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Pentiti, fase politica e lotta contro la mafia

Pentiti, fase politica e lotta contro la mafia

Antonio Pioletti, direttore di “Città d’utopia”, intervista Umberto Santino

1. E’ ormai consuetudine che tu, periodicamente, sotto forma d’intervista, proponga in “Città d’utopia” le tue riflessioni sulle dinamiche del blocco mafioso e sulla lotta contro di esso. Già nel maggio ’95 rilevavi: «…pare che sia in atto una ristrutturazione del potere all’interno dei clan vincenti, in un contesto in cui si accendono tensioni tra boss catturati, boss latitanti e nuovi soggetti emergenti». Tutta la “vicenda Brusca”, dall’arresto al cosiddetto complotto anti-Violante e alle dichiarazioni che il capomafia sta rendendo, quali possibili letture presenta?

Proviamo a ricostruire la vicenda Brusca, almeno per quello che è emerso dagli organi di informazione. Nel dicembre del 1991 Brusca, che da buon capomafia latitante si muove a suo agio con tutti i mezzi di trasporto, si accorge che tra i viaggiatori del volo Palermo-Roma c’è Luciano Violante.

Memorizza tale circostanza e successivamente, da solo o con altri, prepara un piano che mira a colpire un noto rappresentante dell’antimafia istituzionale e i pentiti. Violante sarebbe stato presentato come un compratore di pentimenti, pagati a caro prezzo, e i pentiti come dei recitanti a soggetto. In tal modo si sarebbero presi parecchi piccioni (nel conto c’è da mettere il grosso favore reso ad Andreotti e non solo a lui) con una sola fava. Di tale piano sicuramente è informato l’avvocato Ganci, difensore della famiglia Brusca e imparentato con mafiosi.

Nel maggio del 1996 Brusca viene arrestato. Immediatamente dopo l’arresto, per la solita, immancabile, fuga di notizie, circolano voci su un suo possibile pentimento; quando queste voci vengono confermate e già tutti danno Brusca per l’ennesimo pentito eccellente, Di Gennaro dà l’allarme:

Brusca vuole destabilizzare le istituzioni. Cioè: vuole mettere in atto il piano a cui aveva pensato. Ma nel frattempo il giovane capomafia avrebbe cambiato idea e vorrebbe collaborare con la giustizia.

Di Gennaro ha sventato il “complotto”, con il suo comunicato, oppure Brusca, convinto dalle durezze del carcere, si è ricreduto o si è accorto dell’inconsistenza del piano? Ma perché l’avvocato Ganci, comportandosi in modo inusitato per un difensore di mafiosi, fa le sue dichiarazioni? Ha tutta l’aria di voler costringere Brusca a recitare la parte che si era preparata e di rendere un servizio ad Andreotti.

Se ha pensato tutto da solo, Brusca come complottatore si è rivelato un dilettante, oppure bisogna pensare che gli altri che hanno escogitato con lui il piano si siano tirati indietro. Ma è credibile che i complottatori di professione, i servizi segreti, i piduisti a piede libero e nel frattempo riciclatisi, altri che finora sono riusciti a restare nell’ombra, in un momento come questo si mettano a complottare con un mafioso ormai fuorigioco? Mi pare di no, ma non è da escludere che qualcuno abbia pensato di poter giocare anche questa carta.

Cosa sta rivelando Brusca? Qualcuno ha detto che dopo le sue dichiarazioni bisogna riscrivere la storia della mafia. Per quello che si è saputo fin qui, non mi pare proprio e non per caso i magistrati che lo interrogano finora lo hanno considerato solo un “dichiarante” e non un collaboratore.

Sul piano dei rapporti tra mafia e politica non ha detto niente di rilevante; riguardo alle ricchezze accumulate con varie attività, ha parlato di spiccioli versati nei libretti di risparmio intestati alla madre, classica custode dei “valori” mafiosi.

Cosa accade dentro la mafia? Cominciamo con Cosa nostra. I corleonesi sono alle corde e credo che tutti i mafiosi con un minimo di sale in zucca si siano resi conto che la strategia di Riina, dettata da una sorta di delirio di onnipotenza criminale, è stata un fallimento. Ha proiettato Cosa nostra al vertice dell’attenzione ma ha avuto effetti boomerang che hanno portato quasi tutti i boss in carcere con il 41 bis.

I capi di Cosa nostra ancora latitanti o sconosciuti staranno riflettendo: è molto più conveniente tornare al modello mafioso classico, fondato più sulla mediazione che sullo scontro, quindi niente delitti “eccellenti”, cioè contro i potenti, meno fragori e più business, riprovare ad allacciare legami con i detentori del potere (e in una fase di transizione come questa la cosa migliore è cercare di avere i piedi in più staffe), offrendo garanzie che non faranno saltare le teste alla prima occasione.

Ho detto più volte che non condivido l’identificazione di Cosa nostra con i corleonesi e di tutto l’associazionismo mafioso con Cosa nostra. Comprendo la logica che muove i magistrati e le forze dell’ordine ma questa non può essere tout court la logica né degli studiosi né dei militanti.

All’interno di Cosa nostra palermitana non ci sono segnali che siano in corso guerre di successione. Si parla di un duunvirato Provenzano-Aglieri, cioè di un compromesso tra corleonesi superstiti e palermitani emergenti e potrebbe significare una svolta verso quella che è stata chiamata la “sommersione”: farsi notare il meno possibile e ritessere le fila.

Al di fuori di Cosa nostra si sa poco della Stidda e certo non quanto sarebbe necessario per i clan di Catania. Ci sono inchieste e processi in corso e bisognerebbe acquisire e studiare questi documenti ma non c’è niente sul piano dello studio scientifico. Più volte ho proposto di studiare seriamente la mafia di Catania, di costituire un centro di documentazione, di svolgere delle ricerche, ma purtroppo finora non si è potuto realizzare niente di concreto. C’è un vuoto di analisi e di iniziativa e non c’è da sorprendersi se la cittadinanza non si smuove. C’è l’assuefazione alla violenza ma pure la mancanza di organizzazioni di qualche consistenza e di una prospettiva reale che coniughi lotta alla mafia con un progetto economico e di rinnovamento.


2. È in atto un gran parlare a proposito della legislazione e della gestione sui e dei pentiti e le vicende Brusca e Ferone hanno riproposto la questione. Qual è la tua opinione?

La legislazione sui collaboratori di giustizia, impropriamente considerati pentiti, è nata, come del resto tutta la legislazione antimafia, secondo una logica d’emergenza, in seguito ai grandi delitti. Non c’è dubbio che essi hanno dato un contributo prezioso nei processi di mafia ma ora, con l’accrescersi del loro numero, vengono a galla tutti i rischi derivanti da una legislazione premiale che ha portato fuori dal carcere mafiosi pluriomicidi. In una logica di do ut des e di comparazione tra costi e benefici, è comprensibile che si facciano degli sconti di pena, ma metterli in libertà no. C’era da aspettarsi che parecchi fingessero il pentimento per ottenere l’impunità e se finora c’è stato solo Ferone che ha finto di pentirsi per poter fare le sue vendette, tutto sommato non è andata troppo male, ma non è escluso che ci siano altri casi.

Secondo un rapporto del Ministero degli Interni fino al giugno di quest’anno i collaboratori di giustizia erano 1.177, di cui 43O affiliati alla mafia, 224 alla camorra, 158 alla ‘ndrangheta, 101 alla Sacra corona unita, 264 ad altre associazioni di tipo mafioso. I familiari protetti erano 5.000. Nel frattempo le cifre saranno aumentate, si parla di una media di 25 nuovi collaboratori al mese. Il sistema vigente era pensato per un numero limitato di casi. Certo, con il levitare dei numeri, il sistema scoppia, diventa troppo costoso, ma il rischio più grosso è un altro: che ci sia un “pentimento” di massa come forma per ottenere l’impunità e ricominciare il gioco, dando a vedere che ormai la mafia è alle corde e che si può abbassare la guardia. Qui il gioco di Brusca mi pare furbo e pericoloso e può usare a vantaggio dei mafiosi la convergenza incrociata (cioè la conferma delle dichiarazioni di un pentito attraverso quelle di altri pentiti) utilizzata dai magistrati con l’avallo della Cassazione, che per farsi perdonare i tempi di Carnevale ha totalmente cambiato rotta.

Basterà che si presentino altri “pentiti” a confermare le cose che dice Brusca per distruggere molte inchieste già definite o in corso? Pare che Brusca voglia avviare questo tipo dipentimento, ma i magistrati finora hanno mostrato di essere in grado di scoprire il bluff. Solo che bisogna rivedere quel criterio, non fondare tutto o quasi sulle dichiarazione dei collaboratori, anche quando si dimostrano affidabili (per qualcuno l’affidabilità dei pentiti, una volta sancita da sentenze, è diventata una sorta di dogma, per cui anche le ricostruzioni destituite di ogni fondamento, come la tesi di Buscetta che la strage di Portella della Ginestra fu un “incidente”, vengono prese per oro colato: purtroppo questo è il livello della mafiologia che va per la maggiore). Ma non c’è solo da ridefinire la legislazione sui pentiti, rincarando il prezzo, cioè chiedendo di più di quanto si sia chiesto finora, offrendo minori vantaggi, per esempio non la scarcerazione ma un sistema penitenziario differenziato, occorre ripensare l’intera legislazione sulla mafia, a cominciare dalle fattispecie di reato.

Attualmente abbiamo l’associazione mafiosa, il concorso esterno, lo scambio elettorale politico-mafioso. Andreotti è incriminato di associazione mafiosa, Contrada invece è stato condannato per concorso esterno e anche il ministro Mannino è accusato di concorso, lo scambio elettorale è previsto solo per la promessa di voto del mafioso in cambio di denaro, ignorando gli appalti e tantissimi altri terreni su cui può avvenire lo scambio, mentre i familiari dei mafiosi non sono imputabili per favoreggiamento. Bisogna uscire dall’ottica dell’emergenza, riordinando disposizioni frettolose e contraddittorie.


3. Siamo in una fase di transizione quanto mai confusa nella quale al risultato elettorale del 21 aprile, a dimostrazione che la vittoria dell’Ulivo non è certo il risultato di uno spostamento a sinistra del paese, è seguito quello delle elezioni regionali in Sicilia. Si sta manifestando una forte ripresa del sicilianismo più becero che sembra mirare a una ricomposizione di interessi all’ombra di un nuovo flusso di risorse finanziarie per le opere pubbliche, grandi e meno grandi. Quale quadro di assetti sta emergendo, e come vedi in questo contesto gli indirizzi delle giunte progressiste in Sicilia e del Governo Prodi?

È certo un fatto positivo che rispetto al profilarsi di una vittoria del Polo sia riuscita a prevalere la variegata coalizione dell’Ulivo, con l’appoggio di Rifondazione. I problemi sono enormi e molto dipenderà dal livello di compromesso che si riuscirà a raggiungere nella nuova finanziaria.

Rifondazione ha un ruolo interessante ma non si può delegare tutto a Bertinotti e attendere il suo segnale per muoversi. Nel frattempo c’è il rischio che riprenda il tran-tran consueto, a cominciare dal sistema della corruzione che in realtà non si è mai interrotto. I magistrati continuano ad avere il ruolo di guastafeste. Anche se dovrebbero evitare di fare dichiarazioni a ruota libera (bisognerebbe dare le informazioni sulle inchieste in corso solo con i provvedimenti e con comunicati stampa dell’ufficio) non si può dire che bisogna ritornare alla “normalità” (parola tanto abusata quanto vuota); finché si continuerà a delinquere la magistratura deve svolgere fin in fondo il suo ruolo. Sono contrario a qualsiasi soluzione politica di Tangentopoli: da Tangentopoli si esce solo smettendo di rubare.

Le elezioni regionali in Sicilia sono in linea di continuità con il passato. La Sicilia ha votato Dc, anche se la Dc non c’è più, perché ha ancora bisogno di santi-protettori che in qualche modo perpetuino il vecchio clientelismo. Così si spiega il successo di tanti che hanno cambiato sigla ma hanno continuato a fare quello che facevano prima, anche se il flusso di denaro pubblico si è ridotto. La Sicilia si aggrappa al passato perché non c’è nessun progetto di futuro. Lo si è visto durante la campagna elettorale: niente che assomigli in qualche modo a un programma, anche in quello che rimane di sinistra.

Quanto al sicilianismo, è comprensibile che in un periodo come questo, si ricorra a vecchi arnesi che sono sempre serviti ad alzare il prezzo. Ma, tutto sommato, rispetto ai deliri della Lega, i sicilianisti sono parecchi passi indietro. Le liste che cercavano di rifarsi al separatismo hanno avuto un insuccesso clamoroso e il nuovo presidente della Regione, ex consulente della moglie del boss Provenzano, quando minaccia ferro e fuoco se non è invitato a partecipare alle sedute del Consiglio dei ministri, sembra il classico cane che abbaia ma non morde.

Il Governo Prodi parla molto di Mezzogiorno e certamente qualcosa si farà con la ripresa delle opere pubbliche, gestita da un Di Pietro che mira ad esaltare il proprio ruolo di uomo forte e deciso, intralciato dagli altri.

Le giunte progressiste siciliane rischiano di lasciare grandi delusioni, sia dove ci sono leader miracolatori sia dove ci sono personaggi meno egocentrici ed esibizionisti. In molte situazioni più che giunte ci sono sindaci con cui è impossibile o molto difficile collaborare se non si è devoti e mediocri. L’elezione diretta del sindaco e non degli assessori sollecita i personalismi e il gregarismo. A Palermo l’esperienza di “Ricostruire Palermo” è stata fallimentare: nessuno dei consiglieri eletti nella sua lista ha pensato di convocare le persone che avevano dato vita a un movimento che voleva rilanciare il protagonismo della società civile, d’altra parte quel movimento si era già squagliato quando si dovevano decidere le candidature. Orlando ha scontentato molti, ma il torto è di chi pensava che fosse diverso da quel che è, di poterlo in qualche modo condizionare, dopo avergli rilasciato delle cambiali in bianco. Si dice che Palermo è diventata una capitale della cultura, che si sono aperti nuovi spazi, ma mi pare che si celebri continuamente, e costosamente, il trionfo dell’effimero, con festini vari, e che si sia imposta una cultura del rudere. I ruderi saranno suggestivi, ma sarebbe meglio fare dei buoni restauri. Di questo passo si valorizzeranno pure i cumuli di rifiuti, che non mancano, inscenandovi qualche spettacolo, e si dirà che si è fatto un altro passo sulla strada della “normalità”. Ci sono anche note positive, come l’avvio, ancora molto stentato, del risanamento del centro storico, l’apertura di centri sociali. Il caso dei bambini dell’Albergheria utilizzati dai pedofili ha riproposto una realtà da Terzo mondo: la mancanza di servizi, le condizioni abitative disastrose, le carenze istituzionali ma pure del volontariato. Su un problema fondamentale come il nuovo Piano regolatore, molto ambizioso e molto discutibile, c’è stata la massima disattenzione: una nostra iniziativa si è risolta in un buco nell’acqua.


4. Quale può essere il ruolo della società civile in questa fase?

Dopo le manifestazioni degli anni scorsi e del maggio di quest’anno si è tornato ai tempi di magra. L’iniziativa più consistente continua ad essere “Palermo apre le porte. La scuola adotta un monumento”, che ha coinvolto moltissimi alunni, ma non si riesce ad andare oltre, legando l’interesse per i monumenti, spesso fatiscenti, con il progetto di restauro e di uso permanente a fini culturali e di occupazione.

L’associazione nazionale “Libera” in Sicilia è un totale fallimento, dovuto alle scelte verticistiche dei referenti, fatte con ottica da comitati Prodi, ma anche alla precarietà e frammentarietà dell’associazionismo.

D’altra parte ci sono elaborazioni e progetti della società civile (dalla riduzione del danno al no-profit) che vanno facendosi strada, anche se in modo inadeguato. Bisogna prendere atto che la società civile, i movimenti sociali, le mille forme di volontariato sono in gran parte realtà precarie, esprimono bisogni e disagi ma, tranne qualche caso, non riescono a durare, mentre le forme storiche dell’azione sociale (partiti e sindacati) sono in crisi e inadeguate rispetto alla situazione attuale. Si pensi al problema dei disoccupati, soprattutto dei giovani, che è già e diventerà sempre di più, il problema più grave con cui fare i conti. Non basta organizzare marce per il lavoro, bisogna dare una mano ai disoccupati perché si diano forme autonome di organizzazione e di lotta e diventino protagonisti. Come dicevamo lo scorso 9 maggio, anniversario dell’assassiniodi Impastato, bisogna rilanciare un’antimafia sociale, legata alle condizioni di vita di gran parte della popolazione, mettendo al centro il problema del lavoro. Solo così può costruirsi un tessuto di economia legale, con l’appropriazione del territorio e delle sue risorse, e può concretarsi un’alternativa reale all’accumulazione illegale che continua a prosperare, nonostante il carcere duro per i boss.

Pubblicato su “Città d’utopia”, n. 20-21, dicembre 1996, pp. 21-22. “Città d’utopia” – Antonio Pioletti. E-mail: pioletti@mbox.unict.it