loading...

I fenomeni mafiosi nelle ricerche del Centro Impastato

Vincenzo Scalia

I FENOMENI MAFIOSI NELLE RICERCHE DEL CENTRO IMPASTATO:
29 ANNI DI TESTIMONIANZA E RIGORE SCIENTIFICO

Premessa

In questo saggio proporrò di studiare il fenomeno mafioso a partire dall’adozione del “paradigma della complessità” elaborato dal centro di documentazione Giuseppe Impastato, in particolare dal suo esponente principale, Umberto Santino. La mia proposta verrà formulata in relazione ai limiti delle diverse spiegazioni del fenomeno mafioso che si sono affermate negli ultimi anni, che, per quanto possano accampare un certo grado di scientificità, si limitano a leggere la Mafia cercando di definirla a partire da punti di vista parziali, che mirano a mettere in risalto soltanto alcuni aspetti particolari tra quelli che caratterizzano l’attività e l’identità del fenomeno mafioso (protezione, power syndicate, enterprise syndicate). Le interpretazioni che scaturiscono da questi approcci, primo tra tutti quello di Diego Gambetta1, hanno il difetto di fornire una lettura riduttiva del fenomeno mafioso, in quanto non riescono a cogliere l’articolazione e la complessità che stanno alla base della forza della mafia, e che le permettono di radicarsi e di svilupparsi sopravvivendo a trasformazioni storico – sociali significative e ad acquistare un peso decisivo nella composizione degli equilibri politici ed economici, nonché nelle trasformazioni culturali, che di volta in volta si delineano all’interno della società siciliana.
Il Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato è attivo a Palermo sia nelle vesti di centro di analisi scientifica dei fenomeni mafiosi, che come punto di riferimento per le battaglie civili e politiche condotte da diversi soggetti impegnati nel movimento antimafia. Sorto nel contesto della protesta civile antimafia della Palermo degli anni settanta, il Centro porta non a caso il nome di uno dei protagonisti di questa stagione, che negli ultimi anni è assurto alla ribalta mediatica in una tardiva rivalutazione della sua figura. Nel corso degli anni successivi, il Centro ha diversificato le proprie attività, realizzando diverse ricerche scientifiche sui fenomeni mafiosi, sia singolarmente che in collaborazione con vari istituti universitari e di ricerca italiani ed internazionali. Nel corso delle ricerche si è venuto delineando e rafforzando il “paradigma della complessità”, o lo schema interpretativo che Umberto Santino propone in vari scritti. Esso definisce la mafia come

un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l’unica è Cosa Nostra, che agiscono all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’acquisizione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale.2

In questo saggio intendo sostenere la validità scientifica del paradigma della complessità. A questo scopo sarà necessario analizzare nei dettagli le sue articolazioni, e, allo stesso tempo, mostrare i limiti che presentano le altre interpretazioni del fenomeno mafioso. Per questa ragione, questo lavoro si dividerà in due parti. Nella prima, saranno passate in rassegna alcune teorie della mafia, in particolare quelle di origine sociologica e criminologica: ci soffermeremo sulla tesi sostenuta da Diego Gambetta, che definisce la mafia come “industria della protezione privata”3,quella di Pino Arlacchi, che vede nelle attività mafiose connesse principalmente al traffico di stupefacenti come il sintomo di un mutamento strutturale all’interno della criminalità organizzata, diventata “imprenditrice”4, quella di Raimondo Catanzaro, che analizza la Mafia, sulla falsariga di Block, come un’ organizzazione criminale che svolge sia il ruolo di power syndicate, organizzazione criminale dedita principalmente al controllo militare del territorio in cui opera, che quello di enterprise syndicate, o gruppo dedito principalmente a promuovere traffici illegali.5  Mostrerò come questi paradigmi, pur presentando in misura maggiore o minore spunti interessanti per analizzare il fenomeno mafioso, peccano di riduzionismo nella misura in cui danno peso soprattutto ad un aspetto della Mafia, sia esso rintracciabile nella società e nella cultura siciliana, nel tipo di organizzazione criminale o nella natura dei traffici a cui la mafia è dedita. Nell’analisi di Gambetta, mostrerò la notevole carenza di riscontri empirici che vizia il suo paradigma, portandolo a confondere la natura, le finalità e le forme della protezione. Mostrerò come questa lacuna sia determinata dalla limitatezza dello schema interpretativo gambettiano, imperniato sul concetto di fiducia. Dopo una breve critica della tesi di Pino Arlacchi6,che intravede una rottura netta nell’organizzazione mafiosa in seguito all’accrescimento dei profitti dovuto al traffico degli stupefacenti, passerò in rassegna la tesi di Raimondo Catanzaro. Questa, pur essendo più articolata e documentata di altre, si limita però all’aspetto economico – organizzativo del fenomeno mafioso, che viene confinato nell’underworld criminale e trascurato nei suoi intrecci con la società ufficiale e la politica, nonché nelle sue implicazioni culturali. Nello svolgimento della mia analisi, esporrò le mie critiche, integrandole con quelle di Umberto Santino. Quindi esporrò l’interpretazione del Centro Impastato e la proposta del “paradigma della complessità” che Santino avanza. Questa diversa ipotesi di lettura, suggerisce di cogliere la mafia come un fenomeno articolato, che trae la sua forza dalla sua capacità di radicarsi nell’economia, nella politica, nella cultura siciliana muovendo dalla peculiarità dei rapporti di produzione che esistono nell’isola, caratterizzati dall’intreccio di elementi di arretratezza e di modernità. E’ a partire da questa precondizione che si forma la cosiddetta “borghesia mafiosa”, capace non soltanto di realizzare profitti e di assumere posizioni di potere, ma anche di creare un blocco sociale relativamente omogeneo che riesce a produrre e ad allargare un consenso sociale diffuso. La forza della mafia sta, secondo la lettura di Santino, nella sua capacità di saldare elementi di continuità ed elementi di trasformazione, nella sua capacità di porsi come soggetto politico e referente culturale, in grado di organizzare un proprio “modo di produzione.” Mostrerò come questa lettura, oltre a permetterci di cogliere la mafia sotto diverse angolazioni, riesce anche a sgombrare il campo da luoghi comuni quali quello dell’emergenza, quello della mafia nello Stato o della mafia come antistato.


Diego Gambetta e la protezione immaginata

All’inizio degli anni novanta, Diego Gambetta, studioso piemontese, ma da anni attivo in Inghilterra, sull’onda del rinnovato interesse suscitato dalla mafia in seguito alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, decide di inserirsi nel dibattito scientifico relativo alla natura della mafia. La sua lettura del fenomeno mafioso all’inizio suscita gli interessi degli addetti ai lavori per il suo carattere di originalità. Gambetta è innanzitutto uno studioso di teorie della scelta razionale, in particolare problematizza la dimensione relativa alla fiducia.Gli attori razionali che operano nel mercato, secondo Gambetta, non possono fare a meno di fidarsi reciprocamente, sia in modo immediato che attraverso la mediazione di forze esterne, al fine di condurre regolarmente le loro transazioni commerciali. Partendo da questo presupposto, lo studioso piemontese comincia ad analizzare la mafia siciliana, che definisce come un’industria che produce, promuove e vende protezione privata.8 Questa definizione è immediatamente indicativa delle convinzioni di Gambetta e della tesi che sviluppa nel corso della sua opera. La mafia per Gambetta è uno dei tanti attori economici che opera all’interno del mercato. A differenza di altri attori economici, specializzati nella vendita di beni e servizi tradizionali, la mafia costruisce la sua fortuna in relazione al fatto di vendere un bene atipico, quello della protezione, che si manifesta attraverso l’esercizio della protezione nei confronti di uno o più soggetti attivi negli scambi commerciali. La protezione si estenderebbe poi ad altri settori e alla società tutta. Secondo Gambetta, il mercato della protezione si crea in relazione a fattori “endogeni”9, primo tra tutti quello della mancanza di fiducia all’interno della società siciliana. La dominazione spagnola, distruggendo la fede pubblica, avrebbe deteriorato il tessuto sociale siciliano, riducendo alla fede privata le forme di convivenza intersoggettive. Nella società siciliana dell’epoca, basata, in particolare nella parte occidentale dell’Isola, sul latifondo, il deperimento delle fede pubblica genera l’incontro tra la domanda e l’offerta di protezione privata. Sul primo versante, troviamo gli attori del mercato fondiario e agrario, che necessitano di condizioni di equilibrio che assicurino il riprodursi delle condizioni che rendono possibile la produzione e la commercializzazione dei prodotti di un’economia agraria. Sul secondo versante operano diversi soggetti: ex poliziotti, ex soldati, bande di irregolari, che operano in contesti territoriali limitati e si propongono di supplire alla carenza denotata dalla società siciliana dell’epoca.10 La mancanza di fede pubblica avrebbe permesso alla mafia di consolidarsi e svilupparsi, sopravvivendo all’affermazione dello Stato moderno, dello Stato unitario, dell’economia di mercato. La mafia di Gambetta segue un percorso lineare, che la porta ad uno sviluppo costante grazie al fatto di specializzarsi in un settore specifico, che monopolizza e plasma secondo i propri interessi e le proprie attitudini. Secondo la tesi di Gambetta, tutte le altre attività svolte dalla mafia, ad esempio nel campo politico e in quello economico, sarebbero secondarie, o comunque legate alla possibilità di organizzare ed esercitare la vendita di protezione, attività che la mafia, alla stregua di una qualunque azienda, promuove e svolge attraverso l’uso di un marchio.11
La tesi di Gambetta, per quanto sia dotata di una certa coerenza logica, denota evidenti lacune. In primo luogo, lo stesso autore, nei punti critici della sua esposizione si trova spesso messo alle corde, trovandosi costretto ad ammettere che le sue tesi non dispongono di sufficiente evidenza empirica per essere dimostrate.12 Oltre ad essere, per dirla con le parole di Umberto Santino, il frutto della “volontà di costruire con l’assemblaggio di materiali vari a sostegno di una tesi precostituita”13, lo studio di Gambetta presenta il difetto congenito di impantanarsi nel tentativo di spiegare la mafia seguendo una direzione univoca, che oltre a non dare conto della reale complessità storica e sociale del fenomeno mafioso, ne fraintende le origini e le trasformazioni nella misura in cui si fonda sul principale luogo comune relativo alla storia siciliana. Quando analizza la storia del latifondo, e qui entriamo nella seconda obiezione, Gambetta afferma che la figura del mafioso non equivale a quella del gabelloto, al massimo la precede.14 Su questo punto, da Franchetti15, alle relazioni delle Commissioni Antimafia, agli atti di accusa dei vari processi16, , Gambetta avrebbe potuto trovare un numero sufficiente di smentite alla sua tesi. I principali boss protagonisti della guerra di mafia degli anni settanta, come Stefano Bontade, Totuccio Inzerillo, Michele Greco, Luciano Liggio17, erano gabelloti di terreni situati nella Conca d’Oro o a Corleone, sui quali esercitavano sia il controllo militare che quello delle transazioni economiche e commerciali. Questo tipo di attività diventano secondarie nel secondo dopoguerra, coi profitti derivati da attività legali e illegali.
In terzo luogo, la necessità di dimostrare ad ogni costo che la mafia sia soltanto un’industria della protezione privata, costringe Gambetta ad altre affermazioni prive di valenza empirica, che danno una visione distorta e riduttiva del fenomeno. Gambetta vede la mafia come protettrice dei traffici di droga, degli appalti pubblici, del mercato dei voti durante le elezioni. Così facendo riduce la mafia all’esercizio di un’unica attività, e non riesce a cogliere l’importanza che hanno rivestito per la crescita di questa organizzazione criminale l’esercizio di attività in diversi campi: il flusso di denaro pubblico del dopoguerra18, la moltiplicazione degli appalti nel campo dell’edilizia e dei lavori pubblici. Inoltre trascura il ruolo primario svolto dalla mafia nella strutturazione e riproduzione degli equilibri politici determinatisi in Sicilia dopo il 1947, e la loro importanza nel panorama politico nazionale.
In quarto luogo, focalizzando la propria analisi sulla protezione, Gambetta giunge a conclusioni che, oltre ad essere smentite empiricamente, sono anche discutibili sul piano delle reali conseguenze che il fenomeno mafioso comporta. La protezione esercitata sugli operatori economici, ad esempio, creerebbe per Gambetta una “esternalità positiva”19, cioè tutelerebbe i protetti da inconvenienti quali furti e truffe. Per questa ragione, non si tratterebbe di vera e propria estorsione, ma di una prestazione di cui beneficerebbero anche quelli che non lo richiedono. L’uso della violenza non sarebbe per Gambetta legato al ricatto cui la mafia sottopone i suoi “protetti”, bensì alla richiesta (legittima?) di pagamento di una prestazione fruita ma non riconosciuta. Questa tesi, oltre ad attirarsi da alcuni studiosi l’accusa di essere “filomafiosa”20, sbatte ancora una volta contro la realtà di omicidi efferati, come quello dell’imprenditore Libero Grassi, ucciso a Palermo nel 1992 perché si rifiutava di pagare il pizzo, nonché contro i movimenti antiracket fioriti in Sicilia negli ultimi anni.
Infine, ci sembra che Gambetta, fondando la sua tesi sull’assunto che il bisogno di protezione sia il frutto della sfiducia che permea la società siciliana, si sia fondato sul luogo comune, mai troppo logoro, dei siciliani, fatalisti, rassegnati e diffidenti. Per obiettare a questa presupposizione, vogliamo fare nostre le parole di Umberto Santino21:

La stessa idea di Mezzogiorno e Sicilia che è alla base di queste visioni è uno stereotipo. Ma è poi vero che in Sicilia non ci sia cooperazione e non ci sia fiducia? I movimenti di massa che si sono sviluppati periodicamente in Sicilia (dal movimento contadino all’attuale movimento antimafia e antiracket), non sono un esempio di cooperazione e non hanno alla base una relazione di fiducia tra coloro che vi partecipano? I giudici più impegnati nell’azione antimafia, sono nati in Sicilia, si sono formati in Sicilia da autodidatti su terreni, come le indagini bancarie, quasi totalmente ignorati altrove (…)Le sconfitte dei movimenti, l’isolamento dei magistrati, lo smantellamento del pool antimafia, si debbono a ragioni che vanno oltre Palermo e la Sicilia…

Il tentativo da parte di Gambetta di fornire una lettura “laica” del fenomeno mafioso, cioè svincolata da implicazioni politiche, storiche o sociali, ci sembra sia abortito per due ragioni: la prima è che non si può fare a meno di scivolare su questi terreni, quando si parla di mafia; la seconda, è che ridurre un fenomeno così complesso a spiegazioni logicamente coerenti ma empiricamente poco consistenti non produce risultati validi sul piano scientifico.


Arlacchi e Catanzaro: i limiti della mafia imprenditrice

Altri studiosi del fenomeno mafioso, hanno elaborato un approccio analitico fondato principalmente sulla natura imprenditoriale della mafia. Tra questi si distinguono Pino Arlacchi e Raimondo Catanzaro. Il primo fonda le sue interpretazioni sia sulla ricerca sociologica, sia sui colloqui coi cosiddetti “pentiti”, in particolare Antonino Calderone.22  Dai suoi lavori, emerge l’idea della “mafia imprenditrice”, o una organizzazione criminale che nella modernità si è dedicata principalmente alle attività imprenditoriali, abbandonando il suo originario retroterra agrario e i valori che caratterizzavano i suoi membri nella fase che precedeva l’industrializzazione. La tesi di Arlacchi, sulla quale ci soffermiamo soltanto brevemente, rispetto a quella di Gambetta ha il vantaggio di cogliere le attività esercitate dalla mafia in modo più articolato, facendole uscire dalla camicia di forza della protezione in cui l’ha costretta Gambetta. I traffici di droga, il riciclaggio di denaro, gli appalti pubblici, richiedono una macchina organizzativa efficiente, articolata per settore, presente in modo capillare nel territorio, secondo il modello di una vera e propria azienda multinazionale e multisettoriale. Dall’altro lato, la tesi di Arlacchi mostra i suoi limiti nella misura in cui vede nell’elemento imprenditoriale il tratto qualificante della mafia. Sulla base di questa premessa, Arlacchi intravede una modifica radicale nei metodi della mafia, primo tra tutti l’uso ripetuto ed efferato dei metodi violenti, che non avrebbero caratterizzato la “vecchia mafia”.23 La fase imprenditoriale comporterebbe, a detta di Arlacchi, un taglio netto col passato, provocando una escalation qualitativa e quantitativa sia nell’uso della violenza che negli obiettivi da colpire attraverso di essa. In realtà, come nota Umberto Santino, la forza delle organizzazioni mafiose consiste proprio nella sua capacità di intrecciare gli elementi di continuità (sia organizzativi che culturali)24 con quelli dell’innovazione, che si riferiscono in particolare ai rapporti di produzione e ai mutamenti di natura politica. L’imprenditorialità della mafia è un elemento qualificante dell’organizzazione sin dalle origini, al pari dell’uso della violenza, che viene esercitata coi mezzi a disposizione nelle diverse epoche storiche, e la cui gravità risente anche del clamore mediatico che suscita in proporzione al tipo di mezzi di comunicazione a propria disposizione. Inoltre, il passaggio da “uomini d’onore” a “uomini del disonore”, oltre a rischiare di alimentare il luogo comune di una mafia inizialmente animata da buoni propositi, è anche basato sulle dichiarazioni di un “pentito”, che ha tutto l’interesse a giustificare a se stesso e agli altri le ragioni della sua scelta di passare dall’altra parte della barricata, e trovano una puntuale smentita nelle vicende storiche che trova la mafia intenta a perseguire i propri scopi personali indipendentemente dalle conseguenze che possano comportare le sue azioni per la collettività.
Raimondo Catanzaro dà una lettura più articolata del fenomeno mafioso: le attività economiche esercitate da Cosa Nostra e organizzazioni affini si caratterizzano per l’intreccio con il controllo politico e militare del territorio in cui sono insediate. Catanzaro distingue i due tipi di attività utilizzando la distinzione operata dal criminologo americano Alan Block, definendo come enterprise syndicate le organizzazioni che svolgono attività di tipo economico, e power syndicate le organizzazioni che operano principalmente attraverso il controllo del territorio 25. Sono queste ultime ad essere attive nel campo della protezione. Tuttavia, specifica Catanzaro, questa attività si afferma in concorrenza con lo Stato, non, come crede Gambetta, in sua assenza. Per assicurarsi il monopolio in questo campo, la mafia deve utilizzare la violenza, così da potere indurre le vittime a richiedere questo tipo di servizio. Ci troviamo di fronte ad una domanda indotta, in cui l’uso della violenza non è uno strumento da utilizzare per rivendicare il riconoscimento della prestazione fornita, bensì si qualifica come elemento centrale della protezione offerta. Una protezione generalizzata, condivisa dai protetti, diventerebbe infatti un servizio pubblico, che minerebbe la posizione di potere della mafia, esponendola a negoziazioni che ne ridurrebbero la posizione di privilegio.26 La mafia nasce come power syndicate, ma negli ultimi cinquanta anni va incontro ad una trasformazione qualitativa, nella quale integra anche l’esercizio delle attività di enterprise syndicate. E’ in conseguenza di questi mutamenti che nascerebbe la necessità di centralizzare l’organizzazione, con lo scopo primario di dirimere le controversie e i conflitti che una maggiore specializzazione e complessità comportano. La protezione non viene però soltanto esercitata dalla mafia, ma anche fruita. E’ il caso dei rapporti tra mafia e politica. Dalla seconda, i primi cercano soprattutto impunità per i loro traffici illegali e per l’esercizio della protezione.27 L’interpretazione della mafia di Raimondo Catanzaro, costituisce un notevole passo in avanti per leggere questo fenomeno misurandosi con la sua complessità. L’aspetto economico e quello politico dell’organizzazione mafiosa sono presi nella dovuta considerazione, ed esposti come elementi cardine, problematici, con cui confrontarsi. Inoltre, Catanzaro mette in evidenza la funzione che la mafia svolge come canale di mobilità sociale in una società fortemente polarizzata come quella siciliana 28, e come questa competizione sia legata ad un aspetto della cultura siciliana come l’onore, che funge da vero e proprio regolatore sia dell’accesso all’organizzazione che dell’ascesa al suo interno. Tuttavia Catanzaro commette l’errore di confinare la mafia ad un modello aziendalista, che, pur avendo il pregio di individuare alcune caratteristiche salienti del fenomeno mafioso, dall’altro lato compie una reductio ad unum, incentrata sulla natura comunque “imprenditoriale” della mafia, che non spiega a sufficienza aspetti come quelli dei rapporti tra mafia e politica. La mafia non è soltanto protetta dai politici, ma li protegge e li appoggia a sua volta, in funzione della necessità di svolgere i suoi interessi. Dall’Unità d’Italia, allo sbarco alleato del 1943, alle vicende politiche del dopoguerra, la complementarità tra la mafia e alcuni settori della sfera politica è ampiamente documentata.29 Malgrado la sua analisi possegga elementi scientificamente apprezzabili, che mostrano uno studio ed una conoscenza articolata del fenomeno, ottenuta attraverso uno uso oculato degli strumenti criminologici, Catanzaro insiste comunque sulla dimensione imprenditoriale della mafia, rischiando di lasciare scoperti altri settori, la cui analisi è cruciale per la comprensione dei fenomeni mafiosi. Umberto Santino, e attraverso lui il Centro Impastato, tentano di colmare queste lacune, proponendo l’uso del paradigma della complessità.


Il paradigma della complessità: impianto analitico e risultati

Il “paradigma della complessità” elaborato da Umberto Santino, riprendendo la definizione già citata, studia la mafia come

un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l’unica è Cosa Nostra, che agiscono all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’acquisizione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale.

Questa definizione molto articolata, si differisce da quelle degli altri studiosi proprio perché asserisce il carattere polimorfico del fenomeno mafioso. Laddove gli approcci che abbiamo fin qui analizzato partono da una lettura unidimensionale, focalizzata in particolare sull’aspetto imprenditoriale, nel paradigma della complessità scorgiamo una definizione di tipo polimorfica, calibrata sulla complessità di un fenomeno che in oltre un secolo di esistenza ha effettivamente avuto implicazioni in vari aspetti della vita siciliana e nazionale proprio a causa della compresenza di diverse caratteristiche al suo interno. Non si tratta perciò dell’incapacità di individuare una matrice ben precisa del fenomeno mafioso, bensì della convinzione da parte di Santino che, data la sua multiformità, non si riesce a comprendere appieno il fenomeno mafioso se non si analizzano in profondità i diversi elementi che lo compongono. Come dice lo stesso Santino, con questo paradigma

il fenomeno mafioso viene considerato un prisma a molte facce, presentando aspetti culturali, criminali, sociali, economici, politici, culturali. Isolare uno di questi aspetti e ritenerlo rappresentativo dell’intero fenomeno o attribuirgli una prevalenza sugli altri, come spesso avviene, è un’operazione gratuita e una riduzione fuorviante.30

Questo tipo di approccio non è stato soltanto teorizzato da Santino e dal Centro Impastato, ma ha costituito il filo conduttore di un’attività di ricerca che va avanti da oltre venticinque anni, riscuotendo consensi nel campo degli studi nazionali ed internazionali, pur soffrendo talvolta delle condizioni di marginalità in cui il centro si trova ad operare rispetto al contesto accademico. Il paradigma della complessità muove dall’analisi dei rapporti di produzione e di potere in Sicilia nel periodo dell’unificazione nazionale. La società siciliana dell’epoca ruota attorno alla produzione ed alla commercializzazione dei prodotti del latifondo. La nobiltà, proprietaria dei grandi appezzamenti fondiari, vive per lo più nelle città, lasciando la gestione dei propri possedimenti nelle mani di una cerchia di grandi affittuari (gabelloti), campieri, soprastanti, che assicurano la produzione intensiva a costi minimi 31. L’abolizione della feudalità rende le relazioni più fluide all’interno del latifondo. Per evitare una ricomposizione degli equilibri socio – politici che ne metta in discussione i privilegi, questa cerchia di intermediari formatasi nel corso dei secoli incrementa l’adozione dei metodi violenti. Così facendo, da un lato esercita pressione verso l’alto perché il suo potere venga riconosciuto, dall’altro intensifica il controllo sulla manodopera bracciantile attiva nel latifondo. Questa doppia pressione è importante, in quanto consente alla nascente organizzazione criminale di ritagliarsi importanti posizioni di potere all’interno della nuova realtà statuale, ma soprattutto di svolgere un ruolo di primo piano nel processo di accumulazione dei capitali che interesserà la Sicilia dalla seconda metà dell’ottocento in poi. L’economia di esportazione che predomina nella Sicilia di questo periodo storico, funziona attraverso l’oligopolio della violenza esercitata dai mafiosi 32. La mafia si trova a svolgere un ruolo politico e allo stesso tempo economico, che non potrebbe però svilupparsi se non riuscisse a penetrare in profondità le relazioni che danno forma alla società, avvalendosi cioè dei propri legami parentali, amicali e degli altri tipi di legami. Una relazione di potere fondata sulla violenza sarebbe infatti precaria, in quanto si regge su relazioni di tipo coercitivo, e si dissolverebbe non appena vengono meno le condizioni che la sorreggono. La mafia sfrutta quindi la propria rete relazionale per fornire risposte concrete ai bisogni delle masse (dall’esenzione alla leva ad alla risoluzione di controversie personali) e per influire sulla canalizzazione delle risorse in una direzione che le permetta di soddisfare le proprie clientele 33. In questa fase storica, che Santino periodizza tra il 1860 e il 1947 (anno in cui la Sicilia diventa una regione autonoma), si forma e si consolida la cosiddetta “borghesia mafiosa”, uno strato sociale che si afferma accumulando ricchezza e posizioni di potere intrecciando fini e mezzi legali e illegali. La definizione di Umberto Santino, pur essendo connotata dall’utilizzo di un impianto analitico di tipo marxista, non si caratterizza però per lo schematismo ideologico. Innanzitutto, lo stesso Leopoldo Franchetti aveva adottato un termine simile nel definire i mafiosi come “i facinorosi della classe media”34, molti anni prima che certi termini si affermassero nelle scienze sociali. In secondo luogo, Santino rifugge da rigide categorizzazioni di tipo scolastico, precisando più volte il carattere interclassista della mafia, ma sottolineando in ultima analisi come questo sistema così capillare di accumulazione e di posizioni di potere non possa che svilupparsi e favorire gli interessi di chi si trova ad occupare posizioni privilegiate all’interno della scala sociale:

Il pactum sceleris tra mafia e poteri legittimi, tra mafia, istituzioni ed economia, che ha permesso alla prima di affermarsi, come può costituirsi ed operare senza il contributo di una serie di figure sociali che pur non essendo affiliate a Cosa Nostra sono con essa collegate? E tali collegamenti, fatta salva la distinguibilità e l’autonomia degli alleati e degli affiliati a Cosa Nostra o ad altre associazioni di tipo mafioso, che non è in discussione, sono da considerare eventuali, sporadici, congiunturali, marginali o costituiscono il contesto che spiega lo sviluppo del fenomeno mafioso nel suo complesso?35

Inoltre, per Santino ed il Centro Impastato, la definizione di borghesia mafiosa, oltre a non essere una spiegazione comoda del fenomeno, che liquida come secondari gli altri problemi, non è nemmeno un atto di criminalizzazione della borghesia siciliana intera. I Florio, nota Santino, agli inizi del secolo scorso, rappresentavano la punta avanzata della borghesia siciliana, con le loro molteplici iniziative imprenditoriali. La loro sfida modernizzante fu interrotta proprio dai mafiosi.
Questa prima fase, vede la borghesia siciliana prevalentemente come una “borghesia compradora”, imperniata sullo sfruttamento del latifondo, subalterna ai nuovi equilibri politici e sociali che si vanno delineando a livello nazionale con l’industrializzazione, impegnata a tutelare la propria fetta di potere locale in cambio della fornitura di materie prime e del mantenimento degli equilibri di potere affermatisi a livello nazionale. La borghesia mafiosa può essere parametrata anche in relazione ad un più ampio contesto internazionale, all’interno del quale la Sicilia si colloca come “semiperiferia anomala”, vale a dire un’area in cui gli elementi di arretratezza si intrecciano con quelli della modernità 36. Emblematiche sono le vicende dei Fasci siciliani del 1893, repressi col contributo determinante della mafia 37, che provocheranno la prima emorragia dei contadini siciliani, che abbandonano l’Isola per dirigersi prevalentemente verso gli Stati Uniti d’America. Questa fase si protrae fino alla seconda guerra mondiale, con la parentesi del fascismo che vede con pericolo un concorrente del monopolio della violenza.


La mafia urbana. Appalti, violenza e rapporti politici

Dal 1943 in poi, gli equilibri si rimettono in discussione. Lo sbarco degli americani in Sicilia, la conseguente caduta del fascismo, il ruolo della sinistra nella resistenza, fanno sì che gli agrari siciliani, quindi anche la mafia, mettano in discussione il loro ruolo all’interno dell’entità statuale italiana. Nasce il movimento separatista 38 attraverso la quale le classi dirigenti isolane negoziano con le forze alleate prima e con la nascente repubblica poi, le condizioni per un’autonomia che permetta alla Sicilia di restare immune dal “vento del Nord.” E’ in questa fase che il movimento contadino riprende forza, per essere definitivamente sconfitto dopo la strage di Portella della Ginestra. Ne scaturisce una nuova massiccia ondata migratoria, stavolta diretta verso il Nord Europa e il Triangolo industriale. La concessione dell’autonomia alla Sicilia, finisce per essere il catalizzatore della seconda fase della mafia. Abbandonato il latifondo, il nuovo terreno di espansione è quello della città terziaria, in particolare Palermo, che con la concessione dello statuto speciale alla Sicilia diventa il terminale di flussi di denaro pubblico provenienti dal centro. I fertili e rigogliosi agrumeti della Conca d’Oro diventano oggetto dello scontro di potere in prospettiva della loro riconversione in aree edificabili, che in pochi anni porterà al cosiddetto “sacco di Palermo.” La nuova borghesia mafiosa, stavolta è prevalentemente composta da esponenti della società urbana, persone originarie della città o recentemente inurbate. Il blocco sociale a cui da vita è composto da funzionari pubblici, imprenditori edili, esponenti del mondo politico, mafiosi. Questi, intrecciano il loro retroterra agrari, il loro modus operandi tradizionale, i loro valori arcaici, con la logica del profitto della società industriale. Anche i metodi violenti, che contraddistinguono la mafia, subiscono delle significative trasformazioni. Se prima erano diretti principalmente al controllo dei braccianti, adesso vengono usate sia per regolare la concorrenza tra i mafiosi per la conquista del mercato edilizio e delle risorse pubbliche, sia nei confronti di chi si mette sulla loro strada. Se quest’ultimo aspetto rappresenta la continuità col passato, il primo è fortemente innovatore. Non soltanto perché viene adoperato in larga scala e con cadenza ciclica ma relativamente regolare, ma anche perché risponde all’esigenza di stabilire gli equilibri di potere interni al mondo mafioso. Ci troviamo di fronte alla cosiddetta “violenza programmata”39, che Santino analizza in uno dei suoi studi più importanti. La violenza mafiosa viene letta sovrapponendo le documentazioni giudiziarie con l’affarismo edilizio dell’epoca, e si avvale di un notevole apporto statistico di Giorgio Chinnici, che fa luce sulla natura qualitativa e quantitativa degli omicidi che tra gli anni cinquanta e ottanta avvengono nella provincia di Palermo. La mafia degli appalti e del denaro pubblico organizza un blocco di potere che, grazie all’autonomia di cui la Sicilia gode, esce dallo stato di subalternità rispetto ai centri di potere nazionale. I profitti realizzati in questa fase grazie alle attività legali ed illegali (in quell’epoca la mafia si dedica al contrabbando di sigarette e comincia a commercializzare le sostanze stupefacenti), fanno sì che si accresca ulteriormente l’influenza di Cosa Nostra sugli equilibri politici nazionali. La mafia stabilisce con alcuni settori dei partiti di governo un sistema di relazioni basato sull’alleanza, o il ruolo attivo dei mafiosi nel promuoverne la carriera politica in tutte le diverse fasi, e sul compromesso, o l’impegno da parte di Cosa Nostra a non interferire in certi settori o a non suscitare troppi clamori mediatici in cambio dell’impunità 40. L’importanza della mafia per il mantenimento degli equilibri politici nazionali, è suffragata d’altronde dalle dichiarazioni di alcuni pentiti, tra tutti Buscetta, che affermano che Cosa Nostra sia stata contattata durante la preparazione del golpe Borghese del 1970, in seguito fallito. Viene quindi a cadere l’interpretazione della mafia come “Antistato”, o potere che si contrappone frontalmente all’esercizio da parte dello Stato di diritto delle sue prerogative. La mafia si forma all’interno degli equilibri di potere politici ed economici, i quali spesso contribuisce a realizzare svolgendo un ruolo non secondario. Allo stesso tempo, si preoccupa di non sconfinare negli ambiti di competenza altrui (come nel caso del rifiuto di partecipare al golpe Borghese), per cui sarebbe fuorviante, ancorché approssimativo, dire che “la mafia è nello Stato”.
Tuttavia, ci interessa sottolineare come attraverso l’utilizzo del paradigma della complessità sia possibile comprendere le trasformazioni a cui la mafia è andata incontro metabolizzandole e rielaborandole ai fini di una propria crescita. Dal contesto di arretratezza endemica dei primi cento anni di unità, l’organizzazione criminale siciliana, attraverso le proprie ramificazioni nelle sfere dell’economia, della politica, e all’interno della società siciliana, diventa uno dei soggetti dello “sviluppo”, manovrando ingenti flussi di risorse pubbliche (attraverso le quali crea il cosiddetto “clientelismo di massa”41) e rafforzando la propria posizione di potere, che adegua alla nuova società industriale del secondo dopoguerra. Le rappresentazioni della mafia come fenomeno prodotto dalle condizioni di arretratezza si dimostrano destituite di fondamento. L’organizzazione mafiosa si dimostra in grado di inserirsi negli ingranaggi delle trasformazioni economiche e politiche, di essere in grado di manipolarle in funzione dei suoi interessi, di riuscire a garantirsi sufficiente impunità e consenso sociale diffuso (ma non generalizzato) attingendo alle risorse relazionali di cui dispone. Santino si sofferma anche su questo problema, che chiama in causa l’aspetto dei codici culturali. La mafia modella e riproduce le relazioni di potere in due maniere: da un lato utilizza, spesso in modo strumentale alcuni valori diffusi nella società siciliana, come l’amicizia, il senso della famiglia, l’onore. Dall’altro lato, questi valori risentono dell’ipoteca della violenza, lo strumento principale di cui l’organizzazione mafiosa si serve per affermare e mantenere il suo potere. Tuttavia, dal momento che l’egemonia della mafia si protende su tutta la società siciliana, e anche al di fuori di essa, non è possibile parlare della mafia come un segmento isolato della società, che esprime una “sub-cultura”42, quindi un sistema di valori, istituzioni, rappresentazioni che conservano un certo grado di autonomia. Il radicamento del fenomeno mafioso nel tessuto sociale, fa sì che si crei un rapporto di ibridazione, che si traduce nella produzione di quella che Santino definisce come “transcultura mafiosa”, che Santino definisce come

percorso trasversale che raccoglie elementi di varie culture, per cui possono convivere ed alimentarsi funzionalmente aspetti arcaici come la signoria territoriale e aspetti modernissimi come le attività finanziarie, aspetti subculturali derivanti da codici associazionistici ed altri aspetti “postindustriali.


La mafia finanziaria e la transcultura

L’elemento culturale, dinamico e complesso al pari delle attività economiche e politiche che la mafia svolge, permette a Cosa Nostra di sopravvivere ad ogni tipo di trasformazione, riproponendo e rafforzando il “modo di produzione mafioso”43 che si fonda sul singolare intreccio tra parassitismo e produttività. Pienamente inserita e profondamente radicata nella società, articolata nella sua struttura e nelle sue attività, dotata di un codice culturale capace di recepire, assorbire ed elaborare i mutamenti, la mafia è matura per il salto di qualità che segna l’inizio della terza fase nella periodizzazione proposta da Santino: si tratta della mafia finanziaria, protagonista di primo piano delle transazioni bancarie, nelle quali si trova coinvolta in seguito alla necessità di riciclare e reinvestire i suoi proventi 44. L’ingresso della mafia in questo settore economico in espansione, documentato sin dai tempi delle indagini del pool antimafia di Palermo, vede Cosa Nostra porsi come soggetto attivo di transazioni finanziarie internazionali, attraverso investimenti, creazione di banche, di società finanziarie che operano nelle principali piazze mondiali. Dall’ulteriore accrescimento delle sue posizioni di potere, Cosa Nostra cerca di volgere a suo favore gli equilibri politici. Nella fase della crisi della prima repubblica, caduti i vecchi referenti, le stragi del 1992 rappresentano il segnale da parte dei mafiosi di volere pesare nella ricomposizione del quadro politico. Il modo eclatante in cui gli omicidi si verificano, fa parlare, come nel periodo successivo all’omicidio del Generale Dalla Chiesa, di “emergenza mafiosa”, trascurando di considerare che la mafia usa la violenza in modo abituale, e che la sua presenza e la sua pericolosità non sono direttamente proporzionale all’efferatezza dei delitti che compie, bensì alla propria capacità di radicarsi nel tessuto sociale, di ricavarsi nicchie sempre più consistenti all’interno dell’economia e della politica, di recepire e metabolizzare i mutamenti, facendo leva sulle proprie posizioni di potere e sul potere contrattuale che le garantiscono. Le recenti vicende storiche e politiche sono ancora troppo fresche per permetterci di individuare le nuove tendenze del fenomeno mafioso.


Conclusioni

In questo lavoro, abbiamo cercato di dimostrare la validità per lo studio dei fenomeni mafiosi del “paradigma della complessità”, elaborato all’interno del Centro Impastato, in particolare da Umberto Santino, suo fondatore e presidente. Per questo scopo abbiamo passato al vaglio critico alcune delle interpretazioni correnti del fenomeno mafioso, in particolare quelle di Diego Gambetta, Pino Arlacchi e Raimondo Catanzaro. Abbiamo mostrato come queste letture, pur avendo talvolta un qualche fondamento scientifico, non riescono a cogliere la complessità del fenomeno mafioso in quanto insistono nel ritenerne fondamentale soltanto un aspetto, di solito quello imprenditoriale. Quindi abbiamo esposto il paradigma della complessità di Umberto Santino, cercando di dimostrare come, a partire dall’ipotesi che la mafia sia un fenomeno multidimensionale, questo studioso riesca a cogliere le diverse trasformazioni che hanno riguardato l’organizzazione mafiosa, dalle quali la capacità di penetrare le sfere dell’economia, della politica, della vita sociale, escono rafforzate. In particolare, abbiamo visto come la mafia rappresenti un singolare intreccio di elementi apparentemente contraddittori, come arcaismo e modernità, produttività e parassitismo, che convivono all’interno di un codice culturale complesso, che Santino definisce “transcultura.” Questa complessità costituisce l’elemento coagulante della borghesia mafiosa, che ancora oggi in Sicilia occupa una posizione preminente, che cerca di far pesare anche al di fuori dell’Isola. Con questo saggio ho inteso rilanciare il tema dello studio del fenomeno mafioso, in un periodo in cui l’attenzione nei suoi confronti è notevolmente diminuita. Questa diminuzione, a mio parere, è imputabile non solo alla volontà politica, ma anche alla scelta di paradigmi interpretativi insufficienti a cogliere la complessità, quindi l’ulteriore pericolosità, di questo fenomeno. Il rilancio del dibattito sulla natura della mafia può rappresentare un’occasione per condurre nuove ricerche che possano fornire risultati più approfonditi. La stasi attuale suggerisce di rimettersi al lavoro su questo tema. Il mio contributo vuole essere uno stimolo in questo senso.


Note

1 Diego Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino, 1992 (I Ed.).
2 Umberto Santino, La mafia interpretata. Dilemmi,stereotipi, paradigmi, Rubettino, Soveria Mannelli, 1995.
3 Gambetta, op. cit., pag. 11.
4 Pino Arlacchi, La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo. Il Mulino, Bologna, 1983.
5 Raimondo Catanzaro, La mafia, in U.Gatti, M.Barbagli (a cura di), La criminalità in Italia, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 19-33.
6 Arlacchi, op. cit.
7 Diego Gambetta (a cura di), Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della cooperazione, Einaudi, Torino, 1990.
8 Gambetta, op. cit., 1992, pag. VII.
9 Ibid, pag. 8.
10 Da notare che Gambetta ammetterà i limiti di questo assunto che fonda tutto il suo impianto analitico, sottolineando come le tesi degli storici napoletani settecenteschi del Mezzogiorno da cui l’autore trae spunto per articolare la sua tesi, come Paolo Mattia Doria, manchino di una base empirica. Ecco ad esempio quanto afferma in proposito Gambetta a pag. 93: Quanto alla validità empirica delle loro analisi sulle cause del crollo della fiducia, è impossibile dare un giudizio, poiché non esistono studi che abbiano affrontato direttamente questo problema. Metterne in dubbio le cause non significa però dubitare dell’onnipresenza della sfiducia del Meridione, o della persistente influenza negativa di queste sullo sviluppo economico (entrambi storicamente incontrovertibili). Su quale base sono incontrovertibili, se le stesse fonti storiche che dovrebbero suffragarle sono, a detta dello stesso autore, prive di evidenza empirica?
11 Ibid., pag. 220.
12 Oltre all’esempio che abbiamo già citato in merito alle origini storiche, ve ne sono almeno altri due altrettanto eclatanti. Ad esempio, nello spiegare la diffusione della mafia, Gambetta, a pagina 122 del suo libro, sostiene che questa può essere spiegata a partire dall’intreccio tra le condizioni materiali, create dalla campagna, e quelle dei servizi, create dalla città, salvo poi asserire che la tesi non può essere suffragata da dati disponibili. Nelle pagine successive, quando analizza le dinamiche del mercato ittico di Palermo, Gambetta sostiene che il basso livello di concorrenza sarebbe la causa, non la conseguenza, della presenza della mafia. A pagina 291 poi, dopo avere ammesso che la relazione della Commissione Antimafia, la sua unica fonte documentale, non fornisce sufficiente evidenza empirica alla sua tesi, afferma: Le informazioni che ho raccolto sono state comunque sufficienti a persuadermi dall’opportunità di un’indagine più accurata. Si è accorto dei limiti della sua tesi o sono sufficienti i dati della commissione, che mostrano la sovrapposizione tra grandi mandatari e mafiosi? Perché non confrontare altri mercati ittici della Sicilia?
13 Santino, op. cit., 1995, pag. 51.
14 Gambetta, op. cit., 1995, pag. 122.
15 Leopoldo Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia (1876), Vallecchi, Firenze, 1974.
16 Giorgio Chinnici, Umberto Santino, Giovanni La Fiura, Ugo Adragna. Gabbie vuote. Processi per omicidio a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, Franco Angeli, Milano, 1992.
17 Su Liggio, Gambetta afferma che la sua condizione di gabelloto è antecedente a quella di mafioso (op. cit., pag. 121), mentre è il contrario.
18 Per una disamina di queste dinamiche, rimandiamo al libro di Umberto Santino e Giorgio Chinnici, La violenza programmata, Franco Angeli, Milano, 1989.
19 Gambetta, op. cit., pag. 17.
20 Saverio Di Bella, recensione de La mafia siciliana in “Incontri Meridionali”, n.3, 1992, pp. 599-602.
21 Santino, op. cit., 1995, pp.57-59.
22 Pino Arlacchi, Gli uomini del disonore, Mondadori, Milano, 1992.
23 Ibid., pag. 141.
24 Umberto Santino, La borghesia mafiosa. Materiali di un percorso di analisi, Quaderni Centro Impastato, Palermo, 1995.
25 Catanzaro, op. cit., 2002, pag. 25.
26 Afferma in proposito Catanzaro: Gli imprenditori della protezione privata devono essere al contempo imprenditori della violenza; la violenza viene usata per instaurare un rapporto di protezione che si configura anche come rapporto di estorsione. Pag. 24, ibid.
27 Raimondo Catanzaro, La mafia tra mercato e Stato, in G. Fiandaca e S. Costantino (a cura di), La Mafia, Le Mafie, Laterza, Roma-Bari, 1994, pag. 144.
28 Catanzaro, op. cit., 2002, pag. 22.
29 Oltre al già citato libro di Franchetti, si veda in proposito il libro di Filippo Gaja, L’esercito della lupara, Maquis, Milano, 1994 (II ed.), che spiega il ruolo attivo della mafia nella preparazione dello sbarco alleato. Sui rapporti tra mafia e politica nel dopoguerra, si veda il libro di Umberto Santino, L’alleanza ed il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1997.
30 Santino, op. cit., 1995, pag. 130.
31 Alfio Mastropaolo, Mafia, in Dizionario di Scienza politica, a cura di Norberto Bobbio e Gianfranco Pasquino, Garzanti, Milano, 1992.
32 Santino, op. cit., 1994, pag. 73.
33 Ibid., pag. 132.
34 Franchetti, op. cit., 1974.
35 Santino, op. cit., 1995, pag. 137.
36 Santino sottolinea in diversi scritti di dovere questa definizione ad Immanuel Wallerstein,che nel classico Il Sistema Mondo, Il Mulino, Bologna, 1974, divide il mondo tra centro, semiperiferia, periferia, in relazione al ruolo svolto all’interno delle articolazioni del sistema capitalistico.
37 Francesco Renda, I Fasci siciliani, Einaudi, Torino, 1973.
38 Rosario Minna, Storia del Separatismo siciliano, Editori Riuniti, Roma, 1971. Umberto Santino, La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione della sinistra, Rubettino, Soveria Mannelli, 1997.
39 Già citato, Franco Angeli, Milano, 1989.
40 Santino, L’alleanza e il compromesso, già citato.
41 Santino usa questa definizione nel già citato La borghesia mafiosa, a pag. 70, per sottolineare come, attraverso i partiti di massa, il clientelismo sia uscito dalla propria connotazione originaria di tipo patronale, per trasformarsi in uno strumento di distribuzione delle risorse e creazione del consenso politico su larga scala.
42 Santino, op. cit., 1995, pag. 154.
43 Ibidem, pp. 147- 151.
44 Santino in op. cit., 1994, pp. 179-242.