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Pizzo e protomafiosi alla Vucciria

Pizzo e protomafiosi alla Vucciria nel XVI secolo

 

“Sendo io seco una sera d’estate, vidi che scontrò vicino alla piazza che chiamasi in Palermo la bucceria vecchia, un giovene di cui egli aveva richiamo grande, che, per paura si facesse dar denaro dai mercanti di Loggia e cose simili”. Così Argisto Giuffredi, in un manoscritto dal titolo Avvertimenti cristiani, presumibilmente del 1585, racconta quel che gli è capitato, mentre in compagnia del capitano di città Fabio Bologna passava per le strade della Bucceria, termine che deriva dal francese boucherie, mercato delle carni. Incontrano un giovane che chiede il pizzo ai mercanti. È uno dei documenti più antichi sulla pratica dell’estorsione in uno dei mercati più affollati della città. Il capitano fa arrestare il giovane e gli dà una lavata di capo davanti a tutti. E spiega perché: “Con questa bravata ho fatto tre cose: l’una, che i mercanti non ne avranno tanta paura; l’altra, che costui da qui innanzi non si arrischierà più a farlo; la terza, che i seguaci e amici suoi, che hanno veduto il loro capo trattato a questo modo, diranno ‘se ha passato pericolo il nostro principale in tempo che non facea male alcuno, che sarebbe di noi se fossimo trovati in qualche frodo?’”.

Argisto Giuffredi era notaro dell’Inquisizione e troverà la morte nell’incendio del Castellammare del 1593, in cui perì anche il poeta monrealese Antonio Veneziano. Negli Avvertimenti cristiani rivolti ai suoi figli, che possono essere considerati una summa della morale del tempo, il primo “ricordo” è dedicato emblematicamente alla roba, il secondo alla fede in Dio, seguono altre pagine dedicate alla raccomandazione e ai buoni rapporti che bisogna avere con i potenti, che sembrano scritte oggi, alla morale sessuale (a proposito di adulterio, “in tali casi, ucciso l’adultero, è buona regola, secondo il mondo, far morire la donna, in guisa che non paia sia stata morta”). Degne di essere ricordate le pagine contro la tortura, e lui da segretario del Sant’Uffizio di torture ne ha viste, che precedono di qualche secolo quelle più note di Beccaria. Dopo aver consigliato di non condannare “mai nessuno ad essere frustato… perciò che quella è una condanna che vitupera colui perpetuamente: e se non è per cosa più grande, anzi potendo, per qualsivoglia cosa non date mai morte a nessuno”, contesta una prassi inveterata: “oggi si dà di corda con indizi sì leggeri, che è un vituperio (sia detto con ogni rispetto della giustizia), per quanto ho inteso da dottori valentissimi”. Il riferimento al “rispetto della giustizia” e all’autorità dei “dottori” è consigliato dalla cautela –Giuffredi è, dev’essere, uomo molto prudente – e sarebbe come un “mettere il ferro dietro la porta”.

Fabio Bologna non per caso parla di “bravata”, ma può permettersi questo e altro. La sua è una famiglia che conta in città, e non solo in città. I capostipiti provenivano da Bologna, dove a dire di Vincenzo Di Giovanni, autore del Palermo restaurato, “furon de’ primi”. E un piano in pieno centro sarà dedicato alla famiglia (l’odierna piazza Bologni). Due Bologna, Francesco e Niccolò, gestirono la repressione del moto palermitano diretto da Squarcialupo (1517), uccidendo alcuni dei ribelli con le loro mani; altri congiunti hanno acquisito titoli nobiliari e cariche pubbliche, gestivano l’Ospedale grande creato nel palazzo Sclafani (dov’era l’affresco del Trionfo della morte, ora a palazzo Abattellis), il Monte di pietà, la compagnia dei Bianchi a Corleone, dove secoli dopo troveremo il medico-capomafia Michele Navarra. E il pioniere della storiografia siciliana, Tommaso Fazello, scrive che “menavano seco sempre alcuni bravi per difesa e compagnia loro”. Sulla scorta di queste informazioni non è gratuito pensare che il gesto di Fabio Bologna alla Vucciria, più che alla ricostituzione della legalità miri a ricostituire una gerarchia tra una mafia di rango, che si identifica con l’autorità ufficiale, esercitata con una buona dose di arbitrio, e un estorsore di quartiere, più precisamente il capo di un gruppo di estorsori operante nel mercato. Quel che è certo che la pratica del “pizzo” non era destinata a esaurirsi ma sarebbe perdurata nel tempo, fino a oggi, come fiscalità parallela e forma di attuazione della “signoria territoriale” mafiosa.

Di altri personaggi ci informano le cronache del tempo o successive, tra cui il già citato Di Giovanni, la cui opera manoscritta risale presumibilmente al 1627. Un Geronimo Colloca, “buccero”, cioè macellaio, era considerato “capo di tutti i bravacci” e denominato “re della Bucceria”, dove spesso confluivano le carni di animali rubati. Colloca godeva dell’amicizia dei potenti , tanto che il viceré duca di Medinaceli lo nominò “capitano della Galea padrona e di due altre Galee”, era “amico in grazia “del viceré duca di Terranova, e “riverito e stimato da tutta la nobiltà”.

Solo nel 1579, con il viceré Marco Antonio Colonna, finirà la bella vita di Colloca. Sarà imprigionato e condannato a morte e “signori, cavalieri e dame”, la città di Palermo “in forma di città”, cioè con atto ufficiale del Senato cittadino, si danno da fare per evitare l’esecuzione della condanna. Il viceré Colonna risponde che l’esecuzione del Colloca era proprio “per servizio di essa città” e concede ai grandi amici del capomafia ante litteram una sorta di riconoscimento onorifico: la forca a cui viene impiccato è più alta di quella dei suoi compagni e ornata con rami d’albero. Il commento di Di Giovanni. “Così morse Colloca tra’ bravi di Palermo così riverito ed onorato”. Più che un delinquente, un personaggio “di rispetto”.

 

Pubblicato su Repubblica – Palermo l’8 maggio 2015, con il titolo Gli antenati del pizzo nella Vucciria del ‘500