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Ma quanti cristiani

Augusto Cavadi

Ma quanti cristiani

Tra le tante considerazioni interessanti sulle radici cristiane della cultura siciliana suscitate, del tutto involontariamente, dalla bozza di Statuto preparata dal presidente Cuffaro, non mi sembrerebbe superfluo aggiungerne due. Forse ovvie, ma – come l’esperienza insegna – spesso proprio per questo trascurate.
La prima è che si usa il termine cristianesimo come se fosse univoco, un’etichetta valida dal vangelo ai nostri giorni senza rotture né sostanziali modifiche. Basta invece sfogliare un testo autorevolissimo come “Cristianesimo” di Hans Küng (tradotto in decine di lingue, in italiano da Rizzoli), per capire che si sono avvicendati nella storia – e si squadernano ancor oggi nello spazio – tanti cristianesimi (al plurale!) profondamente differenti, al punto che non è per nulla facile trovare il ‘filo rosso’ che in qualche modo li possa collegare. Se guardiamo alla successione nel tempo, possiamo chiederci se le chiese ortodosse di Bisanzio e di Mosca siano una naturale evoluzione del cristianesimo palestinese delle origini o non ne costituiscano, su molti punti essenziali, un vero e proprio stravolgimento. Davanti ad un Patriarca orientale che incede maestosamente, preceduto e seguito da sacerdoti adornati d’oro e d’argento, tra i fumi dell’incenso e i profumi della mirra, non è del tutto evidente il rapporto con il Predicatore di Galilea che, errando senza un mantello di riserva e con un solo paio di sandali, raccomandava ai discepoli: “Tutti voi siete fratelli. Nessuno chiamerete sulla terra vostro padre, poiché uno solo è il vostro padre, quello celeste” (Matteo, 23, 8-9). Né la situazione è certo più semplice se volgiamo lo sguardo alla situazione attuale sul pianeta. Che cosa hanno in comune le colorite e chiassose comunità sudamericane della Teologia della liberazione con le austere liturgie luterane delle fredde mattinate berlinesi? Che cosa ha in comune un cattolicesimo mediterraneo, come quello diffuso in Sicilia, con il calvinismo ginevrino o con la spiritualità anglicana o con l’etica dei quaccheri americani? O vogliamo identificare il ‘vero’ ed ‘unico’ cristianesimo con una delle sue tante versioni – quella cattolica mediterranea, appunto – che, certamente legittima fra tante altre, non brilla particolarmente né per chiarezza dottrinale né per limpidezza comportamentale?
Ma c’è di più. Se proprio si ritiene necessario premettere ad uno Statuto una chiarificazione storico-sociologica, che cosa direbbe un antropologo della cultura siciliana odierna? Come ho provato ad argomentare più ampiamente altrove (per esempio in uno studio ospitato nel 2001 dalla rivista dell’Istituto teologico “San Tommaso” dei Salesiani di Messina), la società isolana è attualmente un mix di almeno tre culture (o, più correttamente, “transculture”): la borghese-capitalistica (che incide nella quasi totalità della popolazione), la cattolico-mediterranea (che incide, anche là dove è presente come negazione polemica, in una buona maggioranza) e la mafiosa (che impregna alcunii sottogruppi minoritari, ma organizzati ed attivi). Se queste rilevazioni fossero scientificamente fondate, ci spiegheremmo perché, pirandellianamente, la nostra cultura è “una, nessuna, centomila”. E ci spiegheremmo, più in particolare, anche la ragione di un dato di fatto inquietante: la ragione per cui, come documenta la cronaca quotidiana, nella nostra bella e infelice regione, la mentalità borghese è sempre anche un po’ cattolica e un po’ mafiosa; la mentalità cattolica è sempre anche un po’ borghese e un po’ mafiosa; la mentalità mafiosa è sempre anche un po’ borghese e un po’ cattolica.
Se l’onorevole Cuffaro, ed i suoi dotti consulenti, ritengono fantasiose – o gratuitamente provocatorie – queste considerazioni, possono benissimo non dico confutarle, che sarebbe pretendere troppo, ma trascurarle. Se, per caso, le trovassero in qualche misura realistiche, la logica imporrebbe la scelta fra due opzioni: o scrivere la verità completa sulla cultura siciliana (anche a costo di far sorridere amaramente l’opinione pubblica internazionale) o, per questa volta, come si dice a Borgo Vecchio, “levarci mano”.

Pubblicato su “Repubblica Palermo” il 15 marzo 2004.