’essi complessificatisi, e sempre nell’ottica che intreccia continuità e innovazione.

Il conflitto generazionale nei e tra i gruppi mafiosi c’è sempre stato, come lotta per il monopolio territoriale della violenza, dove i gruppi consolidati si presentano come rappresentanti-garanti degli interessi collettivi minacciati e accusano i nuovi di violenze, abusi, prevaricazioni, dimenticando il proprio recente passato. Quanto alle uccisioni di donne e bambini non sono neppure queste delle novità. Non per caso abbiamo dedicato la ricerca sull’omicidio a Palermo, pubblicata nel volume La violenza programmata, ai bambini uccisi dalla mafia: Giuseppe Letizia, ucciso nel 1948 con un’iniezione dal medico-capomafia Michele Navarra, perché aveva visto Luciano Liggio e altri uccidere il sindacalista Placido Rizzotto; Giuseppina Savoca, uccisa nel 1959 in uno scontro tra mafiosi avvenuto per strada: Paolino Riccobono ucciso nel 1963 perché rampollo di una famiglia mafiosa; Giuseppe e Salvatore Asta, i gemelli di Trapani uccisi nel 1985 nell’attentato al giudice Palermo; Claudio Domino ucciso nel 1986. Vittime di una violenza che colpisce nel mucchio o mirata.

4. Un fossile subculturale e un prodotto dell’arretratezza. Si tratta di uno stereotipo diffuso soprattutto tra sociologi e insegnanti, secondo cui la mafia è un fenomeno arcaico, un residuo feudale, frutto del sottosviluppo, dell’arretratezza o di una modernizzazione incompiuta.

Nella versione sociologica, dovuta soprattutto al sociologo tedesco Henner Hess, il fenomeno mafioso sarebbe il prodotto del conflitto fra Stato burocratico e agire subculturale, in un contesto dove l’uso della forza non sia monopolio dello Stato. Nell’inefficienza dello Stato, tollerata e incoraggiata a tutti i livelli, il mafioso si pone come unico mediatore fra la subcultura della comunità e il potere centrale e come istituto di auto-soccorso della comunità stessa. Non appena lo Stato riesce a fare accettare le proprie norme, diminuendo la necessità di una intermediazione fra comunità contadine e Stato, al mafioso resta solo il ruolo di comune delinquente. La mafia sarebbe quindi un relitto della storia, legittimata dalla persistenza di una struttura sociale arcaica. Questo modello non ha colto aspetti fondamentali, come l’interazione tra mafia e istituzioni, la conflittualità tra movimento contadino e mafia, la duttilità dimostrata dalla mafia nell’adattarsi a contesti molto diversi da quelli originari, la sua capacità di integrarsi in società complesse e coniugare elementi di arretratezza con altri di modernità.

Per quanto riguarda l’uso del termine “subcultura” bisogna tener presente che esso indica o una cultura (in senso antropologico, cioè come complesso di idee, modi di pensare e di essere, linguaggi, stili di vita, comportamenti) specifica di un dato settore o segmento o strato di una società (una comunità locale, un’associazione, una categoria professionale, una minoranza etnica, un’azienda ecc.) o la cultura di una comunità marginale e deviante, come per esempio un’organizzazione malavitosa.

Nel primo significato il termine “subcultura” è troppo generico, nel secondo mal si presta a definire un fenomeno come la mafia, che non è stato e non è un fenomeno marginale, classificabile tra le molteplici forme di devianza dei soggetti emarginati.

In realtà la mafia è un fenomeno che ha condizionato la vita sociale e i suoi codici comportamentali e le sue attività intrecciano continuità e innovazione, mostrano una grande capacità di adattamento, per cui il termine più adeguato sarebbe quello di “transcultura”, intesa come percorso trasversale che raccoglie elementi di varie culture, per cui possono convivere ed alimentarsi funzionalmente aspetti arcaici come la signoria territoriale e aspetti modernissimi come le attività finanziarie.

5. La mafia antistato. “Mafia e terrorismo sono forme di eversione, attaccano lo Stato democratico“. Sono le interpretazioni circolate dopo i grandi delitti mafiosi, dal delitto Dalla Chiesa alle stragi del 1992 e del 1993. La mafia viene considerata come una forma di contropotere criminale, una sorta di antistato, qualcosa di simile al terrorismo eversivo. Si mettono in un unico calderone fenomeni diversissimi.

La mafia è un fenomeno insieme esterno (per il suo carattere di associazione criminale) e interno alle istituzioni (per il suo ruolo politico, le sue funzioni di controllo sociale e per le sue attività economiche, in parte legate al denaro pubblico). Inoltre, non c’è stato il terrorismo, ma i terrorismi, punito quello “rosso” e impunito quello “nero”. La mafia ha qualcosa in comune con quest’ultimo, condividendone la natura di violenza privata di classi dirigenti, e risulta esserci state azioni comuni tra mafiosi e neofascisti, come la strage sul rapido 904 Napoli-Milano del 23 dicembre 1984, con 15 morti e più di 200 feriti, ma la differenza di fondo è data dalla natura strutturale, continuativa e più complessa del fenomeno mafioso, mentre i terrorismi, nella forma italiana, hanno per lo più natura congiunturale, manifestandosi in periodi di particolare tensione, come alla fine degli anni ’60 e negli anni ’70 e ’80.

6. Neosicilianismo e razzismo. Qualche giornale siciliano usa ripetere che la “mafia ormai è un fatto nazionale e internazionale”, cogliendo solo una parte della realtà contemporanea, ignorando che ciò non esclude che rimangono perfettamente in piedi le roccaforti locali, con il proposito più o meno celato di dire “cercate altrove, non qui”.

Siamo di fronte a un’ennesima incarnazione del sicilianismo, nel senso che le reazioni del tipo “vogliono criminalizzare la Sicilia”, o l’intero Mezzogiorno, sono ancora molto forti.

Una forma in cui si manifesta il sicilianismo e il meridionalismo mafiofilo può essere il collegamento che viene fatto tra mafia e sottosviluppo, inteso come mancanza di prospettive dovuta alla carenza di risorse, per cui si chiede allo Stato di aprire il rubinetto della spesa pubblica. In realtà la mafia cavalca sia le occasioni offerte dal sottosviluppo che quelle dello sviluppo e il problema del sottosviluppo meridionale non è tanto la quantità di risorse ma il controllo sulle risorse, come vicende vecchie, recenti e recentissime, a cominciare dai terremoti, dimostrano ampiamente.

Sotterranee o in superficie, permangono nel resto d’Italia visioni secondo cui mafia, camorra e ’ndrangheta sono specialità regionali; si pensa e si dice, o si pensa e non si dice, che siciliani, calabresi e campani, meridionali in genere “sono fatti così, e non c’è niente da fare”, come i sardi sono stati e saranno sempre banditi e sequestratori.

In tale visione non solo non hanno posto le lotte che ci sono state contro la mafia, e non ci si chiede perché non hanno avuto successo, ma non si considera neppure che se il “continente” offre possibilità consistenti a soggetti criminali ci deve essere qualche ragione.

Negli Stati Uniti, per avallare la visione del corpo sano aggredito da virus esterni, si è teorizzata l’”alien conspiracy”, il complotto straniero, mentre altri, meno nazionalisti e più attenti a studiare la realtà com’è, hanno parlato del crimine come “american way of life”.

7. Lo stereotipo del 2000: la Piovra. Negli ultimi anni il sistema mediale ha mandato in onda un’immagine che si presenta sempre di più con i connotati di stereotipo del 2000: la piovra universale, la mafia-mondo, il Male Assoluto.

Nell’infinito sceneggiato televisivo si confrontano mafiosi onnipresenti e onnipotenti e l’eroe positivo, il commissario Cattani o il suo erede. Abbiamo così uno scontro tra due violenze: quella mafiosa e quella poliziesca, come nelle vecchia filmografia gangsteristica. Lo spettatore “ben nato” farà ovviamente il “tifo” per il commissario, ma comunque può restare solo a guardare, perché non c’è spazio per l’azione collettiva. Anzi, si può dire che essa venga esclusa perché l’immagine finale che consegnano le piovre non stop è quella di un male invincibile, che è ormai penetrato dappertutto. In sintesi: “tutto è mafia” e non c’è niente da fare. E nessuno si sogna di imitare l’eroico protagonista, che sopravvive così a lungo solo per esigenze di copione.

A questa visione di una mafia planetaria non va certo contrapposta la “nostalgia per la buona mafia di un tempo”, una specie di “mafia ruspante” contenta del suo orizzonte paesano, che non è mai esistita, ma un’analisi aggiornata del fenomeno mafioso e degli altri fenomeni di criminalità organizzata in tutte le loro articolazioni, che miri ad individuare gli strumenti e le forme di un’azione non solo repressiva ma soprattutto preventiva che veda impegnati non singoli eroi ma gran parte del corpo sociale.

Fonti: Umberto Santino, Introduzione allo studio del fenomeno mafioso; Amelia Crisantino, Mafia: la fabbrica degli stereotipi, in A. Cavadi (a cura di), A scuola di antimafia, Centro Impastato, Palermo 1994, pp. 15-16, 48-56.

L’immaginario mafioso. Cosa dicono i mafiosi di se stessi…

Ascoltiamo le voci che arrivano dall’interno del mondo mafioso ed esploriamo quello che possiamo definire l’”immaginario mafioso”, cioè le rappresentazioni che i mafiosi danno di se stessi e del fenomeno mafioso.

La mafia non ha codici scritti e una delle regole fondamentali è l’omertà, cioè la legge del silenzio, per cui si nega di essere mafiosi e si nega l’esistenza stessa della mafia. Ma da qualche tempo la mafia ha scoperto l’importanza dei mass media e alcuni mafiosi, non classificabili tra i “pentiti”, cioè tra i collaboratori di giustizia, hanno dettato le loro biografie a giornalisti e professionisti dall’”autobiografia per conto terzi”.

Le autobiografie dei mafiosi si può dire che costituiscano un genere letterario particolare, capace di conquistare un notevole numero di persone. All’interno del genere potremmo distinguere due tipi di prodotto: l’autobiografia-confessione e l’autobiografia-apologia. Il carattere apologetico è comune anche al primo tipo, ma in questo si combina con una serie di confessioni di atti delittuosi, commessi dallo stesso autore o da altri.

Ora esamineremo due prototipi: l’autobiografia di Nick Gentile, che può considerarsi una specie di pioniere, essendo stata pubblicata nel 1963, e quella di Joe Bonanno, che ha avuto un notevole successo.

L’autobiografia di Nick Gentile

A metà strada tra l’apologia della “sua” mafia e di se stesso e il “testamento spirituale” rivolto soprattutto ai giovani perché “mai più ripetano esperienze come quelle da me fatte”, l’autobiografia di Nick Gentile, confezionata con l’aiuto del giornalista Felice Chilanti, ha il merito, per il tempo in cui è stata scritta, ma soprattutto per quello che verrà scritto, detto e pubblicato dopo, di dire chiaramente, o di lasciar capire abbastanza facilmente, alcune cose essenziali, costitutive del fenomeno mafioso. In primo luogo la violenza. Nel libro gli episodi di violenza sono frequentissimi e Gentile non si discosta dal cliché che vede l’atto di violenza come amministrazione di giustizia: “La giustizia così come io ho imparato ad intenderla, basata sul diritto naturale e sul buon senso” (p.38).

Diritto naturale e buon senso vogliono dire l’interesse della “famiglia” e famiglia sta per mafia. Siamo all’immagine della mafia giustiziera, tanto cara ai mafiosi ma abbastanza diffusa nell’ambiente mafiogeno, che ha come fonte del suo mito eziologico un “romanzo popolare” come I Beati Paoli: non potendo attendersi giustizia dall’autorità costituita, non c’è altra strada che farsela da sé e così sarebbero nate sette segrete che agiscono come istituzioni di autodifesa, che comminano ed eseguono punizioni esemplari10.

Interessanti, e per certi versi nuove, nel senso che non mirano a nessuna attenuazione in funzione apologetica, le rivelazioni di Gentile sui meccanismi che innescano la violenza mafiosa: essi sono sempre, in modo più o meno diretto, improntati alla logica della lotta per il potere interno alle organizzazioni mafiose. Tutti i delitti sono, più o meno, “questioni di potere”. E per arrivare al potere bisogna avere una carica di violenza superiore agli altri: “Tutti i capi sono feroci. Se non si è feroci non si diventa capi”. Solo lui sarebbe diverso: “Io volevo la giustizia” (p. 73). Anche se il leitmotiv dell’autobiografia è la testimonianza di un’attività intesa continuamente a mettere pace, a consigliare moderazione, la violenza risulta la costante del comportamento mafioso: uccidere e morire ammazzati sono la norma.

Un’altra cosa detta chiaramente da Gentile, che però non vuole approfondire l’argomento, riguarda il rapporto tra mafiosi e politici, tanto in Sicilia che negli Stati Uniti, dove ha vissuto per molti anni. Gentile è stato capoelettore di liberali e di democristiani, e non lo nega. Racconta di mafiosi che sono in ottimi rapporti con sindaci di città americane. Parla della sua campagna per la monarchia nel referendum del 1946 e di un suo incontro con re Umberto. Si sofferma sul ruolo che ha avuto il gesuita Padre Rosa, direttore di Civiltà cattolica, suo vecchio amico, nel fargli rilasciare il passaporto in aperta violazione della legge. Descrive i suoi incontri col il commissario capo di Palermo che lo tratta con molto rispetto chiamandolo “Caro Don Cola” e gli stringe la mano quando un agente americano lo definisce “nemico pubblico n. 1” degli Stati Uniti. Le memorie di Nick Gentile non insegnano niente “di buono e di giusto”, come pretenderebbe, ma almeno la mafia, nonostante gli accenni a un’originaria purezza e a un successiva, parziale, degenerazione, viene presentata con sufficiente chiarezza per quel che è: una fabbrica di violenza; i suoi affari vengono illustrati per quello che sono, dalla produzione degli alcoolici durante il proibizionismo alle case di gioco e al traffico di stupefacenti. Da buon siciliano solo una cosa Gentile considera infamante: lo sfruttamento della prostituzione. Altri possono averlo fatto, ma lui no. Senza dire poi che nel libro di Gentile si trovano informazioni abbastanza dettagliate sull’organizzazione mafiosa, che più di vent’anni dopo sono state riprese da Buscetta e gli stessi magistrati hanno presentato come grandi scoperte.

Fonti: Nick Gentile, Vita di capomafia, Editori Riuniti, Roma 1963; Umberto Santino, Il carretto e la piovra. Mafia e immaginario collettivo, in Idem, La borghesia mafiosa. Materiali di un percorso di analisi, Centro Impastato, Palermo 1994, pp. 329-331.

L’autobiografia di Joe Bonanno

Tutta in chiave apologetica è invece l’autobiografia di Joe Bonanno. Non scrive per confessare crimini ma per “confessarsi” mafioso, cioè per dichiararsi uomo della Tradizione con la t maiuscola, come i santi confessori confessano la loro fede. Non per caso comincia con una citazione di Tucidide e termina con un’altra di Cavour e usa per la titolazione delle parti in cui il libro è diviso e un po’ dappertutto lungo il corso della narrazione citazioni dotte, dai poemi omerici a Dostojevskij, da Machiavelli a Mark Twain.

La chiave fondamentale del libro è il concetto di Tradizione: “un modo di vivere particolare e caratteristico” dei siciliani, uno stile di vita che ha permesso loro di sopravvivere in una situazione di continuo assedio da parte di dominatori stranieri, che consiste nel rinchiudersi nell’ambito familiare e nel crearsi un sistema giudiziario parallelo a quello ufficiale. Questa Tradizione è l’essenza della mafia, anzi è la mafia stessa, con la sua struttura familistica e il suo sistema sanzionatorio. Il mito mafiologico si perde nella notte dei tempi. Sarebbe stata la madre della giovane donna violentata dal soldato francese Droetto, episodio che si vuole al centro dei Vespri siciliani, a usare per la prima volta la parola “mafia”, secondo questa ricostruzione fantasiosa: “La madre, terrorizzata, correva per le strade, gridando Ma fia, Ma fia! che in siciliano significa “mia figlia, mia figlia”. Il fidanzato della giovane donna scovò Droetto e lo accoltellò. Ma il grido della madre fu ripetuto da altri, risuonò sulle strade, fece il giro di Palermo e di tutta la Sicilia. Ma fia diventò ben presto la parola d’ordine del movimento di resistenza, che la adottò come sigla per “Morte Alla Francia Italia Anela”” (pp. 35 s.). Vera o meno questa versione dei Vespri non cambia molto: “L’importanza dell’episodio non sta nella sua veridicità, bensì nell’esemplificazione che esso fornisce dello spirito siciliano. Da esso traspaiono il sentimento dell’onore, della giustizia e della dignità personale” (p. 37).

Il periodo aureo della Tradizione verrà molto dopo: “gli anni tra l’unità d’Italia e la seconda guerra mondiale vengono descritti come un’età dell’oro: i nuovi governanti erano pronti a tollerare e a raggiungere degli accordi con gente della mia Tradizione, in cambio di un appoggio politico… Gli uomini della mia Tradizione come gruppo costituivano una sorta di governo ombra che agiva parallelamente al governo ufficiale… In teoria era il re d’Italia che governava l’isola, ma in pratica erano gli uomini della mia Tradizione che avevano in pugno la situazione” (p. 37). Gli uomini d’onore “erano essenziali per la società siciliana”: erano intermediari, garanti, arbitri, avevano amici nei posti giusti, “qualche aggancio anche nel mondo della malavita”, ma solo al fine di recuperare gli oggetti rubati, “di solito si servivano della diplomazia, della furbizia o della persuasione in via amichevole per ottenere i loro scopi, ma talvolta ricorrevano anche alla violenza”” (p. 39), ma sempre per fini nobili e generosi.

Giunto negli Stati Uniti nel 1925 Bonanno s’inserisce nella comunità castellammarese, cioè degli emigrati provenienti dal suo paese natale (Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani): una comunità molto unita, che reagisce all’isolamento e alla discriminazione in cui si trovano i siciliani con la cooperazione reciproca e facendo perno sulla Famiglia: “per Famiglia (con la effe maiuscola per distinguerla dal nucleo familiare vero e proprio) in siciliano si’intende un gruppo di persone – sia amici che parenti di sangue – accomunate dalla fiducia reciproca” (p. 60). Cioè si intende né più né meno che mafia.

Bonanno non ignora gli episodi di violenza che costellarono la cosiddetta “guerra castellammarese” degli anni ’20, ma essa viene presentata come una “guerra di liberazione”: Masseria, il vecchio capo, vuole schiavizzare gli altri; Maranzano, il suo antagonista, è il patriarca che difende la libertà dei membri della sua comunità. Gli omicidi non sono assassinii ma atti necessari di una guerra tra stati. Dopo la morte di Maranzano Bonanno diventa capo della Famiglia, ma capo vuol dire semplicemente Padre, il detentore dell’autorità proveniente dalla Tradizione. Se lui si terrà per sempre fedele a questa Tradizione, arricchendosi con gli alcoolici, non praticherà mai lo sfruttamento della prostituzione né il traffico di droga, come faranno i rinnegati come Lucky Luciano: un uomo americanizzato, che persegue la ricchezza e il successo infrangendo le vecchie regole. L’americanizzazione sarà la rovina della Tradizione e porterà al tracollo il mondo degli uomini d’onore. L’individualismo, la corsa all’arricchimento con tutti i mezzi sgretolano i valori tramandati di padre in figlio, ma Bonanno cercherà di resistere al nuovo corso e negli anni ’50 riuscirà ad esercitare un ruolo di pacificatore: la “pax Bonanno” regna tra le famiglie mafiose americane e quale occasione migliore per celebrare questa nuova età dell’oro che una festa di matrimonio? Al ricevimento per le nozze del figlio Salvatore con Rosalia Profaci, anch’essa figlia di boss., all’hotel Astor di Manhattan ci sono tremila persone, tra cui uomini d’affari, politici, ecclesiastici, il direttore del giornale Il Progresso Italo-Americano e tanti altri.

Nell’agosto del ’57 Bonanno viene in Italia, per l’inaugurazione di un orfanotrofio in Sicilia (neppure una parola sul summit dell’ottobre dello stesso anno all’hotel delle Palme di Palermo, una sorta di Yalta del traffico di droga). All’aeroporto di Fiumicino riceve un’accoglienza trionfale, c’è pure Bernardo Mattarella, anche lui castellammarese, democristiano e più volte ministro.

La pax Bonanno durerà poco e il vecchio boss si farà sempre più da parte: non ha niente da spartire con la “nuova mafia” sempre più legata al traffico di droga (mentre le fonti ufficiali dicono che proprio la sua “famiglia” ha un ruolo egemone proprio in quel genere di attività). La Tradizione è finita già negli anni ’60 e ’70 e Bonanno va in pensione. Vorrebbe finire i suoi giorni in tranquillità ma invece comincia la “Grande Inquisizione” contro di lui. La sua autobiografia è il congedo dal mondo di un uomo d’altri tempi: “In questo libro dichiaro la morte della mia Tradizione in America. Il modo di vivere che io e i miei antenati siciliani conducevano è morto. Quello che gli americani chiamano “Mafia” è soltanto un prodotto degenerato di quello stile di vita” (p. 446). Bonanno sa che il pubblico americano è “affascinato dal fenomeno “Mafia””, e così spiega il successo di un libro come Il Padrino: “Esso ritraeva delle persone con un forte senso della famiglia che cercavano di sopravvivere in un mondo crudele. Penso che gli americani siano molto attratti da questo genere di storie perché stanno assistendo al disgregamento della famiglia e dell’onore nella loro cultura… Credo che gli americani rimpiangano i bei vecchi tempi dei pionieri in cui i confronti avvenivano faccia a faccia. Inoltre penso che gli americani sentano la mancanza della famiglia e abbiano difficoltà a trovare qualcosa che la sostituisca. Gli americani sognano l’unione. Ma soprattutto… gli americani sognano un “padre”” (p. 448).

Il successo della sua autobiografia, pubblicata in Italia da Mondadori, può significare che questo genere di prodotti non incarna solo il sogno degli americani.

Questa visione della mafia è al centro anche delle rivelazioni di Buscetta, che gli stessi magistrati di Palermo definiscono “uomo d’onore di stampo antico”, anche se non arrivano a seguirlo nell’aperta apologia della “sua” mafia, che avrebbe avuto come scopo “proteggere i deboli ed eliminare le soverchierie” e sarebbe stata snaturata dal traffico di droga, di cui proprio Buscetta è stato uno dei pionieri.

Fonti: Joe Bonanno con S. Lalli, Uomo d’onore, Mondadori, Milano, 1985; Umberto Santino, Il carretto e la piovra. Mafia e immaginario collettivo, in Idem, La borghesia mafiosa. Materiali di un percorso di analisi, Centro Impastato, Palermo 1994, pp. 331-334.