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Movimento contadino e sindacale

Umberto Santino

Movimento contadino e sindacale

Le lotte contadine possono considerarsi l’esempio più rilevante di un movimento di massa che nelle sue varie fasi ha sostenuto un lungo e sanguinoso scontro con la mafia, ottenendo risultati significativi ma concludendosi con una sostanziale sconfitta, fino alla dissoluzione finale nell’emigrazione.
Il movimento contadino si scontra con la mafia, e innesca la sua sanguinosa reazione, perché si batte per il miglioramento delle condizioni di vita, la riforma dei contratti agrari e la riforma fondiaria, la partecipazione democratica, toccando gli interessi dei proprietari terrieri e dei mafiosi, in buona parte affittuari dei latifondi (gabelloti) o monopolisti di risorse fondamentali come l’acqua. In tutta la storia del movimento contadino in Sicilia il ricorso alla violenza è stato una costante e si può dire che sia stato legittimato attraverso l’impunità. Talvolta la violenza mafiosa si è coniugata con quella istituzionale, nell’intento comune di salvaguardare assetti di potere messi in forse dalle organizzazioni contadine, sia sindacali che di partito (spesso le due dimensioni si sovrapponevano e coincidevano).
Il movimento contadino si sviluppa nella società siciliana fin dall’ultimo decennio del XIX secolo, con i Fasci siciliani (1891-94), riprende negli anni precedenti e successivi alla prima guerra mondiale e vive la sua fase più alta nel secondo dopoguerra.

I Fasci siciliani: un fenomeno composito

In che senso è possibile dire che fin dall’inizio delle lotte contadine, cioè dai Fasci siciliani, tale lotta è “antimafia”? “Per i Fasci ci sono almeno tre ragioni, e tutte di fondo, che consentono di sostenere che essi, in gran parte, sono a pieno titolo il primo esempio di lotta organizzata contro la mafia: 1) i Fasci sono un movimento per la riforma dei rapporti di lavoro e per il rinnovamento delle amministrazioni locali e si scontrano duramente con un assetto di potere di cui la mafia è parte integrante; 2) i Fasci si posero coscientemente il problema della mafia, anche come risposta all’accusa di essere associazioni di malfattori, escludendo nei loro statuti mafiosi e criminali, accettando solo piccoli pregiudicati in un’ottica di recupero sociale; 3) il movimento dei Fasci fu stroncato sanguinosamente per l’azione congiunta delle istituzioni e della mafia. La repressione si spiega con il fatto che i Fasci furono in realtà e nella percezione degli strati conservatori un atto di ribellione, di lesa maestà nei confronti del potere istituzionale e della signoria territoriale degli agrari e dei mafiosi e pertanto meritevoli della sanzione più dura: la morte di molti militanti, lo scioglimento delle organizzazioni, il processo e la punizione per i responsabili” (Santino 2000, p. 24).
Tale valutazione non vale per tutti i Fasci, ma solo per quelli che rappresentano, almeno fino a un certo punto, la maggioranza e fanno più o meno coerentemente riferimento alle indicazioni programmatiche della nascente organizzazione socialista. Accanto ad essi ci furono i cosiddetti “Fasci spuri”, frutto più che altro di conflittualità locali, e alcuni di essi risultano organizzati dai mafiosi, con l’intento di cavalcare la protesta sociale, manovra che si ripeterà anche in fasi successive delle lotte contadine.
La base sociale dei Fasci era costituita da contadini (braccianti, mezzadri, piccoli proprietari), da operai (zolfatai, edili, addetti all’industria manifatturiera) e da altri strati sociali: artigiani, elementi della piccola borghesia. Sul numero dei Fasci, presenti in tutte le province siciliane, con le punte più alte a Palermo, Agrigento e Catania, abbiamo valutazioni diverse (da 144 a 175), così pure sul numero dei soci (da 300 a 400 mila secondo la polizia a 100-200 mila secondo valutazioni più caute). L’organizzazione era a metà strada tra sindacato e partito: “sintesi di lega della resistenza esercitante un’azione sindacale finalizzata al raggiungimento di obiettivi specifici (miglioramenti salariali, revisione dei patti agrari ecc.) e organizzazione politica attivamente impegnata sul terreno della propaganda per la crescita della coscienza politica dei lavoratori, preludio alla conquista del potere da conseguirsi anche attraverso la partecipazione alle competizioni elettorali” (Fedele 1994, p. 17). I Fasci più numerosi, per esempio quello di Palermo (4.734 iscritti secondo la polizia, 10.000 secondo altre fonti), avevano un’organizzazione capillare e si configuravano come un sistema di controllo alternativo del territorio in cui operavano. Particolarmente rilevante il ruolo delle donne che in alcuni paesi (per esempio a Piana dei Greci, poi Piana degli Albanesi) costituirono Fasci di sole donne.
La nascita di un movimento così ampio, in una realtà considerata periferica e precapitalistica come la Sicilia, suscitò l’interesse dei maggiori dirigenti e studiosi del movimento operaio, da Engels a Labriola, a Turati. Significativa la posizione di Antonio Labriola, inizialmente avverso ai Fasci ma che in seguito li considererà “il primo grande movimento di massa proletaria che si sia visto in Italia”. Il giudizio degli storici è variegato: Salvemini li giudica una riedizione delle vecchie jacqueries; Croce trova sorprendente che essi si siano sviluppati nella regione “meno industrializzata, la meno progredita”; Romano parla di un’organizzazione in forme moderne; Ganci di “fase infantile” che mescola escatologia contadina e riformismo legalitaristico; Renda e Giarrizzo danno giudizi articolati, collegandoli a una crisi capitalistica e non a un contesto sociale segnato dall’arretratezza (Santino 2000, pp. 33-38).
La parabola dei Fasci si consuma in pochi anni: dal maggio del 1891, in cui si costituì il Fascio di Catania, al gennaio del 1894 in cui viene emanato il decreto di scioglimento. La fase più intensa dura ancora meno: si apre nel gennaio del 1893, con la strage di Caltavuturo, e si chiude con le stragi del dicembre ’93 e gennaio ’94: 108 morti in un solo anno.
La fase più matura dei Fasci coincide con il congresso minerario di Grotte dell’ottobre 1893 e con lo sciopero agrario da agosto a novembre ’93. Al congresso minerario parteciparono circa 1.500 persone, fra operai e piccoli produttori. I minatori chiedevano che fosse elevata a 14 anni l’età minima dei fanciulli che lavoravano nelle zolfare (i carusi, soggetti a uno sfruttamento di tipo schiavistico che suscitò l’indignazione dell’opinione pubblica e ispirò molte pagine di denuncia), la diminuzione dell’orario di lavoro, la fissazione di un salario minimo; i piccoli produttori chiedevano misure per sottrarsi allo sfruttamento dei grossi proprietari. Non ci fu il tempo di organizzare il movimento dei minatori perché i Fasci vennero sciolti all’inizio del 1894.
Lo sciopero agrario veniva dopo il congresso di Corleone del luglio precedente che deliberò i “patti di Corleone”, che segnano l’atto di nascita del moderno sindacalismo contadino. Lo sciopero vide la partecipazione di 50.000 persone, secondo la stampa, ma in realtà furono di più, e fu un grande esempio di democrazia sindacale: i contadini si riunivano per elaborare le richieste e per esaminare gli accordi. Furono stilati degli accordi locali.
Il governo nazionale, con la presidenza di Giolitti, aveva tentato la carta della criminalizzazione del movimento, inviando il capo della polizia Sensales per condurre accertamenti sui soci dei Fasci (che si conclusero con la registrazione delle incriminazioni per “attentato alla libertà del lavoro”, cioè per la partecipazione a scioperi e manifestazioni e l’organizzazione di picchettaggi), facendo arrestare moltissimi dirigenti e militanti, ma escludendo l’uso delle armi e rimbrottando gli ufficiali che avevano ordinato di sparare contro i dimostranti. Nel novembre del ’93 a Giolitti succede Crispi, che accoglie la richiesta degli agrari dell’intervento militare. L’ultima fase dei Fasci è segnata da manifestazioni per la questione delle tasse e da una repressione sanguinosa (sparano i soldati e i campieri mafiosi: sono uccisi 92 popolani e un solo soldato), preludio al provvedimento di scioglimento dei Fasci del 3 gennaio 1894. Vengono effettuati arresti in massa, sono sciolti i consigli comunali progressisti e i capi dei Fasci vengono processati da tribunali di guerra. L’accusa è aver complottato contro lo Stato, al soldo di nazioni straniere. Durante i processi le figure dei principali dirigenti (Nicola Barbato, Bernardino Verro, Giuseppe De Felice, Rosario Garibaldi Bosco, Giacomo Montalto) risaltano per la loro dignità e i difensori d’ufficio li difendono convinti delle loro ragioni. De Felice li ringrazia: “vennero sconosciuti al carcere, uscirono fratelli nostri” (Santino 2000, p. 74). Le condanne sono pesanti. La prima ondata del movimento contadino si conclude con la più dura delle repressioni e con il ribadimento del potere degli agrari e dei mafiosi, coperti dalle forze governative. Negli anni successivi si avrà un imponente flusso migratorio: circa un milione di persone lascerà la Sicilia, su una popolazione di tre milioni e mezzo. Un vero e proprio dissanguamento che caratterizzerà anche le fasi successive delle lotte sociali in Sicilia.


Lotte alla mafia e per la democrazia prima dell’avvento del fascismo

Le lotte contadine riprendono negli ultimi anni del XIX secolo e nei primi anni del ‘900 e vanno incontro a nuove repressioni (nell’agosto del 1905 a Grammichele le forze dell’ordine sparano durante una manifestazione contro le tasse comunali: 13 morti e 60 feriti). La nuova fase di lotta è caratterizzata dalla sperimentazione delle “affittanze collettive”, cioè i contratti di affitto stipulati tra proprietari terrieri e cooperative contadine. Attivi, oltre ai socialisti, sono i cattolici, su ispirazione di Luigi Sturzo. Le affittanze collettive si svilupparono in quattro regioni d’Italia: Sicilia, Emilia, Piemonte e Lombardia. I dati del 1906 vedono in testa la Sicilia, con 53 affittanze a conduzione divisa, per una superficie agraria di 39.800 ettari e con 15.900 soci.
L’affittanza collettiva siciliana era legata al latifondo e aveva lo scopo di sostituire il gabelloto parassitario, quasi sempre coincidente con soggetti mafiosi. Mentre altrove gli associati erano soprattutto braccianti, in Sicilia la massa dei soci era costituita da lavoratori che aspiravano ad avere un loro pezzo di terra. Cattolici e socialisti avevano strategie diverse (i primi vedevano le affittanze collettive come un momento di un’azione a sostegno dei piccoli produttori, i secondi miravano alla socializzazione delle terre), ma sul piano concreto la scelta della conduzione divisa andava incontro alla fame di terra dei contadini siciliani. Più netta la divisione nel confronto con gli agrari, gestito dai socialisti come lotta di classe, mentre i cattolici avevano una visione interclassista. Le affittanze per i socialisti erano il frutto più significativo dell’azione congiunta tra la lega (organizzazione politico-sindacale) e la cooperativa (organizzazione economica); i cattolici si adoperarono soprattutto per sostenere le affittanze con la rete creditizia costituita attraverso le casse rurali e le banche diocesane, riuscendo ad offrire ai proprietari condizioni migliori di quelle offerte dai socialisti.
I proprietari terrieri erano contrari alle affittanze collettive, non tanto per ragioni economiche, che li avrebbero portati a preferire le affittanze ai gabelloti, quanto per ragioni di potere: le affittanze stimolavano lo sviluppo di una coscienza sociale nuova, un nuovo protagonismo delle masse contadine e questo era visto come un pericolo per la perpetuazione di un potere consolidato, gestito da agrari e affittuari mafiosi.
Abbiamo accennato alle casse rurali cattoliche. Esse erano nate in Veneto nell’ultimo decennio dell’800 e in Sicilia se ne contavano 145 nel 1906. Con tale strumento creditizio i contadini piccoli produttori, i piccoli commercianti e gli artigiani potevano sottrarsi al prestito usurario. Solo nel 1906 si aprì una sezione di credito agrario presso il Banco di Sicilia che avviò una collaborazione con la Federazione siciliana delle cooperative.
Le iniziative del movimento contadino innescarono ancora una volta la violenza mafiosa. Si comincia a Corleone, con l’uccisione nel 1905 del bracciante Luciano Nicoletti e nel 1906 del medico Andrea Orlando, che sosteneva le lotte contadine per le affittanze collettive e per il rinnovo dell’amministrazione comunale. Nel 1911 a Santo Stefano Quisquina viene ucciso Lorenzo Panepinto, dirigente dei Fasci e del Partito socialista, uno dei protagonisti delle lotte contadine. Nel 1915 si ritorna a Corleone con l’omicidio di Bernardino Verro, condannato come dirigente dei Fasci ed eletto sindaco nel 1914. I processi agli incriminati dei delitti Panepinto e Verro si concludono con l’assoluzione. I due processi sono marcati da fatti inquietanti: nel primo si ritira la parte civile, nel secondo si ritira la pubblica accusa, spianando la strada all’impunità degli accusati.
La prima guerra mondiale diede un duro colpo alle affittanze collettive, poiché molti dei soci furono chiamati al fronte, e la lievitazione della richiesta di generi alimentari per i soldati avvantaggiò proprietari e gabelloti. Ai soldati al fronte il governo promise che sarebbe stata data la terra: la ricompensa per il valore dimostrato durante la guerra. Ma in realtà non ci fu una riforma agraria, furono emanati alcuni provvedimenti per la concessione delle terra incolte e malcoltivate (decreti Visocchi e Falcioni).
Finita la guerra, in Sicilia riprende il movimento contadino. Operano varie componenti: le associazioni di combattenti e reduci, le organizzazioni cattoliche del Partito popolare (sindacati, cooperative, casse rurali), i socialisti riformisti, con le camere del lavoro, le leghe, le cooperative e le casse agrarie, i socialisti rivoluzionari. In varie zone dell’isola vengono organizzate le occupazioni delle terre. Si ricorre ancora alla violenza. Nel 1919 viene ucciso a Corleone l’assessore comunale Giovanni Zangara, a Prizzi cade il segretario della Lega contadina Giuseppe Rumore. Nell’ottobre dello stesso anno a Riesi, in provincia di Caltanissetta, su ordine del commissario Messana, che ritroveremo negli anni ’40, all’epoca della strage di Portella della Ginestra, le forze dell’ordine sparano sui contadini che chiedono l’espropriazione dei latifondi: 15 morti e 50 feriti. È il primo di una serie di massacri compiuti dalle forze dell’ordine nel biennio 1919-1920 : 3 morti a Terranova (l’attuale Gela), 9 morti a Randazzo, 6 morti a Catania, 2 morti a Centuripe, 4 morti a Comiso. Nel 1920 vengono uccisi Nicolò Alongi e Giovanni Orcel. Il primo è una delle figure più significative del movimento contadino, il secondo è il segretario dei metalmeccanici di Palermo. Insieme avevano sperimentato le prime forme di lotta comune tra contadini e operai.
Negli anni precedenti l’avvento del fascismo in Sicilia lotta contro la mafia e per la democrazia si mescolano. Dove è presente la mafia la reazione al movimento contadino è capitanata dai mafiosi, che intrecciano la loro azione con lo squadrismo di combattenti e nazionalisti; altrove, nella Sicilia orientale, si formano squadre nazionaliste e fasciste sul modello continentale. Nel 1921 e nel 1922 in Sicilia occidentale cadono dirigenti e militanti del movimento contadino (tra cui Vito Stassi a Piana dei Greci, Sebastiano Bonfiglio a Monte San Giuliano, l’attuale Erice) e vengono devastate e incendiate sedi sindacali e di partito; nella Sicilia orientale si susseguono gli scontri (a Ragusa 4 morti e 66 feriti, a Modica 6 morti e 4 feriti) e gli amministratori socialisti dei comuni di Modica, Vittoria, Comiso e Augusta sono costretti a dimettersi in seguito agli atti di violenza delle squadre fasciste. A maggio del ’22 a Vittoria i fascisti uccidono un giovane comunista, feriscono alcuni operai e bruciano la sede del Partito comunista, nato l’anno prima al congresso di Livorno. Il fascismo si avvia alla vittoria e la sconfitta del movimento contadino è sanzionata dal decreto dell’11 gennaio 1923 con cui vengono revocate le concessioni dei latifondi alle cooperative contadine. Vengono sciolte tutte le organizzazioni non fasciste e dirigenti e militanti vengono condannati dal tribunale speciale al carcere o al confino.


Le lotte del secondo dopoguerra

Gli Alleati sbarcano in Sicilia il 10 luglio del 1943 e la guerra nell’isola è già finita alcune settimane dopo (il 17 agosto). Si è attribuito un ruolo decisivo o significativo alla mafia nello sbarco, ma studi recenti tendono a ridimensionarlo. In realtà la mafia, che riprende la sua attività in quel periodo, ha avuto una grande importanza nel controllo sociale e politico della Sicilia nel doposbarco e nel dopoguerra (Santino 2000, p. 131).
Il movimento contadino siciliano del secondo dopoguerra è stato considerato come una vera e propria lotta di liberazione (Renda 1979, p. 559) e in realtà esso è stato così complesso (coniugando lotta politica e lotta economico-sociale), ha coinvolto masse così grandi e ha avuto una durata così rilevante da assumere dimensioni e caratteri da epopea popolare (Santino 2000, p. 139).
Tenendo conto degli obiettivi possiamo distinguere tre fasi: la prima: lotta per i granai del popolo e per l’applicazione del decreto Gullo sulla divisione del prodotto (1944-45); la seconda: lotta per l’assegnazione delle terre incolte e malcoltivate (1945-49); la terza: lotta per la riforma agraria (1949 – primi anni ’50).
Già nel ’44 si hanno le prime vittime. Nel maggio, a Regalbuto, in provincia di Enna, durante un raduno separatista (agrari e mafiosi per condizionare il quadro politico ricorrono strumentalmente al ricatto separatista e propongono che la Sicilia diventi la 49a stella della bandiera americana), cade ucciso Santi Milisenna, segretario della Federazione comunista provinciale. Ad agosto viene ucciso, in provincia di Palermo, Andrea Raia, organizzatore comunista e membro del comitato di controllo dei granai del popolo. A settembre, a Villalba, nel regno del capomafia Calogero Vizzini, durante un comizio tenuto dal neo segretario regionale comunista Girolamo Li Causi, i mafiosi sparano e feriscono Li Causi. Il 19 ottobre a Palermo, durante una manifestazione contro il carovita, i soldati sparano sulla folla: ufficialmente 19 morti e 108 feriti, secondo il Comitato di liberazione 30 morti e 150 feriti. Alla fine del ’44 e agli inizi del ’45, soprattutto nella Sicilia orientale, ci sono i moti antileva, contro la chiamata alle armi. In alcuni comuni si proclamano repubbliche popolari autonome. A Comiso gli scontri più gravi: 19 morti tra i rivoltosi e 15 tra i militari.
I granai del popolo furono istituiti per l’ammasso obbligato del grano per fronteggiare il fabbisogno alimentare e furono apertamente boicottati da agrari e mafiosi, spalleggiati dal Mis (Movimento per l’indipendenza della Sicilia) e con la copertura dei democristiani.
Nell’ottobre del ’44 il ministro dell’Agricoltura, il comunista calabrese Fausto Gullo (al governo nazionale era la coalizione antifascista, formata da democristiani, socialisti e comunisti) emana alcuni decreti che mirano a migliorare le condizioni di vita dei contadini. I due decreti più importanti riguardano la ripartizione dei prodotti nei contratti di mezzadria e la concessione delle terre incolte e malcoltivate ai contadini associati in cooperativa.
Le agitazioni per l’attuazione del decreto Gullo sulla divisione dei prodotti (il 60% ai contadini coltivatori, il 40% ai proprietari) cominciarono nell’estate del ’45. Protagonisti sono i mezzadri dei paesi delle province di Agrigento, Enna, Caltanissetta e Palermo. Sono i paesi dei Fasci siciliani, ora sotto la guida di socialisti e comunisti. Si lotta per l’applicazione di una legge nazionale, ma i padroni e le stesse forze dell’ordine dicono che questa legge non c’è, è un’invenzione dei comunisti. Una circolare del ministro ai prefetti non riesce a cambiare la situazione. Sulle aie si hanno scontri e incidenti. Uomini armati intervengono per impedire la ripartizione del prodotto a 60 e 40. Carabinieri e polizia si schierano a favore dei proprietari. Su iniziativa dei democristiani, e con l’avallo dell’Alto Commissario per la Sicilia, il democristiano Salvatore Aldisio, nel giugno del ’45 si arriva a un accordo tra Federterra regionale e Unione regionale degli agricoltori che vanifica in gran parte il decreto Gullo. I mezzadri in lotta respingono l’accordo giudicandolo una truffa. Si stipula un nuovo accordo, più favorevole ai mezzadri. Alle trattative partecipa come osservatore il rappresentante della neonata Federazione nazionale dei coltivatori diretti (la Coldiretti), di chiara ispirazione democristiana, creata per rompere il fronte contadino.
Mentre le lotte mezzadrili riguardarono solo alcune province, le lotte per la concessione delle terre si estesero su tutto il territorio siciliano e ad occupare le terre non furono soltanto i contadini che facevano riferimento al socialcomunismo ma anche i democristiani. Non ci fu una contrapposizione frontale, ma i contrasti politici ricalcavano le differenze di classe: con i democristiani erano i contadini benestanti, con i socialisti e i comunisti i contadini poveri e i braccianti. I risultati delle agitazioni non mancarono: dai 2.221 ettari concessi nel 1944 si passò a 10.182 ettari nel ’45, e si arrivò a 86.420 ettari nel ’52.
Negli anni ’45 e ’46 la violenza mafiosa si fa sentire più volte: cadono i sindacalisti Nunzio Passafiume, Agostino D’Alessandro, Giuseppe Scalia, Nicolò Azoti, i sindaci socialisti Gaetano Guarino, Pino Camilleri, i contadini Giovanni Castiglione, Girolamo Scaccia, Giuseppe Biondo, i fratelli Giovanni, Vincenzo e Giuseppe Santangelo, Paolo Farina. Ci sono anche vittime del fuoco delle forze dell’ordine durante scioperi e manifestazioni: 2 morti a Palermo, mentre a Caccamo, in provincia di Palermo, nell’agosto del ’46 per questioni riguardanti l’ammasso del grano c’è uno scontro di tre giorni tra contadini, carabinieri e agenti di pubblica sicurezza. Il bilancio è gravissimo: 20 morti e 69 feriti fra i rivoltosi, 4 morti e 21 feriti fra le forze dell’ordine.
Il 1947 è un anno di svolta. L’anno si apre con l’assassinio del segretario della camera del lavoro di Sciacca e dirigente del Partito comunista Accursio Miraglia, con l’omicidio del militante comunista Pietro Macchiarella e con il ferimento di due operai del Cantiere navale di Palermo ad opera dei mafiosi che controllano la mensa e il reclutamento della manodopera. A Messina nel marzo, durante una manifestazione contro il carovita, i carabinieri al grido di “Avanti Savoia” (in Italia c’è già la Repubblica) sparano sulla folla: 2 morti e 15 feriti.
Il 20 aprile ci sono le prime elezioni regionali (la Sicilia è riuscita ad ottenere un’autonomia speciale e il suo Statuto farà parte della Costituzione repubblicana): vincono le forze di sinistra coalizzate nel Blocco del popolo, con il 29,13% dei voti; la Dc, che aveva avuto il 33,62% alle elezioni per l’Assemblea costituente, ora ha solo il 20,52%. È evidente che la vittoria delle sinistre è il frutto delle lotte e dei successi del movimento contadino. La risposta non tarda a venire: il primo maggio a Portella della Ginestra si spara sulla folla che festeggia la festa del lavoro e la vittoria elettorale. Secondo le fonti ufficiali ci furono 11 morti e 27 feriti. La responsabilità viene addossata ai banditi della banda Giuliano e il ministro degli Interni, il siciliano Mario Scelba, si affretta a dichiarare che non c’è un movente politico. Nel corso del mese di maggio le sinistre vengono estromesse dal governo nazionale e sia a Roma che a Palermo vengono varati governi centristi, formati dai democristiani e dai partiti conservatori, che furono indicati tra i mandanti della strage di Portella. La svolta politica è il prodotto di un intreccio tra interessi locali, nazionali e internazionali, convergenti nella scelta anticomunista che contrapporrà il blocco occidentale al blocco socialista.
Nel nuovo quadro politico al movimento contadino mancherà la sponda istituzionale. La lotta per la riforma agraria vede la contrapposizione tra organizzazioni della sinistra e organizzazioni democristiane. Nel 1948 la Dc vince le elezioni e nel corso dello sciopero generale per l’attentato a Togliatti si ha la scissione sindacale. Si sperimentano nuove forme di lotta, come lo sciopero a rovescio, con l’aratura e la semina; nel 1949 il movimento si diffonde in tutto il Mezzogiorno e i manifestanti si scontrano con la Celere, la polizia creata da Scelba in funzione antioperaia e anticontadina. Nell’ottobre in Calabria, a Melissa, un reparto della Celere spara sui contadini: 3 morti e 15 feriti, tutti colpiti alle spalle. Il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi scende in Calabria e prende l’impegno di dare la terra ai contadini.
Nel corso del 1950 vengono approvate due leggi di riforma parziale: la cosiddetta legge Sila per la Calabria e la cosiddetta legge stralcio per il Meridione e le isole. In Sicilia, dopo infinite discussioni sulla competenza della regione, viene approvata nel dicembre dello stesso anno una legge regionale che le opposizioni battezzarono come “controriforma agraria”. Prima dell’attuazione della legge regionale, i proprietari mettono in vendita le terre a prezzi esorbitanti e i mafiosi intermediari le rivendono a prezzi ancora più alti. La parola d’ordine del movimento “non comprare” cadde nel vuoto: comprarono soprattutto i contadini benestanti ma anche soci e dirigenti delle cooperative di sinistra. Le terre vendute furono 193.785 ettari e i compratori 82.281; la massa di denaro in circolazione andava da 30 a 60 miliardi di lire.
La legge regionale n. 104 del 27 dicembre 1950 prevedeva l’assegnazione delle terre per sorteggio individuale: un chiaro invito a smantellare le cooperative. Furono assegnati 79.290 ettari, divisi in 17.157 lotti e solo l’11% dei 154.000 che avevano fatto richiesta riuscì ad avere un pezzo di terra. Attraverso aggiunte e modifiche alla legge gli ettari assegnati in tutto furono 99.049. Si trattava quasi sempre delle terre peggiori (gran parte dei terreni era a seminativo nudo, utilizzabile solo per coltivazioni cerealicole tradizionali) e l’Ente per la riforma agraria (Eras) si dimostrò un carrozzone clientelare. Se si considera che le cooperative agricole gestivano oltre 86.000 ettari con forme di autogestione che coinvolgevano 50.000 contadini, mentre ora gli assegnatari erano 17.000, l’insuccesso è evidente.
L’ultima fase delle lotte contadine è segnata ancora dalla violenza. Nel ’48 cadono i dirigenti Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto, Calogero Cangialosi, nel ’52 cade il contadino Filippo Intile, nel ’55 saranno uccisi i sindacalisti Salvatore Carnevale e Giuseppe Spagnuolo. Per questi delitti, come per i precedenti, non pagherà nessuno. Gli imputati dell’omicidio di Carnevale vengono condannati in primo grado, grazie anche alle denunce della madre Francesca Serio, ma assolti in appello. Difende i mafiosi Giovanni Leone, avvocato di parte civile Sandro Pertini.
Negli anni ’50 comincia il grande esodo dalla Sicilia: nel decennio ’51-’61 partono in 386.000, nel decennio successivo gli emigrati saranno 624.000. In vent’anni più di un milione su una popolazione di 4 milioni e mezzo. Destinazione Nord Italia e Centro Europa. Sindacati e partiti di sinistra sono dissanguati, il ruolo della mafia crescerà adattandosi alle trasformazioni della società e delle lotte contadine siciliane per lunghi anni non rimarrà neppure la memori

Riferimenti bibliografici

Fedele Santi (a cura di), I Fasci siciliani dei lavoratori (1891-1894), Rubbettino, Soveria Mannelli 1994.
Renda Francesco, Il movimento contadino in Sicilia, in Autori Vari, Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra a oggi, De Donato, Bari 1979, vol. I, pp. 557-717.
Santino Umberto, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Riuniti, Roma 2000.