loading...

L’eroe dell’antimafia quotidiana

Augusto Cavadi

L’eroe dell’antimafia quotidiana

Se avesse alzato le spalle come fa la maggior parte di noi – le regole vanno bene in generale: ma ogni caso è un caso a sé e se si pecca di pignoleria, vuol dire che uno i guai se li cerca proprio…- oggi sarebbe un attempato pensionato ottanduenne. Ma era uno dei pochi siciliani anomali per i quali le leggi valgono per tutti, delinquenti e prepotenti inclusi: persino per i mafiosi come Leoluca Bagarella. Perciò ritenne ovvio farle valere: persino nel carcere “Cavallacci” di Termine Imerese dove era addetto all’ufficio matricola. Altrettanto ovviamente il sistema giudiziario ‘parallelo’, in pochi giorni, emanò la sentenza e la eseguì con tempestività impensabile per gli apparati statali. E il sottufficiale degli agenti di custodia Antonino Burrafato, di anni 49, fu assassinato nella piazza di S. Antonio alle 15.30 del 29 giugno 1982.
Assediati dalle emergenze, che si accavallano come ondate successive in un incubo onirico, è facile dimenticare questi volti, queste storie. E’ comprensibile che, a trentatré anni di distanza, si lasci lentamente affondare, nel mare dell’oblìo, la memoria di questa ennesima vittima ‘minore’ della guerra contro il sistema mafioso: comprensibile, non giustificabile. E’ ingiusto nei suoi confronti, ma – forse ciò è meno evidente – è anche autolesionistico. Si perdono molti spunti di riflessione. E di azione operosa.
Innanzitutto si perde l’occasione per dire a noi stessi, prima ancora che agli estranei, che gli ultimi centocinquant’anni sono stati punteggiati non solo da grossi e piccoli mafiosi, ma anche da celebri e meno celebri antimafiosi. Come la mafia non sopravviverebbe se non fosse alimentata ogni giorno da relazioni d’interesse, compromessi, clientelismi, vigliaccherie, carrierismi… così le ragioni dell’antimafia sarebbero state del tutto spacciate senza la resistenza quotidiana e invisibile di scelte coraggiose, di accettazione dell’isolamento, di rifiuto del conformismo, di rinunzia ad arricchimenti illeciti. Solo qualche ora fa un giovane disoccupato – che è riuscito da poche settimane ad avere in affidamento un piccolo appezzamento di terreno alle porte di Palermo dove provare a piantare qualche verdura e qualche pomodoro – mi confidava che, al secondo o terzo giorno, si è visto accostare da un vicino che gli ha spiegato che, in zona, “i picciotti vogliono mangiare pure loro”. Forse per dignità, forse per disperazione, la risposta è stata pronta e decisa: “Può dire ai picciotti che sto dando sangue per i miei tre figli e non ne ho per loro. Mi ammazzino pure”. Non ho idea se questa dichiarazione sia del tutto eccezionale o si sommi a decine, centinaia di casi analoghi che restano sommersi e sconosciuti; ma sono sicuro, come lo sono i ragazzi di “Addiopizzo”, che è proprio a questo livello di eroismo ‘normale’, feriale, che si gioca la partita. E’ su questo zoccolo duro che politica, magistratura, forze dell’ordine devono chinarsi e accendere qualche faro: perché nessun leader carismatico (di cui, peraltro, il panorama attuale non sembra particolarmente affollato) ha mai potuto sostituire la mobilitazione convinta e capillare di una popolazione.
Sfogliando il libro che, due anni fa, il figlio Salvatore, Nicola Sfragano e Vincenzo Bonadonna hanno dedicato alla vicenda di Burrafato (Un delitto dimenticato, La Zisa editrice) si può ricevere almeno un secondo stimolo: a focalizzare l’universo, ancora troppo poco trasparente, degli istituti di pena. Anche senza essere specialisti in materia, s’intuisce la difficoltà di coniugare l’esigenza sacrosanta di isolare i condannati più pericolosi e influenti (vedi 41 bis) con l’esigenza, non meno impellente, di attivare percorsi rieducativi (a meno di non rassegnarsi alla concezione barbarica della galera come gabbia per belve irredimibili). Anche su questi temi si è cercato di riflettere, alcune settimane fa, durante un convegno nazionale a Baida su “Mafia e nonviolenza”. E arrivando alla conclusione che una scommessa così difficile non può essere delegata esclusivamente agli operatori del settore pur di consentire, al resto della società, di scrollarsi ogni responsabilità, di rimuovere dubbi e scartare senza perderci troppo tempo ipotesi alternative. In particolare ci si potrebbe chiedere se sia moralmente e strategicamente accettabile scaricare sulle spalle degli agenti di custodia l’intero peso del rapporto diuturno con la moltitudine variegata dei rei di delitti più efferati. Con un solo, identico gesto – volgendo lo sguardo altrove – abbandoniamo in uno stesso spazio concentrazionario carcerieri e carcerati, custodi e custoditi, eludendo le domande più scottanti: quali garanzie di sicurezza, quale formazione professionale, quale soccorso psicologico ed etico vengono approntati, in via ordinaria, per i lavoratori in divisa che devono gestire il faccia-a-faccia con i mafiosi, i loro familiari, i loro complici, i loro amici? O abbiamo già deciso di condannarli alla tragica alternativa di diventare duri come carnefici o inermi come carne da macello?

Pubblicato su “la Repubblica – Palermo”, il 29 giugno 2005