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Scritti su Peppino


La militanza rivoluzionaria di Peppino attraverso i suoi appunti
di Salvo Vitale

Agli inizi del ’60 Cinisi si presentava come un centro agricolo pastorale con discreti indici di produzione dei prodotti ortofrutticoli: tuttavia questo non bastava a risolvere i problemi economici della zona. Dagli anni ’30 in poi il tasso di emigrazione rimase uno dei più alti della provincia e tuttora non c’è famiglia di Cinisi che non abbia parenti emigrati negli USA. Anche allora era in primo piano il problema “mafia”: è una grossa balla che il fascismo- sia riuscito a sgominare la mafia: in molti casi ne ha fatto confluire al suo interno la capacità di controllo dei vari settori produttivi, affidandole la gestione di un apparente ordine pubblico, se non posti di potere, in altri casi ha esportato all’estero le punte più fastidiose, non trascurando tuttavia di mantenerne i legami. Cosi una serie di piccoli delinquenti, di disoccupati, di borghesi di incerta posizione economica, ma non privi di intraprendenza, hanno piantato radici all’estero, inserendosi particolarmente negli ambienti del gangsterismo americano e avviando una serie di traffici di contrabbando in accordo col nucleo rimasto in paese. La liberazione e i conseguenti accordi tra esponenti mafiosi e alleati aprono nuovi spazi d’azione: la storia zonale dell’ultimo trentennio è ricca infatti di gesti delinquenziali, assassinii, ricatti, estorsioni, che confermano sempre più l’escalation di gruppi mafiosi alle zone-chiave dell’economia.

Cinisi si inserisce nella lotta tra i La Barbera e i Greco, parteggiando per questi ultimi, ed è un susseguirsi di delitti (se ne contano 70), sino al ’64, anno in cui viene fatto saltare in aria con una carica di tritolo innescata nella sua “Giulietta”, Cesare Manzella, il boss che controllava tutta la zona, cognato del padre di Peppino. Gaetano Badalamenti, che sino a quel momento è vissuto alla sua ombra, ne raccoglie l’eredità iniziando la conquista di zone più vaste d’espansione, dal settore edilizio a quello delle pubbliche assunzioni, attraverso stretti legami col potere politico. Prima di continuare questo discorso è necessario tuttavia ripercorrere le tappe che hanno cambiato il volto del paese, a cominciare dalla costruzione dell’aeroporto di Punta Raisi.

 

Punta Raisi: prima pista

Comincia nel ’58. L’ubicazione è incerta tra Bagheria e Punta Raisi. La necessità di un nuovo aeroporto nasce dalla decisa destinazione ad uso militare dell’aeroporto di Boccadifalco. Bagheria è ricca di agrumeti, ma è forte anche di rappresentanze politiche, spalleggiate da pressioni mafiose; Cinisi, per contro, presenta una lunga lingua di terra, interamente circondata dalle montagne e sufficiente per una pista longitudinale, senza particolari strutture agricole da danneggiare (in realtà è anche questa una zona ricca di uliveti e agrumeti).

Si decide per Cinisi, ma si decide anche per i limiti che la costruzione comporterà: alcune zone costiere saranno lasciate libere per favorirne l’incremento dei prezzi. Si avvia la procedura di esproprio. Si acquista il terreno di un privato del giro mafioso, pagandolo a un prezzo rilevante. Si diffonde subito il mito che i terreni saranno pagati a prezzi favolosi e tutti i proprietari si affrettano a firmare il cosiddetto “compromesso”.

La stangata è dura: i terreni sono pagati a prezzi dalle 14 alle 80 lire per mq. e i contadini, costretti a sloggiare, si rendono conto di non potere ricavare, dalla cessione, neanche i soldi necessari per produrre la richiesta documentazione. Qualcuno non accetta la “stima” e fa causa: si vedrà pagare il terreno, dopo otto-dieci anni dall’esproprio, riuscendo appena a coprire le spese legali. Altri continueranno a pagare le tasse per i terreni espropriati, dal momento che hanno rinunciato ai soldi, sino agli inizi del ’68, pena il pignoramento dei propri beni.

Vengono costruite due piste in verticale, praticamente una sola, e l’aeroporto, accaparrato in esclusiva dall’Alitalia, rimane in una situazione di spaventosa precarietà, privo delle infrastrutture indispensabili, quali la torre di controllo o la sala di attesa, assolutamente impraticabile quando il vento è molto forte, specie se si tratta di scirocco. E il momento in cui Cinisi comincia a cambiar faccia: leggi speciali americane limitano gli spazi per l’emigrazione e si rende necessario cercare lavoro in loco. Comincia a confluire una gran massa di gente negli enti pubblici, specie nella Regione, tramite rapporti clientelari, dietro cui sta la fortuna del PSDI e della DC, che hanno sostituito il forte partito monarchico. Fondamentale in tutto questo il ruolo di “raccomandazione” ai politici, svolto dai mafiosi, cui si rivolgono molti disoccupati .

Facendo leva su una serie di alleanze con esponenti di grosse famiglie mafiose, il PSDI, guidato dal dott. Pandolfo, uomo di grandi ambizioni e di buone amicizie nel campo, riesce a crearsi una base che nel ’72 porterà il dott. Pandolfo al parlamento nazionale. Cinisi in questo periodo diventa la seconda città d’Italia, dopo Milano, per densità (o proprietà) di macchine per persona! Il settore edilizio rimane il naturale campo di espansione della mafia: già in precedenza si erano verificate intimidazioni e intromissioni all’epoca della costruzione della strada del Furi, allorché i mafiosi costringevano i 52 operai ad un’ora di lavoro in più, non retribuita .

Successivamente la mafia si intromette anche all’interno della SAB, ditta appaltatrice dei lavori dell’aeroporto, imponendo preferenze nell’acquisto dei materiali e nelle assunzioni. L’avvio del processo di terziarizzazione porta con sé anche un incremento della scolarizzazione e la necessità di coagulo di un nucleo culturale che si identifica in gran parte nel PCI e nel PSIUP. È il momento della nascita politica di Peppino.

 

“L’Idea Socialista”

In un appunto, scritto di suo pugno, Peppino si esprime cosi: “Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare divenuta ormai insostenibile. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto con connotati ideologici tipici di una società tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, fin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte ed il suo codice comportamentale. E riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva e a compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività. Approdai al PSIUP con la rabbia e la disperazione di chi, al tempo stesso, vuol rompere tutto e cerca protezione. Creammo un forte nucleo giovanile, fondammo un giornale e un movimento d’opinione, finimmo in tribunale e in tutti i giornali. Lasciai il PSIUP due anni dopo, quando d’autorità fu sciolta la Federazione Giovanile (erano i tempi della Rivoluzione Culturale e della morte del “Che”)”.

Nello stagnante ambiente politico cinisense “L’Idea Socialista”, tale era il titolo del giornale, rappresentò davvero un fatto nuovo, riuscendo a porre un discorso critico su alcuni personaggi intoccabili, fornendo interviste, informazioni, opinioni, analisi politiche e dibattiti, uno dei quali, fatto allora scandaloso, sul sesso.

Il primo numero risale al gennaio ’65, ma il momento migliore del giornale fu nell’estate del ’67.

Nel rileggere qualcosa di quei fogli si resta stupiti della capacità di Peppino nel formulare, all’età di 17 anni, analisi politiche lucide, quali per esempio quella che riconosceva nel PSI “un’estensione della socialdemocrazia e una componente anti-socialista per eccellenza, avvedutamente inserita nel sistema, per svolgere in esso un ruolo di effettiva copertura politica a quelle forze monopolistiche che del sistema stesso costituiscono il sostrato economico”.

Si analizzavano inoltre i problemi del mondo del lavoro e le componenti sociopolitiche-economiche dell’ambiente, con un discorso che piacque poco ai politici, i quali, non avendo nessuna voglia di svegliarsi, ne ostacolarono l’uscita prima con inviti, poi con una denuncia alla magistratura. Il giornale “ L ’Ora “ scrisse, a proposito del l’assurdo processo, che si concluse con una multa: “I giovani redattori dell’“Idea” avevano tentato di gettare una pietra nelle acque stagnanti della vita del loro paese e sono stati frenati nel loro coraggioso tentativo. Si tenta cosi di allevare piatti conformismi di cui non si conosce la probabile evoluzione. Per avere scritto: ’Forse il primo cittadino di Cinisi ignora del tutto il significato della parola sport e la trascuranza delle gerarchie comunali è una verità…’ un gruppo di ragazzi si è visto costretto a frequentare per la prima volta caserme e tribunali, a vedere il proprio nome stampigliato sulle cartelle penali”.

Una lettera non firmata, che “ L’Idea” pubblicava, diceva cosi: “Avete l’ardire di mettervi contro il prof. Pandolfo, contro l’ex sindaco giudice Pellerito, recentemente anche contro quella degnissima persona che è il prof. Paolo Abbate. In sostanza vi mettete contro il gruppo rappresentativo del paese, come se voi sapeste fare di più e di meglio. Quattro straccioni come voi non possono garantire la sicurezza della nazione. Sol perché hanno pena di “consumarvi”, queste degne persone, che voi volgarmente oltraggiate, non assumono provvedimenti legali”. Il clima di oppressione portò a un classico ricatto, operato dal maresciallo e dal sindaco Pandolfo: o chiudere o finire in tribunale. Si chiuse.

 

Il Circolo “Che Guevara”

L’esperienza de “L’Idea” si rivelò fruttuosa per legare l’embrionale movimento di sinistra di Cinisi ai fermenti
rivoluzionari che si andavano sviluppando altrove e per consumare la frattura con i partiti istituzionalizzati, incapaci di
tenere il passo con il fermento di nuove idee, nato dal ’68. Il gruppo, poi costituitosi in Circolo “Che Guevara”, si
presentava abbastanza numeroso e costituì un punto di riferimento per tutto il movimento della provincia. Eravamo
circa in 25, con sensibili simpatie nel mondo contadino ed edile. Dopo un’originaria adesione alla Lega dei marxisti-leninisti, la necessità di costruire il Partito ci portò alla confluenza nel PCD’I.

Dagli appunti di Peppino abbiamo un quadro umano, oltre che politico, di quest’esperienza “Il ’68 mi prese quasi alla sprovvista. Partecipai disordinatamente alle lotte studentesche e alle prime occupazioni. Poi l’adesione, ancora una volta su un piano più emozionale che politico alle tesi di uno dei tanti gruppi marxisti-leninisti, la Lega. Le lotte di Punta Raisi e lo straordinario movimento di massa che si è riusciti a costruirvi attorno.
È stato anche il periodo delle dispute sul partito e sulla concezione e costruzione del Partito: un momento di straordinario e affascinante processo di approfondimento teorico. Alla fine di quell’anno l’adesione ad uno dei due tronconi, quello maggioritario del PCD’I (m-l): il bisogno di un minimo di struttura organizzativa alle spalle (bisogno di protezione) è stato molto forte. E stato forse quello il periodo più straziante e al tempo stesso più esaltante della mia esistenza e della mia storia politica. Passavo con continuità ininterrotta da fasi di cupa disperazione a momenti di autentica esaltazione e capacità creativa: la costruzione di un vastissimo movimento d’opinione a livello giovanile, il proliferare delle sedi di partito nella zona, le prime esperienze di lotta di quartiere, stavano li a dimostrarlo. Ma io mi allontanavo sempre più dalla realtà, diventava sempre più difficile stabilire un rapporto lineare col mondo esterno, mi racchiudevo sempre più in me stesso. Mi caratterizzava una grande paura di tutto e di tutti e al tempo stesso una voglia quasi incontrollabile di aprirmi e costruire. Da un mese all’altro, da una settimana all’altra, diventava sempre più difficile riconoscermi. Per giorni e giorni non parlavo con nessuno, poi ritornavo a gioire, a proporre, a riproporre: vivevo in uno stato di incontrollabile schizofrenia. E mi beccai i primi ammonimenti e la prima sospensione dal Partito: la mia discontinuità era incompatibile con la vita interna dell’organizzazione. Fui anche trasferito in un altro posto a svolgere attività, ma non riuscii a resistere più di una settimana: mi fu anche proposto di trasferirmi a Palermo, al Cantiere Navale; un po’ di vicinanza con la Classe mi avrebbe giovato. Avevano ragione, ma rifiutai”.

L’esperienza personale di Peppino è parallela a quella del gruppo. La nostra militanza nel PCD’I si rivelò proficua, per quanto non esente dai limiti che la rigida struttura partitica e monolitica di quel partito offriva. Erano i tempi in cui Dinucci cercava riconoscimenti in Cina e si appropriava della testata di “ Nuova Unità”, dando luogo alla scissione tra “linea rossa” e “linea rossa’’. La “linea rossa”, uscita con il giornale “Il Partito”, riusciva a convincerci più a livello di simpatia che di precisa militanza politica. Nella nostra sede campeggiavano ritratti di Marx, Engels, Stalin, Lenin, Mao, e la nostra via sembrava caratterizzarsi su indicazioni di Lin Piao, nell’andare sempre più a sinistra.
Peppino riuscì a dare forza e coesione al gruppo, sforzandosi di farlo uscire dalle sue mura, per metterlo a contatto con problemi reali: nell’impegno sociale riusciva a superare i suoi problemi interni, trasformandosi e dimostrando un’incredibile energia.

Organizzammo una protesta a Terrasini che allora soffriva del problema della mancanza d’acqua: con la partecipazione di Bastiano, esempio coraggioso di compagno, netturbino, sulla linea del PCD’I, riuscimmo a coinvolgere nel discorso per una concreta dimostrazione del malcontento, le donne del quartiere Somalia, un centinaio delle quali scese in corteo al Municipio per gridare il proprio diritto a condizioni igieniche decenti. Anche questo si rivelò un fatto di rilievo per un paese, come Terrasini, immerso da sempre in una sonnolenta inerzia politica.

Alcuni particolari: una mattina i fascisti comparvero con un cartello in piazza, c’era scritto: “Berranno i cavalli mongoli alle fontane di Roma?”. La nostra risposta si concretizzò in un altro cartello: “No. L ’acqua buona è solo nel villino del sindaco’ . Di quel periodo anche il nostro boicottaggio della “festa della matricola”, che gli universitari qualunquisti avevano organizzato: tempestammo il paese di cartelli e dazebao, dipingemmo, davanti al locale della festa, la sera prima, questa scritta: “Mentre gli universitari coscienti rischiano la galera, occupando le facoltà, i loro colleghi di Terrasini si dilettano con festicciole borghesi”. La festa andò a monte.

Ancora in quel periodo scrivevamo sui muri: “La polizia uccide ancora a Battipaglia” e “Armi agli operai”. Ci ritrovavamo molto spesso di notte a commentare testi teorici, ma cercavamo soprattutto l’impegno pratico e il contatto con le masse. Questo non tardò a presentarsi all’epoca della costruzione della terza pista di Punta Raisi.

 

Punta Raisi: la pista della morte

E ancora il ’68. Da tempo si ventilava l’ipotesi della costruzione di questa pista, che doveva servire per l’atterraggio nelle giornate di scirocco. I primi rilevamenti avvennero nella massima segretezza. Anche la procedura d’esproprio, d’intesa con l’amministrazione comunale, era stata avviata senza pubblicità alcuna. La legge borbonica, che ancora oggi regola le procedure sull’esproprio per pubblica utilità, prevede che la delibera sia appesa all’albo e che contro di essa ci si possa appellare entro quindici giorni: nessuno vide mai quella delibera e nessuno si appellò. Così un giorno, mentre tutti eravamo ignari di tutto, comparvero i tecnici per le rilevazioni ufficiali. Si formò allora, sotto l’egida del PCI e del PSIUP, un Consorzio Espropriandi, con l’obiettivo di evitare gli errori commessi all’epoca del primo esproprio: stavolta la zona era diversa: vi lavoravano circa duecento famiglie, con una conduzione familiare delle aziende agricole: gran parte vi soggiornavano in permanenza, altri vi si recavano nel periodo estivo, data la vicinanza del mare e la bellezza selvaggia delle coste. Tutta la zona era ricca di alberi di frutta, di agrumeti e di uliveti. La produzione ortofrutticola costituiva il residuo polmone dell’economia del paese, anche se, per la speculazione che sui prodotti compivano proprietari, grossisti e mafiosi, i contadini ne ricavavano quel tanto da sopravvivere.

I rilevamenti vennero osteggiati da proprietari, ma la procedura segui il suo iter: il progetto venne cambiato per quattro volte, poiché presentava errori tecnici grossolani, ma questo non era fondamentale: importava di più chiudere la zona e militarizzarla, in modo da riservare la costa alla villeggiatura degli aeroportuali e lasciare le carte in mano a chi volesse speculare sulla vendita dei terreni residui.

I contadini, gli stessi tecnici, notarono come la pista non avrebbe mai potuto servire allo scopo, poiché lo scirocco aggira le montagne e si infiltra dalle gole, creando pericolosi vuoti d’aria. Non servi a niente. L’impresa venne condotta tra un mare di illegalità vergognose, con brutalità e decisione. Significativa, in quel momento, l’azione di Peppino, che davanti all’alternativa di ottenere un compenso equo per i terreni, sostenuta dal Consorzio Espropriandi e quella di lottare direttamente contro la costruzione della pista, propose questa seconda via, appoggiato dalla maggioranza dei contadini. Furono organizzate due manifestazioni: nel corso di una di queste alcuni del nostro gruppo, tra cui anche Peppino, vennero denunciati per organizzazione di manifestazione non autorizzata. Era stato un momento in cui Peppino aveva proposto l’occupazione del Municipio: poteva essere una scelta storica: si scelse la via della pacifica dimostrazione, voluta dal PCI e fu la fine.

Ecco i titoli di alcuni articoli, pubblicati in quel tempo sul quotidiano “ L’Ora”:

– 14/3/68. “Scontenti i proprietari dei terreni”;

– 21/4/68: “Manifestazioni a Cinisi contro il progetto (sbagliato) per la terza pista a Punta Raisi”;

– 19/9/68: “Cominciati e subito sospesi i lavori per la terza pista”;

– 22/9/68: ’‘ Lasceranno solo con la forza i terreni espropriati per la pista di Punta Raisi “;

– 28/9/68: “Sono nulli i rilievi per l’esproprio dei terreni?”;

– 17/10/68: “Per i proprietari gli espropri sono illegali”;

– 13/3/69: “Aeroporto: la terza pista sarà pronta a dicembre. Ma ancora non si pagano gli espropri ’,

15/3/69. “Assolti i cinque giovani che protestavano a Cinisi per la terza pista a Punta Raisi”.

La denuncia delle illegalità non bastò. Gli avvocati Pomar e Cipolla, del PCI, rifiutarono la proposta di difesa legale con la motivazione che la pista si doveva fare comunque perché era una necessità. E la pista si fece. Le rilevazioni e gli accertamenti sulla consistenza dei terreni vennero condotti con l’assistenza di due funzionari regionali, dal momento che nessuno dei cinisensi si era prestato; questi fungevano da testimoni, nello spregio totale del Decreto Legge 19 agosto 1917, n. 1399, che prescriveva la residenza nel luogo d’esproprio per questi testimoni; per concludere si passò all’attacco armato, nella migliore tradizione di comportamento dello stato italiano nei riguardi dei problemi meridionali.

I contadini avevano predisposto un sistema d’allarme con bombole vuote di gas. Una mattina presto sentimmo suonare le bombole e tutti ci riversammo al limite dove iniziava la zona da espropriare. Vedemmo arrivare sulla pista dell’aeroporto circa trecento soldati e carabinieri, seguiti da un nugolo di motopale e attrezzi. Il tenente dei carabinieri di Partinico, che guidava quella specie di banda, osservò con sufficienza le trecento persone riunite li, a chiedere solo un modo di sopravvivenza e rivolgendosi alle donne esordi con atteggiamento provocatorio: “Le solite facce! Le lavandaie si stiano a casa”. Uno dei contadini, Larenzu “u Spirdatu”, raccolse subito il gesto di provocazione e, scavalcato il muretto che ci divideva dai carabinieri, afferrò il tenente gridandogli: “Lavandaia devi andarlo a dire a tua moglie”. I soldati lo afferrarono per portarlo via, ma a questo punto Peppino, e gli altri dietro, scavalcarono il muretto, riuscendo a togliere, a viva forza, Larenzu dalle mani degli sbirri. Il tenente provò ancora con un discorsino “Ora ve ne tornate tutti a casa, buoni buoni, perché qui dobbiamo iniziare a lavorare”.

Fu un coro di proteste: “ Prima dateci i soldi”, “ In quale casa andremo, se ce la buttate giù?”. A questo punto il baldo tenente perse la pazienza e diede ordine alle ruspe di procedere. Ci sistemammo tutti davanti alle ruspe, seduti per terra, in un atteggiamento muto, ma deciso. Le ruspe si fermarono quasi sopra i nostri piedi.

Fallito il progetto di spaventarci o convincerci, il tenente ordinò la carica ai suoi scherani. Fummo massacrati di botte, donne, vecchi, bambini. U zzu Luigi Rizzo, di 70 anni, svenne, colpito duramente alla testa e alle le costole, e fu fatto ricoverare d’urgenza. Franco Maniaci, poi vice-sindaco di Cinisi adesso ispiratore del comunicato PCI in cui a Peppino è negato l’appellativo di compagno, per avere detto “bastardo” a un carabiniere, venne portato via, e subito dopo processato e condannato per direttissima a sette mesi. Gli altri fummo sbattuti come oggetti inutili, ma non riuscirono a smuoverci. In serata ci recammo in delegazione presso il presidente della Regione, il quale disse che il massimo che la Regione avrebbe potuto fare era di dare il 10 per cento anticipato sul valore dei terreni. Significava la fame. Il Consorzio e il PCI decisero di accettare l’accordo, mentre la maggioranza dei contadini si pronunciò per il proseguimento della lotta. L’indomani i tecnici si presentarono certi di cominciare tranquillamente il lavoro. Ci riunimmo in un centinaio fermandoli. Quel giorno Romano Maniaci, fratello del gia citato Franco, andò dal direttore dei lavori (ing. Mammì), riferendo che il PCI e il Consorzio si erano accordati e che a protestare erano rimasti solo un gruppo di facinorosi, manovrato da alcuni maoisti. In serata ci avvisarono che il giorno dopo era meglio non farsi vedere. Andammo in pochi. In realtà fra un gran polverone, ci trovammo davanti a un esercito di soldati, carabinieri e agenti in borghese con macchine fotografiche, cani poliziotto, elicotteri che giravano sulla contrada, pronti per affrontare la guerriglia e la rivoluzione: e fu la fine. l carabinieri stessi erano turbati e sconvolti nel sentire l’acre odore dei limoni divelti, nell’assistere allo scempio che si fece di case, ancora arredate da tutte le suppellettili, nel vedere le lacrime di chi non aveva più casa né terra.

“Se mi tolgono questo io muoio”

Dopo quattro anni si cominciarono a pagare i terreni, con prezzi dalle 200 alle 700 lire mq. Molti terreni risultavano all’ufficio catasto come seminativi, nonostante fossero coltivati intensivamente, perché nessuno si era mai preoccupato di regolare la situazione, e come tali vennero stimati e pagati. Per Cinisi fu la distruzione totale della sua struttura agricola. Di tutta quella gente è rimasto ben poco: li rivediamo tutti in una rassegna tragica di ombre. U zzu Faru Agghiu, morto dopo un mese dall’esproprio, ci confidava: “Vedi, per me il Mulinazzu è la mia Stessa vita. In paese non ho che fare e mi sento “accupatu” (oppresso). Qui lavoro, respiro aria pura e mi sento tranquillo. Se mi tolgono questo io muoio”. Morì, e sua moglie poco dopo di lui. U zzu Peppi Muccuneddu, morto tre mesi dopo l’esproprio. E rimasto ancora là, con il fucile in mano, a cacciare quelli che volevano buttar giù la sua casa e il suo terreno; dei suoi figli uno è emigrato, l’altro si è cercata una sistemazione in un terreno rimasto fuori dall’esproprio.
U zzu Luigi Rizzo, rimasto acciaccato e sofferente per le botte ricevute in quello scontro; u Turcu, che non si è più visto, costretto forse ad emigrare; Rocco Munacò, bracciante, costretto anche lui a lavori precari e a cercarsi sistemazioni sempre provvisorie; Peppino Puleo, costretto a riprendere l’attività di ciabattino; u zzu Vitu u Checcu, disoccupato, con i figli emigrati; Cola Maltese, morto; u zzu Vitu Biundo, morto; a zza Grazia Maltese, morta. Si dirà: erano vecchi. E in parte vero, ma è vero che un giorno solo di vita tolto ad essi rimane un crimine di stato che nessuno potrà mai ripagare né giustificare .

Come sapevamo da prima, quella pista non è servita a niente: nelle giornate di scirocco il traffico rimane sospeso e gli aerei vanno ad atterrare a Trapani o a Catania. Su quella pista di sangue sono rimasti i morti di crepacuore, gli emigrati, gli sbandati, i 115 morti del “DC 9” precipitato a Montagna Longa il 5 maggio 1972, i numerosi incidenti agli aerei, le dichiarazioni dei piloti di tutto il mondo, che si rifiutano di atterrare, non riscontrando le condizioni minime di sicurezza.

Di quelli che eravamo in quei giorni siamo rimasti in pochi, espropriati non della terra, ma della stessa vita, spinti a guardarci in faccia senza riconoscerci se non come spettri di un sistema che parla di libertà e non sa nemmeno dove sta di casa la democrazia. Su quelle terre è stata avviata la massiccia opera di speculazione mafiosa del progetto Z10, con un giro di 6 miliardi, la cui approvazione segreta Peppino aveva denunciato nei suoi ultimi giorni di vita. Su quelle terre sono ancora rimasti a seccare al sole i brandelli del corpo straziato di Peppino, a testimonianza di una vita che tutto aveva dato affinché gli altri continuassero a vivere con dignità di uomini. E niente altro.

 

Dal ’70 al ’74

Sono anni di intenso travaglio interiore, alla ricerca di una rielaborazione non più emozionale dei temi politici di fondo, in una serie di contraddizioni, la cui soluzione non sempre si presenta facile per tutto il gruppo E il momento della controinformazione sulla montatura della strage di stato, del superamento delle posizioni marxiste-leniniste, del dibattito sui fatti di Reggio Calabria, che, assieme a quelli di Punta Raisi, ci inducono ad individuare nel problema del Sud il nostro campo naturale di analisi, con i suoi mali antichi e nuovi, dall’emigrazione alla disoccupazione, al sottosviluppo, alla mafia .

Cinisi completava allora lo snaturamento della sua struttura sociale: prendeva il decollo lo sviluppo edilizio, completamente in mano alla mafia, mentre si rafforzava il processo di terziarizzazione. Della vecchia struttura agricola si perdevano gli aspetti più significativi: dall’autonomia, di cui spesso sa rendersi capace l’agricoltore, al rapporto diretto e vissuto con l’elemento naturale, alla presenza di una tradizione antichissima di valorizzazione del lavoro contadino e dei suoi frutti, alla sua cultura, mentre rimaneva un sostrato di aspetti deteriori, quali la incapacità di uscire da certi schemi moralistici e conformisti, l’istinto alla conservazione di valori tradizionali di divisioni di classe, il ruolo centrale del maschio nella struttura familiare e in quella ambientale, il rifiuto della novità e della possibilità di organizzazione collettiva e cooperativistica, la paura e il rispetto per chi riesce ad imporsi con doti di abilità, di forza o di compromesso, in modo tale da rendersi indispensabile nel momento del bisogno.

In quel momento il nostro lavoro politico si precisò nell’appoggio alla lista del “Manifesto”, e successivamente, nel corso delle elezioni comunali del ’73, i nostri voti confluirono nel PCI, unica forza di sinistra, contribuendo purtroppo all’elezione di un consigliere che poi doveva portare a compimento il primo esempio nazionale di compromesso storico contribuendo all’avvio e al saccheggio del territorio, sviluppatosi dal ’74 in poi e tuttora operante. Questo tipo di intese politiche, in realtà, avevano già cominciato ad avviarsi dal ’70, quando un accordo tra DC, PSI e PCI (giunta Impastato), aveva estromesso il gruppo socialdemocratico di Pandolfo: la differenza “tecnica” sta nel fatto che l’esponente PCI allora si professava indipendente di sinistra.

Ma lasciamo il commento di questo periodo ai pochi appunti autobiografici di Peppino: “Mi trascinai, in seguito, per qualche mese in preda all’alcool, sino alla primavera del ’72 (assassinio di Feltrinelli e campagna per le elezioni politiche anticipate). Aderii con l’entusiasmo che mi ha sempre caratterizzato, alla proposta elettorale del gruppo del ’Manifesto’: sentivo il bisogno di garanzie istituzionali, mi beccai soltanto la cocente delusione della sconfitta elettorale. Furono mesi di confusione e disimpegno: mi trovavo di fatto fuori dalla politica. Autunno ’72: inizia la sua attività il Circolo Ottobre a Palermo, vi aderisco e do il mio contributo. Mi avvicino a ’Lotta Continua’ ed al suo processo di revisione critica delle precedenti posizioni spontaneistiche, particolarmente in rapporto ai consigli: una problematica che mi aveva particolarmente affascinato nelle tesi del ’Manifesto’. Conosco Mauro Rostagno: è un episodio centrale nella mia vita degli ultimi anni Aderisco a ’Lotta Continua’ nell’estate del ’73, partecipo a quasi tutte le riunioni di “scuola-quadri” dell’organizzazione, stringo sempre più i rapporti con Rostagno: rappresenta per me un compagno che mi dà garanzia e sicurezza, comincio ad aprirmi alle sue posizioni libertarie, mi avvicino alla problematica renudista. Si riparte con l’iniziativa politica a Cinisi, si apre una sede e si dà luogo a quella meravigliosa, anche se molto parziale esperienza di organizzazione degli edili. L’inverno è freddo, la mia disperazione è tiepida. Parto militare: è quel periodo, peraltro molto breve, il termometro del mio stato emozionale: vivo 110 giorni in continuo stato di angoscia ed in preda alla più incredibile mania di persecuzione”.

A questo punto il breve memoriale di Peppino si interrompe: cercheremo di ricostruire gli ultimi anni della sua vita e di quella del gruppo sulla base delle esperienze compiute insieme e dei documenti, alla cui stesura egli stesso ha collaborato in maniera sempre determinante.

Salvo Vitale

Da 10 anni di lotta contro la mafia, bollettino del Comitato di controinformazione “Peppino Impastato”, Centro siciliano di documentazione, Cooperativa Editoriale Cento Fiori, Palermo luglio 1978.

 

 

Le idee e il coraggio
di Umberto Santino

Non posso dire di avere conosciuto da vicino Peppino Impastato da vivo. Vigevano nella “nuova sinistra” (che era nuova per intensità d’impegno, passione morale e politica, vecchissima per settarismi, ansie di potere, livori personali) regole non scritte ma ferreamente e devotamente praticate: chi non fa parte del proprio “gruppo” o “partito”, che ovviamente possiede la “linea giusta” e attua la “vera pratica rivoluzionaria”, se non è un concorrente-nemico è comunque uno da salutare a stento o da non salutare nemmeno, tutt’al più una smorfia e tanto di muso lungo se lo si incontra alla manifestazione o all’“intergruppi”. Così so che Peppino ha fatto la campagna elettorale per il ‘‘Manifesto’’ nel 1972, ma non ci siamo incontrati perché, impegnato nella stessa campagna, non ho messo piede a Cinisi. So che era tra “quelli di Lotta Continua” quando, in una sala di Palermo, si svolgeva un dibattito in vista delle elezioni del 1976, e ho per certo che non gli è piaciuto il mio intervento, fatto a nome di “Avanguardia Operaia” e in obbedienza al “centralismo democratico”, cioè in contraddizione con quanto io stesso pensassi, che poneva qualche problema per la presentazione di una lista unitaria, mentre ha salutato con ovazioni quello di Marco Boato che, essendo di “L.C.”, non poteva che dire cose giuste e sacrosante. So pure che Peppino è venuto nello scantinato di via Agrigento, sede della libreria che imprevidentemente si chiamava “Cento fiori” e del “Centro siciliano di documentazione”, tre giorni prima della sua morte sul binario e capisco perfettamente che non ci si sia neppure salutati. Le “certezze” erano già incrinate, i “cento fiori” erano solo crisantemi, ma alcune “regole” erano dure a morire: a parte la differenza d’età, di storia culturale e politica, io e lui eravamo reduci della stessa battaglia condotta però in reggimenti diversi.
Così tutto quello che ho saputo di Peppino vivo, con le sue crisi e le sue riprese, i suoi urli e il suo pudore, comincia il giorno dopo la sua morte. Ai funerali ero uno fra tanti e ho voluto rimanere nelle ultime file, ma già due giorni dopo, su richiesta di compagni che non conoscevo ma non posso escludere di aver visto prima, ero sul palchetto e parlavo di mafia e delle lotte di Peppino. Anche se nelle mie parole c’era una grande commozione, che non nasceva soltanto dall’assassinio e in particolare da quell’assassinio, così “truccato” e feroce, ma dall’avere capito a volo che la tragedia di Peppino non si era consumata in una notte ma percorreva tutta la sua vita, tutto poteva aprirsi e chiudersi nell’arco di un comizio, in cui uno che era abituato a parlare in pubblico prendeva la parola per altri che avevano problemi col microfono. Quel giorno invece si è aperto qualcosa che è continuato e continua ancora.
Il mio impegno di studio e di lotta contro la mafia era cominciato prima, il Centro era già nato un anno prima del suo assassinio, sono stato un giovane diverso da lui, anche se abbiamo in comune la nascita in un paese di provincia, ma il suo a due passi da Palermo, il mio nelle campagne dell’interno, eppure l’impegno che ho messo nella battaglia contro i suoi assassini e contro chi dava mano alla montatura sul “terrorista-suicida”, e la decisione di dedicargli il Centro, sono stati come una svolta dentro una continuità naturale, un incrocio nel corso di un cammino già da tempo avviato, e poi, passo dopo passo, mi sono sentito sempre di più a fianco di quel corpo sbriciolato e dentro la sua pelle e i suoi pensieri.
Io non so, per non averlo mai visto da vicino, come Peppino sorrideva, e se sorrideva; non so com’era quando sprofondava in una crisi di disperazione o quando faceva un comizio o scriveva un volantino. Le immagini fotografiche che ho di lui sono scialbe e deludenti. La voce delle registrazioni non mi dice niente di particolare. Ma ho capito e capisco, ho rispettato e rispetto, potrei dire anche amato, quello che mi pare nucleo e radice della sua vicenda personale. Si chiama, senza infingimenti, solitudine. Peppino è stato, o comunque si è sentito, solo dentro la sua famiglia, nel suo paese, nella sua attività politica, e tutta la sua vita è lacerata da una rottura originaria e volta a rimarginarla in un impegno di convivenza con gli altri, sempre rinnovato, fino alla fine, anche se sempre, o quasi sempre, deluso. Queste cose le ha scritte, senza pietà, o più verisimilmente con grandissima pietà, per se stesso e per gli altri, in alcune paginette che ho davanti, e solo parzialmente pubblicate. E’ la sua storia, personale e politica, scritta con grande schiettezza e sconcertante semplicità.

In principio era il padre

In copertina sotto la scritta in rosso “Blocco Scuola” un disegno di Walt Disney. Seguono i resti di due pagine accuratamente strappate. Poi 10 pagine numerate, in cui in righe ordinate Peppino ha scritto la sintesi della sua vita.
“Arrivai alla politica – così comincia il suo scritto – nel lontano novembre del ‘65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare divenuta ormai insostenibile. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto, con connotati ideologici tipici di una società tardo-contadine e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, fin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte ed il suo codice comportamentale. E’ riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva ed a compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività. Approdai nel PSIUP con la rabbia e la disperazione di chi, al tempo stesso, vuol rompere tutto e cerca protezione”.
Luigi Impastato, padre di Peppino, è stato al confino di Ustica nel periodo fascista come indiziato mafioso, nel dopoguerra ha fatto, come tantissimi altri, il mercato nero, poi si è tirato in disparte, ha aperto un negozio. E’ certo che non ha seguito la trafila dei mafiosi di Cinisi, di quelli che contano e dei loro gregari: dai piccoli “affari” di campagna al grande business della droga. Non è diventato un capomafia, come Cesare Manzella, marito della sorella, o come Tano Badalamenti, ex vaccaro e poi signore della droga, e neppure un corriere. Ma è stato ed è un mafioso e rimarrà fino alla morte “amico degli amici”. E’ devoto a “don Tano”, anche se non risulta che sia “in società” con lui. Ha sposato Felicia Bartolotta, che non viene da famiglia mafiosa ma ha tra i suoi parenti qualcuno che non è proprio un gentiluomo.
Peppino è cresciuto tra un padre mafioso, anche se prudentemente autopensionatosi, e una madre educata a tacere, ma che di tanto in tanto esplode. Il suo rifiuto della mafia e tutt’uno con la sua infanzia, con la sua voglia di vivere che si scontra con l’autoritarismo del padre. Non so quanto possa avere influito nella maturazione della sua coscienza antimafia l’assassinio di Cesare Manzella, che nell’aprile del 1963 apriva la serie delle giuliette al tritolo, imbottite dai La Barbera e da Buscetta. Peppino parlava poco ma la madre ricorda che quel delitto lo impressionò: la mafia si mostrava per quel che era, una feroce macchina criminale, anche se il padre recitava la parte dell’“uomo d’onore” di stampo antico. Quello che è certo è che la vita di Peppino è segnata da questa figura di padre, da questa mafia in casa che impara ben presto a detestare con tutte le sue forze. Lo scontro è aperto e il ragazzo, che non nasconde la sua avversione per la mafia, che si è iscritto ancora giovanissimo a un partito di sinistra, è, per il padre, uno scandalo intollerabile.
Peppino ha rotto due tabù: quello mafioso e quello democristiano. A Cinisi mafia e Democrazia Cristiana sono la stessa cosa, e lo sono pure nella famiglia di Luigi Impastato. Il padre lo scaccia di casa. é un gesto plateale che si ripeterà varie volte, fino alla definitiva espulsione. Il padre, cacciandolo di casa, dice a tutto il paese, e “manda a dire” in particolare ai suoi amici capimafia e gregari, che lui non ha niente a che fare con quel figlio e con quelle scelte. Forse, nella distorta mentalità del padre, che è quella di molti “cinisara”, quel gesto è in qualche modo una copertura, una protezione. Vorrebbe, il suo dito puntato a indicare la porta di casa al giovanissimo ribelle, risparmiargli punizioni più dolorose? Luigi Impastato ha avuto ordini, voglio dire “consigli”? I suoi amici autorevoli e autorevolissimi gli hanno detto che “quella vergogna” andava cancellata e che cacciare il figlio di casa sarebbe bastato se non a “redimerlo” a salvarlo da qualcosa di più grave?
E’ certo che Luigi Impastato s’incontrava normalmente con i suoi amici mafiosi, è certo che era orgoglioso della sua amicizia con “don Tano”, è certo che quando le cose erano ormai arrivate a un punto intollerabile, per i mafiosi, qualcuno gli ha parlato, ha incontrato lo stesso Badalamenti e il vecchio Impastato non ha saputo far altro che rifugiarsi per un mese negli Stati Uniti, dai suoi parenti di New Orleans e di Los Angeles. E a qualcuno dei suoi nipoti ha detto: “prima di ammazzare lui, debbono ammazzare me”. Qualche mese dopo Luigi Impastato moriva in un incidente d’auto, che è stato soltanto un incidente, e si può pensare che la sua morte abbia lasciato il figlio ribelle e messo alla porta con le spalle interamente scoperte, solo con le sue denunce, le sue irrisioni imperdonabili, pronunciate dai microfoni di Radio Aut e stampate nei volantini, solo di fronte ai mafiosi che non ce la facevano più a sopportarlo.
Questa storia familiare, micidiale per Peppino ed emblematica di una Sicilia che uccide prima che con la lupara e i kalashnikov con i suoi tiranni familiari, padri che vogliono i figli a loro immagine e somiglianza e che per essere domestici saturni non sempre hanno bisogno di essere affiliati alle “onorate società”, ha diviso in due la personalità di Peppino e ha spaccato la sua stessa famiglia. Accanto a quel padre era una madre che fin dall’inizio si schiera con il figlio ma non riesce a spezzare completamente la rete in cui è intrappolata e anch’essa si spezza a metà: una metà con il figlio che ama e ammira, riceve di nascosto, difende dalle accuse urlate dal padre, e una metà sequestrata tra le mura domestiche che una religione di immorale familismo vogliono inviolabili. E un fratello che non sarà cacciato di casa ma che il padre sa perduto come l’altro, anche se meno pubblicamente dell’altro, almeno fino alla morte di Peppino.
Questa tragedia di Peppino bambino e ragazzo, figlio di mafioso e contro la mafia, pubblico rinnegatore del padre e dei parenti (e oltre a Cesare Manzella c’è il fratello del padre, anche lui Giuseppe Impastato, detto significativamente “Sputafuoco”, che non è certo “in pensione) rende la sua scelta politica irrinunciabile, radicata nel suo stesso sangue. Peppino non è certo l’unico siciliano ad aver fatto la lotta alla mafia pagandone il prezzo con la vita, ma è l’unico che conosco ad avere fatto questa lotta anche, anzi a cominciare, dal di dentro della sua famiglia, cioè di se stesso. Non ci sono altri esempi di lotta così totalizzante, esistenziale, genetica. Altri, pur coraggiosi e così coerenti con le loro convinzioni da non arretrare di fronte alla certezza o alla forte probabilità della morte, si sono arrestati di fronte a questo tabù. Come dire: “mio padre è mafioso” senza compiere una specie di sacrilegio umano e familiare? Non aggiungo nulla alla tragicità e alla grandezza della scelta di Peppino dicendo che la decisione di dedicargli il Centro non nasce tanto da quello che si poteva avere in comune con lui come storia politica quanto dal valore emblematico che assume la sua lotta scaturendo dalla sua vicenda familiare.
Rinnegare il padre, essere scacciato di casa dopo averlo detronizzato dal ruolo di tiranno e capoclan, vuol dire, quasi inevitabilmente, condannarsi a cercare un altro padre, soprattutto quando questo parricidio spirituale avviene in età troppo tenera per potere fare da padri a se stessi. Peppino si butta nell’attività politica per affermare il suo ruolo di figlio ribelle e insieme per cercare un padre, In questa ricerca ha preso più di un abbaglio e credo che ne fosse pienamente cosciente.

Il partito-padre

Dopo lo scioglimento d’autorità della Federazione Giovanile del PSIUP (ricorda: “erano i tempi della Rivoluzione Culturale e della morte del ‘Che’”) partecipa “disordinatamente” alle lotte studentesche del ‘68, aderisce “ancora una volta su un piano più emozionale che politico” alle tesi della “Lega”, un gruppo marxista-leninista, organizza le lotte di Punta Raisi contro le espropriazioni per la costruzione della terza pista dell’aeroporto, “con lo straordinario movimento di massa che si è riusciti a costruirvi attorno”, vive come “un momento di straordinario ed affascinante processo di approfondimento teorico” il periodo delle “dispute sul Partito e sulla concezione e costruzione del Partito”, infine aderisce al “P.C.d’I.(m-l)” e spiega la sua adesione: “il bisogno di un minimo di struttura organizzativa alle spalle (bisogno di protezione) è stato molto forte”.
Il partito-padre si deve ben presto rivelare invivibile come il rapporto con il padre naturale. Si trova “in uno stato di incontrollabile schizofrenia”, ha “paura di tutto e di tutti” e al tempo stesso “una voglia quasi incontrollabile di aprirmi e di costruire”. Gli diventa “sempre più difficile stabilire un rapporto lineare col mondo esterno”, si chiude sempre più in se stesso: “da una settimana all’altra diventava sempre più difficile riconoscermi. Per giorni e giorni non parlavo con nessuno, poi ritornavo a gioire e riproporre”. Il partito-padre non può tollerare la sua incostanza, i suoi salti d’umore, richiede una pratica “lineare”, in nome della Rivoluzione, del Dio-Mao e dei suoi profeti nostrani. “E mi beccai i primi ammonimenti e la prima sospensione dal Partito: la mia discontinuità era incompatibile con la vita interna dell’organizzazione. Fui anche trasferito in un altro posto a svolgere attività politica, non riuscii a resistere più di una settimana: mi fu anche proposto di trasferirmi a Palermo, al Cantiere Navale, un po’ di vicinanza con la Classe mi avrebbe giovato. Avevano ragione ma rifiutai”.
Questo rapporto con un gruppo dogmatico, in cui il libretto rosso era la summa della Verità, i dirigenti l’incarnazione del Verbo, i militanti gli apostoli di una rivoluzione tanto religiosamente perseguita quanto effettualmente improbabile, la Classe il Corpo Mistico con cui ci si redime e senza cui ci si perde, è un’altra camicia di forza che Peppino si impone per realizzare la fuga dalla prigione-famiglia, dal carceriere-padre. Ha ritrovato un nuovo padre, arcigno e implacabile, che vuole i suoi atti e i suoi pensieri, pretende la donazione di sé, impone la circoncisione dei sentimenti e degli impulsi più profondi, come un antico e sempre rinnovato rito puberale in cui per rinascere come “socii” bisogna rinnegarsi come individui. Peppino non ce la fa, si rifiuta, ma adesso le sue crisi sono ancora più complicate di prima. Il partito, anzi il Partito, è per lui lo strumento per cambiarsi e per cambiare, lo spazio di una nuova comunicazione, il progetto del nuovo mondo e lui vuole cambiarsi e cambiare, vuole comunicare con gli altri, ma gli altri gli chiedono di negarsi, di cancellarsi. Cosa valgono i suoi “capricci piccolo-borghesi” di fronte all’assoluta purezza della Causa? Che importa la sua tragedia individuale di fronte alla limpida olimpicità della Classe, tanto più limpida e tanto più olimpica quanto più inventata e irreale?
Anche la sua partecipazione alla sfortunata vicenda elettorale del “Manifesto” nel 1972 è dettata dal suo “bisogno di garanzia istituzionale”, ed è ancora una volta una delusione e una sconfitta, personale e corale. Il suo rapporto con “Lotta continua” è anch’esso dominato dalla ricerca filiale di protezione e di nuova paternità. E’ un padre apparentemente diverso e Peppino vede nel dirigente Mauro Rostagno il nuovo tronco a cui appoggiarsi: “rappresenta per me un compagno che mi dà garanzia e sicurezza, comincio ad aprirmi alle sue posizioni libertarie, mi avvicino alla problematica renudista”. Questa volta il padre è un fratello, la rivoluzione porta l’orecchino, coniuga il pane con le rose, e Peppino si trova a vivere una nuova stagione d’entusiasmo. Diventa un dirigente anche lui, lavora molto a Cinisi, un paese che detesta ma da cui non sa staccarsi neppure per un minuto, organizza gli edili disoccupati.
Sembra che le parti si siano, ad un certo punto, rovesciate. Ora è lui un leader, è lui in qualche modo un padre. Ma Peppino non è padre per nessuno, e tanto meno per se stesso. Nella lettera che dopo la sua morte fu usata come “prova” della sua volontà suicida, Peppino scrive della sua delusione, del suo “fallimento come uomo e come rivoluzionario” ed è letteralmente feroce con i “personalisti” e i “creativi”: “Due anni e mezzo di menate sul ‘personale’ e di allucinanti enunciazioni sul ‘riprendiamoci la vita’ mi avevano aiutato a ritagliarmi notevoli ‘spazi di morte’, mi avevano annegato in un mare di ipocrisia e di malafede pregiudicando irrimediabilmente ogni mia possibilità di recupero. La gente peggiore l’ho conosciuta proprio tra i ‘personalisti’ (cultori del personale) e i cosiddetti ‘creativi’ (ri-creativi): un concentrato di individualismo da porcile e di ‘raffinata’ ipocrisia filistea: a loro preferisco criminali incalliti, ladri, stupratori, assassini e la ‘canaglia’ in genere”.
Un giudizio che può sembrare, a chi guarda dall’esterno, forzato ed eccessivo, che va letto nel contesto di quella lettera in cui “abbandonare la politica” vuol dire abbandonare la vita, e nel senso che la lettera è dominata dal “cupio dissolvi”, è il testamento di uno che ha già pensato e sta pensando al suicidio, e nell’altro senso che in ogni caso abbandonare la politica, come lui la viveva e concepiva, è già di per sé un suicidio.
Peppino ce la farà ancora una volta, non “abbandonerà la politica” proprio perché non vuole abbandonare la vita, ma già i suoi nemici, i “padri” del suo mondo fatto ormai di cemento e di eroina hanno decretato la sua fine. Il “figlio” , cioè il ribelle che non vuole integrarsi, l’irrisore che non rinuncia alla sua satira e alla sua “bestemmia”, è condannato a morte perché la “cosca dei padri” non può tollerare, neppure per un minuto in più, lo scandalo della sua vita, della sua voce, della sua lacerazione, della sua irriducibile volontà di esserci e di lottare. é arrivato, ponendo la sua candidatura alle elezioni amministrative, alle soglie delle istituzioni ma l’istituzione mafia-famiglia-potere lo rigetta e lo condanna alla morte per esplosione. Gli avevano fatto esplodere la vita, adesso si tratta di far saltare un corpo tramortito, nel buio della notte rischiarato dal lampo del tritolo.

Amore/ non/ ne/ avremo

Sono versi di Peppino che apprendo solo adesso scriveva poesie. In Italia, e soprattutto in Italia Meridionale, tutti scrivono poesie, ma quelle di Peppino mi sembrano il frutto di una vocazione poetica autentica e pudicamente segreta. Ha avuto e dato amore Peppino? Un giorno è capitato al Centro il regista Gillo Pontecorvo, annunciato da una telefonata di Giovanni Impastato, fratello di Peppino. Voleva fare un film su Peppino, ma confessava di non capirci niente, chiedeva a me e ad Anna come mai la gente di Cinisi si comportava come si comportava: guardava le nostre manifestazioni, come quella nazionale del 1979, se non rimaneva dietro le finestre chiuse, sapeva chi aveva ucciso Peppino ma non faceva niente contro la mafia. Ricostruendo la vicenda di Peppino Pontecorvo chiedeva, “per esigenze di racconto”, se c’era una ragazza, una storia d’amore. Pontecorvo è una persona seria, non ha capito e non ha fatto il film, a differenza di tanti che capiscono ancora meno ma imperversano con le loro “piovre”.
Ma c’era la ragazza? Giovanni aveva risposto: c’era. Nelle sue dieci paginette e in qualche poesia, limpida e semplicissima quanto più contorto e intorbidato era il groppo da sciogliere, Peppino parla dei suoi innamoramenti, del suo immenso bisogno di dare e ricevere amore. Sono esperienze che non riescono a colmare questo bisogno e che spesso si risolvono in nuove lacerazioni: “mi innamorai follemente di una ragazza, ma riuscii a costruire soltanto un rapporto lunghissimo e schizofrenico, incomprensibile, kafkiano addirittura. Il risultato: ne uscii con le ossa rotte e ancora più incapace di rapporti con il mondo esterno”.
In tutti questi anni trascorsi dopo la sua morte non c’è stata una ragazza che abbia detto: “sono stata la ragazza di Peppino, l’ho amato e mi ha amata”. E anche questo forse è un modo di seppellirlo e imbavagliarlo. Amore Peppino non ne ha avuto da vivo, non ne ha avuto da morto.

“Noi continuiamo”

Ai funerali di Peppino, e dopo in tante manifestazioni, i suoi compagni, quelli che avevano vissuto con lui l’esperienza delle lotte e delle denunce, delle manifestazioni e di Radio Aut, gli “scazzi” e le riconciliazioni, hanno inalberato uno striscione con scritto: “Con le idee e il coraggio di Peppino noi continuiamo”. Si sa che certe cose è facile scriverle ma difficile, molto difficile, attuarle. Per molte ragioni, molti non hanno continuato, e tra i suoi compagni e tra gli altri che in quella scritta si erano riconosciuti.
Ho davanti le fotografie dei funerali e delle manifestazioni. Ce n’è una in particolare in cui i volti sono ben netti e sono tanti. A tanti anni di distanza è come una rassegna di ombre. C he fine ha fatto quel compagno, e quell’altro, e l’altro ancora? Di alcuni si sono perse le tracce, di altri si sa tutto, e non è un tutto consolante. é scomparso nel nulla quel compagno che prima c’era sempre, dappertutto, che ha vissuto tutte le esperienze e tutte le scissioni. Prima in L.C., poi “indiano metropolitano” , poi sparito. L’altro compagno sembrava un irriducibile. Adesso è nel PSI. Nel PSI è pure l’altro con gli occhiali. Un altro si è trasferito. Un altro fa teatro. Lei è morta. Lei è sparita. Qualcuno è ancora un “militante” ma è una mosca bianca. E poi ci sono quelli che non c’erano, ma si sapeva che c’erano. I padri della “nuova sinistra” che non hanno perdonato al mondo il fallimento della rivoluzione e ci sono rimasti male, come se fosse una questione personale. Quelli del PCI che ce l’ avevano con Peppino, ma poi hanno dovuto espellere quel Maniaci che Peppino denunciava come uomo del “compromesso storico” con la mafia. Molti non avevano né idee né coraggio neppure allora, e si capisce che siano finiti come sono finiti. Ma quanti, pur avendo idee e coraggio, hanno seppellito con Peppino la loro vita e la loro dignità? Eppure i “padri” non hanno vinto. Molte cose sono cambiate, e non tutte necessariamente in peggio. Si è capito che molte cose che diceva Peppino erano vere, che la realtà era come lui la dipingeva, alcuni patriarchi sono crollati, anche per le sue irrisioni. Non tutto è stato inutile. Anche se per continuare occorrono più idee e più coraggio di quanto ne abbiamo avuto fino ad oggi.

 

 

Da “La mafia in casa mia” a “I cento passi”
di Umberto Santino

Il film ha il merito di portare a un pubblico molto più vasto di quello che siamo riusciti a raggiungere fino ad ora una storia che, contrariamente a quello che abbiamo letto e sentito, non è per nulla provinciale, minore o datata. Questa storia l’aveva già raccontata la madre di Peppino Impastato, Felicia Bartolotta, in un libro pubblicato nel 1986, La mafia in casa mia, dove ha ripercorso i suoi rapporti con il marito mafioso e il figlio ribelle, parlando della sua rinuncia alla vendetta e rinnovando la sua richiesta di giustizia senza rassegnarsi a non averla per lunghi anni. L’aveva raccontata uno dei compagni di Peppino, Salvo Vitale, nel libro Nel cuore dei coralli, e l’avevano riproposta Claudio Fava in un servizio televisivo ripreso nelle pagine del libro Cinque delitti imperfetti, Luciano Mirone in un capitolo del libro Gli insabbiati e decine di giornalisti che hanno intervistato la madre, sempre pronta a raccontarsi e a denunciare. Ventidue anni di parole, di immagini, che certo non hanno raggiunto il pubblico che può raggiungere un film premiato a Venezia e che sta avendo un notevole successo ma che non possono essere cancellati dalla smemoratezza di quanti hanno parlato di “delitto dimenticato” e di “vent’anni di silenzio”.
Il film è intenso e coinvolgente e il personaggio Peppino Impastato è interpretato con intelligente immedesimazione. L’attore, Luigi Lo Cascio, che avrebbe meritato il premio, gli somiglia anche fisicamente (ricordo quando è venuto nella sede del Centro: nell’aprirgli la porta, è sembrato ad Anna e a me, che pure conoscevamo Peppino solo di vista, di rivederlo davanti a noi, com’era nei ritratti che lo mostrano ancora ventenne, con un viso scarno e affilato, prima che fosse cancellato dalla barba). Ad essere sincero, non tutto mi è parso convincente. La metafora dei cento passi è suggestiva, ma la realtà era ancora più drammatica: Peppino la mafia l’aveva in casa e nella sua parentela c’erano capimafia storici come Nick Impastato e Cesare Manzella, rispetto ai quali Badalamenti era un rozzo parvenu (“Non sapeva neanche pulirsi il naso”, dice la madre ne La mafia in casa mia). Le sequenze iniziali ricalcano l’immaginario corrente e c’è una lunga tirata di Badalamenti che s’impanca a maestro di vita, anche se poi si scopre che è un sogno-incubo di Peppino: l’intento di “umanizzare” anche il capomafia ha preso un po’ troppo la mano. Le sequenze dopo il delitto mostrano il maggiore Subranni che imbocca la pista del terrorista-suicida e i compagni di Peppino con una pietra macchiata di sangue, prova che Peppino, prima di essere collocato sul binario, era stato ucciso o tramortito. Ma non ci furono solo i carabinieri a depistare. La stampa inscenò un’indegna gazzarra, ad eccezione del “Quotidiano dei lavoratori” e di “Lotta continua” che si apprestavano a chiudere. Anche “il manifesto” si comportò molto male (un trafiletto il giorno dopo e neppure una riga nei giorni successivi e poi il silenzio ventennale sull’attività del Centro) come ha riconosciuto Luciana Castellina, in un articolo pubblicato il 5 settembre scorso. Il film si chiude con il funerale e le bandiere rosse, una sorta di apoteosi di Peppino, ma purtroppo le cose non andarono così. Allora non c’erano i ragazzi delle scuole, i compaesani di Peppino erano pochi, moltissimi venivamo da fuori. Segue una scritta sull’incriminazione di Badalamenti nel 1997 ad opera della procura di Palermo, ma la decisione della procura è venuta “grazie all’azione dei famigliari, dei compagni di Peppino e del Centro Impastato”, come si leggeva in una bozza della sceneggiatura inaspettatamente finita nel cestino. Senza questo impegno che ha portato alla raccolta di nuovi elementi d’indagine, alla presentazione di esposti, dossier, libri, un caso più unico che raro di collaborazione-stimolo della giustizia, anche l’inchiesta si sarebbe arenata. Se la storia di Impastato e dei suoi compagni è emblematica di una stagione di protagonismo e di lotte che costituiscono il meglio del ’68 e non la sua versione provinciale e sbrindellata (che la mafia non fosse un residuo arcaico ma fosse destinata a crescere e a dilagare allora lo capirono in pochi e questa intuizione, che si concretò nella campagna del Manifesto di Palermo per la “espropriazione della proprietà mafiosa” più di dieci anni prima della legge antimafia, vale più di tanti slogans destinati a un rapido tramonto), la storia del dopo delitto non è da meno. Con la morte di Impastato si apre una vicenda fatta di depistaggi, di inerzie, di ritardi delle forze dell’ordine e della magistratura, come di grande impegno della madre, del fratello, dei compagni rimasti sulla breccia, alcuni dei quali hanno rischiato consapevolmente, di noi del Centro siciliano di documentazione, nato nel 1977 e dedicato a Impastato quando tanti lo consideravano un terrorista maldestro o disperato. L’anno dopo l’assassinio abbiamo promosso, con Democrazia proletaria, una manifestazione nazionale contro la mafia, la prima della storia d’Italia, e allora parlare di mafia oltre il ristretto orizzonte siciliano era suscitare un fantasma sconosciuto e impalpabile. Eppure vennero in duemila da tutto il Paese. Come si può vedere scorrendo le pagine del volume in cui abbiamo raccolto gli atti giudiziari (L’assassinio e il depistaggio), l’inchiesta frettolosamente archiviata venne riaperta, è stata richiusa e riaperta varie volte e finalmente si è arrivati a un risultato: oggi Badalamenti e il suo vice sono sotto processo. Presso la Commissione parlamentare antimafia si è costituito un comitato, presieduto da Giovanni Russo Spena di Rifondazione comunista, che sta lavorando per accertare le responsabilità istituzionali nel depistaggio delle indagini. Tutto questo è il frutto di un lavoro quotidiano che ha trovato in alcuni magistrati, come Chinnici, Caponnetto e Falcone, la volontà di portare alla luce una verità che era ed è scomoda. Questa è la realtà che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, in un contesto in parte mutato ma su cui si addensano ombre preoccupanti (e la recente uccisione del figlio del boss Di Maggio viene a dare corpo a queste ombre). Il giorno dopo i funerali i compagni mi chiesero di parlare in un comizio che doveva chiudere la campagna per le elezioni comunali in cui Peppino era candidato. Ricordo che le finestre del corso di Cinisi erano chiuse e decisi di rivolgermi a chi stava dietro le finestre ad ascoltare senza farsi vedere: “Se queste finestre non si apriranno il lavoro di Impastato è stato inutile”. Dopo ci sono stati i grandi delitti e le stragi, è cresciuta una coscienza nuova, ma i processi di cambiamento sono lenti e non irreversibili. Molte finestre, a Cinisi e altrove, sono rimaste chiuse. Negli anni ’70 si pensava che fossero possibili mutamenti di fondo e si nutrivano grandi attese e forti speranze. Oggi dobbiamo fare i conti con la globalizzazione che rilancia l’accumulazione illegale su scala mondiale e moltiplica le mafie, con il fallimento delle grandi narrazioni, eppure l’impegno di Impastato (che sapeva coniugare la radicalità delle scelte, a cominciare dalla rottura con il padre, con la complessità dell’azione antimafia, fatta di denunce documentate e puntuali, di lotte sociali, di iniziative culturali e con un continuo ricorso allo sbeffeggiamento e alla satira, che dai mafiosi è stato considerato un delitto di lesa maestà) è ancora attuale. Abbiamo ancora bisogno delle sue analisi e dei suoi sberleffi. E nelle sue delusioni, che arrivavano al punto di voler “lasciare la politica e la vita” , c’è una lezione che vale infinitamente di più di tanta antimafia episodica e spettacolare in circolazione. “Con le idee e il coraggio di Peppino noi continuiamo”, si leggeva sullo striscione che apriva i funerali di Peppino. E’ un impegno duro e difficile e non sempre è stato mantenuto. Il film riporta ai nostri giorni una storia che tanti volevano chiudere e che invece è continuata e abbiamo ragione di credere che continuerà.

Pubblicato su “Narcomafie”, n. 10, ottobre 2000, con il titolo: Impastato, una verità scomoda.

 

 

Il primo capitolo di una storia dell’impunità

di Umberto Santino
(Contributo al volume Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio. La relazione della Commissione parlamentare antimafia presentata da Giovanni Russo Spena, Editori Riuniti, Roma 2001, 2006).

Ci sono voluti 22 anni perché si arrivasse al processo, anzi ai processi, per il delitto Impastato e a questa relazione della Commissione parlamentare antimafia in cui si dice chiaramente che rappresentanti delle istituzioni hanno avuto un ruolo nel depistaggio delle indagini.
Sono stati anni difficili, in cui chi considerava Peppino Impastato una delle figure più significative del movimento antimafia degli ultimi decenni e sottolineava insieme la sua appartenenza a una storia, aperta dal movimento contadino e dalle grandi forze di sinistra e ripresa nell’ultimo ventennio con altri obiettivi e altri strumenti dalla società civile, e l’unicità della sua vicenda umana di figlio e nipote di mafiosi che aveva avviato la sua azione antimafia a partire dalla sua famiglia, veniva isolato e considerato come il difensore di una causa persa. Quante volte ci siamo sentiti dire, anche da persone che ci erano vicine, che non c’era niente da fare, che sì, Impastato non era un terrorista e un suicida, come molti, la stragrande maggioranza, sostenevano o pensavano dentro di sé, che con ogni probabilità era stato ucciso dalla mafia, ma che mai si sarebbe avuta una verità sul piano giudiziario, né tanto meno un riconoscimento ufficiale. Non c’erano prove e non si sarebbe arrivati a un processo. E poi Impastato era un estremista, il protagonista provinciale di una stagione morta, e si dava per scontato che solo pochi sopravvissuti avrebbero conservato la sua memoria, sempre più incerta e sbiadita.
Le cose sono andate diversamente. Il processo a Gaetano Badalamenti è in corso e quello al suo vice, Vito Palazzolo, si è concluso il 5 marzo con la condanna a 30 anni di reclusione; lo scorso dicembre la Commissione antimafia ha approvato questa relazione che rompe con una lunga tradizione istituzionale di silenzi e di occultamento della verità; la storia di Peppino, grazie a un film che sta avendo un grande successo, desta l’interesse e la commozione di molti che prima ne ignoravano perfino il nome. Tutto questo è il frutto di un lavoro più che ventennale che sarà bene ricostruire nelle grandi linee, alla luce di ciò che scrive la relazione.

Un delitto camuffato da atto terroristico

Ritorniamo con la mente a quei giorni. Com’è potuto accadere che un militante come Giuseppe Impastato, la cui attività era sotto gli occhi di tutti da più di dieci anni, le cui denunce contro i mafiosi erano esplicite e circostanziate, i cui comizi erano affollati e le cui trasmissioni a Radio Aut erano abbastanza seguite, è stato fatto passare prima per terrorista e subito dopo per terrorista-suicida? Perché i mafiosi hanno ideato ed eseguito un delitto camuffato da attentato terroristico, perché carabinieri e magistrati hanno imboccato senza tentennamenti la pista del terrorismo, senza neppure porsi il problema di cercare in altre direzioni?
Agli occhi dei mafiosi Peppino, nonostante il suo “tradimento”, era pur sempre il figlio di Luigi, a quanto pare non formalmente affiliato ma comunque un fedelissimo “amico degli amici”, ed era il nipote di Cesare Manzella, capomafia per lunghi anni, prima che si levasse la stella di Badalamenti, e anche se il padre e lo zio erano morti, gli altri parenti, come il fratello del padre, anche lui Giuseppe ed emblematicamente soprannominato Sputafuoco, erano vivi e vegeti. Per la distorta mentalità mafiosa sarà sembrato preferibile non firmare il delitto mettendolo in atto con modalità diverse dal tipico omicidio mafioso. Inoltre, simulando l’attentato, si sarebbe fatto passare per terrorista un oppositore intransigente, che costituiva un pericolo permanente per la mafia, per i suoi legami e i suoi interessi, e lo sarebbe stato ancora di più entrando nel consiglio comunale. Un corpo sbriciolato e una memoria definitivamente infangata: di Peppino Impastato non sarebbe rimasto altro.
Il delitto camuffato era un capolavoro dell’immaginazione omicidiaria mafiosa e le cose, nei giorni successivi, non potevano andare meglio per mandanti ed esecutori. La verità ufficiale fu presto confezionata, “provata”, divulgata e il ritrovamento della lettera in cui Peppino manifestava la sua intenzione di suicidarsi venne a porre il coperchio definitivo su una bara quasi vuota.
Gli ideatori del delitto non avevano tenuto conto di tre variabili, d’altra parte difficilmente prevedibili: il comportamento dei familiari, quello dei compagni, l’entrata sulla scena di noi di Palermo.
Nell’immaginazione dei mafiosi il dopodelitto avrebbe seguito un copione scontato. La famiglia, in continuità con la sua storia e fedele alle sue ascendenze, avrebbe taciuto e si sarebbe contentata di una vendetta. Sangue lava sangue. Un giorno, da qualche parte, si sarebbe trovato un morto sconosciuto ai più ma conosciutissimo nell’ambiente e l’equilibrio si sarebbe ricomposto, il dolore alleviato con un altro dolore, in base a un’etica cannibalica. La cultura mafiosa avrebbe ristabilito i suoi riti e i suoi codici.
I compagni sarebbero ben presto spariti, più che per la paura perché quella morte avrebbe sancito il tramonto di ogni illusione. E non c’erano polemiche, liti, contrasti, nel gruppo di Peppino? Non era ormai “riflusso”, dappertutto, dopo il ’77? Ai funerali i compaesani erano pochi e le finestre delle case erano chiuse. Gli elettori di Cinisi votarono Peppino ma 260 voti non erano poi tanti (se si confrontano con i 2.098 della Democrazia cristiana, balzata dal 36,2 per cento del 1972 al 49 per cento) e al consiglio comunale negli anni successivi si alterneranno personaggi non molto interessati a raccogliere l’eredità di Impastato.
Ai funerali c’erano mille persone, in gran parte venute dai paesi vicini e da Palermo. Ma una volta finito il funerale, ripiegate le bandiere, spenti gli slogan, chi avrebbe rimesso piede a Cinisi?
È accaduto invece qualcosa di imprevisto. La madre e il fratello di Peppino rompevano con la cultura mafiosa, si rivolgevano alla giustizia e si schieravano con i compagni, che invece di scomparire rimanevano sulla breccia, almeno alcuni di essi, e si adoperavano per smantellare la montatura che voleva far passare Peppino per attentatore e suicida. Noi di Palermo non ci limitavamo al funerale e al comizio il giorno dopo (e ricordo ancora una fila lunghissima di finestre sbarrate e il mio invito, inascoltato, ad aprirle) ma davamo corpo a un impegno che invece di attenuarsi è cresciuto negli anni.
Il piano dei mafiosi è saltato per l’azione congiunta di questi tre soggetti (familiari-compagni-Centro siciliano di documentazione, nato nel 1977 e successivamente intitolato a Impastato) che tra mille difficoltà e rischi sono rimasti in piedi per più di vent’anni, dando vita a un capitolo tra i più ricchi e intensi della storia dell’antimafia. E ripensando a questi anni non posso non ricordare le fatiche e le amarezze, le defezioni, i passaggi di “frontiera”, le meschinità che hanno reso più difficile, ma non interrotto, questo cammino.

 

Depistaggio e deviazione

Se i familiari, i compagni, i “palermitani” si comportarono in modo diverso da quello che i mafiosi potevano prevedere, esponenti delle forze dell’ordine e della magistratura invece resero un servizio ai responsabili del delitto, avallando senza incertezze la montatura dell’attentato terroristico. Come spiegare questo comportamento? Perché gli investigatori non hanno cercato neppure di “mettere il ferro dietro la porta”, come si dice in Sicilia, cioè di cautelarsi, volgendo lo sguardo anche in altre direzioni, a cominciare da quella che in quel contesto non poteva non apparire come la più ovvia, tenendo conto della personalità della vittima e della comprovata presenza dell’organizzazione mafiosa?
La Commissione antimafia ha riesaminato gli atti e ascoltato l’allora maresciallo dei carabinieri Alfonso Travali e l’allora maggiore Antonio Subranni, il dirigente della Digos Alfonso Vella, l’allora pretore di Carini Giancarlo Trizzino e il procuratore aggiunto Gaetano Martorana e dalle pagine della relazione risulta confermato, ma questa volta in un’autorevole sede istituzionale, quanto sapevamo già: indagini a senso unico, il ripristino frettoloso della linea ferroviaria, violazioni di legge nell’eseguire perquisizioni e sequestri di materiali nelle case dei familiari e dei compagni di Impastato, nel dare informazioni alla stampa, come la lettera sull’intenzione di suicidarsi pubblicata quasi integralmente dal “Giornale di Sicilia”, reperti come le chiavi e le pietre macchiate di sangue spariti. Il maresciallo Travali assicura: le pietre venivano repertate e tutto veniva consegnato alla cancelleria della procura, ma non si è trovato neppure un sassolino. E apprendiamo che la Digos fu estromessa dalle indagini, nonostante si parlasse, con assoluta certezza, di atto terroristico.
In un esposto del marzo 1996 scrivevamo: “È oggi arrivato il momento di verificare se quelle “tecniche” di indagine furono il frutto soltanto di scarsa professionalità, di incuria e di “supponenza” oppure vi fu chi ebbe interesse specifico a “guidarle” nella maniera nota”. La Commissione antimafia ha fatto, per la parte di sua competenza, quella verifica e la risposta conferma i nostri “sospetti”: ci furono insieme scarsa professionalità, incuria e “supponenza”; resta aperto il problema se ci sia stata o meno una guida, una regia, ma un dato risulta in modo incontrovertibile: il comportamento degli investigatori fu oggettivamente una copertura per i responsabili del delitto. Con il depistaggio delle indagini il “giovane” Impastato fu ucciso una seconda volta e il suo nome archiviato sotto l’etichetta di terrorista-suicida.
Di depistaggio parlavano già la requisitoria del pubblico ministero Domenico Signorino e la sentenza del maggio 1984 predisposta da Rocco Chinnici e completata e firmata da Antonino Caponnetto, ma “in termini insoddisfacenti”, come ho scritto nel primo promemoria inviato alla Commissione antimafia nel settembre del 1998. Rileggiamo quel passaggio della sentenza: “In effetti, come ben sottolinea la requisitoria del P.M., il corso delle indagini venne inizialmente “depistato” dal rinvenimento di un manoscritto nel quale il predetto [Impastato], proclamando il proprio “fallimento come uomo e come rivoluzionario”, aveva inserito espressioni […] riconducibili a propositi di suicidio”. E più oltre si leggeva: “Ad aggravare, purtroppo, l’effetto “depistante” del menzionato manoscritto nel corso delle prime indagini, per cui, privilegiando l’ipotesi suicidaria, gli investigatori finirono coll’inserire in quest’ultima anche talune emergenze che ben potevano legittimare altre e più inquietanti ipotesi, si aggiunse – è giusto ricordarlo – il senso di sfiducia che indusse amici, compagni e parenti del giovane […] a rivelare in un momento successivo, e soltanto al giudice istruttore, circostanze di indubbia rilevanza al fine di accertare modalità e causa del tragico episodio”.
Quindi: gli investigatori sarebbero stati “depistati” dal ritrovamento della lettera e la mancata collaborazione dei compagni di Peppino avrebbe fatto il resto. In realtà, già prima che venisse trovata la lettera, carabinieri e magistrati avevano deciso che si trattava di atto terroristico. Infatti, lo stesso 9 maggio 1978, il procuratore aggiunto Gaetano Martorana, in un fonogramma urgente a mano inviato al procuratore generale, registrava il fatto come “attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda” e scriveva: “Verso le ore 0,30-1 del 9.5.1978, persona allo stato ignota, presumibilmente identificantesi in tale Impastato Giuseppe, si recava a bordo della propria autovettura Fiat 850 all’altezza del km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo, che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore”. E il maggiore Subranni, nel rapporto del 10 maggio 1978, sotto l’intestazione “Decesso di Impastato Giuseppe… in conseguenza di un attentato terroristico compiuto dallo stesso”, scriveva che Impastato aveva “progettato ed attuato l’attentato dinamitardo alla linea ferrata in maniera da legare il ricordo della sua morte ad un fatto eclatante”.
Quanto alla sfiducia dei compagni, essa non era immotivata, sia che si guardi alla vita quotidiana (nel corso della sua audizione Pino Manzella dichiara: “Vedevo questi carabinieri che molto spesso – ed era una cosa che a me dava un fastidio enorme – andavano a prendere il caffè con i mafiosi”: nel piccolo palcoscenico paesano questa scena si replicava sotto gli occhi di tutti), sia all’evento specifico: tanto sul luogo del delitto che negli interrogatori i compagni di Peppino venivano esplicitamente trattati come complici dell’attentatore.
In ogni caso, l’esposto firmato dai compagni e da varie associazioni e forze politiche fu presentato l’11 maggio e quello dei familiari il 16, quindi immediatamente dopo il delitto.
Del rinvenimento e sequestro della lettera il procuratore Martorana dà notizia sempre nel fonogramma del 9 maggio e così alla tesi dell’attentato, già formulata a chiare lettere, si aggiunge quella del suicidio. Sarà bene chiarire un particolare non emerso adeguatamente anche dai lavori della Commissione. Della lettera esistevano due stesure: la prima fu trovata dagli investigatori e passata al “Giornale di Sicilia”, in violazione del segreto istruttorio, e in essa Peppino esprimeva la sua delusione e la sua intenzione di abbandonare la politica e la vita, con espressioni molto crude; la seconda fu trovata successivamente nelle pagine di un taccuino e in essa si parla solo di abbandono della politica.
La seconda stesura della lettera è stata acquisita in copia dai consulenti della Commissione antimafia presso il Centro Impastato ma essa era stata pubblicata integralmente e riprodotta fotograficamente nel bollettino 10 anni di lotta contro la mafia, pubblicato nel luglio del 1978 dal Comitato di controinformazione costituitosi presso il Centro siciliano di documentazione. Al bollettino si fa esplicito riferimento nel punto 9 del Promemoria all’attenzione del giudice Rocco Chinnici presentato da Radio Aut e Chinnici ha avuto certamente quella pubblicazione, che conteneva anche altri documenti, tra cui un volantino in cui si attaccava esplicitamente Badalamenti. D’altra parte fin dai primi giorni dopo il delitto si seppe con certezza che la lettera era stata scritta quasi otto mesi prima e che nel frattempo la ripresa dell’attività culturale e politica aveva fatto superare a Peppino una crisi che era il frutto della situazione venutasi a creare a livello locale e nazionale (lo scioglimento di Lotta continua, il riflusso, con quelle che Peppino definisce “menate sul personale”) e si inscriveva nelle profonde lacerazioni della sua personalità, causate dalle scelte che lo avevano portato alla rottura con il padre e con la parentela.
Gli investigatori non furono “depistati” dalla scoperta della lettera e dalla sfiducia nei loro confronti dei compagni di Peppino ma dall’impostazione che diedero da subito alle indagini. E le perquisizioni nelle case della zia, della madre e dei compagni hanno un significato inequivocabile: era lì che andavano cercate le prove che si era trattato di attentato terroristico. Nessuno ha pensato di perquisire le cave, i cantieri, le abitazioni dei mafiosi.
L’attuale generale in pensione Subranni nell’audizione presso la Commissione ha definito le indagini effettuate immediatamente dopo il delitto “complete, avvedute, tormentate” e ha più volte fatto riferimento al clima di quei giorni: “C’era un clima particolare, storico, di terrorismo. Questo clima non può essere dimenticato: a marzo del 1978, cioè nello stesso anno, fu sequestrato Moro”, non mancando di sottolineare l’atipicità dell’evento: “Nella storia della mafia non c’era mai stato un fatto del genere” e pure delle lettere di minaccia ricevute da Peppino: “Magari la mafia avesse avvisato qualcuno minacciandolo prima di sequestrarlo o di mettergli una bomba o di ucciderlo. Magari!” (a dire il vero tutta la storia delle estorsioni mafiose, spesso seguite da danneggiamenti e omicidi, è piena di letterine e avvertimenti scritti).
Quindi in forza del clima del tempo (il terrorismo, il sequestro Moro) i carabinieri del posto e i loro superiori di Palermo condivisero la tesi dell’attentato terroristico. Eppure pochi mesi prima i carabinieri di Cinisi avevano scritto degli ex militanti di Lotta continua passati a Democrazia proletaria: “non sono ritenuti capaci di compiere attentati”, anche se erano in grado di svolgere “manifestazioni di piazza” ed erano “capaci di trascinare e sobillare le masse” (il rapporto dei carabinieri richiamato dalla relazione è del 16 dicembre 1977). Per di più la Digos aveva escluso ed escludeva qualsiasi presenza terroristica nella zona.
Subranni è ritornato sul tema del depistaggio in un’intervista del “Giornale di Sicilia” del 19 dicembre 2000, in cui sostiene di non aver mai saputo nulla delle pietre con macchie di sangue e a proposito del professore di Medicina legale Ideale Del Carpio, consulente della famiglia Impastato e dei compagni di Peppino, che aveva dichiarato di aver svolto accertamenti sul posto del delitto, dice: “Lo interrogai personalmente. Prima confermò la circostanza, ma subito dopo si è visto costretto a ritrattare tutto. Giudicai la buona fede di Del Carpio, diversamente quel comportamento sarebbe stato considerato come diretto a confondere gli accertamenti”.
Il professore Del Carpio è morto da tempo e non può replicare, ma l’allora maggiore Subranni non poteva “interrogare” un consulente di parte perché non aveva delega per farlo e non ha minimamente pensato di interrogare qualche mafioso e di perquisire le cave da cui proveniva l’esplosivo usato per far saltare il corpo di Impastato (e che si trattasse di esplosivo da cava risulta chiaramente dalla relazione redatta lo stesso giorno del delitto dal sottufficiale dei carabinieri Salvatore Longhitano).
I compagni di Peppino non si fidavano dei carabinieri e dei magistrati, si fidavano solo di quell’anziano professore, con un nome che esprimeva la fede politica della famiglia ligure di provenienza, che in altri tempi aveva redatto la perizia legale sui resti di Placido Rizzotto e più recentemente era stato perito di parte per la famiglia di Giuseppe Pinelli, defenestrato dalla questura di Milano dov’era “interrogato” per la strage di piazza Fontana. Ricordo ancora la sua figura aggirarsi per le strade di Cinisi accanto a giovani con zazzere e “divise” da ex sessantottini, un compagno che gli offriva il suo cono gelato, il dibattito alla Facoltà di Architettura, la dichiarazione scritta in cui spiegava le ragioni per cui era prospettabile la tesi dell’omicidio: l’assurdità dell’ipotesi dell’attentato dinamitardo, per la scarsa importanza dell’obiettivo e perché un attentatore non porta la carica esplosiva aderente al corpo; la contraddittorietà tra l’impegno nella campagna elettorale e il compimento dell’attentato.
A Del Carpio i compagni di Peppino consegnarono i sacchetti con i resti lasciati a marcire per terra o sugli alberi. A lui consegnarono le pietre con macchie di sangue, dopo che i carabinieri avevano raccolto altre pietre che per loro non significavano nulla. Senza di lui, l’unico intellettuale di prestigio che ci offrì il suo aiuto, molte porte sarebbero rimaste chiuse.
Ma Subranni non è il solo a parlare così di morti. C’è un altro generale in pensione, Tito Baldo Honorati, che nel giugno del 1984, a sei anni dal delitto, ribadisce la tesi dell’attentato terroristico con queste parole che riportiamo integralmente: “Le indagini molto articolate e complesse svolte all’epoca da questo Nucleo operativo hanno condotto al convincimento che l’Impastato Giuseppe abbia trovato la morte nell’atto di predisporre un attentato di natura terroristica. L’ipotesi di omicidio attribuito all’organizzazione mafiosa facente capo a Gaetano Badalamenti operante nella zona di Cinisi è stata avanzata e strumentalizzata da movimenti politici di estrema sinistra ma non ha trovato alcun riscontro investigativo ancorché sposata dal Consigliere Istruttore del tribunale di Palermo, dr. Rocco Chinnici a sua volta, è opinione di chi scrive, solo per attirarsi le simpatie di una certa parte dell’opinione pubblica conseguentemente a certe sue aspirazioni elettorali, come peraltro è noto, anche se non ufficialmente ai nostri atti, alla scala gerarchica”.
Rocco Chinnici, il magistrato che ha avviato i lavori del primo pool antimafia sulla base di una lettura unitaria del fenomeno mafioso, che ha consentito il raggiungimento di risultati storici nella lotta giudiziaria contro la mafia, una delle figure più schiette e generose che l’Italia abbia conosciuto in anni durissimi, era stato assassinato dalla mafia il 23 luglio del 1983 nella strage di via Pipitone Federico in cui caddero altri tre uomini, e un ufficiale dei carabinieri, a quasi un anno dalla morte, adopera per lui le espressioni che abbiamo richiamato, con uno stile che la relazione definisce “oltremodo stigmatizzabile”, e riafferma un “convincimento” che la sentenza del maggio 1984 aveva esplicitamente smentito, dimostrando che si trattava di omicidio mafioso, anche se non riusciva a individuare i responsabili.

 

Per una storia dell’impunità

La relazione invita a non fare di ogni erba un fascio: nell’Arma dei carabinieri c’era chi chiedeva di fare chiarezza e viene riportata una nota del 27 giugno 1984 del comandante la legione di Palermo, Mario Sateriale, che dopo la sentenza già ricordata scrive che bisogna riprendere “la complessa vicenda… e con convinto e fervoroso impegno per conseguire concreti risultati”. E continua: “In altri termini si tratta di un impegno d’onore che deve riscattare la serietà e professionalità degli operatori portando chiarezza sull’intera vicenda”. Nella magistratura c’era Chinnici, che si è prodigato nel tentativo di fare giustizia, e la sua eredità fu raccolta da Caponnetto.
È vero, ma il depistaggio sul delitto Impastato non può considerarsi un’anomalia o un’eccezione. Nella relazione sull’indagine riguardante casi di singoli mafiosi, approvata dalla prima Commissione antimafia dello Stato repubblicano nel giugno del 1971, si legge: “Per anni magistratura, polizia, organi dello Stato e forze politiche hanno troppo spesso mostrato di ignorare l’esistenza della mafia”; la relazione sul caso Impastato riprende quel giudizio e dopo aver ricordato che anche in quegli anni ci sono stati “comportamenti coraggiosi e risoluti da parte di molti uomini collocati ai vari livelli degli organi dello Stato”, conclude: “ma a prevalere furono la scarsa coscienza della gravità del fenomeno mafioso e una tolleranza che, troppo spesso, diventava connivenza”.
Secondo la relazione le indagini sul delitto Impastato “sono state, hanno voluto essere una grande deviazione”. Com’è noto il termine “deviazione” è stato usato a proposito dei comportamenti di corpi istituzionali, in particolare i servizi segreti, implicati nelle trame che hanno portato alle stragi e ai delitti intesi a impedire il maturare di processi che minacciavano l’assetto di potere e gli equilibri internazionali. Ho parlato a proposito delle stragi, a cominciare da quella di Portella della Ginestra, di “democrazia bloccata” e di “doppio Stato”, della vigenza di una costituzione materiale che sbarrava, di fatto e con tutti mezzi, le possibilità di cambiamento del quadro politico offerte da una costituzione formale tra le più aperte e democratiche e il fatto, di per sé evidente, che le stragi, da Piazza Fontana alla stazione di Bologna, sono state e rimangono impunite, sta a dimostrare che non si è trattato di casi isolati, di complicità marginali e circoscritte, ma di qualcosa di più ampio e profondo, non legato a un passato ormai superato ma ancora oggi vitale, tanto che finora si è riusciti ad ostacolare l’accertamento della verità.
Mi chiedo se il concetto di deviazione, che si presenta tutto sommato come l’eccezione a una regola di legale normalità, sia il più adeguato a rappresentare la realtà del nostro paese in anni non lontani, e lo stesso rapporto tra istituzioni e mafia. Se si guarda alla vicenda dell’isolamento di Dalla Chiesa, alla sorte del pool antimafia di Palermo, smantellato dopo o a ragione dei successi conseguiti, al destino di uomini come Chinnici, Falcone e Borsellino, il quadro è a dir poco inquietante. Peppino Impastato era un personaggio indigesto pure per la sinistra (non si possono tacere le sue critiche spietate al Pci e al compromesso storico) e anche per più d’uno dei suoi compagni, più propensi a “riprendesi la vita” che a continuare la battaglia difficilissima contro la mafia, ma i magistrati uccisi erano servitori dello Stato e la loro morte, quando non rimane impunita, non si può addebitare soltanto al “delirio di onnipotenza criminale” dei corleonesi. C’è stata in Italia una lunga vicenda di connivenze, di esposizione a rischi mortali di personaggi impegnati sul fronte della legalità, che non si può spiegare con le deviazioni ma riguarda il modo in cui il potere delle classi dominanti si è costituito e si è perpetuato.
La relazione della Commissione antimafia ha il merito, che le va riconosciuto esplicitamente, di aver fatto chiarezza, per quello che era di sua competenza, su un delitto politico-mafioso che ha colpito un militante come Peppino Impastato, ma è, dev’essere, solo un primo passo. Bisogna scrivere una storia dell’impunità, dal dopoguerra ad oggi, dagli omicidi dei militanti del movimento contadino (a cominciare dall’inchiesta sull’assassinio di Accursio Miraglia, del gennaio 1947, con due sentenze contraddittorie) ai fatti più recenti, guardando al ruolo che hanno avuto le istituzioni nella legittimazione del delitto, garantendo l’impunità e attivandosi solo dopo i delitti eclatanti e le stragi, e solo in un’ottica di emergenza, cioè di risposta alla violenza mafiosa.

 

Il debito delle istituzioni e l’unanimismo antimafia

Con i processi in corso e con questa relazione il debito delle istituzioni nei confronti di Peppino Impastato è solo in parte pagato. La vicenda del riconoscimento come vittima della mafia è un altro capitolo fatto di inerzie, ritardi, silenzi, disinformazioni che merita di essere scritto. Nel luglio del 1990 l’allora ministro degli interni Gava, rispondendo a un’interrogazione del senatore Pollice di due anni prima, sosteneva: “Lo stato dell’inchiesta giudiziaria, tuttora in corso, e l’esito degli accertamenti investigativi, finora compiuti, non consentono al prefetto di Palermo di rilasciare la certificazione di “vittima innocente della mafia e della criminalità organizzata””, ignorando che c’era già dal 1984 una sentenza che parlava inequivocabilmente di omicidio mafioso. Il Centro Impastato chiedeva le dimissioni di Gava.
Nell’aprile del 1996 la direzione generale dei servizi civili del Ministero dell’Interno respingeva la richiesta presentata dalla madre di Impastato nel 1992 per la concessione della speciale elargizione prevista dalle leggi vigenti per le vittime di mafia. Nel luglio del ’96 la madre di Peppino presentava ricorso al Presidente della Repubblica avverso la decisione del Ministero. Il ricorso non ha avuto fino ad oggi risposta. Nel marzo del 1998 la Regione siciliana comunicava che avrebbe corrisposto un indennizzo alla madre di Impastato ma che questa doveva impegnarsi a restituire la somma se non venisse riconosciuta con una sentenza la matrice mafiosa del delitto, clausola prevista per tutti i casi ma che solo per i familiari di Impastato veniva resa pubblica e ripresa dalla stampa. In un comunicato del Centro scrivevo che questo somigliava a una presa di distanza e concludevo: “Se le cose stanno così, non possiamo non sottolineare che la distanza tra molti rappresentanti dell’istituzione regionale e Peppino Impastato è ancora abissale”. L’indennizzo non arrivava e nel marzo del 1999 la madre e il fratello di Peppino chiedevano al prefetto di Palermo, per il successivo inoltro al Ministero dell’Interno, l’applicazione dei benefici previsti dalla legge nazionale 23 novembre 1998 n. 407 in favore dei familiari delle vittime innocenti della mafia, ma ancora la richiesta non ha avuto riscontro. E lo scorso dicembre, a Palermo, in una cerimonia, alquanto improvvisata, svoltasi durante la conferenza delle Nazioni Unite per la firma della Convenzione sul crimine transnazionale, sono state consegnate delle targhe ai familiari di vittime della mafia ma si è ancora una volta ignorato Impastato. Peppino Impastato continua ad essere un morto scomodo, che non ha diritto di cittadinanza nel salotto buono dell’antimafia ufficiale. E di ciò non so se c’è da lamentarsi o da essere lieti.
Come si vede, il discorso non si limita ai depistaggi e ci auguriamo che il lavoro avviato con questa relazione prosegua. Come pure chiediamo che la Commissione antimafia conduca un’indagine adeguata su quello che è avvenuto nella zona di Cinisi-Terrasini dagli anni successivi al delitto Impastato ad oggi. Nel promemoria del settembre 1998 lo dicevo espressamente: quell’area ha avuto e ha un’importanza fondamentale nella vita della mafia e bisogna chiarire quali rapporti ci sono stati tra mafia, forze dell’ordine e istituzioni. Come si sono intrecciati i fili delle alleanze, degli scontri, dei tradimenti, delle confidenze e delle protezioni. Solo così si capirà perché si è suicidato il maresciallo Lombardo e perché in questi ultimi mesi si è tornato a uccidere.
I recenti arresti a Cinisi e a Terrasini di presunti mafiosi e presunti fiancheggiatori (la cautela è d’obbligo) ci inducono a ribadire l’esigenza di un’attenta ricostruzione del sistema relazionale senza cui la mafia sarebbe un fenomeno meramente criminale. Tra gli arrestati c’era un consigliere comunale di Cinisi, ex democristiano e ora nella maggioranza di centro-sinistra, ma che si dichiara ideologicamente vicino al Polo. L’11 dicembre scorso sedeva con gli altri consiglieri durante il consiglio comunale straordinario per la presentazione della relazione. Abbiamo sentito grandi lodi per Peppino Impastato e dichiarazioni antimafia. Senza voler anticipare gli esiti dell’inchiesta, non possiamo fare a meno di ricordare che quella che abbiamo definito “l’antimafia difficile”, che coniuga memoria, analisi e progetto e condivide la radicalità e la complessità dell’azione di Impastato, non ha nulla da spartire con le liturgie unanimistiche in cui alla solennità delle parole non corrisponde la coerenza dei comportamenti.

Peppino Impastato: la memoria difficile
di Umberto Santino

In un paese in cui la smemoratezza è uno sport nazionale e quel tanto che riesce a resistere e a trovare spazio nella memoria collettiva fa presto a tramutarsi in retorica agiografica, ricordare un personaggio e una storia nell’unico modo consentito a chi non coltiva miti e non pratica liturgie, cioè cercando di continuarne il percorso, è una fatica spesso destinata all’inutilità o ad esaurirsi in una cerchia ristretta.
Il Centro siciliano di documentazione esiste dal 1977 ed è stato dedicato a Peppino Impastato qualche anno dopo il suo assassinio, quando era considerato da molti un terrorista e un suicida, e tenendo conto dei limiti che derivano in primo luogo dalla scarsità delle risorse (il Centro è stato e continua ad essere autofinanziato) ha svolto un lavoro che mirava non solo a salvare la memoria di Impastato e a stimolare la magistratura perché accertasse le responsabilità di mandanti ed esecutori dell’omicidio, ma anche a produrre analisi e riflessioni ben prima che i grandi delitti e le stragi suscitassero l’interesse per l’universo mafioso. Non possiamo dire di avere girato a vuoto: abbiamo portato a compimento buona parte del progetto di ricerca “Mafia e società”(1), siamo stati i primi ad avviare attività nelle scuole(2), abbiamo promosso centinaia di iniziative, a cominciare dalla manifestazione nazionale contro la mafia del maggio 1979 e, per quanto riguarda la vicenda Impastato, l’impegno dei familiari, di alcuni compagni di militanza e le nostre sollecitazioni hanno ottenuto risultati importanti: i processi contro i mafiosi incriminati come mandanti dell’omicidio (il primo, contro Vito Palazzolo, si è concluso con la condanna a 30 anni di carcere; il secondo, contro Gaetano Badalamenti, è in corso), grazie anche all’assistenza di un avvocato che non ha chiesto una lira di onorario; la relazione della Commissione parlamentare antimafia sul caso Impastato(3), in cui si dice chiaramente che rappresentanti delle forze dell’ordine e della magistratura hanno depistato le indagini: un fatto storico, se si tiene conto che sulle stragi che hanno insanguinato il paese, da piazza Fontana alla stazione di Bologna, finora non si è riusciti ad ottenere, né sul piano giudiziario né su quello politico, nulla di preciso e di definitivo.
Eppure non possiamo non prendere atto che per molti, prima che vedessero il film “I cento passi”, Impastato era uno sconosciuto. Lo era per i giovanissimi, che non c’erano e adesso scoprono un personaggio in cui vedono incarnati sogni e aspirazioni che sembravano lontani ma di cui si torna a sentire il bisogno; lo era anche per tanti, meno giovani, che c’erano, ma camminavano su strade diverse e si sentono ringiovanire vedendo ricomporsi sullo schermo immagini dimenticate. Dai messaggi che ci pervengono, spesso inviati da ragazzi, qualcuno con meno di dieci anni, sembra di assistere a una sorta di resurrezione pasquale, in un periodo storico in cui ci sono molti crocifissi ma nessun risorto. Peppino viene descritto come un eroe, un martire, un giglio nel fango, un Che Guevara di Sicilia, che nell’immaginario di tanti è un inferno popolato di demoni sanguinari, in cui improvvisamente e inspiegabilmente è apparso un angelo ribelle. È solo un’emozione passeggera o c’è, ci può essere, dell’altro? Sta nascendo un mito o può farsi strada un interesse autentico che potrebbe anche tradursi in qualche forma di impegno, individuale o collettivo? Non lo so.
So, purtroppo, che in qualche caso la “scoperta” di Impastato si traduce in pratiche già viste e prontissime a riproporsi: iniziative, più o meno dal sapore elettoralistico, in cui si cerca di addomesticare la figura di Peppino, rendendolo “compatibile” con il clima e il linguaggio correnti, e ignorando il lavoro di tutti questi anni. Scelta perfettamente funzionale alla volontà di cancellare silenzi e ostracismi che hanno visto come protagonisti quegli stessi che ora inneggiano all’eroe “sconosciuto”.
Chi ha parlato e parla di “vent’anni di silenzio”, di “delitto dimenticato”, e tra questi ci sono alcuni che sanno perfettamente come sono andate le cose, non solo dà prova di disonestà intellettuale ma non è escluso che miri a compiere operazioni catalogabili sotto l’etichetta della mercificazione.
Come definire la trovata di un grande giornale nazionale che annuncia in prima pagina che la madre di Impastato parla “per la prima volta” (“Corriere della sera” del 30 agosto 2000) mentre ha rilasciato decine di interviste e in anni ormai lontani (1986) ha scritto con noi del Centro la sua storia di vita(4)? È chiaro che per “vendere” la notizia si doveva far credere che solo in quell’occasione la madre si era decisa a parlare e solo per quel giornale. Altrimenti la notizia non sarebbe stata data o non avrebbe avuto quel risalto. E più recentemente, il 12 aprile del 2001, sulle pagine del “Giornale di Sicilia” è toccato di leggere che sempre la madre di Impastato si sarebbe decisa ad accusare i mafiosi dell’assassinio del figlio solo dopo aver parlato con il giornalista Mario Francese, ucciso nel gennaio del 1979. Particolare trascurato, ma non trascurabile: la madre di Peppino ha incontrato Francese nel palazzo di giustizia di Palermo, dove si era recata per costituirsi parte civile, quindi la decisione di chiedere giustizia, rompendo con la parentela e con la cultura mafiosa, era già stata presa. Ricordare queste cose vuol dire suscitare reazioni infastidite, come se si trattasse di un’interferenza indebita o comunque non gradita.

 

La mafia in famiglia

Sull’onda del successo del film si è affermata un’immagine-simbolo della vicenda di Peppino Impastato racchiusa nella metafora dei cento passi, cioè della distanza, passo più passo meno, che divideva la casa degli Impastato da quella del boss Gaetano Badalamenti. La metafora è suggestiva ma la realtà era ben più drammatica e, a mio avviso, molto più ricca e stimolante anche come soggetto cinematografico. Nella lunga teoria dei caduti nella lotta contro la mafia, che io sappia, Impastato è l’unico proveniente da una famiglia mafiosa, mentre per chi vive in terra di Sicilia avere un capomafia nel vicinato non è un fatto né unico né raro.
Diamo la parola a Peppino, rileggendo alcuni appunti autobiografici, in cui sui è raccontato con impietosa lucidità:

Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare divenuta ormai insostenibile. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto con connotati ideologici tipici di una società tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, fin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte ed il suo codice comportamentale. È riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva ed a compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività. Approdai nel PSIUP con la rabbia e la disperazione di chi, al tempo stesso, vuol rompere tutto e cerca protezione(5).

Nel 1965 Peppino ha solo 17 anni, essendo nato nel 1948, e la sua rottura con il padre è già consumata. Sia stato o meno formalmente affiliato alla famiglia mafiosa di Cinisi, Luigi Impastato era mafioso a tutti gli effetti. Mafioso per nascita, per parentele e affinità, per amicizie, per mentalità e almeno in una certa fase anche per le attività con cui riusciva a sbarcare il lunario. Mafioso era il padre, che aveva fatto due anni di carcere ma, a dire della madre di Peppino, per qualcosa che avevano commesso i Badalamenti, e da allora gli Impastato avevano rotto con i Badalamenti-Battaglia (‘nciuria, cioè soprannome, che non derivava dalla bellicosità del comportamento ma dal mestiere di allevatori di mucche: battagghi sono i campani che pendono dal collo degli animali) e dopo quella disavventura il genitore aveva radunato gli otto figli per comunicare una decisione che suona come un comandamento biblico: “Io vi lascio per testamento che con i Badalamenti non ci dovete avere niente a che fare, per nessun motivo, perché vi scomunico… Battagghi non ne dovete mettere neppure alle vacche”(6). Ma le cose, come sappiamo, dovevano andare diversamente.
Mafioso era il fratello di Luigi, anche lui Giuseppe, significativamente soprannominato Sputafuoco; mafioso, anzi capomafia per molti anni, era Cesare Manzella, cognato di Luigi, avendone sposato la sorella.
Durante il fascismo il futuro padre di Peppino era stato per due anni al confino nell’isola di Ustica. Durante e dopo la guerra aveva fatto il contrabbando di alimentari, attività diffusa ben oltre la stretta cerchia dell’organizzazione mafiosa, e per un certo tempo era stato nel mirino delle forze dell’ordine, ma, grazie alle soffiate che venivano dagli stessi carabinieri – a raccontarlo è la futura moglie Felicia -, era più volte riuscito a sfuggire all’arresto.
Felicia Bartolotta, la madre di Peppino, non veniva da una famiglia mafiosa, nessuno dei suoi parenti era stato al confino durante il fascismo, ma un fratello del padre era emigrato negli Stati Uniti, dove aveva sposato una ragazza dodicenne di famiglia mafiosa e si era dedicato a un’attività allora fruttuosissima: la produzione e il commercio degli alcoolici, soggetti al regime proibizionistico. E per un contrasto con il suocero, a quanto pare per ragioni d’affari, Rosolino Bartolotta (era questo il suo nome) credette bene di ricorrere a una soluzione in uso tanto nella madrepatria che nel nuovo mondo: uccidere il suocero e due suoi cognati. Il commento di Felicia, nel raccontare queste disavventure familiari: “tu mi tincisti e io ti mascariavu” (“tu mi hai tinto e io ti ho macchiato”)(7), per dire che il Rosolino, imparentandosi con mafiosi, aveva ben presto imparato la lezione e aveva restituito pan per focaccia.
Ma nonostante i trascorsi americani dello zio paterno, Felicia non era portatrice, sana o meno, di cultura mafiosa; sposa Luigi senza capire e sapere molto di mafia e dintorni e il rapporto è subito burrascoso, perché il marito era ben dentro il circuito mafioso, e felice di esserlo, mentre lei si rifiuta di attenersi al galateo mafioso e paesano, fatto di complicità, di simulazioni e di silenzi, o lo fa di malavoglia:

Appena mi sono sposata ci fu l’inferno… Attaccava lite per tutto e non si doveva mai sapere quello che faceva, dove andava. Io gli dicevo: “Stai attento, perché gente dentro non ne voglio. Se mi porti qualcuno dentro, che so, un mafioso, un latitante, io me ne vado da mia madre. Può essere chiunque, anche mio padre, non faccio entrare nessuno”(8).

Da una coppia così mal assortita, che resiste sol perché Felicia è donna della provincia siciliana, ed è stata educata a subire, anche se morde il freno e di tanto in tanto esplode, nascono tre figli: il primo, Giovanni, muore a tre anni, poi viene Giuseppe e ultimo un secondo Giovanni.
Le fotografie dell’album di famiglia mostrano Giuseppe bambino a spasso con il padre accanto ai maggiorenti del paese e ovviamente non potevano mancare i mafiosi: è una sorta di presentazione del figlio all’establishment cinisense e il bambino, con l’abituccio festivo, mano nella mano del padre, si presta docilmente a queste frequentazioni. Altre immagini mostrano i componenti del comitato per i festeggiamenti della santa patrona e in una di esse vediamo un grappolo umano attorno a un alberello in piazza: accanto al padre di Peppino, ci sono Cesare Manzella, Gaetano e Sarino Badalamenti, Masi Impastato e Leonardo Pandolfo, che sarà sindaco del paese, docente universitario, deputato nazionale e assessore regionale. È il 1952 e quarantatre anni dopo Pandolfo dirà che non era informato: non sapeva che Badalamenti era un mafioso, e sorvolerà su Manzella, capomafia notorio. Ma già allora il giovane Badalamenti aveva cominciato la sua carriera, con una serie di incriminazioni quasi sempre risolte con i proscioglimenti di rito, medaglie al valore indispensabili per il cursus honorum mafioso.
Nel racconto della sua vita, la madre di Peppino parla di Cesare Manzella come di un capomafia all’antica, un galantuomo e un pacificatore: “Di Cesare Manzella? Non ne posso parlare male. Mio marito, una volta, si mise con una donna…”.
E Felicia racconta, quasi divertita, della scappatella del marito, costretto a fuggire in mutande dalla casa dell’amante, e della sua ribellione di sposa tradita, che si rifugia dalla madre. Ma in paese c’era quel sant’uomo di Manzella:

Allora venne questo Cesare Manzella, pieno di gentilezze, perché a me mi rispettava, e mi dice: “Sai che vuoi fare?”. E andava e veniva, andò da mia madre… e poi le dovette dare soldi, a quella donna, per accordarsi…(9)

Felicia si piega alle richieste di Manzella e ritorna nella casa maritale, “però il sangue restò sporco, lo stomaco restò malato”(10). E le benemerenze di Manzella non si fermano alla composizione di conflitti coniugali: raccoglie soldi e costruisce un cinema per gli orfanelli, fa regali a tutti, anche se spesso e volentieri si faceva prestare denari che poi non restituiva.
L’immagine del capomafia-patriarca-benefattore-paciere-aggiustatore di torti è imperversata per anni ed è diventata l’archetipo di una fantomatica “mafia tradizionale”, ligia al codice d’onore, una mafia d’ordine, più che accettata benvoluta in una società “tardocontadina”, come la definisce Peppino: un’immagine che è servita a coprire la natura criminale dell’associazionismo mafioso e gli innumerevoli delitti di cui si sono macchiati i mafiosi e i loro complici, a cominciare dalle carneficine tra le fila del movimento contadino. È la mafia descritta da Buscetta, ancora in stato di grazia, prima del tralignamento dovuto al coinvolgimento nel traffico di droga.
Il ritratto di Cesare Manzella tracciato dai carabinieri di Cinisi e riproposto dalle pagine della Commissione antimafia degli anni ’60 è alquanto diverso. Nel 1958 i carabinieri, in una proposta di diffida, scrivevano di lui:

L’individuo in oggetto è capo mafia di Cinisi. È di carattere violento e prepotente. È a capo di una combriccola di pregiudicati e mafiosi, composta dai fratelli “Battaglia”, cioè Badalamenti Gaetano, Cesare e Antonio, dediti ad attività illecita, non escluso il contrabbando di stupefacenti. Il Manzella Cesare è individuo scaltro con spiccata capacità organizzativa, per cui gode di un ascendente indiscusso fra i pregiudicati e mafiosi del luogo e quelli dei paesi, quali Carini, Torretta, Terrasini, Partinico, Borgetto e Camporeale che continuamente l o avvicinano. Tale suo ascendente fa sì che le malefatte compiute dai suoi accoliti non vengano nemmeno denunziate all’autorità costituita. Per tale motivo ed anche perché la sua funzione si esplica e si limita alla sola organizzazione della delinquenza e della mafia, è sempre sfuggito ai rigori della legge. Infatti è incensurato. Per la consumazione dei crimini si serve esclusivamente di sicari.
I delitti che accadono nella zona, tra cui alcuni omicidi, sono stati certamente sentenziati da lui, ma non ci sono prove per incriminarlo. Ha un’ottima posizione economica, consistente in proprietà immobiliari valutabili per circa 20 milioni.

E la Commissione antimafia, nelle schede sui singoli mafiosi pubblicate nel 1971, ribadiva che il capomafia “era un ex emigrato negli Stati Uniti dove si era arricchito all’ombra del gangsterismo americano, con il traffico di stupefacenti”(11).
Cinisi alla fine degli anni ’50 e nei primi anni ’60 pullula di mafiosi con un piede in Sicilia e l’altro negli Stati Uniti e da vicende legate al traffico d’eroina scaturirà il conflitto che porterà allo scontro tra la dinastia dei Greco e gli emergenti La Barbera. Manzella è con i Greco (noblesse oblige) e morirà nell’attentato del 26 aprile 1963, con la prima giulietta imbottita di tritolo, modalità made in Usa importata nell’isola dagli amici di Buscetta, che vent’anni dopo parlerà di una “mafia moderata”, la sua e quella dei suoi alleati, insidiata e decimata dalla degenere e sanguinaria “mafia corleonese”.
Nel racconto di Felicia, l’attentato in cui muore Manzella assurge a evento-chiave nella vita del quindicenne Peppino:

Lì fu colpito Giuseppe: Sai quando ammazzano un agnello? Brandelli di carne li hanno trovati appesi su un albero. Gli volevo dire: “Figlio…”. Che sapevo, e lui fece la stessa fine… E si informava con suo zio: “Zio – diceva – ma che cosa ha potuto provare?”. “Figlio, sono attimi”, gli disse mio fratello(12).

Giuseppe da quando il primo dei figli di Luigi e Felicia ha avuto l’encefalite ed è morto, nel 1952, su consiglio dei medici è stato allontanato da casa e vive con la nonna e poi con gli zii materni. Dopo le scuole elementari a Cinisi ha frequentato le scuole medie a Partinico e ha cominciato a pensare con la sua testa. Ha conosciuto Stefano Venuti, che negli anni ’40 era stato dirigente delle lotte contadine e fondatore del PCI, e aveva corso più di un pericolo. Il 22 giugno del ’47, dopo la strage di Portella della Ginestra del primo maggio, una ventata di attentati ha colpito le sezioni comuniste di Partinico, Borgetto e Cinisi, le sedi delle camere del lavoro di Carini e di San Giusepe Jato e la sezione socialista di Monreale. Altrove sono stati i banditi della banda Giuliano, arruolati nel partito anticomunista e desiderosi di guadagnarsi l’impunità. A Cinisi gli attentatori furono i mafiosi locali, impegnati in prima persona nella guerra contro i comunisti, e il 22 ottobre torneranno a colpire, uccidendo a Terrasini il segretario della Confederterra Giuseppe Maniaci, ex detenuto per reati comuni, politicizzatosi a Porto Longone, alla scuola di Scoccimarro e Terracini.
Venuti, per l’attentato del 22 giugno, aveva denunciato i mafiosi Cesare Manzella e Tommaso Impastato, che erano stati arrestati ma ben presto liberati. Riceverà minacce ma uscirà indenne da quella stagione sanguinosa in cui mafiosi, agrari e partiti conservatori ricorrono sistematicamente alla violenza, diffusa o mirata, per arrestare il movimento contadino e l’avanzata delle sinistre raccolte nel Blocco del popolo, e riusciranno a vincere. L’emigrazione dissanguerà ancora una volta la Sicilia e i partiti di sinistra e i sindacati si ridurranno a presenze minoritarie.
Peppino ragazzo frequenta la sezione del PCI, dove il dirigente è sempre Venuti, ma poi aderirà al PSIUP e sarà dirigente nazionale dell’organizzazione giovanile. L’immagine della mafia buona, che da grande lo aiuterà a trovare un posto e ad avere un ruolo adeguato alle sue ascendenze, è stata definitivamente cancellata dall’attentato del 26 aprile 1963 e a sedici-diciassette anni è già un militante e fa i primi comizi. Da allora al centro della sua attività politica ci sarà, sempre e soprattutto, la mafia.

 

Da “L’idea socialista” a Democrazia proletaria. Dal Partito-padre a Radio Aut

Nel 1965 esce “L’idea socialista”, un foglio ciclostilato, e cominciano i primi guai. Cinque giorni dopo l’uscita del primo numero i giovanissimi redattori vengono convocati in caserma. Il sindaco di Cinisi, il giudice Domenico Pellerito, cognato di Gaetano Badalamenti, ha sporto denuncia, sentendosi vilipeso dal giornalino, e il pretore di Carini condanna i responsabili a un’ammenda. Silenzio per un anno, ripresa delle pubblicazioni e questa volta Peppino spara cannonate: Mafia: una montagna di merda, è il titolo di un articolo scritto da lui, e qui si consuma la rottura con il padre e la parentela. Masi Impastato dice a Luigi: “Se fosse figlio mio, farei un fosso e lo seppellirei”, Sputafuoco lo avverte esplicitamente che una famiglia come la loro non può tollerare un ragazzo che scrive quelle cose(13). Luigi caccia via di casa Peppino, cioè gli vieta di mettere piede in casa, dato che già viveva con gli zii.
Il giornale continuerà ad uscire: nel 1967 Peppino pubblica un servizio sulla “marcia della protesta e della speranza” organizzata da Danilo Dolci, segue un numero con un attacco a Pandolfo nuovo sindaco del paese, ci sarà soltanto un altro numero in cui viene pubblicata una lettera non firmata in cui si legge:

Avete l’ardire di mettervi contro il prof. Pandolfo, contro l’ex-sindaco giudice Pellerito… in sostanza contro il gruppo rappresentativo del paese… Quattro straccioni come voi non possono garentire la sicurezza della nazione. Sol perché hanno pena di “consumarvi”, queste degne persone, da voi volgarmente oltraggiate, non assumono provvedimenti legali(14).

Negli anni successivi, dopo una breve esperienza con il circolo Che Guevara, Peppino percorre tutta la catena dei gruppi extraparlamentari e dell’associazionismo di base: prima i gruppi marxisti-leninisti (la Lega dei comunisti, il Pcd’I linea rossa), poi nel ’72 la campagna elettorale con il Manifesto, poi ancora Lotta continua e infine il circolo Musica e cultura, Radio Aut, la lista con Democrazia proletaria. Tappe fondamentali di questa militanza: il ’68 con le occupazioni dell’università, la lotta con i contadini contro l’esproprio delle terre per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Punta Raisi, la conoscenza di Mauro Rostagno, la lotta con gli edili per il lavoro, l’impegno nella campagna elettorale per le amministrative nella primavera del ’78 quando andrà incontro alla condanna a morte.
Lo aveva già scritto: aderendo al PSIUP cercava protezione e anche nell’adesione al gruppo marxista-leninista “il bisogno di un minimo di struttura organizzativa alle spalle (bisogno di protezione) è stato molto forte”. Come pure, impegnandosi nella campagna elettorale con il Manifesto, sentiva “il bisogno di garanzia istituzionale”.
Non ci vuol molto a capirlo: Peppino è alla ricerca di un padre, dato che non si riconosce in quello naturale ed è in aperta rottura con lui; è alla ricerca di una casa, dato che si è lasciato alle spalle quella della sua famiglia. Ma il Partito chiede troppo a un giovane lacerato dalle vicende personali, è un altro padre, non meno chiuso e tirannico del genitore naturale.
Riprendiamo la lettura della sua breve autobiografia:

Passavo con continuità ininterrotta da fasi di cupa disperazione a momenti di autentica esaltazione e capacità costruttiva: la costruzione di un vastissimo movimento d’opinione a livello giovanile, il proliferare delle sedi di partito nella zona, le prime esperienze di lotta di quartiere erano lì a testimoniarlo. Ma io mi allontanavo sempre più dalla realtà, mi diventava sempre più difficile stabilire un rapporto lineare con il mondo esterno, mi rinchiudevo sempre più in me stesso. Mi caratterizzava una grande paura di tutto e di tutti e nel tempo stesso una voglia quasi incontrollabile di aprirmi e di costruire. […] E mi beccai i primi ammonimenti e la prima sospensione dal Partito: la mia discontinuità era incompatibile con la vita interna dell’organizzazione. Fui anche trasferito in un altro posto a svolgere attività politica, non riuscii a resistere più di una settimana: mi fu anche proposto di trasferirmi a Palermo, al Cantiere Navale, un po’ di vicinanza con la Classe mi avrebbe fatto bene. Avevano ragione, ma rifiutai.

Il rapporto con un gruppo dogmatico, in cui il libretto rosso era la summa della Verità, i dirigenti l’incarnazione del Verbo, i militanti gli apostoli della Rivoluzione, la Classe il Corpo mistico dentro cui ci si salva e fuori dal quale ci si perde, finisce con il rivelarsi per Peppino una camicia di forza. Anche gli innamoramenti non riescono a dargli un equilibrio, anzi finiscono con l’accentuare le sue schizofrenie:

Mi innamorai follemente di una ragazza, ma riuscii a costruire soltanto un rapporto lunghissimo e schizofrenico, incomprensibile, kafkiano addirittura. Il risultato: ne uscii con le ossa rotte e ancora più incapace di rapporti con il mondo esterno.

Conosciuto da vicino, attraverso le sue parole, Peppino è ben diverso dal personaggio tutto slanci e sorrisi che qualcuno ha voluto far credere, come un eterno ragazzo, il Peter Pan della rivoluzione sognata, il giullare dello sberleffo irriverente.
Graverà per tutto il resto della sua vita il trauma familiare ma poi si aggiungeranno le delusioni della militanza politica, le ferite aperte da rapporti umani difficili se non conflittuali, ci saranno periodi dominati dal ricorso all’alcool e dal cupio dissolvi, ma fino all’ultimo prevarrà la voglia di riprendersi inventando un nuovo impegno.
Lotta continua è come una ventata di primavera e Mauro Rostagno il profeta di una nuova terra promessa:

Mi avvicino a “Lotta continua” ed al suo processo di revisione critica delle precedenti posizioni spontaneistiche, particolarmente in rapporto ai consigli: una problematica che mi aveva affascinato nelle tesi del “Manifesto”. Conosco Mauro Rostagno: è un episodio centrale nella mia vita degli ultimi anni. Aderisco a “Lotta continua” nell’estate del ’73, partecipo a quasi tutte le riunioni di “scuola quadri” dell’organizzazione, stringo sempre di più i rapporti con Rostagno: rappresenta per me un compagno che mi da garanzia e sicurezza, comincio ad aprirmi alle sue posizioni libertarie, mi avvicino alla problematica renudista. Si riparte con l’iniziativa politica a Cinisi, si apre una sede e si da luogo a quella meravigliosa, anche se molto parziale, esperienza di organizzazione degli edili. L’inverno è freddo ma tranquillo, la mia disperazione è tiepida.

Questa volta non c’è più il Partito-padre, il gruppo politico è la famiglia dei fratelli, la rivoluzione porta l’orecchino, coniuga il pane con le rose, al posto del libretto rosso c’è “Re nudo”, ma proprio da quel versante verranno altre delusioni.
Nel novembre del 1976 Lotta continua si scioglie e si apre la fase della crisi dell’impegno politico, del riflusso, del “personale è politico” che avrà la sua epifania nel movimento del ’77.
Peppino è aperto al nuovo vento ma rigidissimo per quanto riguarda l’insostituibilità dell’impegno politico, che per lui continua ad essere la lotta alla mafia. Si scontrerà duramente con i “creativi”, bollerà le loro scelte come “menate sul personale”, vedrà nell’apoteosi dello spinello il vessillo del disimpegno e della resa.
Scrive in un documento su Radio Aut (non casualmente la denominazione della radio faceva riferimento ad Autonomia operaia):

La tendenza del sociale all’autonomia comporta, sì, il rifiuto del politico inteso in senso tradizionale (delega, rappresentatività, centralizzazione burocratica ecc.) ma non il rifiuto dell’organizzazione autonoma di base e della teoria rivoluzionaria. In queste condizioni, ancora una volta, il “fumo” rischia di giocare il ruolo di veicolo di penetrazione per comportamenti e atteggiamenti, a dir poco, pericolosi(15).

E quando ci sarà lo scontro con gli hippies della “comune di Villa Fassini”, che dai microfoni di Radio Aut lanciano, senza averlo concordato con la redazione, l’invito alla “trasgressione a chiappe selvagge”, ripreso da radio, quotidiani e settimanali, scriverà una lettera durissima al quotidiano “Lotta continua”, che non sarà pubblicata. Carlo Silvestro, il “titolare” della “comune”, si legge nella lettera, mirava essenzialmente a due cose: avere una congrua buonuscita da chi voleva sfrattarli dalla villa (altro che lotta alla mafia!) e a

penetrare all’interno del gruppo di compagni presenti localmente e a Radio Aut per portarne alle estreme conseguenze il processo di disgregazione e per tentare, successivamente, di riaggregarne una parte su un progetto di rivista (“Amore”) che a quanto ci è sembrato di capire, altro non vuole essere che un pastone qualunquistico che, dietro il paravento della “politica del corpo” e del “recupero dell’erotismo”, avrà un’impostazione a metà strada tra il pornografico e la cronaca mondana(16).

Peppino dal 1975 al 1978 è impegnato su vari fronti: contro il compromesso storico che a Cinisi porta l’unico consigliere comunale del PCI a diventare vicesindaco in una giunta democristiana (e per Peppino la Dc è, inequivocabilmente e senza distinzioni, il partito della mafia), contro le defezioni e il disimpegno all’interno del suo gruppo, per il rilancio dell’impegno culturale e politico e a tal fine sperimenta nuove iniziative: il circolo Musica e cultura, come “polo d’incontro” tra giovani accomunati per qualche tempo dalle iniziative culturali (concerti, cineforum, animazione teatrale), che il PCI cerca di egemonizzare, senza riuscirci, e da cui, con un più preciso orientamento politico, nascerà nel 1977 Radio Aut. Nel 1976 Peppino si candida alle elezioni regionali con Democrazia proletaria, un cartello che raggruppa Avanguardia operaia, il Manifesto e Lotta continua, e riporta circa 350 preferenze. Un precedente che lo spingerà a candidarsi nel ’78 alle elezioni comunali.
Gli ultimi due anni della vita di Peppino sono tutti dedicati alla Radio e all’attività politica, ormai sganciata da appartenenze e per l’occasione elettorale sotto la sigla di Democrazia proletaria.
L’Italia è attraversata dal ciclone terroristico e il gruppo operante tra Cinisi e Terrasini (sede della radio) vuole, tra cento contraddizioni, fare politica, ritiene la scelta brigatista una “espropriazione della lotta di massa” e non perde occasione per denunciare le attività mafiose, le collusioni con le istituzioni, e con la trasmissione satirica “Onda pazza”, la più ascoltata, sbeffeggia mafiosi, con in testa Badalamenti, e signorotti locali. Ai loro occhi, è un delitto continuato di lesa maestà.
Nella notte tra l’8 e il 9 maggio del ’78 ci penserà il tritolo a chiudere la bocca per sempre a Peppino Impastato.

 

Mafia e antimafia negli anni ’60 e ’70

L’attività di Impastato si colloca in un periodo che si può definire di transizione(17). Transizione per la mafia e per l’antimafia. L’evoluzione del fenomeno mafioso, come del resto di tutti i fenomeni di durata, non può tagliarsi con l’accetta, come qualcuno ha preteso di fare, rispolverando il vecchio stereotipo mafia vecchia – mafia nuova. La storia della mafia è un intreccio di continuità e trasformazione, di persistenze e di elasticità. La signoria territoriale, aspetto permanente dell’agire mafioso, si coniuga con l’internazionalizzazione; l’estorsione, pratica già sperimentata nella preistoria della mafia(18), va a braccetto con attività e traffici destinati a incrementarsi nel mondo contemporaneo, come la produzione e commercializzazione degli stupefacenti.
Negli anni ’60 e ’70 la mafia non abbandona le sue roccaforti storiche, nelle campagne e nei quartieri della città ma, adeguandosi ai mutamenti del contesto, indirizza le sue attività verso la speculazione edilizia, il contrabbando di sigarette e il traffico di eroina. L’aeroporto di Palermo, soggetto alla signoria mafiosa della cosca di Cinisi, sarà il luogo di questo incontro tra antico e nuovo.
Lo stereotipo dominante in quegli anni voleva una mafia al tramonto, trasformata in gangsterismo urbano, senza radicamento e quindi molto meno pericoloso. All’interno della Commissione parlamentare antimafia, attivata sull’onda dell’emozione suscitata dalla strage di Ciaculli del 30 giugno 1963, in cui morirono sette uomini delle forze dell’ordine, la discussione fu dominata dallo scontro tra chi, come Li Causi, La Torre e pochi altri, sostenevano che ci si trovava di fronte a una mafia in mutazione, saldamente agganciata a uomini politici e a settori delle istituzioni, e chi invece era certo che ormai si trattava di delinquenza comune.
In una fase in cui non c’era più un movimento di massa (il movimento contadino chiude la sua ultima stagione di lotte nella metà degli anni ’50) la lotta contro la mafia vive dell’impegno di minoranze: le battaglie del Pci nella Commissione antimafia, nell’Assemblea regionale siciliana e nel consiglio comunale di Palermo, contro Lima e Ciancimino, l’attività di Danilo Dolci. Nei gruppi che nascevano a sinistra del PCI non c’era molto: solo l’analisi e il tentativo di pratica politica del gruppo del Manifesto di Palermo e l’attività di Impastato.
Il Manifesto nacque a Palermo dal Circolo Lenin, fondato da Mario Mineo, una delle figure più significative della sinistra siciliana, da giovanissimo impegnato nella battaglia per l’autonomia regionale (redasse un progetto di Statuto che non ebbe molta fortuna), da tempo in rotta con il PCI. In un documento del 1970, redatto dopo l’adesione al nascente gruppo nazionale formato dai dirigenti espulsi dal PCI nel 1969, era contenuta una sintetica analisi della mafia: essa era e continuava ad essere un fenomeno sociale (l’organizzazione criminale era solo la parte emergente di un iceberg) e negli ultimi anni la borghesia capitalistico-mafiosa aveva assunto funzioni di classe dominante(19). Un’analisi controcorrente, che suscitò le reazioni del PCI (Occhetto, allora dirigente in Sicilia, scrisse che in questo modo si vedeva dappertutto mafia), che all’interno del Manifesto nazionale non ebbe nessun risalto e attizzò polemiche anche nel Manifesto siciliano (più d’uno sosteneva che la mafia era un residuo feudale in via di sparizione, spazzato via dal capitalismo trionfante). Quest’analisi cercò di tradursi in azione politica, con la proposta di un disegno di legge di iniziativa popolare sull’espropriazione della proprietà mafiosa. Solo nel 1982, ben dodici anni dopo, con la legge antimafia approvata subito dopo l’assassinio di Dalla Chiesa, il sequestro e la confisca dei beni dei mafiosi saranno introdotti nel nostro ordinamento.
I gruppi di Nuova sinistra che proliferarono in quegli anni guardavano alla rivoluzione planetaria e non avevano occhi per fenomeni come la mafia. Lotta continua svolgeva un’attività di controinformazione su alcuni temi, come il neofascismo, e alla mafia dedicò un certo spazio in un opuscolo sulla Democrazia cristiana siciliana. Impastato partecipò alla campagna elettorale del ’72 con il Manifesto (e in quella campagna il Manifesto siciliano mise al centro il tema della mafia) ma non ebbe alcun rapporto con noi di Palermo. D’altra parte noi di Palermo non seguivamo quello che accadeva a Cinisi. Le concorrenze e i settarisimi allora erano fortissimi, ma non erano una novità e non allignavano solo in Sicilia. Solo dopo la sua morte, esperienze distinte ma in larga parte convergenti, hanno cercato di saldarsi. E non è un caso che a dedicare il Centro siciliano di documentazione a Peppino Impastato sia stato chi scrive, che aveva vissuto l’esperienza del Manifesto palermitano, mentre quelli che furono per anni suoi compagni in vari gruppi (dagli m-l a Lotta continua) lo hanno completamente dimenticato. Nessuno dei dirigenti di Lc venne a Cinisi dopo il delitto e dieci anni dopo, parlando con Rostagno, che doveva essere assassinato a qualche mese dal nostro incontro, ho accennato a Impastato ma non mi sono sentito di proseguire di fronte al suo imbarazzato silenzio.

 

L’assassinio e il depistaggio

Al funerale di Peppino eravamo in mille, ma in gran parte venivamo da fuori. Di compaesani ce n’erano pochi e le finestre della case lungo il corso erano chiuse. Lo erano anche il giorno dopo quando i compagni mi chiesero di parlare, dato che l’oratore ufficiale del comizio di chiusura della campagna elettorale era un demoproletario di Milano, non proprio conoscitore delle cose di Sicilia. Nel comizio abbiamo indicato i mafiosi come responsabili del delitto e rivolgendomi alle finestre chiuse, ben sapendo che in queste occasioni ci sono dietro persone che stanno a guardare senza farsi vedere, ho rivolto un invito: “Se queste finestre non si apriranno l’attività di Peppino Impastato è stata inutile”. Le finestre non si sono aperte. La domenica successiva, alle elezioni comunali, Impastato, numero sei della lista di Democrazia proletaria (allora l’ordine alfabetico nella redazione delle liste era rigidamente rispettato dai gruppi di Nuova sinistra), fu eletto al consiglio comunale con 260 voti di preferenza, meno di quelli che aveva avuto da vivo. La Democrazia cristiana ebbe 2.098 voti, balzando dal 36,2 per cento del 1972 al 49 per cento.
I successori di Impastato al consiglio comunale non brillarono per impegno e in tutti questi anni la partecipazione dei cinisensi alle iniziative organizzate dal Centro è stata alquanto ridotta. Erano invece in cinquecento nel settembre scorso, ai funerali di Giuseppe Di Maggio, figlio del vecchio boss Procopio, rapito e poi trovato morto. Questo non vuol dire che non è cambiato nulla, ma bisogna andarci piano con certe dichiarazioni che danno a vedere una Sicilia profondamente cambiata dopo la stagione dei grandi delitti e delle stragi. I processi di cambiamento, anche quando ci sono, sono lenti e non irreversibili.
L’inchiesta sul “caso Impastato”, archiviata frettolosamente rubricando il fatto come suicidio compiendo un atto terroristico, venne riaperta e nel 1984 una sentenza dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, predisposta da Rocco Chinnici, assassinato nel 1983, e completata dal suo successore, Antonino Caponnetto, riconosceva che si trattava di omicidio mafioso ma sosteneva che non era possibile individuare i responsabili. Dopo la pubblicazione del dossier Notissimi ignoti e del volume La mafia in casa mia, in cui si fornivano nuove indicazioni (tra cui il racconto del viaggio del padre di Peppino negli Stati Uniti, dopo un incontro con i mafiosi in cui gli era stata comunicata la decisione di farla finita con suo figlio), l’inchiesta veniva riaperta; nel 1992 era ancora archiviata e si ipotizzava la responsabilità dei corleonesi nemici di Badalamenti, sulla base delle dichiarazioni di Buscetta secondo cui Badalamenti era stato “posato”, cioè espulso da Cosa nostra. Finalmente nel 1997 si è arrivati alla richiesta di rinvio a giudizio di Badalamenti e Palazzolo come mandanti del delitto. L’inchiesta si è sbloccata solo quando un collaboratore di giustizia, appartenente alla famiglia di Badalamenti, si è deciso a parlare, ma per interrogarlo sul delitto Impastato c’è voluto un nostro esposto.
Deponendo davanti alla Corte d’assise di Palermo e anche nelle audizioni davanti alla Commissione parlamentare antimafia, carabinieri e magistrati hanno ripetuto che allora la decisione di archiviare l’inchiesta, etichettando Impastato come attentatore-suicida, derivò dal clima del tempo (erano i giorni del sequestro Moro e la mattina del 9 maggio venne trovato in Via Caetani il suo cadavere crivellato di colpi) e dal reperimento di una lettera in cui Peppino manifestava esplicitamente il suo proposito di suicidarsi. Lettera sequestrata e passata, in violazione del segreto istruttorio, al “Giornale di Sicilia”, in cui Peppino diceva di preferire ai “creativi” i criminali e le canaglie, esprimeva la sua delusione, proclamava il suo “fallimento come uomo e come rivoluzionario” e annunciava la sua volontà di abbandonare la politica e la vita. La lettera era stata scritta più di sette mesi prima e c’era una seconda stesura in cui si limitava ad esprimere la volontà di abbandonare la politica per riposarsi e curarsi.
A dire degli investigatori, quella lettera depistò le indagini e non c’erano elementi per indagare in altre direzioni. C’erano invece tantissimi elementi: le pietre macchiate di sangue raccolte dai compagni e consegnate a Ideale Del Carpio, l’anziano professore di Medicina legale che prestò la sua competenza per dimostrare che si trattava di omicidio e non di suicidio, l’esposto presentato l’11 maggio da forze politiche e associazioni culturali, i manifesti, i volantini, i comizi in cui si denunciavano i mafiosi, ma c’erano soprattutto dieci anni di attività di Peppino, con i nomi, i cognomi e i soprannomi dei mafiosi pronunciati ogni giorno.
Il generale in pensione Subranni, allora maggiore e responsabile delle prime indagini, in varie occasioni ha ribadito che le indagini effettuate immediatamente dopo il delitto furono “complete, avvedute, tormentate”, ma in un’udienza del marzo scorso, alla domanda del presidente della Corte: “Dopo la scoperta della lettera, avete indagato su come si sarebbe suicidato l’Impastato?”, ha risposto: “No”.
I due processi per il delitto Impastato riguardano i mandanti dell’omicidio e non danno spazio all’accertamento delle responsabilità per il depistaggio delle indagini. Abbiamo chiesto alla Commissione antimafia di occuparsene e siamo riusciti ad ottenere prima la costituzione del Comitato e poi la relazione approvata nel dicembre scorso. Come si vede, il bilancio del nostro lavoro non si chiude in rosso, anche se è ignorato o inadeguatamente richiamato dai media.

 

Stereotipi vecchi e nuovi

Se la memoria di Peppino Impastato rischia di rimanere prigioniera di immagini riduttive o fuorvianti (l’eroe solitario, l’angelo ribelle ecc.), mafia e antimafia sono state e continuano a essere terreni propizi al proliferare di stereotipi, antichi e recenti.
Negli ultimi anni non sono mancati contributi a un’analisi scientifica, ma troppo spesso si ha l’impressione che si sia passati da una polarizzazione a un’altra: prima la mafia era soltanto subcultura, codice comportamentale, mentalità, e guai a parlare di organizzazione; ora è solo Cosa nostra, organizzazione superstrutturata, piramidale, verticistica.
A una visione complessa e pluridisciplinare del fenomeno mafioso (quello che ho chiamato “paradigma della complessità”(20)) si preferiscono visioni che privilegiano un aspetto, replicando ancora una volta il tentativo di affermazione del primato della propria disciplina. Da ultimi ci hanno provato psicologi e psicanalisti, con teorizzazioni interessanti ma un po’ troppo affette da una sorta di “sindrome di Copernico”. Psicologia sociale e psicanalisi possono offrire elementi utili per capire il comportamento mafioso, se accettano di convivere e intrecciarsi con altre discipline e non se ritengono di aver trovato la chiave per penetrare i misteri del cosmo mafioso.
Una volta cessati i grandi delitti e le stragi, istituzioni e società civile hanno fatto più di un passo indietro, in base a una visione emergenziale del fenomeno mafioso, secondo cui la mafia esiste quando spara e bisogna attivarsi solo quando uccide Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino. I mafiosi hanno capito che la violenza eclatante produce effetti boomerang e che se vogliono tornare a tessere la tela delle alleanze e degli affari bisogna controllare la violenza rivolta verso l’alto. Così la legislazione, ideata e messa in atto nell’ottica della risposta all’escalation della violenza mafiosa, è stata in buona parte attenuata e cancellata. Anche la società civile mostra segni di stanchezza.
A ridosso delle stragi la Commissione antimafia aveva prodotto una relazione sui rapporti tra mafia e politica, individuando, oltre alla responsabilità giudiziaria, una responsabilità politica, ma se i processi contro uomini politici incriminati per associazione mafiosa o per concorso esterno si sono quasi sempre risolti a favore degli imputati, di responsabilità politica adesso non parla più nessuno e le assoluzioni in sede giudiziaria, anche se somigliano da vicino alle vecchie insufficienze di prove, vengono considerate dei titoli di merito che spianano la strada al proseguimento delle carriere. E questo vale anche per i procedimenti in corso, liquidati come “atti persecutori” orchestrati dalle “toghe rosse”.
Ho definito la mia Storia del movimento antimafia una storia contro gli stereotipi, apparentemente dissolti o drasticamente ridimensionati, ma in realtà ancora vivi e vegeti. Al familismo amorale di Banfield, che per lungi anni ha dominato negli ambienti accademici, e non solo, si sono via via aggiunti l’idea della mafia come subcultura di un’intera popolazione, di Hess e più recentemente l’incivisme, come tara ereditaria delle popolazioni meridionali, di Putnam.
La storia della Sicilia, con le lotte del movimento contadino, con centinaia di migliaia di persone impegnate per anni, dimostra il contrario: si sono formati partiti, sindacati, leghe, cooperative, si è dato vita a originali forme di lotta, dalle affittanze collettive agli scioperi alla rovescia, ed è scorso copioso il sangue. L’emigrazione, con flussi imponenti, ha fatto il resto. Rassegnazione e sfiducia nascono da questa storia di tentativi di cambiamento repressi e cancellati, non da una fantomatica “natura” dei siciliani.
Ma non ci sono solo gli stereotipi sulla mafia, ci sono anche, o ci possono essere, gli stereotipi sull’antimafia. Spesso si danno immagini oleografiche delle lotte del passato e si fanno passare per vittorie quelle che furono sconfitte. Recuperare la memoria del passato non significa edificare altarini ma far riemergere verità scomode: le lotte contadine sono state un grande sforzo di rinnovamento ma non hanno debellato la mafia, costringendola ad abbandonare le campagne e a rifugiarsi in città, e le forze politiche che le hanno organizzate non hanno pilotato o cogestito i processi di cambiamento. Nel 1947 le sinistre furono escluse dal governo nazionale e anche da quello regionale siciliano, nonostante la vittoria del Blocco del popolo alle elezioni regionali del 20 aprile. La riforma agraria del 1950 fu una beffa, assegnando per sorteggio individuale le terre peggiori: un invito a sciogliere le cooperative, che si erano formate in gran numero e avevano ottenuto in concessione le terre incolte e malcoltivate, e ad emigrare. La mafia è riuscita a cavalcare la transizione da un’economia agraria a un’economia terziaria, con un ruolo crescente delle città. E il passato ci dice, inequivocabilmente, che la lotta contro la mafia c’è chi l’ha fatta e ne ha pagato i costi, scontrandosi duramente con chi era dall’altra parte. E questo serve anche per scoprire il bluff che può celarsi dietro le proclamazioni unanimistiche, che non mancano di replicarsi quasi quotidianamente.
Dagli anni ’80 ad oggi, in risposta ai delitti eclatanti e alle stragi, ci sono state manifestazioni imponenti, si sono formate associazioni, tra cui quelle antiracket, si sono svolte attività nelle scuole, si sono cominciati a usare socialmente i beni confiscati ai mafiosi, ma il movimento antimafia di questi anni ha avuto grossi limiti: l’emotività, la precarietà, la scarsa autonomia, ma non si può dare la croce addosso all’antimafia: questi sono i limiti di tutti i movimenti sociali, una volta crollate le visioni globali e le prospettive di mutamenti radicali.
Il mio intento, nello scrivere una Storia del movimento antimafia, mirava a recuperare una memoria storica, quasi completamente cancellata o ritualmente riproposta, e a contribuire a stimolare una riflessione, al di là di immagini trionfalistiche veicolate dai media, ma è una lotta impari.
Faccio due esempi. Qualche anno fa è circolata una pubblicazione del fotografo Toscani su Corleone sponsorizzata da Benetton. Alcune fotografie mostravano i vecchi, ripresi di spalle o di sfuggita come a dire che essi rappresentano il passato da dimenticare: la mafia, la sfiducia, la rassegnazione ecc. ecc.; la stragrande maggioranza delle immagini era dedicata ai giovani, ripresi frontalmente o in primo piano: tutti con la faccia pulita, come a dire che essi sono il futuro, il nuovo, senza mafia, e quel futuro è già cominciato.
I vecchi di Corleone sono stati i protagonisti di stagioni di lotte che non è lecito ignorare (speriamo che il “Centro internazionale di documentazione sulla mafia e sul movimento antimafia”, recentemente costituitosi nel paese di Luciano Liggio e di Totò Riina ma pure di Bernardino Verro e di Placido Rizzotto, contribuisca a recuperare per intero una storia dimenticata) e ci auguriamo che i giovani possano costruirsi un destino migliore, ma è ancora presto per cantare vittoria, anche se non va taciuto quanto di buono si è fatto negli ultimi anni (in una villa confiscata a Riina ora c’è una scuola, sui terreni confiscati ai mafiosi è nata un’azienda agricola gestita da una cooperativa e su questa strada si vuol proseguire, anche se non mancano ostacoli e difficoltà).
In occasione della conferenza sul crimine transnazionale del dicembre scorso, per le strade di Palermo sono comparsi cartelloni con scritte come questa: “Il mondo ha un sogno: imitare Palermo” e il sito Internet delle Nazioni Unite ospitava una pagina sulla città. In esergo una citazione di Giovanni Falcone, datata 22 dicembre 1992 (Falcone era morto il 23 maggio), seguiva un testo a dir poco “disinvolto”: prima la Sicilia era nota in tutto il mondo per la mafia (e si citava il film “Il Padrino”) ma negli anni ’80 i siciliani hanno cominciato a cambiare mentalità e ora la mafia è a pezzi e Palermo vive il suo Rinascimento. Nessun accenno alla Palermo reale, con un tasso di disoccupazione del 34,8 per cento, un centro storico che a quasi sessant’anni dalla guerra dev’essere ancora in gran parte ricostruito, una mafia che ha ricevuto dei colpi ma è lontana dall’essere alle corde, un’illegalità diffusa, a dispetto delle consacrazioni ufficiali come “capitale della cultura della legalità”.
Nonostante le affermazioni trionfalistiche che hanno costellato i lavori della conferenza, che per fortuna non hanno incontrato un’eco favorevole, la convenzione di Palermo segna un passo avanti, almeno sulla carta, nella lotta giudiziaria al crimine transnazionale, ma non si può fingere di non sapere che la lievitazione dell’accumulazione illegale, il proliferare delle mafie non sono il frutto dell’immaginazione di un demone maligno, ma affondano le radici nelle politiche delle agenzie internazionali che smantellano le economie non competitive, aggravano squilibri territoriali e divari sociali, spingendo aree sempre più ampie del pianeta verso l’economia illegale(21).
Nella retorica che accompagna la nascita del terzo millennio, anche l’antimafia segue la corrente: l’immagine prevale sulla realtà e inclina al virtuale. Con queste premesse non credo che si possa fare molta strada. Dire queste cose vuol dire porsi fuori dal coro, ma non necessariamente votarsi al minoritarismo e all’impotenza. Con tutte le contraddizioni che accompagnano la nascita dei movimenti antagonistici, negli ultimi mesi, da Seattle a Porto Alegre, è comparso sulla scena un movimento che rischia di sfibrarsi nella protesta, inseguendo le scadenze dei vari vertici mondiali, e di opporsi al presente in nome del passato, ma può svilupparsi autonomamente e proiettarsi verso un futuro possibile se riesce a costruire un collegamento tra avanguardie occidentali e paesi condannati all’emarginazione dalla dittatura del mercato.
Dentro questo orizzonte si ridefiniscono oggi e nel prossimo futuro mafia e antimafia, lotta al crimine e trasformazione della società criminogena. E non è retorico pensare che la memoria di Impastato, con la sua radicalità e le sue lacerazioni, possa essere un punto di riferimento per un movimento antimafia non emotivo e non episodico, in un mondo in cui, contrariamente a quanto si dice, la storia non è finita ed è ancora necessario rompere con i padri.

 

Note
(1) Le ricerche più significative del Centro sono pubblicate nei seguenti volumi: G. Chinnici – U. Santino, La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia dagli anni ’60 ad oggi, F. Angeli, Milano 1989; AA.VV., Gabbie vuote. Processi per omicidio a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, F. Angeli, Milano 1992; U. Santino – G. La Fiura, L’impresa mafiosa. Dall’Italia agli Stati Uniti, F. Angeli, Milano 1990; U. Santino – G. La Fiura, Dietro la droga. Economie di sopravvivenza, imprese criminali, azioni di guerra, progetti di sviluppo, Edizioni Guppo Abele, Torino 1993; U. Santino, La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995; U. Santino, La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione delle sinistre, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997; U. Santino, L’alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997; U. Santino, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Riuniti, Roma 2000; U. Santino, La cosa e il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000.
(2) Sul lavoro nelle scuole cfr. A. Cavadi (a cura di), A scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri educativi, esperienze didattiche, Centro Impastato, Palermo 1994; U. Santino, Oltre la legalità. Appunti per un programma di lavoro in terra di mafie, Centro Impastato, Palermo 1997.
(3) La relazione, approvata il 6 dicembre 2000, è stata pubblicata nel volume Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio, Editori Riuniti, Roma 2001.
(4) Cfr. F. Bartolotta Impastato, La mafia in casa mia, a cura di A. Puglisi e U. Santino, La Luna, Palermo 1986, 2000.
(5) Il manoscritto con gli appunti autobiografici è conservato presso l’archivio del Centro Impastato. Brani del documento in S. Vitale, Nel cuore dei coralliPeppino Impastato, una vita contro la mafia, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995. Il testo è pubblicato quasi integralmente nel sito Internet del Centro Impastato: www.centroimpastato.it.
(6) F. Bartolotta Impastato, La mafia in casa mia, cit., p. 18.
(7) Ivi, p. 21.
(8) Ivi, p. 23.
(9) Ivi, pp. 13 sg.
(10) Ivi, p. 14.
(11) Le citazioni sono tratte dal volume I boss della mafia, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 282 sg.
(12) F. Bartolotta Impastato, La mafia in casa mia, cit., p. 27.
(13) Cfr. S. Vitale, Nel cuore dei coralli. Peppino Impastato, una vita contro la mafia, cit., p. 64.
(14) Ivi, p. 65.
(15) Il documento, pubblicato in 10 anni di lotta contro la mafia, bollettino del Centro siciliano di documentazione, luglio 1978, p. 7, è stato ripubblicato in S. Vitale, Nel cuore dei coralli, cit., pp. 131-134.
(16) Cfr. 10 anni di lotta contro la mafia, cit., p. 8; S. Vitale, Nel cuore dei coralli, cit., p. 118.
(17) Si veda la mia Storia del movimento antimafia, cit., pp. 201-241.
(18) Cfr. U. Santino, La cosa e il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi, cit.
(19) Cfr. M. Mineo, Scritti sulla Sicilia, Flaccovio, Palermo 1995, pp. 208 sg.
(20) Cfr. U. Santino, La mafia interpretata, cit.
(21) In parallelo alla conferenza delle Nazioni Unite, dal 13 al 15 dicembre 2000 il Centro Impastato ed altre associazioni hanno organizzato un seminario internazionale dal titolo: “I crimini della globalizzazione”.

 

Il movimento antimafia e i noglobal sulle strade di Peppino Impastato

di Umberto Santino

Quel 9 maggio ’78

La notizia mi era giunta in tarda mattinata e sono arrivato a Cinisi assieme ad altri compagni nel pomeriggio di giorno 9. A quell’ora il tratto di binario tranciato dall’esplosione era stato già risistemato, per disposizione del pretore di Carini Giancarlo Trizzino, parte dei resti di Peppino era stata raccolta in gran fretta (a raccogliere le briciole sparse un po’ dovunque, nei campi, sui fili della luce, sugli alberi, dovranno pensarci i compagni, traumatizzati dalla raccapricciante mostruosità dell’evento) e il procuratore aggiunto Gaetano Martorana aveva spedito al procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo il suo fonogramma:
“Oggetto: Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda – Morte di persona allo stato ignota, presumibilmente identificantesi in IMPASTATO Giuseppe, nato a Cinisi il 15. 01.1948.
Verso le ore 0,30-1 del 9.05.1978, persona allo stato ignota, ma presumibilmente identificantesi in tale IMPASTATO Giuseppe, in oggetto generalizzato, si recava a bordo della propria autovettura FIAT 850 all’altezza del km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo, che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore”.
A poche ore dal fatto la verità ufficiale era già confezionata: un attentatore ucciso dalla bomba con cui si accingeva a compiere l’attentato su una linea ferroviaria che attraversava la provincia palermitana. E due giorni dopo si sarebbe aggiunto un altro tassello: la lettera in cui Peppino esprimeva le sue delusioni con parole che gli investigatori utilizzavano per pronunciare un verdetto definitivo: suicidio compiendo un atto terroristico. E i compagni di Peppino non potevano non essere i complici dell’attentatore e si era subito messa in moto la macchina degli interrogatori e delle perquisizioni a senso unico: mentre le case dei familiari e dei compagni venivano messe a soqquadro, alla ricerca dell’arsenale dei terroristi, nessuno pensava di perquisire le cave (e che si trattasse di esplosivo da cava si era capito subito) e le abitazioni dei mafiosi, che non potevano non fregarsi le mani per la perfetta riuscita del loro piano.
Ora che la verità si è fatta strada, faticosissimamente e dopo lunghissimi 24 anni, nelle aule di giustizia, con le condanne di Vito Palazzolo, del 5 marzo 2001, e di Gaetano Badalamenti, dello scorso 11 aprile, e la parola depistaggio che abbiamo pronunciato mille volte campeggia a tutto tondo nelle pagine della relazione della Commissione parlamentare antimafia, approvata il 6 dicembre del 2000, e nelle motivazioni della sentenza di condanna per Palazzolo, depositate l’11 marzo scorso, dovremmo considerare la partita aperta quel 9 maggio 1978 definitivamente chiusa, eppure non è così.
Una partita ancora aperta: le responsabilità dei depistatori

Resta ancora aperto il capitolo degli esecutori, di cui uno è ancora vivo e non è stato incriminato. E dopo la morte di Palazzolo si dovrà risolvere il problema della carcerazione di Badalamenti, che potrebbe essere liberato dagli Stati Uniti e che bisognerà fare di tutto perché venga consegnato alla giustizia italiana e sconti la condanna per il delitto Impastato, ma resta soprattutto aperta, a livello giudiziario, la questione delle responsabilità dei depistatori. La verità storica, solennemente accertata da documenti ufficiali, non ci basta. Anche perché il comportamento di chi ha depistato le indagini non cessa di indignarci. Deponendo davanti alla Commissione antimafia e alla Corte d’assise, il maresciallo dei carabinieri Alfonso Travali si è prodotto in un rosario di non ricordo, ha detto che tutti i reperti venivano registrati ma non ha saputo spiegare la sparizione delle pietre macchiate di sangue a lui consegnate (su questo punto decisiva la testimonianza del necroforo comunale raccolta da Felicetta, la cognata di Peppino, su sollecitazione del Centro); non ha spiegato come si è deciso a imboccare la pista terroristica, dato che nel dicembre dell’anno precedente aveva scritto di suo pugno che gli ex militanti di Lotta continua passati a Democrazia proletaria non erano ritenuti “capaci di compiere attentati” (e l’ultimo volantino scritto da Peppino il 6 maggio, alla notizia della condanna a morte di Aldo Moro, definiva le Brigate rosse “il partito della morte, della paura, della espropriazione della lotta di massa”). E l’allora maggiore Subranni, in seguito promosso generale, ha dichiarato che le indagini furono “complete, avvedute, tormentate”, che il clima del tempo induceva a pensare al terrorismo, che il ritrovamento dello scritto di Peppino li aveva convinti che ormai tutto fosse chiaro (si era suicidato compiendo l’attentato), ma alla richiesta del presidente della Corte: avete indagato su come si è ucciso Impastato? ha risposto candidamente: no. Comunque, a dire di Subranni, non c’erano elementi per indagare in altre direzioni. Ai loro occhi non contavano nulla i dieci anni di attività di Peppino, con i nomi e cognomi dei mafiosi pronunciati quasi ogni giorno, come non contavano gli esposti dei compagni e dei familiari che indicavano inequivocabilmente la pista dell’omicidio mafioso.
Davanti alla Commissione antimafia l’ex pretore Trizzino ha dichiarato, tra l’altro, che non ricorda di aver visto casolari nelle vicinanze della ferrovia, mentre il maresciallo Travali sostiene di essere entrato assieme al pretore nella casa rurale in cui furono trovate le tracce di sangue che hanno avuto un ruolo decisivo nella ricostruzione della dinamica del delitto, e il procuratore Martorana ha detto che loro alla mafia non avevano pensato, di mafia si cominciò a parlare solo dopo gli esposti dei compagni e dei familiari. Ma c’era la mafia a Cinisi e a Terrasini? A quanto pare, i mafiosi erano dei galantuomini con cui i carabinieri andavano a prendere il caffè; l’unico che si era accorto della loro presenza era Peppino Impastato, eppure il fascicolo giudiziario di Gaetano Badalamenti era ben nutrito fin dal lontano 1946. Come sorprendersi se la prima condanna di Badalamenti in Italia è arrivata soltanto nell’aprile di quest’anno per l’omicidio di Peppino? Per gli investigatori l’unico problema era cercare pezze d’appoggio per la pista terroristica, indagando sui familiari, che avevano dato chiari segni di rottura con la parentela mafiosa, e sui compagni. Risulta, dalla lettura della sentenza per Vito Palazzolo che, durante il matrimonio di Giovanni Impastato venivano registrati i numeri di targa delle macchine degli invitati e che indagini sono state fatte anche sui soci del Centro Impastato (sono curioso di sapere cosa abbiano scritto sul nostro conto). Comunque l’Oscar della pervicacia tocca a Tito Baldi Honorati, ora generale in pensione, che ancora nel 1984 ribadiva che Peppino era morto compiendo l’attentato e che “l’ipotesi dell’omicidio attribuito all’organizzazione mafiosa facente capo a Gaetano Badalamenti operante nella zona di Cinisi è stata avanzata e strumentalizzata da movimenti politici di estrema sinistra ma non ha trovato nessun riscontro investigativo ancorché sposata dal consigliere istruttore del tribunale di Palermo, dr. Rocco Chinnici a sua volta, è opinione di chi scrive, solo per attirare le simpatie di certa parte dell’opinione pubblica conseguentemente a certe sue aspirazione elettorali”. Rocco Chinnici, una delle figure più limpide e generose che l’Italia abbia avuto in anni difficilissimi, era caduto per mano mafiosa il 23 luglio del 1983 e a quasi un anno dalla morte un ufficiale dei carabinieri scriveva parole di cui dovrebbe vergognarsi. Faremo ogni sforzo perché anche in sede giudiziaria si apra il capitolo del depistaggio, chiamando in causa i responsabili chiaramente individuati con nomi e cognomi.

 

Il Forum sociale antimafia

Ogni anno, per l’anniversario dell’assassinio di Peppino, abbiamo organizzato delle iniziative cercando di tenerci lontani dalle liturgie della commemorazione. Nel 1979 abbiamo promosso, con Democrazia proletaria, una manifestazione nazionale contro la mafia, la prima della storia d’Italia (e ricordo le difficoltà di far capire, andando in giro per il Paese, che la mafia non era un problema siciliano in via di estinzione ma una questione nazionale con ottime prospettive per il futuro); negli anni successivi abbiamo presentato le ricerche del Centro sull’omicidio, sull’impresa mafiosa, sul traffico di droghe, su mafia e politica, sul movimento antimafia, abbiamo parlato delle attività nelle scuole e dei progetti di intervento sociale e abbiamo fatto il punto sull’inchiesta e sui processi.
Quest’anno con altre associazioni, tra cui alcune che riprendono la vecchia denominazione di Radio Aut (purtroppo la radio di Peppino chiuse nell’estate del 1980), o che si intitolano a Peppino, abbiamo costituito il Forum sociale antimafia e promuoviamo una serie di iniziative che si terranno dal 9 all’11 maggio.
Come abbiamo scritto nell’appello con cui abbiamo lanciato la proposta, il Forum “vuole essere un luogo di confronto e di iniziativa unitaria che, partendo dalle lotte sociali degli ultimi anni, elabori un progetto di riflessione e di lotta contro la globalizzazione neoliberista, contro la guerra e il terrorismo, contro i processi di finanziarizzazione e di emarginazione che portano al proliferare delle mafie a livello locale e internazionale, per l’affermazione dei diritti fondamentali e per un’autentica partecipazione democratica”. Nel Forum si ritrovano realtà ed esperienze diverse che si riconoscono “nella radicalità delle rotture di Peppino Impastato, a cominciare dalla famiglia, e nella ricchezza della sua esperienza che coniugava militanza politica, impegno sociale, creatività culturale”.
Per il Centro il progetto di costruire un terreno comune tra movimento antimafia e mobilitazione per la pace prima e ora contro la globalizzazione neoliberista non è nuovo. Ricordiamo l’impegno nei primi anni ’80, quando era in atto una sanguinosa offensiva mafiosa e in terra di Sicilia come in altre parti d’Europa volevano piantare le basi missilistiche. Più recentemente, nel dicembre del 2000, siamo stati tra i promotori del seminario internazionale su “I crimini della globalizzazione”, in parallelo con la conferenza delle Nazioni Unite per la firma della convenzione sul crimine transnazionale svoltasi a Palermo. Parleremo ancora dei crimini della globalizzazione nel forum in sessione plenaria che si terrà nella piazza di Cinisi la mattina del 10 maggio. Ma anche su questo terreno c’è un filo diretto con l’esperienza di Peppino Impastato: già negli anni ’70 sulle strade di Cinisi e Terrasini Peppino e i suoi compagni mimavano la morte atomica, una delle tante manifestazioni del suo impegno multiforme capace di collegare i problemi locali con i processi in atto sul piano internazionale. E nei forum tematici parleremo di mafia e di antimafia, aggiornando l’analisi e cercando di dare un contributo a un progetto di antimafia sociale che vada oltre la mobilitazione episodica e coinvolga gli strati popolari, affrontando i problemi dell’occupazione e del controllo delle risorse; parleremo di informazione, di guerra e terrorismo ma pure delle alternative concrete che vanno profilandosi sullo scenario mondiale a partire da Genova e da Porto Alegre. Incontreremo la madre di Carlo Giuliani e saluteremo ancora una volta la madre di Peppino che in tutti questi anni non ha cessato un istante di denunciare i responsabili dell’assassinio del figlio (nel frattempo la zia Fara, che gli ha fatto da seconda madre, ci ha lasciati).
Ci sembra particolarmente significativo che i protagonisti delle mobilitazioni di questi anni si incontrino nel nome di Peppino sulle vie dei suoi paesi. Il modo migliore di ricordarlo, al di là delle immagini riduttive che rischiano di svuotare la carica antagonistica che animava la sua militanza o vorrebbero farne una sorta di Peter Pan di un impossibile sogno rivoluzionario. Oggi, ancora più di ieri, con il vento di destra che spira sul pianeta e non soltanto nei paraggi di Arcore, la lucidità, l’intransigenza, l’irriverenza verso ogni forma di stupidità, conformismo, arroganza, prepotere e la progettualità culturale e politica che ispiravano l’impegno quotidiano di Peppino sono un bene di prima necessità.

“Liberazione”, 9 maggio 2002, pag. 16-17.