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Squadre e controsquadre…

Squadre popolari e controsquadre aristocratico-borghesi;
unioni, sette, partiti, gruppi criminali e “sistema integrato”

 

Evviva la mastranza /e chi la fici e fu /chi la città è cuieta / e latri un ci nn’è cchiù. / E tutta sta sbirragghia / chi java caminannu / e javanu arrubbannu / e spiavano: cu fu? Questa canzonetta circolava a Palermo nel 1773, durante la rivolta popolare contro il viceré Fogliani. Le maestranze e corporazioni locali, formate dagli artigiani, avevano costituito una polizia popolare che sostituiva le compagnie d’arme e le guardie e in quel periodo scomparvero i furti, le rapine e le violenze. Il problema era se a rubare fossero solo le guardie, gli sbirri-ladri, o anche i componenti delle ronde artigiane. Comunque nel 1774 la polizia popolare fu sciolta: era pericoloso lasciare la forza nelle mani del popolo, così scrive l’abate-storiografo Giovanni Evangelista Di Blasi.

Nel 1812 veniva abolito il feudalesimo, ma in realtà nulla cambiava nelle strutture fondamentali della società. In questo quadro cresce il malcontento e nel 1820 a Palermo, a Messina e a Catania e nelle campagne dell’isola si sviluppa una rivolta che coniuga motivazioni politiche e sociali. Protagoniste sono ancora le corporazioni artigiane, questa volta fronteggiate dalla Guardia nazionale formata da aristocratici e borghesi a tutela dei loro interessi. Gli “armati di fiducia” a guardia dei possidenti sono arruolati fra pregiudicati. La contrapposizione tra squadre popolari e controsquadre borghesi si replicherà nel 1848 e squadre popolari nel 1860 saranno a fianco dei mille di Garibaldi e animeranno la rivolta palermitana antiunitaria del 1866. I giudizi degli storici sono diversificati: si possono considerare “mafiose” le controsquadre aristocratico-borghesi, mentre le squadre popolari sono considerate “rivoluzionarie”, una forma di antimafia, da storici come Salvatore Francesco Romano, autore di una delle prime storie della mafia, e nient’altro che mafia da altri studiosi. In realtà mafiosi e malviventi sono presenti sia nelle squadre popolari che nelle controsquadre, ma la mafia che si affermerà sarà sempre più quella legata ai possidenti, mentre la violenza degli strati subalterni si sarebbe in parte incanalata nel movimento popolare e nelle lotte contadine.

Dalla documentazione sui primi decenni dell’Ottocento risulta il proliferare di bande armate e di gruppi che più che banditeschi possono definirsi “mafiosi”. Fra il 1819 e il 1849 sono state censite 594 bande, ma in gran parte sono comitive temporanee con attività occasionali. Ma ci sono anche associazioni durature, fondate sul segreto, che prevedono il giuramento, l’obbligo dell’omertà e praticano l’abigeato su larga scala. Un rapporto del procuratore generale di Girgenti del 16 ottobre 1828 documenta l’esistenza a Cattolica di una “organizzazione di oltre 100 membri, di diverso rango, i quali erano riuniti in fermo giuramento di non rivelare mai la menoma circostanza delle loro operazioni, a costo della vita, e che conservano a difesa comune una somma considerevole di denaro in cassa” (in Giovanna Fiume, Le bande armate in Sicilia, Palermo 1984, p. 97). L’organizzazione si estendeva ad altri comuni e godeva della complicità di possidenti, pubblici funzionari, denunciati ma rimasti al loro posto.

Il documento più noto e citato è il rapporto del 3 agosto 1838 del procuratore generale della Gran Corte criminale di Trapani, Pietro Calà Ulloa, che parla di “unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senz’altro legame che la dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli governi nel governo”. Godono della protezione di alti funzionari e magistrati. Il procuratore punta l’attenzione sul ruolo di Palermo: la Sicilia dev’essere “scardinata da Palermo” (corsivo nel testo). La capitale “col suo lusso e la sua corruzione” è una “città feudale nel secolo XIX… nella quale vivono 40mila proletari, la cui sussistenza dipende dal caso o dal capriccio dei grandi. In questo umbilico della Sicilia si vendevan gli Uffizii pubblici, si corrompeva la giustizia, si fomentava la ignoranza del popolo”. Il documento, pubblicato integralmente nel mio La cosa e il nome, parla di organizzazioni informali ma dice che hanno una cassa e svolgono attività continuative e complesse, mette insieme delinquenti e tentativi di organizzazione della società civile e di oppositori del regime borbonico. Un altro rapporto del 27 ottobre 1838 dell’Intendente della valle di Caltanissetta parla di una “lega di ladri”, denominata Sacra Unione, con centro a Mazzarino e operante in un’area abbastanza vasta, di cui fanno parte tre religiosi ed è capeggiata da uno di essi. L’Unione era strutturata gerarchicamente in omini e scassapagghiara e godeva della protezione di autorità e proprietari, che intascavano parte dei proventi, e coinvolgeva una vasta rete di parenti.

Del 23 ottobre 1841 è un rapporto del sottintendente di Termini Puoti che parla di sette strutturate in tre livelli: organizzatori, mediatori, esecutori. I primi sono personaggi influenti, i secondi appaiono come dei tecnici: hanno conoscenze giuridiche e amministrative, assistono i detenuti, corrompono i pubblici funzionari; gli esecutori sono dei banditi, ma più che ribelli sono specializzati in furti, rapine e omicidi. È un “sistema integrato”, che coniuga personale delinquenziale e sistema relazionale. Anche il sottintendente teme che queste sette possano essere “l’istrumento della rivolta” antigovernativa. In quegli anni sono documentati rituali tipicamente mafiosi, come i cadaveri con la lingua mozza, a sanzionare una lesione dell’omertà. La mafia, così come la conosciamo, organizzazione e rete di rapporti, associazionismo criminale e codice comportamentale, è già un fenomeno compiuto.

 

Pubblicato su Repubblica – Palermo il 6 giugno, con il titolo Bande, sette e squadre armate così agivano i “nonni” dei boss