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La Cosa nuova

Umberto Santino

La “Cosa nuova” di Provenzano, tra violenza e mediazione

Di Bernardo Provenzano si sa pochissimo e ora in questo libro, scritto da due giornalisti che da tempo lavorano sull’argomento e qualche anno fa hanno realizzato un sito Internet interamente dedicato a Provenzano, troviamo finalmente raccolto tutto il materiale conoscitivo disponibile, sia a livello giudiziario che giornalistico. A giudicare dall’importanza che si attribuisce al personaggio, non è molto ma anche questa scarsità di informazioni ha contribuito a creare la leggenda della “primula rossa” di Corleone.
Provenzano, latitante dal 9 maggio 1963, cioè da ben 38 anni – una latitanza che batte tutte le altre, tanto che più di una volta è stato dato per morto -, secondo gli investigatori sarebbe l’attuale capo indiscusso di Cosa nostra, al posto del pluricondannato Totò Riina. Non si tratterebbe solo di una successione dovuta all’arresto di Riina, ma di un mutamento di rotta inteso a traghettare l’organizzazione mafiosa più potente e più nota fuori dalla crisi che si è aperta con la stagione stragista culminata con le stragi di Capaci, di via d’Amelio e poi di Firenze e di Milano. L’effetto boomerang di quelle stragi avrebbe portato Cosa nostra a scegliere la strada della “sommersione”, a reagire all’ondata di arresti e di “pentimenti” rendendosi meno visibile e l’ideatore e il regista di questa strategia di “inabissamento” (altro termine equoreo-speleologico con cui gli investigatori amano designare l’attuale fase della storia dell’organizzazione mafiosa) sarebbe Bernardo Provenzano, per decenni luogotenente di Luciano Liggio assieme a Riina, poi sempre accanto a Riina alla testa di Cosa nostra (uno strano duunvirato contrassegnato dall’alternanza biennale e dall’assenza dell’uno quand’era presente l’altro, come per sottolineare un’incompatibilità irriducibile e una convivenza obbligata) e infine unico signore dell’organizzazione criminosa, ribattezzata come Cosa nuova.
La mafia incarnata da Provenzano è altra cosa rispetto a quella di Riina e degli altri corleonesi che negli anni ’70 e ’80 mossero alla conquista di Palermo imponendo con un’escalation di violenza la loro dittatura? È la mafia mediatrice che ora riprende a tessere le fila, mentre per anni ha dovuto cedere il terreno alla mafia stragista?
Sarei per evitare contrapposizioni forzate, ma una cosa è certa: la mafia siciliana, da quando c’è, si è sempre configurata come un sistema elastico di adattamento, intrecciando continuità e innovazione, violenza e mediazione. Oggi, constatato il fallimento di un uso eccessivo della violenza, si riprende il vecchio adagio del calati juncu, non solo per resistere ai colpi che finalmente sono stati dati da istituzioni che per svegliarsi hanno atteso le montagne di cadaveri e in particolare l’uccisione di personaggi di primo piano, ma soprattutto per avviare una ripresa della politica di alleanze e un rilancio degli affari, possibili solo se si ha saldamente in mano il controllo della somministrazione della violenza e se si rinuncia a rivolgerla verso l’alto.
Che a tracciare questo “nuovo corso” sia un uomo di tutte le stagioni come Provenzano può significare molte cose: che siamo in presenza di un criminale scaltro e avveduto, capace delle trasformazioni più impensate, da killer sanguinario, soprannominato per la sua rozzezza u viddanu o u tratturi, a “ragioniere” e “mente della politica palermitana”, una specie di Fregoli mafioso; che ci sia una crisi dei ricambi all’interno di Cosa nostra per cui al vertice dell’organizzazione, gira vota e firria, per dirla in siciliano, si ripropongono gli stessi nomi, corrispondenti a personaggi capaci di sopravvivere riciclandosi; che sappiamo troppo poco per avventurarci in ipotesi credibili.


Il modello Provenzano. Controllo della violenza e sistema imprenditoriale

La tesi che gli autori sostengono è che ci sarebbe un “modello Provenzano” che alla lunga si sarebbe mostrato vincente, un modello che fa della mafia di Provenzano un'”altra mafia”, appunto la “Cosa nuova”, una mafia rifondata dopo il delirio di onnipotenza criminale di “Cosa nostra”.
Vediamo in cosa consiste questo modello Provenzano. Per intanto c’è da dire che esso non sarebbe una novità assoluta. Riemergerebbe una linea che collega Provenzano a Michele Navarra, che per molti anni fu a capo della famiglia mafiosa di Corleone, e che nell’agosto del 1958 fu massacrato dall’emergente Luciano Liggio. Navarra, medico e primario ospedaliero, grande esempio di “flessibilità” politica (prima simpatizzante separatista, poi liberale, quindi, e definitivamente, notabile democristiano), insignito del cavalierato della Repubblica nel giugno del 1958 da Giovanni Gronchi, era uno dei grandi capi della mafia agraria ma pure un antesignano della mafia imprenditoriale con la creazione già nel 1947 dell’Ast (Azienda siciliana trasporti). Sarebbe lui il modello a cui Provenzano si ispira, anche se in gioventù ha fatto parte dei “liggiani” che hanno avversato e ucciso il medico-capomafia.
A questa linea Navarra-Provenzano, moderata e industriosa, flessibile ed accomodante, si contrapporrebbe una linea Liggio-Riina, rigida e aggressiva, violenta e accaparratrice.
Ho già detto che, parlando di mafia, bisogna guardarsi dalle contrapposizioni troppo rigide: in realtà anche Liggio e Riina hanno coltivato attività imprenditoriali e già il fatto che hanno saputo imporsi sulla scena palermitana, pur essendo viddani (termine spregiativo per indicare i provinciali e i contadini), non può non essere il frutto di una capacità di inserimento e di una politica di alleanze senza le quali sarebbero rimasti inchiodati a un ruolo marginale, una volta tramontata o ridimensionata una società che aveva il suo baricentro nel possesso della terra e nello sfruttamento della forza lavoro contadina.
La diversità tra le coppie di personaggi che abbiamo richiamato, in ogni caso, non ha niente a che spartire con la distinzione, gratuita e infondata, tra una mafia buona e una mafia cattiva, la prima moderata, rispettosa delle regole tramandate dagli avi, e quasi restìa a usare la violenza; la seconda smodata, contravventrice delle regole e sanguinaria. Tutti i mafiosi usano la violenza, non riconoscendo il monopolio statale della forza; il problema è capire che c’è una violenza funzionale al mantenimento e alla perpetuazione del potere e perciò sicuramente, o quasi, impunita, e una violenza straripante, volta a imporre mutamenti nel quadro di comando complessivo che non ci vuol molto a prevedere che innescherà effetti boomerang.
Liggio sapeva perfettamente, nel lontano 1948, che sequestrando e uccidendo Placido Rizzotto, rendeva un servizio a chi aveva molto da temere dall’avanzata del movimento contadino che contendeva ai proprietari terrieri e alle forze conservatrici la terra e il potere.
L’impunità della violenza mafiosa rivolta contro il movimento contadino, dai Fasci siciliani (1891-94) a Salvatore Carnevale (1955) e a Carmelo Battaglia (1966), era garantita e assoluta perché quella violenza era la risorsa a cui si faceva ricorso tutte le volte che il conflitto sociale non era governabile con i mezzi legali. Una prassi che ritornerà in auge negli anni ’70 e ’80 quando ci saranno da fronteggiare dinamiche sociali e politiche in grado di mettere in forse l’assetto di potere e la violenza (mafiosa, neofascista, piduista ecc. ecc.) irromperà sulla scena e ancora una volta resterà, in tutto o in larga parte, impunita.
Ma una violenza rivolta contro magistrati, poliziotti, uomini di governo, in un periodo in cui il nemico, cioè il comunismo (pericolo numero 1 per i detentori del potere e per l’equilibrio geopolitico), si è dissolto, è una sfida che si ritorce contro chi la mette in atto. Ed è proprio questo che è avvenuto nei sanguinosi anni ’80 e ’90. L’imposizione, all’interno e all’esterno, di una sorta di dittatura criminale, all’insegna dello sterminio dei concorrenti e degli avversari, ad opera dei cosiddetti “corleonesi”, ormai insediatisi in città, non può essere solo messa sul conto delle opzioni caratteriali di un despota sanguinario, quale è stato certamente Totò Riina, ma ha coinvolto, per condivisione o per acquiescenza, tutto il gruppo dirigente dell’organizzazione criminale Cosa nostra. Provenzano compreso. Tutti hanno pensato, o si sono comportati come se lo pensassero, che lo stragismo fosse una strategia vincente: all’interno, per assicurarsi l’egemonia, con l’eliminazione fisica dei capi storici e dei loro gregari; all’esterno, per arrestare processi in atto e imporre scelte che avrebbero sancito una vera e propria dipendenza del corpo sociale dall’organizzazione mafiosa ricomposta in un unico centro di potere.
Sappiamo che le cose non sono andate così. All’interno dell’universo criminale sono saltati equilibri storici ed è venuta la grande emorragia del pentitismo, una forma di resistenza allo strapotere dei corleonesi, una volta constatato che era impossibile una risposta sul piano militare. All’esterno l’escalation della violenza ha avuto l’effetto contrario a quello sperato, con l’approvazione di nuove leggi, a cominciare da quella antimafia del 1982 che con più di un secolo di ritardo sancisce la natura criminale dell’associazione mafiosa, gli arresti, i processi, le condanne, anche se solo in un’ottica d’emergenza, cioè di risposta alla sfida mafiosa, destinata ad attenuarsi e a ripiegare con l’attenuazione o sospensione dell’uso della violenza.
Questa comparazione tra costi e benefici, desideri e risultati, non poteva non portare i mafiosi più accorti a una correzione di tiro. Una scelta quasi obbligata dopo gli effetti evidenti dell’ubriacatura di sangue e del “delirio di onnipotenza criminale”.
Gli autori di questo libro sottolineano che Provenzano, stando alle dichiarazioni di mafiosi collaboratori di giustizia, avrebbe da tempo praticato la linea del “mangia e fai mangiare”, contrapponendosi a un Riina arroccato nel più pervicace egocentrismo, esplicitato nel ritornello tuttu meu, tuttu meu. Però risulta che lo stesso Provenzano, di fronte all’organizzazione di tipo mafioso denominata “Stidda”, che predicava e praticava una sorta di “federalismo mafioso”, non abbia avuto esitazione a ricorrere a pratiche di vero e proprio sterminio, non dissimili dal totalitarismo mafioso di Riina.
Stando alle informazioni che abbiamo, Provenzano si distinguerebbe da Riina per una maggiore propensione al ruolo imprenditoriale, mentre il secondo sarebbe più ancorato alla collezione di terreni e immobili, secondo una concezione verghiana della “roba”. Da un rapporto dei carabinieri del 1984, Provenzano risultava interessato a una decina di imprese: alcune erano imprese di costruzioni, altre riguardavano le forniture degli ospedali. Sanità e munnizza (rifiuti) sarebbero le galline dalle uova d’oro scoperte e allevate da Provenzano. E non si può negare una certa preveggenza.
Il settore sanitario è stato un business per tanti, per mafiosi come Provenzano, per faccendieri abili a sfruttare le occasioni più propizie, per imprenditori compiacenti, per medici corrotti, più o meno affiliati alle logge massoniche, e contro l’intreccio mafia-affarismo-corruzione si è levata la voce di pochi addetti ai lavori, raccolti in quel po’ che rimane di sindacalismo seriamente impegnato. Leggendo, o rileggendo, le denunce dei medici della Fials, si ha il quadro di una situazione interamente “sotto controllo” politico-mafioso. Le Usl nate come feudi dei notabili democristiani, un affare di 7.500 miliardi l’anno perfettamente lottizzato da accordi spartitori che hanno resistito per lungo tempo e in questo quadro le imprese di Provenzano nuotano come il classico pesce nell’acqua. Denominazioni atte alla bisogna, come Scientisud, Medisud, Polilab, Biotecnica; soci insospettabili, per lo più, ma a dire il vero non sempre. Socio della Medisud, per esempio, era Salvatore Provenzano, fratello di Bernardo; ex contadino, emigrato poi in Germania e ora imprenditore in un ramo, come quello sanitario, in cui occorrerebbero competenze tecniche, ma evidentemente l’essere congiunto del capomafia era una referenza tale da spianare ogni strada e spalancare qualsiasi porta. E se nascevano sospetti, era un gioco abbastanza facile cambiare nomi e ricorrere a prestanomi, però quasi sempre scelti nelle parentele dei veri interessati. La famiglia che si fa impresa, secondo un modulo già collaudato dalle dinastie imprenditoriali e finanziarie e già sperimentato nel mondo mafioso, e il ricorso ad uomini di paglia per mascherare i titolari.
Nei primi anni ’80 la cosiddetta “mafia imprenditrice” fu presentata come una grande scoperta, quasi una rivoluzione copernicana, e si arrivò a sostenere che solo in quegli anni i mafiosi si avventuravano nella competizione per la ricchezza, dopo essersi votati per più di un secolo a quella per l’onore e il potere. Tesi tanto fortunata quanto priva di fondamento, se bastava anche una conoscenza superficiale della storia per sapere che l’onore era solo una maschera di rispettabilità indossata da criminali che da molto tempo avevano imparato che ricchezza e potere sono legati in un matrimonio indissolubile. Sarebbe bastato, poi, scorrere anche frettolosamente le pagine degli Atti della Commissione antimafia che iniziò i lavori nel 1963 per concluderli nel ’76 per accorgersi che le attività imprenditoriali non erano una novità e che un tale Vassallo, ma non era certo un caso isolato, si era fruttuosamente dedicato a costruire e a speculare intrattenendo ottimi rapporti con uomini di potere. Provenzano non è il primo mafioso-imprenditore ma opera sulla scia sperimentata da altri, percorrendo forse prima di altri nuovi sentieri per una capacità sua personale o, più verosimilmente, perché sa sfruttare i consigli e le competenze di persone che gli stanno accanto.
Assieme alle costruzioni e alle forniture ospedaliere, i rifiuti, d’ogni genere e specie, offrono succose possibilità a chi sa cogliere le occasioni. E i rapporti della Legambiente degli ultimi anni ci offrono un quadro abbastanza indicativo della portata del business e del ruolo dei mafiosi che, assieme a molti altri, godono dell’impunità per l’inesistenza in Italia di un’adeguata legislazione sui reati ambientali.
Il business della cosiddetta “ecomafia”, comprensivo del fatturato del mercato illegale (composto dai seguenti settori: gestione rifiuti pericolosi e rifiuti speciali, abusivismo edilizio, racket degli animali, traffico di reperti archeologici) e degli investimenti a rischio (appalti e gestione dei rifiuti solidi urbani) viene calcolato per il 1999 in più di 26 mila miliardi, di cui la fetta più grossa tocca alla Sicilia e alle altre regioni meridionali ad alta densità mafiosa. I clan mafiosi siciliani coinvolti in particolare nel ciclo del cemento e in quello dei rifiuti, sarebbero 25 e dall’aprile del 1996 all’aprile del 1999 in Sicilia sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose 7 comuni (Altavilla Milicia, Lascari, Pollina, Caccamo, Villabate, Ficarazzi, Bagheria). Come si vede, scorrendo le pagine di questo libro, sono comuni in cui hanno operato e operano personaggi più o meno strettamente legati al clan Provenzano.
Ovviamente le attività imprenditoriali non possono non avere uno sbocco sul terreno degli appalti di opere pubbliche, in una realtà in cui il denaro pubblico gioca un ruolo fondamentale e molte pagine del libro sono dedicate a questo tema spinoso, dalle denunce di Mario Francese negli anni ’70 ai nostri giorni. Il “tavolino”, cioè il sistema di controllo degli appalti che vede come soggetti mafiosi, imprenditori e politici, sarebbe stato creato proprio da Provenzano che avrebbe dato l’incarico di “ministro dei lavori pubblici” al geometra Pino Lipari, scalzando Angelo Siino, più legato a Riina. Lipari, condannato per associazione mafiosa nel primo maxiprocesso, è un personaggio abbastanza noto alle cronache e a suo tempo Peppino Impastato l’aveva individuato come uno dei protagonisti dell’operazione Z10, cioè del camping nei pressi di Punta Raisi lautamente finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno. Al “tavolino” siedono non solo gli imprenditori locali ma anche rappresentanti di gruppi nazionali, come Ferruzzi e Gardini e, stando alle dichiarazioni di Gioacchino Pennino, il medico e uomo politico affiliato a Cosa nostra poi diventato collaboratore di giustizia, anche la Fininvest avrebbe avuto rapporti con personaggi del mondo mafioso legati a Provenzano, come per esempio Pierino Di Napoli, reggente della famiglia mafiosa del quartiere Malaspina, vicinissima a Provenzano.


Un capomafia di “larghe intese”

Al centro di una inchiesta non casualmente denominata “Trash” (spazzatura) figura Romano Tronci, arrestato il 6 luglio del 1998 con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e rinviato a giudizio nel maggio del 1999 con altre 27 persone. I magistrati palermitani impegnati nell’inchiesta ne fanno il seguente ritratto: “Non ha mai avuto scrupolo a cercare egli stesso rapporti con l’associazione mafiosa, non già – occorre puntualizzare – in funzione del pagamento del “pizzo” ma al solo scopo di intraprendere con svariati esponenti dell’associazione mafiosa, fra cui Brusca Giovanni, Siino Angelo, Buscemi Antonino e Virga Vincenzo, lucrose attività imprenditoriali, avendo sempre quale referente e suggeritore il noto Lipari Giuseppe”.
Tronci è già stato direttore generale della De Bartolomeis, una società di rilevanza nazionale nella realizzazione di impianti per lo smaltimento dei rifiuti, di cui si parla ampiamente in questo libro. La De Bartolomeis viene descritta da Angelo Siino come un'”impresa rossa”, legata cioè al Partito comunista, e i magistrati palermitani scrivono che Tronci “rappresentava “i comunisti” e, pertanto, offriva un’ottima copertura essendo in grado di far passare, senza particolare opposizione, le delibere relative agli appalti nelle sedi competenti” (la citazione è tratta dall’ordinanza di custodia del gip Renato Grillo nei confronti di Buscemi Antonino più 30 del luglio 1998, pp. 155 s.). Quel “pertanto”, che mette in relazione l’essere o presentarsi come “comunisti” con la capacità di far passare le delibere sugli appalti, merita un commento. Certamente maggiori possibilità avranno avuto gli esponenti di partiti di governo, e in particolare di quello di maggioranza relativa, e questo per lunghi anni, mentre per anni non meno lunghi i “comunisti” non avevano tra le loro caratteristiche la facilità di manovra nella stanza dei bottoni.
A prescindere dall’esito delle inchieste giudiziarie in corso, il discorso sulle cooperative rosse e altre imprese etichettate come “vicine al Pci” e ancora più sulle responsabilità di esponenti politici, è di quelli che vanno fatti senza faciloneria ma pure senza pietismi e carità di partito, anche se nel frattempo il partito si è dissolto assieme al muro di Berlino.
C’è una tendenza, che tutto lascia pensare si rafforzerà nel prossimo futuro, a fare di ogni erba un fascio, di mettere tutto e tutti sullo stesso piano e questa tendenza va ben oltre il problema mafia, e in particolare il rapporto mafia-politica. Capita sempre di più di leggere o di sentir dire: tutti hanno le loro colpe, tutti hanno commesso atrocità, non solo i repubblichini di Salò ma anche i partigiani, e andando di questo passo, cioè condannando tutti, si finisce con l’assolvere tutti e mettere in secondo piano, sbiadire o archiviare come un retaggio del passato una distinzione che dev’essere ben netta, quella tra democrazia e fascismo. Qualcuno vorrebbe che i libri di storia si riscrivessero secondo questa visione della storia-marmellata in cui tutti i protagonisti avevano le loro “buone ragioni” e quel che conta non è la realtà (delle scelte, dei comportamenti, del razzismo, delle guerre e degli stermini) ma l’intenzione, che si presume nobile e buona per ciascuno. Così, in tema di mafia, chi non ha detto qualcosa contro di essa, chi non ha avuto qualche “vittima” (categoria ecumenica in cui si vorrebbero far convivere mafiosi, collusi e caduti nella lotta antimafia) e oggi chi non è contro la “Piovra” (l’incongrua metafora televisiva che continua a imperversare sul piccolo schermo), chi non è pronto a giurare che la lotta contro la mafia è la precondizione necessaria per uscire dalle emergenze ed entrare nella “normalità”? L’unanimismo pialla e cancella le responsabilità, si sottrae alla comparazione tra dichiarazioni e comportamenti, e la sua variante cattolica (il perdonismo) rimette nelle mani onnipotenti della misericordia divina quello che sottrae alle deboli mani della giustizia terrena (come non ricordare che la curia arcivescovile palermitana e la parrocchia non si sono costituite parti civili nei processi contro gli imputati dell’assassinio di padre Puglisi?).
Una lettura della storia reale ci dice che la lotta contro la mafia c’è chi l’ha fatta, pagandone costi altissimi, e c’è chi è stato a guardare o è stato dall’altra parte, intascando utili e lucrando convenienze.
Senza negare il contributo che possono aver dato uomini dell’area cattolica (sacerdoti, amministratori e politici popolari e democristiani), storicamente i soggetti principali della lotta antimafia sono stati i movimenti contadini e i partiti della sinistra. Da un certo punto in poi, per effetto della sconfitta e della dissoluzione del movimento contadino, dell’imponenza dell’emigrazione (più di un milione di emigrati negli anni ’50-’70) che ha dissanguato l’intera Sicilia ma in particolare le forze interessate al cambiamento, una sinistra ormai minoritaria, con una base sociale mutata e in piena crisi d’identità, evidenziata anche dalla cancellazione della memoria, si è rassegnata a una politica di cedimenti e di compromessi.
Le “cooperative rosse” hanno messo piede in Sicilia alla fine degli anni ’50: il consorzio delle Cooperative Ravennati viene a Palermo nel 1959 come vincitrice di una gara d’appalto indetta dallo IACP e negli anni successivi ha avuto un ruolo di protagonista nella costruzione di quartieri popolari. Sono gli anni del “sacco di Palermo”, in cui i mafiosi e in particolare i mafiosi-imprenditori hanno avuto un ruolo, ma accanto ad altri, rispetto ai quali sono stati spesso solo dei parenti poveri.
Nel libro L’impresa mafiosa, tratteggiando una tipologia dei rapporti tra imprese e mafia in quegli anni, ipotizzavo due configurazioni: convivenza-cointeressenza, convivenza-estraneità. Non risultano rapporti delle cooperative con mafiosi, ma non risultano neppure denunce di richieste di “pizzo”, per cui si può solo presumere, non provare, che un consorzio come la Ravennate abbia praticato una forma di convivenza del secondo tipo, che potrebbe essersi configurata come una forma di accettazione dell’esistente, comprensiva anche della corresponsione di tangenti, senza sporcarsi le mani in cointeressenze scoperte o celate.
Negli anni ’80 troviamo invece le imprese del Conscoop accanto ad altre imprese, tra cui il famoso imprenditore Cassina, indicato nella relazione di minoranza della Commissione antimafia, firmata da Pio La Torre e da Cesare Terranova, come “un pilastro del sistema di potere mafioso”. Cos’è avvenuto nell’arco di un decennio? Delle due l’una: o Cassina si è “convertito” o le “cooperative rosse” hanno mutato pelle. In realtà la politica di “compromesso storico”, ideata da Berlinguer dopo la tragica fine dell’esperienza di Allende in Cile, con le migliori intenzioni, si è concretata nella collaborazione con chi si è dimostrato disponibile ed è stata praticata a vari livelli. Così in Sicilia, a livello politico, si è sperimentato il rapporto con Lima, traduzione locale di quello nazionale con Andreotti, mentre sul piano economico il “patto con i produttori” ha portato all’abbraccio con Cassina e con i “cavalieri del lavoro” di Catania, considerati come esempi di impenditoria pulita, prima che rivelazioni e inchieste tracciassero un quadro della realtà non proprio edificante.
Questo, a grandi linee, il contesto. Torniamo a Provenzano. Il capomafia corleonese è stato definito “il più laico dei capimafia”, per la sua capacità di coinvolgere uomini politici senza distinzioni, anche i comunisti. Francamente non so fino a che punto risponda a verità quanto più volte dichiarato da Gioacchino Pennino, secondo cui il vero regista della politica palermitana sarebbe stato proprio Bernardo Provenzano, a mio avviso un po’ troppo proiettato nel ruolo di deus ex machina, secondo una visione della politica che rischia di essere un po’ troppo semplificata e banalizzata. Stando al medico ex mafioso, Provenzano gli avrebbe categoricamente impedito di prendere le distanze da Ciancimino, ma gli avrebbe dato il via libero una volta constatato che le fortune dell’uomo politico erano in declino e non c’è ragione di non credergli, ma su un palcoscenico come quello palermitano e siciliano non potevano non esserci altri protagonisti e il rapporto mafiosi-politici è sempre stato qualcosa di più complesso di quello che risulta da una rappresentazione del tipo: dare ed eseguire ordini o avere qualche incontro, con o senza bacio rituale, in qualche casolare di campagna o in un salotto cittadino.
Secondo le dichiarazioni di Siino (da prendere, come del resto quelle di qualsiasi “collaboratore”, con le pinze), “una mente raffinata come quella del signor Provenzano decise di coprirsi le spalle facendo partecipare le cooperative rosse, mentre Riina a Corleone, buzzurro, pecuraro, le aveva buttate fuori”. Riina avrebbe posto il suo veto alla partecipazione dell’impresa De Bartolomeis all’appalto di lavori per la rete idrica palermitana, nonostante le raccomandazioni di Lima, Ciancimino e dello stesso Siino. Ma con la nuova gestione degli appalti, inaugurata dal tandem Provenzano-Lipari, l’impresa che godeva della fama di impresa rossa avrà un suo posto al “tavolino” in cui si prendono le decisioni. Un’ulteriore conferma delle aperture di Provenzano, in contrapposizione alle chiusure di Riina. Una cosa però i due capimafia corleonesi, sia il “buzzurro” che la “mente raffinata”, hanno certamente in comune: entrambi sono quasi analfabeti.


Un capomafia semianalfabeta e una mafia da Internet

Carissimo, con gioia ho ricevuto, tuoi notizie, mi compiaccio tanto, nel sentire, che godeti tutti di ottima salute. Lo stesso posso assicurarvi di me. Sento i motivi, che ti spingono, ha scrivermi. Grazie della fiducia. E spiacenti dove tu possa eludere.

Così comincia una lettera di Bernardo Provenzano a Salvatore Genovese, suo luogotenente a San Giuseppe Jato, arrestato nell’ottobre del 2000, lettera che sarebbe stata scritta nell’ottobre del 1997. La lettera prosegue con una serie di interrogativi. Genovese deve avergli scritto, o comunicato con altri mezzi, che ha un “contatto Politico di buon livello che permetterebbe di gestire, molti e grandi lavori” ma Provenzano non nasconde la sua diffidenza:

Mà non conoscento non posso dirti niente, ci vorrebbe conoscere i nomi? E sapere come solo loro combinat? Perché oggi come oggi, non c’è da fidarsi di nessuno, possono essere Truffaldini? Possono essere sbirri? Possono essere infiltrati? E possono essere dei sprovveduti? E possono essere dei grandi calcolarori….

Questo brano che potremmo definire un frammento di antropologia mafiosa, o più esattamente della “borghesia mafiosa” (cioè di quel campionario di politici, amministratori, tecnici, professionisti ecc. ecc. che ruotano attorno agli accoscati di Cosa nostra, o Cosa nuova), scritto da un “addetto ai lavori”, dimostra, al di là del quasi analfabetismo dello scrivente, una conoscenza di uomini e cose maturate attraverso un’esperienza quotidiana che non sempre è andata liscia e che minaccia di diventare ancora più complicata “con i tempi che corrono”. Ci sono stati, ci sono, ci possono essere truffaldini, sbirri, infiltrati, sprovveduti, calcolatori, tutto un assortimento di personaggi che operano a scapito di Cosa nostra o Cosa nuova e bisogna tenere gli occhi ben aperti, per non cadere in qualche trappola e fare una brutta fine.
Lo scrivente Provenzano sa perfettamente che il periodo che sta vivendo (gli ultimi anni del secolo e del millennio) non è dei migliori e si abbandona a considerazioni filosofiche sulla fralezza della condizione umana, in particolare di quella di un capomafia latitante da più di trent’anni, ma non dispera, anzi confida nell’assistenza dell’Eterno, anche se, beninteso, bisognerà pur ricorrere a qualche prudenza:

(…) abbiamo molti difficoltà, anche perché, non siamo vicini, io sono un po’ lontano, e tutto si può fare quando c’è il volere di Dio (…).
Carissimo, vuoi per il periodo che si sta attraversando, e vuoi per la nostra personale condizione, io non penso che possiamo fare alcunché perché oggi ci siamo, e domani chi lo sa dove possiamo essere.

La chiusa dell'”epistola a Genovese” è degna di un San Paolo, anche se digiuno di grammatica:

Ora chiedendoti perdono per i miei errori, che incontri nel mio scritto, e per le mie risposti, che non sono, come tu tel avessi potuto aspettare chiedo ancora perdono, e smetto ripetento che per il bene sono a tua completa disposizioni, vi auguro un mondo di Bene, inviandovi, i più cari Aff. Saluti, per te e tuo Padre. Vi benedica il Signore e vi protegga!

È un capomafia che scrive o un aspirante cappellano? È un vincitore o uno sconfitto in attesa del colpo di grazia?
Come si vede, Provenzano scrive a malapena, non usa il computer e non naviga in Internet, eppure la mafia che incarnerebbe sarebbe da computer e da Internet, attenta com’è a cogliere le occasioni offerte dal mercato, legale e illegale, ad adattarsi ai mutamenti del contesto.
Da anni sostengo, andando incontro a polemiche più o meno scoperte e pretestuose, che il fenomeno mafioso non è riducibile a poche migliaia di associati a Cosa nostra, che questi professionisti del crimine legati da un giuramento che è un patto di sangue, ridicolo quanto si vuole ma portatore di tragiche conseguenze, conterebbero molto poco se non agissero all’interno di un sistema di relazioni, un vero e proprio blocco sociale cementato da interessi e da codici culturali; se non ci fosse a dettare legge e a dirigere le operazioni un gruppo dominante, formato da soggetti illegali (i capimafia) e legali (professionisti, imprenditori, burocrati, amministratori, politici), che mi ostino a chiamare “borghesia mafiosa”, in continuità con le analisi di un liberale come Leopoldo Franchetti, che parlava di “industria della violenza” e di “facinorosi della classe media”, e di un comunista come Mario Mineo, che collocava nel corso degli anni ’50 del XX secolo la scalata al potere di una borghesia capitalistico-mafiosa considerata come lo strato fondamentale e la funzione dominante del blocco privilegiato.
Nel libro si parla di personaggi che hanno avuto e hanno problemi con la giustizia e le cui vicende giudiziarie hanno avuto esiti diversi. Giuseppe Lipari, il geometra-consulente che avrebbe avuto un ruolo fondamentale nel tessere la vasta ragnatela degli appalti, è stato condannato nel maxiprocesso per associazione mafiosa; Giuseppe Provenzano, un docente universitario che nel 1984 è stato arrestato con l’accusa di essere l’amministratore dei beni di Saveria Palazzolo, convivente di Bernardo Provenzano, è stato assolto e nel 1996 è stato eletto all’Assemblea regionale come capolista di Forza Italia, è diventato presidente della Regione e attualmente è assessore regionale alla sanità; Gaspare Giudice, deputato nazionale sempre di Forza Italia, nel 1998 è stato incriminato per partecipazione ad associazione mafiosa e attende ancora il processo.
Come si vede si tratta di rapporti non sempre accertati in sede giudiziaria, o in via di accertamento, su cui tanto il giornalista che lo studioso debbono “andarci cauti”, anche per evitare querele o citazioni davanti al magistrato civile, con richieste di sostanziosi risarcimenti a reintegrazione di onorabilità violate. Questo non significa che il sistema relazionale delle famiglie mafiose non possa essere analizzato con gli strumenti dell’informazione e delle scienze sociali e che tutto, e in particolare il terreno dei rapporti tra mafia e politica, debba essere delegato alla magistratura. L’Italia è un paese in cui verità storica e verità giudiziaria troppo spesso sono due rette parallele destinate a non incontrarsi e sarebbe esiziale per la conoscenza della realtà e per l’impegno culturale e politico non poter esplorare, con serietà e competenza, terreni scottanti come quelli a cui abbiamo accennato.
A un certo punto, qualche anno fa, sembrava che si fosse trovata, o almeno si profilasse, una soluzione, con l’elaborazione giurisprudenziale della figura di concorso esterno in associazione mafiosa, con cui si pensava di dare rilevanza penale ai rapporti di contiguità di vari soggetti con le famiglie mafiose. E per cogliere anche il rapporto mafia-politica, almeno sul versante elettorale, si era configurato il reato di scambio elettorale politico-mafioso.
In realtà le cose non sono andate come si pensava, ma non era difficile prevedere quanto è accaduto. La fattispecie dello scambio era troppo riduttiva, limitandosi alla dazione di denaro in cambio di voti (a dimostrazione di una scarsa, se non inesistente, consapevolezza della complessità dell’interazione mafia-politica, banalizzata a mercanteggiamento episodico), e il concorso esterno ha dato vita a procedimenti il più delle volte conclusi con buchi nell’acqua. Quando si è tentata la carta dell’associazione mafiosa, come nel caso Andreotti, il fallimento è stato ancora più marcato e controproducente, anche se le vicende processuali hanno confermato un giudizio etico-politico già ampiamente sedimentato, esponendolo però a un ribaltamento interessato da parte di chi, limitandosi a registrare l’esito giudiziario (l’assoluzione, anche se strettamente somigliante all’antico proscioglimento per insufficienza di prove), è riuscito a far passare l’immagine del santo perseguitato, aureolato dal martirio impostogli dai “giudici rossi”. E non a caso, la canonizzazione è avvenuta anche, o soprattutto, in un ambiente predisposto per tale genere di rituali, come Piazza San Pietro, officiante il più alto dei santificatori, cioè lo stesso Sommo Pontefice.
In un simile contesto non c’è da farsi molte illusioni. Se si sommano l’esito delle varie inchieste denominate Tangentopoli e le recenti assoluzioni, che lasciano prevedere dei bis a più o meno breve scadenza, il quadro che offre il nostro paese non è esaltante. Il tanto atteso rinnovamento non è avvenuto, anzi stiamo assistendo a un ribaltamento che rischia di vanificare, se non ha già vanificato, anni di lavoro e di illusioni. Oggi parlare di queste cose non è certo gratificante. D’altra parte il giornalismo d’inchiesta non è mai stato una professione molto praticata nel nostro paese e la ricerca scientifica dedicata a questi temi non ha mai avuto molti cultori e l’attuale stagione non incoraggia né il primo né la seconda.
Un motivo in più per essere grati agli autori di questo libro che concepiscono il loro lavoro di giornalisti come un impegno di documentazione aperto alla riflessione, al di là dei dati di cronaca quotidiana.


La mafia oggi

Si chiami Cosa nostra o Cosa nuova, si dice che se ne sa poco. L’emorragia dei pentiti si è fermata, a quanto pare per l’azione congiunta di due fattori: con il ricorso al rito abbreviato, possibile anche per i reati mafiosi più gravi, è venuto meno il rischio di ergastolo (una tipica riforma “all’italiana” che fa entrare dalla finestra quello che non riesce ad entrare dalla porta) e quindi non agirebbe più l’effetto deterrente del carcere a vita; Cosa nostra avrebbe mutato tattica nei loro confronti, rinunciando alla mattanza e favorendo il rientro, ma soprattutto evitando le fuoruscite. In realtà, stando alle cronache recenti, qualche pentito c’è ancora ma il loro numero non è più legione.
Il nuovo organigramma di Cosa nostra sarebbe formato in larga parte da sconosciuti e da insospettabili, vigerebbe la massima segretezza, con la rinuncia ai riti affiliativi, e la compartimentazione impedirebbe il passaggio di informazioni tra un raggruppamento e l’altro. Una strategia difensiva, di sopravvivenza, che darebbe un’immagine di una mafia non vinta (come vorrebbe qualche facilone, più o meno illustre, pronto a rinculare di fronte al coro di proteste) ma certamente in difficoltà.
Eppure questa mafia avrebbe, o cercherebbe di avere, un ruolo di prim’ordine nella nuova ondata di appalti di opere pubbliche che si preannuncia in Sicilia, anche per effetto dei fondi di Agenda 2000 che porteranno in Sicilia qualcosa come 18 mila miliardi. A leggere interviste e dichiarazioni di “addetti ai lavori”, non si può fare a meno di notare una certa incongruenza, nel senso che le due immagini (una mafia sulla difensiva, ma quasi onnipotente soprattutto sul terreno degli appalti) convivono nello spazio di poche righe. E c’è chi parla della ricostituzione di un patto tra Stato e mafia, che sarebbe stato interrotto negli anni successivi alle stragi, ma che negli ultimi anni sarebbe tornato in vigore.
Negli ultimi anni si è fatta strada, soprattutto negli ambienti giudiziari, una grave preoccupazione: che, passata la stagione dell’emergenza dei primi anni ’90, sia subentrata una “normalizzazione”, cioè un disimpegno sempre più accentuato, che si autogiustifica proponendo un modello interpretativo così schematizzabile: la mafia ha ricevuto dei colpi gravissimi, i capimafia sono quasi tutti in carcere, con condanne pesanti e più o meno definitive (la definitività per la giustizia italiana è più che mai una chimera), e non sparano più, ergo la mafia non c’è più, o non è più importante come prima. E, poiché gli interventi antimafia, legislativi e giudiziari, sono stati ideati e praticati nella logica dell’emergenza, cioè come risposta alla violenza mafiosa, in particolare a quella rivolta verso l’alto, l’unica che conta e desta preoccupazione, è arrivato il tempo di chiudere l’emergenza e tornare alla normalità.
Questa analisi è sbagliata e pericolosa, ignora che la mafia c’è anche quando non spara, che la sua scarsa visibilità comporta una minore vulnerabilità, ma è perfettamente coerente e in piena linea di continuità con tutti gli stereotipi e i luoghi comuni circolanti anche negli anni passati, quando si parlava di “guerra allo Stato” e di “antistato” e la Piovra televisiva non temeva concorrenze con gli altri programmi.
Ora che lo Stato ha vinto – si pensa e si dice, o si pensa e non si dice – che bisogno c’è di tenere in piedi tutto l’armamentario dell’emergenza, dal 41 bis e al doppio binario processuale? Pronti a rilasciare dichiarazioni rassicuranti e a snocciolare dati su arresti, processi e condanne, se qualcuno grida che “si è abbassata la guardia” o inalbera le dichiarazioni sul letto di morte di Tommaso Buscetta, secondo cui avrebbe vinto la mafia.
Se si vuol dire qualcosa che somigli alla verità, evitando polarizzazioni buone per le campagne promozionali di qualche bestseller, bisognerebbe riconoscere che negli anni dei grandi delitti e delle stragi si è operato con logiche di pronto soccorso e mai di progetto, che la stessa società civile ha camminato con i piedi dell’emergenza, che è mancata un’analisi adeguata ecc. ecc. E che perciò non bisogna sorprendersi se le cose vanno come vanno; se, una volta cessato il ricorso alla violenza rivolta verso l’alto, è cessato anche l’interesse, a tutti i livelli, per il fenomeno mafioso. I mafiosi l’hanno capito e il loro “gioco a nascondersi” sta dando più risultati di quanti si attendessero. Non che abbiano totalmente rinunciato alla violenza (e recenti avvenimenti, dalla scomparsa e uccisione del figlio di Procopio Di Maggio a Cinisi, antica roccaforte mafiosa, alle uccisioni e scomparse consumate in zone contigue a Palermo stanno a dimostrarlo) ma questa violenza non fa notizia e non innesca reazioni.
Qualcuno legge questi eventi recenti come un’offensiva contro Provenzano ed è molto probabile che si stiano creando nuovi equilibri ed emergendo nuovi capi. Potrebbe essere finito il tempo del “capo dei capi”, sostituito da un organismo collegiale, ma si fa anche notare che i delitti degli ultimi mesi non sono stati finora le avvisaglie di una nuova “guerra di mafia” e quindi sarebbero, più che altro, operazioni chirurgiche intese a eliminare personaggi poco “affidabili”. E il chirurgo sarebbe ancora lui, il fantomatico Provenzano.
Più d’uno attende qualche nuovo pentito che fornisca la chiave per interpretare quanto sta succedendo. Ma basta guardare alla professione delle vittime più recenti, quasi tutti imprenditori, per rendersi conto che il terreno dello scontro è, ancora una volta, quello degli appalti di opere pubbliche. In Sicilia ci sono 500 stazioni appaltanti; come si pensa di potere intervenire, e soprattutto prevenire, senza una drastica riduzione del loro numero, senza un monitoraggio delle gare, delle ditte, dei soggetti che le gestiscono o che vi stanno dietro? Un impegno di conoscenza e di rinnovamento che dovrebbe fondarsi su una collaborazione tra istituzioni e società civile. Ma tanto le istituzioni che la società civile, all’alba del terzo millennio, non godono di buona salute e, archiviati i fasti del giubileo, non rimane che attendere qualche novello redentore.
Nel frattempo la latitanza di Provenzano continua e questo inizio d’anno è rallegrato dalle polemiche suscitate dalle dichiarazioni di Luciano Violante che parlando a degli studenti ha detto una banalità (cioè che non dev’essere lontano da casa), ma si sono scatenate tempeste come se avesse offeso l’onore nazionale, a cui si sono aggiunte le voci su recenti e recentissimi blitz falliti. Non ci vuol molto a capire che le latitanze oltre un certo limite di tempo, e quella di Provenzano ha battuto tutti i record, sono il frutto del matrimonio tra due genitori: un ambiente complice, o comunque ben disposto, e le istituzioni colluse, o inerti, o distratte da altre “emergenze”. E il pianeta, e il nostro paese, di emergenze ne hanno una al giorno, c’è solo l’imbarazzo della scelta: la mucca pazza, l’uranio impoverito, un qualsiasi altro disastro che preme alle porte, imprevisto ma prevedibile. In tali frangenti qualche volta arriva una buona notizia: a quanto pare, gli spettatori dell’ultima Piovra sono molto meno di prima. Sarebbe davvero una bellissima notizia se non sapessimo che l’alternativa, per il popolo teledipendente, è il Grande Fratello.

Gennaio 2001
Presentazione del volume: Ernesto Oliva – Salvo Palazzolo, L’altra mafia. Biografia di Bernardo Provenzano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001