Stereotipi e paradigmi
Umberto Santino
Stereotipi e paradigmi
Il termine “mafia” è stato e continua a essere usato con una forte dose di indeterminatezza per cui la prima operazione da compiere, se si vuole avviare uno studio scientifico, è un’ispezione dell'”immaginario collettivo”, cioè il vaglio delle idee correnti. Tali idee possono classificarsi come stereotipi se sono prive di qualsiasi statuto scientifico, cioè sono soltanto dei luoghi comuni ripetuti per abitudine e recepiti per pigrizia mentale, e come paradigmi se sono il frutto di elaborazioni in qualche misura scientifiche, cioè sono prodotte in base a una metodologia, esplicita o implicita, e verificate, anche parzialmente, da indagini e ricerche empiriche, sulla base della raccolta e interpretazione di una certa massa di dati.
Funzione e catalogo degli stereotipi
La funzione degli stereotipi è di avallare-indurre-diffondere conformismi di massa o di gruppo, confermando il già noto, più esattamente il presunto noto, facendolo apparire come qualcosa di ovvio e di scontato. Gli stereotipi si possono identificare con le “certezze consolidate”, con quello che viene chiamato “senso comune”, cioè “l’ovvio per eccellenza”, quello che “sanno tutti” (Jedlowski 1994, p. 49), ma in realtà è ben lontano dal somigliare a una conoscenza effettiva, anzi è produttore e riproduttore di disinformazione.
Si possono individuare due funzioni, strettamente legate: “la prima è una funzione rassicuratrice, di avallo della giustezza delle rappresentazioni e dei comportamenti dati, cioè dei conformismi sedimentati; la seconda è quella di rimozione e demotivazione di processi di conoscenza che porterebbero alla problematizzazione e messa in crisi dei comportamenti correnti” (Crisantino 1994, p. 48). Il dato più significativo è che alcuni degli stereotipi più diffusi e più manifestamente infondati non circolano soltanto tra la gente comune ma, come vedremo, godono di ampio credito anche sui mezzi di informazione e informano la stessa attività legislativa.
Si può dire che fin dall’apparire del termine “mafia” si sia dato l’avvio alla nascita dello stereotipo. Fa parte delle curiosità letterarie la citazione di un documento relativo a un Atto di fede dell’Inquisizione del 1658, che contiene un elenco di eretici riconciliati, tra cui figura una fattucchiera, “Catarina la Licatisa, nomata ancor Maffia”, soprannome che potrebbe riferirsi alle asperità del suo carattere (in Sciascia 1964, p. 120). Il termine “mafiusi” compare per la prima volta nel titolo di una fortunata commedia popolare (I mafiusi di la Vicaria) rappresentata nel 1863, ma nel testo l’organizzazione di cui fanno parte i protagonisti viene denominata in vari modi (sucività, “santa chiesa”, “famiglia”) e gli affiliati vengono chiamati “camorristi”. La parola “maffia” è usata per la prima volta in un documento ufficiale del 1865, un rapporto del prefetto di Palermo Filippo Gualterio, in cui veniva adoperata ambiguamente: designava infatti sia un'”associazione malandrinesca” sia le forme di opposizione al neonato Stato unitario, considerate alla stregua di fenomeni criminali. Farebbero parte infatti di un “partito della Maffia” tanto oppositori politici che criminali, entrambi “al servizio dei Borboni” (Santino 2000a, p. 159).
Volendo redigere un catalogo degli stereotipi correnti, vecchi e nuovi o riverniciati, senza nessuna pretesa di esaustività, possiamo fermare l’attenzione su alcuni di essi particolarmente radicati e duri a scomparire, anche di fronte all’emergere di realtà in aperta contraddizione con essi. Forse la palma dello stereotipo più diffuso, in ambienti diversi, dai più bassi ai più alti, è quello della mafia come emergenza, secondo cui la mafia esiste quando spara, è particolarmente preoccupante quando produce una montagna di morti, assurge a questione nazionale quando colpisce personaggi arcinoti, come Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino. Lo stereotipo si incontra a ogni piè sospinto nelle conversazioni, figura nelle pagine dei quotidiani più noti, ha un posto riservato nell’ideario del legislatore. Non per caso tutta la legislazione antimafia del nostro Paese è nel solco dell’emergenza: la legge antimafia del 1982, che per la prima volta definisce come reato l’associazione a delinquere di stampo mafioso, viene una settimana dopo l’assassinio di Dalla Chiesa, mentre la documentazione sull’esistenza dell’organizzazione può agevolmente reperirsi già nella prima metà dell’Ottocento (Santino 2000a, pp.137-147). E legata all’emergenza, cioè alle manifestazioni più eclatanti della violenza mafiosa, è l’ulteriore produzione legislativa: la legge antiracket approvata dopo l’omicidio dell’imprenditore Libero Grassi (mentre le estorsioni sono documentabili sulla piazza di Palermo già nel XVI secolo, in quelli che ho chiamati “fenomeni premafiosi”: Santino 2000a); la legislazione premiale dei mafiosi collaboratori di giustizia viene dopo le stragi del 1992 in cui sono caduti Falcone e Borsellino e si potrebbe continuare. Mentre all’affievolirsi della violenza corrisponde la cancellazione o l’attenuazione dei provvedimenti, elaborati e messi in atto nell’ottica della riposta emergenziale allo scatenarsi e all’infierire della violenza mafiosa. È quello che è avvenuto negli ultimi anni, una volta che i mafiosi, anche per i colpi che hanno ricevuto dopo le stragi, hanno capito che se vogliono continuare ad avere un ruolo debbono controllare la violenza e sospendere quella rivolta verso l’alto. La “mafia sommersa” di cui parlano le cronache recenti per molti, compreso il legislatore, è una mafia vinta o comunque tanto indebolita da non destare preoccupazione e da consentire lo smantellamento della legislazione emergenziale. Lo stereotipo si limita a registrare i fatti delittuosi, ha una visione della mafia meramente congiunturale, la identifica come una fabbrica di omicidi che andrebbe in letargo tra un delitto e l’altro e ignora che essa è un fenomeno continuativo, dedita a molteplici attività.
Un altro stereotipo abbastanza diffuso è quello secondo cui la mafia sarebbe un antistato e un contropotere criminale, eversivo dello Stato democratico: i delitti contro uomini delle forze dell’ordine, magistrati, rappresentanti delle istituzioni e di partiti governativi vengono considerati come atti di guerra contro lo Stato nel suo complesso, mentre a ben vedere essi mirano a colpire singoli personaggi o settori impegnati nella lotta contro la mafia, spesso isolati o con scarso peso all’interno delle istituzioni di cui fanno parte. Si ricordino, tra le vicende più note, le richieste non accolte di poteri adeguati da parte del generale-prefetto Dalla Chiesa, e l’isolamento, gli attacchi fino alla denigrazione subiti dai magistrati Falcone e Borsellino. Un’analisi della mafia, nel suo percorso storico e nella realtà attuale, non può non registrare come dato caratterizzante il rapporto con settori istituzionali, senza di cui molte attività non sarebbero pensabili, a cominciare dagli appalti di opere pubbliche e dalle complicità che rendono possibili latitanze pluridecennali, come quella di Bernardo Provenzano, ampiamente documentate da inchieste giudiziarie. E l’impunità goduta dai mafiosi per molti anni, una vera e propria forma di legittimazione, si spiega soltanto con la funzionalità della violenza mafiosa alla conservazione e perpetuazione di determinati assetti di potere: si pensi alla lunga catena di delitti consumati contro i dirigenti e i militanti delle lotte contadine, dai Fasci siciliani (1891-’94) agli anni ’50 del XX secolo (Santino 2000b).
Sono classificabili come stereotipi anche le visioni che considerano la mafia come una subcultura comune a tutta la popolazione della Sicilia occidentale o di tutta la Sicilia, su cui torneremo nella voce apposita, o inducono una generalizzazione-criminalizzazione universale, come suggeriscono le rappresentazione mediatiche di successo che utilizzano l’immagine della Piovra: una mafia onnipresente e onnipotente, sotto il comando di una cupola mondiale e di un superboss planetario, contrastata da eroi solitari che sopravvivono unicamente per esigenze di copione.
Operano anche sul terreno della mafia e di altri fenomeni ad essa assimilabili stereotipi che si riferiscono generalmente alla società siciliana e meridionale, come il familismo amorale o la mancanza di senso civico. Una discutibile ricerca, condotta negli anni ’50 in un paesino meridionale dall’antropologo americano Edward Banfield, ha portato alla conclusione che la società meridionale sarebbe dominata da un ethos fondato sul nucleo familiare ristretto e non sarebbe capace di darsi strutture associative al di fuori di esso (Banfield 1961-1976).
Per ciò che riguarda il fenomeno mafioso, c’è da dire che l’organizzazione mafiosa siciliana si basa sulla famiglia di sangue ma non si esaurisce in essa, estendendosi al di là della cerchia parentale con cooptazioni fondate sulle doti personali (l’abilità nell’uso delle armi, ma pure la verifica delle capacità degli affiliandi attraverso l’attenta osservazione dei selezionatori). Il figlio del capomafia non è detto che gli succederà, mentre le dinastie monarchiche e imprenditoriali-finanziarie sono più rigidamente determinate dal legame parentale.
La tesi della mancanza di senso civico è sostenuta da un altro studioso statunitense, Robert Putnam, che riconduce tale deficit a radici storiche, come la monarchia normanna, mentre nel Nord operavano le istituzioni comunali (Putnam 1993). Una tesi un po’ troppo frettolosa, che ignora i movimenti di massa sviluppatisi in particolare in Sicilia, con una diffusa capacità di dar vita a strutture organizzative e a forme di partecipazione.
I paradigmi: associazione tipica e impresa. Il paradigma eziologico
Le idee diffuse, ma con un grado di diffusione di gran lunga inferiore a quello degli stereotipi, classificabili come paradigmi sono essenzialmente due: la mafia come associazione a delinquere tipica e la mafia come impresa. Il primo paradigma, giuridico-criminologico, ha il suo statuto ufficiale nell’articolo 416 bis della Legge n. 646 del 13 settembre 1982 (legge Rognoni – La Torre o legge antimafia) che così definisce l’associazione mafiosa:
L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquistare in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri.
L’associazione di tipo mafioso rispetto all’associazione a delinquere semplice (che richiede il vincolo associativo, la struttura organizzativa, il programma criminoso) presenta come aspetto specifico la forza intimidatrice del vincolo associativo, produttrice di assoggettamento e induttrice di omertà (usualmente intesa come legge del silenzio, a tutela della segretezza).
L’ultima parte della definizione data dalla legge contiene elementi del paradigma economico-sociologico che considera la mafia come impresa. Al suo interno possiamo individuare due specificazioni: l’impresa mafiosa e la mafia-impresa. Le attività imprenditoriali formalmente lecite possono configurarsi come mafiose per la presenza di uno di questi elementi: il soggetto imprenditoriale è direttamente o indirettamente legato alla mafia, il capitale investito è di provenienza illecita, la concorrenza adopera mezzi illeciti, come la violenza e la minaccia. La mafia è impresa nel senso che l’agire mafioso si configura come una razionale combinazione di mezzi e di fini indirizzata al perseguimento di scopi di arricchimento (il riferimento è all’impresa illecita).
A questi due paradigmi si potrebbe aggiungere un terzo, derivante dall’approccio culturalista-psicologico, che sottolinea la rilevanza dei codici comportamentali, con particolare riferimento alle implicazioni psicologiche. Si parla di “cultura mafiosa”, di “sentire mafioso”, di “psichismo mafioso” e se gli aspetti culturali hanno indubbiamente un peso notevole l’insistenza sulle pulsioni inconsce, che sarebbero alla base della trasmissione dei codici culturali, rischia di riproporre modelli antropologici di tipo razziale: tutti i siciliani sarebbero coinvolti, transpersonalmente, cioè inconsciamente, nella perpetuazione del sentire mafioso, affermazione che ignora che nella storia della Sicilia contemporanea ci sono stati movimenti di massa, tra i più grandi e continuativi d’Europa, che si sono scontrati con la mafia pagando un altissimo costo di sangue. Allo stato attuale dell’elaborazione saremmo in una fase preparadigmatica, con ampio uso di stereotipi, come l’immagine della Sicilia secolarmente inchiodata alla passività e alla rassegnazione (Santino, dattiloscritto).
Per quanto riguarda le cause e i processi di formazione della mafia e più in generale dei fenomeni criminali, il paradigma eziologico più diffuso si fonda sul deficit, o deprivazione relativa, cioè su una carenza di controllo, di socializzazione, di opportunità. Alle radici del crimine sarebbe comunque una patologia sociale ma negli ultimi anni si è fatta sempre più strada la convinzione che per analizzare le cause della criminalità organizzata occorre un capovolgimento delle categorie tradizionali: invece di un deficit bisognerebbe parlare di un’ipertrofia delle opportunità offerte dalle attività criminali (Ruggiero 1992, Santino 1995, pp. 95 ss.). Una prospettiva certamente più adeguata per spiegare i processi di causazione delle varie forme di criminalità organizzata, in particolare di quella mafiosa e delle altre forme ad essa assimilabili.
Il paradigma della complessità
Se gli stereotipi producono più disinformazione che informazione, i paradigmi esaminati colgono aspetti essenziali del fenomeno mafioso che però non si esaurisce in essi. Un’analisi adeguata della mafia e di altre forme similari deve preliminarmente demistificare gli stereotipi ed elaborare un paradigma che integri ed estenda il quadro delineato dai paradigmi della mafia come associazione specifica e impresa. L’operazione di demistifica degli stereotipi è abbastanza agevole sul piano scientifico, ma se si tiene conto della loro diffusione attraverso i mass media e della loro sedimentazione nel tempo è una battaglia condotta con armi impari e con mezzi inadeguati. Non è difficile dimostrare che la mafia non è un’emergenza ma un fenomeno permanente, non è solo fabbrica di omicidi ma è impegnata in una vasta gamma di attività, illegali e legali; che essa non è un contropotere e un antistato ma ha rapporti complessi con settori istituzionali; il problema è veicolare questi contenuti in modo che diventino conoscenza condivisa e sentire comune.
Il paradigma che ad avviso di chi scrive può darci una rappresentazione adeguata del fenomeno mafioso è quello che ho chiamato “paradigma della complessità”, che si fonda sulla seguente ipotesi definitoria:
Mafia è un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l’unica è Cosa nostra, che agiscono all’interno di un contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale.
I vari aspetti (crimine, accumulazione, potere, codice culturale, consenso) interagiscono tra di loro dando vita a un fenomeno polimorfico, strutturato e persistente; isolare uno di questi aspetti e attribuirgli una funzione prevalente è un’operazione scorretta che porta a una rappresentazione riduttiva e fuorviante.
I gruppi criminali, formati da uomini in carne e ossa, boss e gregari, professionisti del crimine, individuabili con nomi e cognomi, e non da personaggi da romanzo o da sceneggiato televisivo, sfuggenti e caricaturali, operano dentro un sistema di relazioni che danno vita a un blocco sociale di cui è possibile analizzare composizione, caratteristiche, interessi, codici culturali, tipologie di rapporti, rifuggendo da criminalizzazioni generalizzate come pure da visioni che riducono relazioni complesse all’angusto pseudoparadigma protettori-protetti. I gruppi criminali hanno composizione transclassista, figurando al loro interno soggetti provenienti dalle fasce basse della popolazione, semianalfabeti come gli stessi capi militari Riina e Provenzano, e professionisti, nullafacenti e imprenditori. Transclassista è pure il blocco sociale con cui i criminali organizzati intessono rapporti, ma al suo interno le varie componenti hanno un peso diversificato: sul popolo dei subalterni e dei gregari domina un gruppo di comando composto dai soggetti illegali e legali più ricchi e potenti, definibili come “borghesia mafiosa” (rimando alla voce apposita del Dizionario).
Storia: mafia vecchia – mafia nuova. Continuità e trasformazione
Anche sull’evoluzione storica del fenomeno mafioso imperversano gli stereotipi, da quello secondo cui a una mafia vecchia arroccata nelle sue posizioni di potere succederebbe, a scadenza più o meno determinabile, una mafia nuova all’assalto dei vecchi e aperta a nuove attività e a nuovi orizzonti. Nella variante colta lo stereotipo assume i panni del paradigma (in realtà uno pseudoparadigma, in quanto travestimento dello stereotipo), presentando una “mafia tradizionale” in competizione per l’onore e il prestigio che solo negli anni ’70 del XX secolo avrebbe ceduto il passo a una “mafia imprenditrice” che solo allora avrebbe scoperto la competizione per la ricchezza. Una corretta lettura ci avverte che il dato generazionale condiziona ogni fenomeno umano, che i fenomeni di durata fondano la loro persistenza nel tempo intrecciando continuità e innovazione e che l’arricchimento è una delle finalità dell’agire mafioso, riscontrabile anche in quelli che possono definirsi “fenomeni premafiosi” (come abbiamo visto, già nel XVI secolo sulla piazza di Palermo venivano praticate le estorsioni e reati come l’abigeato, il furto di centinaia di capi di bestiame, avevano insieme il carattere di esercizio della signoria territoriale, con la complicità delle forze dell’ordine del tempo, e funzione di accumulazione).
La distinzione tra mafia vecchia e mafia nuova è usata con chiaro intento apologetico da parte di mafiosi collaboratori di giustizia, che hanno dato un contributo utile alle inchieste ma sono apertamente o surrettiziamente impegnati in una difesa della loro mafia, contrapposta a quella degli avversari. Così la mafia del passato, anche recente, viene rappresentata come strettamente osservante di codici d’onore (“non uccideva le donne e i bambini”), parsimoniosa nel ricorso alla violenza, ancorata ai principi dell’etica sociale e della democrazia interna, mentre la mafia degli avversari, per esempio dei “corleonesi”, viene presentata come una forma di degenerazione, derivante dall’arricchimento prodotto dal traffico di droghe, mentre è documentato che in tale traffico gli alleati di Totò Riina hanno avuto per molti anni un ruolo subalterno rispetto a quello degli alleati di Tommaso Buscetta.
In realtà la mafia si è sviluppata coniugando continuità e trasformazione-innovazione, fedeltà alle radici e adattamento ai mutamenti del contesto, rigidità formali ed elasticità di fatto. Così la signoria territoriale, che è una forma arcaica, prestatuale, di dominio tendenzialmente totalitario sulle attività che si svolgono in un determinato territorio, anche sulla vita privata, si intreccia funzionalmente con le proiezioni internazionali, sulla via dei grandi traffici (di tabacchi, di droghe, di armi, di esseri umani).
Anche per ciò che riguarda le distinzioni di genere, la mafia, pur essendo formalmente monosessuale, cioè composta da soli uomini (in obbedienza non tanto a una regola interna quanto a una prassi di carattere generale, che voleva le donne subalterne ed escluse dalla vita pubblica e dalle professioni), di fatto ha assegnato e assegna alle donne ruoli non secondari, che vanno dalla gestione delle attività legali alle supplenze nel caso della carcerazione degli affiliati (Puglisi 2005). E non bisogna sorprendesi se recentemente una donna della famiglia mafiosa di Partinico, Giusy Vitale, ha rivelato che è stata eletta formalmente capomandamento. Un’ulteriore riprova di un’elasticità e capacità di adattamento che spesso viene sottovalutata da chi si ostina a leggere il fenomeno mafioso attraverso le lenti degli stereotipi, dimostrando che quella pseudoscienza che va sotto il nome di “mafiologia” più che produrre analisi adeguate riproduce e rafforza banalità e luoghi comuni.
Voglia di mafia e società mafiogena
Sui rapporti tra fenomeno mafioso e contesto sociale abbiamo già detto che i gruppi criminali agiscono all’interno di un sistema relazionale e come per tutti i fenomeni sociali “cause ed effetti si rigenerano continuamente in un circuito di reciproco rafforzamento. Così la mafia è insieme prodotto di una società e riproduttrice di essa” (Santino 2002a, p. 53).
Più che parlare di “bisogno di mafia”, di “richiesta di mafia”, o peggio di “voglia di mafia”, espressioni tanto generiche da rientrare tra gli stereotipi, si può parlare di “società mafiogena” per una società che, rifuggendo da generalizzazioni in blocco, presenta caratteristiche ben individuate e individuabili. Alcuni esempi:
– violenza e illegalità sono moralmente accettate da buona parte della popolazione, sono considerate mezzi di sopravvivenza e canali per l’acquisizione di ricchezza e di ruoli sociali, difficilmente ottenibili per altre vie, e sono normalmente impunite;
– l’economia legale è troppo esigua per offrire opportunità consistenti e appetibili e il tessuto della società civile è troppo fragile e precario;
– lo Stato e le istituzioni in genere sono sentiti come mondi lontani ed estranei, spesso collusi con soggetti mafiosi;
– la memoria delle lotte precedenti è stata cancellata e rimane soltanto l’idea dell’ineluttabilità della sconfitta e dell’immodificabilità della realtà;
– si è sedimentata una cultura della sfiducia e del fatalismo, per cui la mafia viene considerata come un fenomeno naturale: “c’è sempre stata e sempre ci sarà; non possiamo farci niente”, mentre è facilmente documentabile che essa è un fenomeno storico, le cui origini non si perdono “nella notte dei tempi” ma rimontano al XIX secolo;
– nella vita quotidiana domina l’aggressività anche nei rapporti più banali, vige la solidarietà nell’illegalità; tutto è visto in base a criteri di tornaconto e di interesse.
Queste caratteristiche, prima presenti nella società siciliana e meridionale, negli ultimi decenni si sono estese ad altri contesti, sull’onda dei processi di globalizzazione neoliberista, che aggravano gli squilibri territoriali e i divari sociali, smantellano lo Stato sociale e le economie più deboli, spingendo gran parte della popolazione mondiale verso l’accumulazione illegale, potenziano la finanziarizzazione speculativa, rendendo sempre più difficile la distinzione tra capitale illegale e legale. In tal mondo tanto nei centri che nelle periferie si sviluppano le attività illegali e proliferano organizzazioni criminali complesse di tipo mafioso. Possiamo dire che la globalizzazione, in alcuni suoi aspetti fondamentali, è criminogena, più che tout court criminale (Santino 2002b).
Anche qui allo stereotipo “piovra universale”, “cupola mondiale” diretta da una sorta di superboss, bisogna sostituire analisi adeguate, capaci di leggere i fenomeni criminali nel contesto attuale, sulla base di criteri elaborati scientificamente e dell’accertamento dei dati.
Riferimenti bibliografici
Banfield Edward, Una comunità del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1961, ripubblicato con il titolo Le basi morali di una società arretrata, il Mulino, Bologna 1976.
Crisantino Amelia, La fabbrica degli stereotipi in A. Cavadi (a cura di), A scuola di antimafia, Centro Impastato, Palermo 1994, pp. 48-56.
Jedlowski Paolo, “Quello che tutti sanno”. Per una discussione sul concetto di senso comune, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, a. XXXV, n. 1, gennaio-marzo 1994, pp. 49-77.
Puglisi Anna, Donne, mafia e antimafia, Di Girolamo, Trapani 2005.
Putnam Robert, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993.
Ruggiero Vincenzo, Crimine organizzato: una proposta di aggiornamento delle definizioni, in “Dei delitti e delle pene”, n. 3, 1992, pp. 7-30.
Santino Umberto, La mafia interpretata, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995; La cosa e il nome, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000a; Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000b; Oltre la legalità. Appunti per un programma di lavoro in terra di mafie, Centro Impastato, Palermo, 2002a; Modello mafioso e globalizzazione, in M.A. Pirrone e S. Vaccaro (a cura di), I crimini della globalizzazione, Asterios Editore, Trieste 2002b, pp. 81-110; La mafia dentro, dattiloscritto, capitolo della nuova edizione de La mafia interpretata, in corso di stampa.
Sciascia Leonardo, Appunti su mafia e letteratura, in “Nuovi Quaderni del Meridione”, n. 5, 1964, pp. 118-126.
Pubblicato su “Narcomafie”, n. 1, gennaio 2006.