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Le certezze di Jannuzzi

Le certezze di Jannuzzi

102/2000 palermo 7. 11. 2000

Al Direttore del settimanale “Panorama”
Via Sicilia 136/138
00187 Roma
Egregio Direttore,

non so in base a quali elementi Lino Jannuzzi possa affermare, sul n. 45 del settimanale, che a volere l’omicidio di Peppino Impastato non è stato Gaetano Badalamenti, come per vent’anni abbiamo sostenuto noi del Centro Impastato, assieme alla madre, al fratello e ai compagni di Peppino, ma sono stati i “corleonesi”, avversari di Badalamenti.
A dire il vero questa ipotesi era stata avanzata, nel febbraio del 1992, dal sostituto procuratore della Repubblica De Francisci ma solo come “sospetto” non suffragato dalla benché minima prova. Mentre l’indicazione di Badalamenti come mandante del delitto era, e rimane, fondata su elementi di fatto: Peppino Impastato attaccava tutti i mafiosi dell’area Cinisi-Terrasini ma le sue denunce e i suoi sberleffi erano rivolti soprattutto contro Badalamenti, considerato il capomafia della zona e, nonostante le dichiarazioni di Buscetta sul Badalamenti “posato”, condannato negli Stati Uniti nel processo alla Pizza Connection e quindi riconosciuto ancora “in servizio” come trafficante di droga negli anni ’70 e nei primi anni ’80.
Dire che per Luigi Impastato e per Tano Badalamenti la mafia era “una cosa buona e giusta”, e più in generale sostenere che sia esistita una mafia “buona e giusta”, ci sembra una concessione a un vecchio stereotipo. La mafia che sparava sui contadini, dai Fasci siciliani al secondo dopoguerra, rispettava un’unica regola: quella di difendere i suoi interessi con ogni mezzo, compreso l’uso della violenza. E se i “corleonesi” hanno accentuato il ricorso alla violenza, Buscetta, che definiva la mafia sua e dei suoi amici “moderata” e ligia alle regole, negli anni ’60 era alleato dei La Barbera che facevano gli attentati con le macchine al tritolo. Non mi pare inopportuno ricordare che la prima fu usata nell’aprile del 1963 contro Cesare Manzella, cognato del padre di Peppino Impastato, che da allora cominciò a capire che la mafia “buona e giusta” era un’invenzione che serviva a coprire le attività criminali più odiose, dall’omicidio al traffico di droga. Come abbiamo documentato in promemoria inviati alla Commissione parlamentare antimafia, i carabinieri hanno avuto un ruolo nel depistaggio delle indagini, ma ci riesce difficile pensare che l’abbiano fatto per “disinnescare la trappola” preparata dai “corleonesi” contro Badalamenti. Più semplicemente, hanno coperto Badalamenti, considerato un “uomo d’ordine”, e fatto passare Peppino Impastato per “terrorista e suicida”: nel clima del periodo era facile accomunare “teste calde” e brigatisti.
Una breve considerazione su Francesco Di Carlo e sui mafiosi collaboratori di giustizia che si avvalgono della facoltà di non rispondere: non vedo altra soluzione che la modifica dei contratti di protezione rendendo obbligatoria la conferma in dibattimento delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini. Altrimenti troveranno tutti i pretesti per vanificare la collaborazione.
Che gli Impastato fossero una famiglia mafiosa non è una scoperta e che la tragedia di Peppino Impastato fosse dovuta al fatto di avere la mafia in famiglia è una realtà che non può essere oscurata dalla metafora dei “cento passi”. Non per caso abbiamo intitolato il libro con la storia di vita della madre di Peppino La mafia in casa mia.

(Non pubblicato)