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La religione imperfetta

Augusto Cavadi

La religione imperfetta

Le dichiarazioni di Pietro Aglieri, pubblicate domenica su queste pagine, meritano un’attenzione che va al di là delle opinioni “a caldo” costrette ad inseguire l’incalzare della cronaca. E, in realtà, esse incrociano – del tutto inconsapevolmente – il lavoro di riflessione che, da qualche tempo, un gruppetto informale di sacerdoti, sociologi, filosofi ed operatori sociali porta avanti alla ricerca di una risposta nonviolenta alla criminalità organizzata. E’ chiaro: ci si muove in un ambito problematico in cui le domande sono più delle risposte. Ma qualche criterio è possibile fissarlo.
Un primo punto, per altro eloquentemente testimoniato dalle considerazioni dell’ex-padrino della Guadagna, è che il sistema di potere mafioso è stato ed è gestito da persone: non da mostri. La mafia è orribile, disumana, inaccettabile; ma i soggetti che la perpetuano , pur essendo – in quanto mafiosi – orribili, disumani e inaccettabili, in quanto persone hanno intelligenza, volontà, coscienza, sentimenti, angosce, ripensamenti. Lo sappiamo: sarebbe più facile attenuare questo scarto fra la mafia e i mafiosi (o riducendo la mafia a “innocuo folclore” per Molleggiati, come denunziava nella stessa pagina di “Repubblica” Nino Alongi, o demonizzando i mafiosi pensandoli – e conseguentemente trattandoli – come bruti). La verità oggettiva, però, lo impedisce. Come mi diceva, in un’intervista di qualche anno fa il figlio di un capomafia, “mio padre, come ogni uomo, ha giocato molti ruoli: in quanto mafioso lo detesto, ma devo riconoscere che è stato un marito premuroso, un padre comprensivo, un fratello sollecito”.
Da questa distinzione discende un secondo criterio di orientamento per la pratica. Lo Stato (parlamento, governo, magistratura) deve lottare implacabilmente contro il sistema di potere mafioso; ma la società nazionale (cittadini, famiglie, associazioni, partiti, sindacati, comunità religiose…) è più ampia dello Stato. E proprio mentre lo Stato previene e reprime, la comunità civile deve avvertire come una mutilazione ogni membro che delinque e che viene, legittimamente, disarmato e isolato. Deve dunque, nel rispetto delle leggi e in sintonia con le istituzioni, attivare strategie di recupero dei suoi arti infetti: di quanti sono personalmente responsabili di reati e di quanti gravitano (per ragioni familiari o di lavoro o di residenza o di cultura) nell’ambito dei colpevoli di reati. Che su questo versante del dialogo, della ‘conversione’ (in senso laico o religioso) i ritardi organizzativi siano ancora più gravi del versante punitivo, non ci sono dubbi. “Il carcere, così come è strutturato e pensato, non migliora nessuno, non porta in sé alcun insegnamento morale”: Aglieri ha ragione di sottolinearlo e il fatto che, quando lui ne era fuori, non pare si sia prodigato – come cittadino – a cambiare le cose, non toglie valore alle sue considerazioni.
Ma – e siamo ad un terzo criterio – se confronto costruttivo, e ricostruttivo, ci dev’essere, non può realizzarsi che nella sincerità e nella lealtà. E questo vale tanto dal punto di vista civile che, per quanti come Aglieri fanno professione di fede cristiana, dal punto di vista religioso. La comunità dev’essere pronta a cogliere, sotto le macerie di una vita fallimentare, ogni vagito di speranza: ma nessuno può essere disseppellito dalle macerie se non stende una mano ai soccorritori. Non è certo segno di disponibilità al mutamento lanciarsi in accuse contro il sistema giudiziario affermando che “non mi pare che l’amministrazione della giustizia, al momento, dia una buona impressione” e che “definire equi certi processi è una mera contraddizione in ogni senso”. Tutti, e soprattutto i cittadini democratici che conoscono la lunga tradizione conservatrice e autoritaria del ceto dei magistrati, hanno diritto a muovere critiche a questa o quell’altra disfunzione del sistema giudiziario: tutti, tranne quelli che si trovano sotto processo. Il modello non può essere l’imprenditore disinvolto che, plurinquisito e plurimputato, accusa di estremismo ideologico la magistratura e affastella un partito per poterla, tempestivamente, punire e imbavagliare. Il modello dev’essere, se mai, Socrate che accetta la sentenza iniqua per non rinnegare i cardini del diritto o, se vogliamo avvicinarci ai nostri giorni, quei politici della Prima Repubblica (esponenti del PCI come della DC) che si sono sottoposti ai processi senza lasciarsi sfuggire una sola espressione di delegittimazione nei confronti dei loro giudici.
Altrettanta onestà intellettuale deve mostrare il cittadino che cerchi di riallacciare i legami anche con la comunità religiosa. Se, infatti, ci spostiamo sul terreno proprio della teologia cristiana (dove Aglieri mostra di avere qualche competenza), va benissimo l’invito a valutare “la vita di Cristo, nello specifico quando mangiava e beveva fra peccatori ed emarginati, e la sua morte in croce fra malfattori, non come un edificante racconto domenicale, ma un comportamento da seguire nella pratica della propria vita”. Ma a che scopo Cristo si è fatto prossimo degli esclusi? Forse per esaltare come un valore il furto, l’assassinio, la menzogna, l’avidità? O affinché ogni peccatore possa ripetere – come proclama ad alta voce, e pubblicamente, Zaccheo – “io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto” (Luca, 19, 8)? E’ vero, Gesù non era un moralista. Egli ha ribaltato l’opinione, comune fra i perbenisti, che ci si angoscia perché si pecca. Come ci hanno spiegato Kierkegaard e Drewermann, il vangelo parte dalla convinzione opposta che l’uomo diventa peccatore perché è già angosciato: atterrito dalla solitudine, dall’isolamento, dalla prospettiva di dover morire. Egli dunque ci invita a farci ‘prossimo’ di chi è ai margini: non per enfatizzare, alla maniera decadentista, la marginalità, ma per proiettarci – insieme: ‘buoni’ e ‘cattivi’ – verso uno stile di vita inedito. Dove il sopruso ceda il passo alla cura del debole; la voglia di primeggiare venga sostituita dalla gioia di fraternizzare; la fame di denaro lasci spazio al gusto della bellezza.

Pubblicato su “Repubblica Palermo” del 16 marzo 2004.