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Umberto Santino: Crimine transnazionale e capitalismo globale

Umberto Santino

Premessa: tra piovre e cupole

Secondo l’immagine più diffusa a livello internazionale (che, continuando la serie dei luoghi comuni sulla mafia, si potrebbe definire lo “stereotipo del 2000”) la mafia sarebbe una piovra universale e sulla falsariga dell’organizzazione mafiosa più nota, Cosa nostra siciliana, si sarebbe ormai formato un vertice planetario del crimine, una cupola mondiale che secondo le dichiarazioni di qualche “pentito” (per esempio Leonardo Messina) sarebbe, o sarebbe stata, diretta dallo stesso capo dei capi siciliano, il quasi analfabeta Totò Riina. Il collaboratore di giustizia Messina è certamente attendibile quando parla dei delitti e delle attività della mafia a cui ha partecipato e di cui ha conoscenza diretta, non lo è per niente quando si avventura in ipotesi storiografiche strampalate (secondo cui la mafia siciliana sarebbe nata nel ‘600 in seguito ad un accordo tra Chiesa cattolica e massoneria) e in fantasie cosmiche.
Certamente la criminalità organizzata opera a livello mondiale ma questo non significa né che si sia unificata in una sola organizzazione né tanto meno che il modello Cosa nostra nella versione corleonese, a cominciare dalla cupola e dalla monarchia assoluta, si sia imposto sul pianeta, se verosimilmente esso è entrato in crisi nella stessa mafia siciliana tanto che si ipotizza l’accantonamento della cupola e il pensionamento del capo dei capi.
Stando con i piedi per terra e registrando i dati che sono preoccupanti di per sé, senza dover aggiungere elementi di fantasia, oggi abbiamo vari gruppi criminali attivi in tutto il mondo e in rapporto tra loro; le attività criminali sono in crescita, diventano sempre più complesse e sono strettamente intrecciate con l’economia legale e con le istituzioni. Questo è il modello mafioso storico (che come vedremo è il frutto dell’interazione tra crimine, economia, potere, codice culturale e consenso sociale) non la sua traduzione corleonese che ha comportato la rigidità organizzativa, l’onnipotenza della cupola e più ancora del suo capo, l’accentuazione della linea della violenza con notevoli effetti boomerang tanto all’esterno che all’interno.

I gruppi criminali che ricorrono ad atti di violenza eclatanti, come le stragi e gli omicidi di vertici istituzionali, sembrano i più potenti ma in realtà sono i più scoperti e vulnerabili, come dimostra l’attuale crisi dei corleonesi e del cartello di Medellín. Invece di mitizzare alcuni personaggi dell’universo criminale, come si fa abitualmente, è molto più utile avere un quadro dei vari soggetti, delle attività da essi svolte, dei loro rapporti con il quadro sociale ed istituzionale. E per ricostruire tale quadro occorre attrezzarsi sul piano scientifico, non confidare solo e unicamente sulle dichiarazioni dei cosiddetti “pentiti”.

In questo scritto esaminerò le definizioni di criminalità organizzata e transnazionale adottate da documenti ufficiali delle Nazioni Unite, esporrò quello che ho definito “paradigma della complessità”, elaborato per la mafia siciliana, considerata come modello delle criminalità organizzate diffuse ormai sull’intero pianeta, darò un quadro sintetico delle caratteristiche del capitalismo globale e in particolare di quelle che presentano una più spiccata valenza criminogena e parlerò della funzione dell’accumulazione illegale nella fase attuale del capitalismo.

 

Criminalità organizzata e criminalità transnazionale nelle definizioni ufficiali

Un documento preparatorio della Conferenza ministeriale mondiale delle Nazioni Unite svoltasi a Napoli nel novembre del 1994 faceva il punto del dibattito e dava una definizione di criminalità organizzata e transnazionale. Secondo questa definizione, la criminalità organizzata è il risultato dell’associarsi di più persone allo scopo di intraprendere un’attività criminale su una base più o meno durevole. In genere esse si dedicano alla criminalità d’impresa, cioè alla fornitura di beni e servizi illeciti, o di beni leciti acquisiti con mezzi illeciti, come il furto e la truffa. Veniva ripresa l’indicazione del criminologo americano Gary Potter, secondo cui la criminalità organizzata «rappresenta il più delle volte un’estensione delle possibilità del mercato lecito nei terreni normalmente proibiti. La forza dei diversi gruppi sta nelle stesse motivazioni fondamentali dello spirito d’impresa nei mercati leciti, cioè la necessità di conservare ed ampliare la loro quota di mercato».
Le attività dei gruppi criminali organizzati per fornire beni e servizi illeciti richiedono un livello notevole di cooperazione e di organizzazione. Come ogni altra attività economica, quella criminale richiede competenze imprenditoriali, una considerevole specializzazione e una capacità di coordinazione, con in più il ricorso alla violenza e alla corruzione per facilitare lo svolgimento delle attività.


1.1. I modelli organizzativi

Quanto alle dimensioni e alla struttura delle organizzazioni criminali il documento registrava le diverse posizioni degli esperti: c’è chi concepisce la criminalità organizzata come un insieme di grandi organizzazioni gerarchiche, strutturate come le imprese tradizionali, e chi invece parla di strutture deboli, flessibili ed elastiche, configurando la criminalità più come una rete di scambi sociali all’interno della collettività che come una struttura formale rigida. I gruppi criminali, si legge nello stesso documento, sono in genere di modeste dimensioni, fluidi e dotati di un grande opportunismo. Invece di dividerli in piccole o grandi organizzazioni e in strutture formali o informali, è preferibile considerarli come un continuum in cui le organizzazioni variano le loro dimensioni e le loro strutture. Alcuni gruppi possono combinare gli elementi di una struttura formale gerarchica con una rete fluida ai livelli inferiori.
La consistenza e il livello della struttura formale sono parametri che permettono ai poteri pubblici e ai servizi repressivi d’identificare e comparare i gruppi per determinare le loro forze e la loro vulnerabilità e preparare le contromisure adeguate. Una terza variabile riguarda il terreno delle attività criminali: alcuni gruppi sono altamente specializzati e si dedicano a una sola attività, come la prostituzione o le droghe.

Altri svolgono attività diversificate. Finora il dibattito sulla criminalità organizzata ha riguardato soprattutto questi aspetti tradizionali, ma le cose sono cambiate poiché quello che prima era un problema locale o nazionale è diventato un grande problema regionale e mondiale che riguarda l’intera comunità internazionale.


1.2. Le organizzazioni criminali transnazionali

Il documento delle Nazioni Unite passava poi a considerare le organizzazioni criminali transnazionali. Il termine “transnazionale” indica in genere il movimento di informazioni, di denaro, di beni, di persone attraverso le frontiere nazionali quando almeno uno degli attori non è governativo.
Le organizzazioni criminali sono sempre più implicate in attività oltrefrontiera. La mondializzazione del commercio e della domanda dei consumatori di prodotti voluttuari fanno sì che le organizzazioni criminali passino da un’attività nazionale ad operazioni transnazionali. Non tutte le organizzazioni criminali operano a questo livello, ma ci sono relazioni molto complesse tra il quadro locale e mondiale e la dimensione transnazionale della criminalità ha assunto un’importanza senza precedenti. Le frontiere nazionali non hanno mai arrestato totalmente la fornitura di beni e servizi illeciti ma oggi non si tratta più del vecchio contrabbando per evitare di pagare le tasse e sfuggire alla dogana per i prodotti leciti; il traffico transnazionale riguarda soprattutto i prodotti illeciti e mira ad occupare altri mercati e ad aggirare la repressione.

Le organizzazioni criminali si installano in regioni dove corrono rischi minori e forniscono beni e servizi illeciti sui mercati dove i profitti sono più alti. Esse inoltre immettono i capitali ricavati dalle attività illegali nel sistema finanziario mondiale, attraverso i paradisi fiscali ei centri bancari mal regolamentati. Le organizzazioni criminali transnazionali sono diventate soggetti di primo piano dell’attività economica mondiale e agenzie chiave delle industrie illecite come la produzione e il traffico di droghe, diffuso a livello mondiale e i cui proventi superano il prodotto nazionale lordo di alcuni paesi sviluppati e in via di sviluppo.

Tali organizzazioni presentano numerosi punti in comune con le imprese transnazionali e differenze notevoli quanto a struttura, dimensioni, estensione e diversificazione delle operazioni. Si possono considerare come lo specchio delle società transnazionali. Come queste hanno per obiettivo principale il profitto e cercano di aumentare al massimo la loro libertà d’azione e di ridurre al minimo i controlli. Ma differiscono per altri aspetti.

Le società transnazionali possono ricorrere a incentivazioni economiche e agire scorrettamente, ma in genere rispettano la legge, mentre per le organizzazioni criminali il non rispetto della legge è la norma.

Anche se investono in imprese lecite o esercitano il commercio lecito, le attività lecite sono secondarie rispetto a quelle illecite. Per le organizzazioni criminali l’uso della violenza e della corruzione è naturale, mentre le società transnazionali possono ricorrere talvolta a tali mezzi, ma questo non può considerarsi la norma.


1.3. Crimine e “villaggio mondiale”

Quanto alle spiegazioni dell’escalation del crimine transnazionale, il documento delle Nazioni Unite cominciava con il dire che esso riflette la società contemporanea, soggetta a profonde trasformazioni. L’evoluzione del “villaggio mondiale” ha modificato il contesto in cui operano sia le imprese lecite che illecite: si richiamano l’interdipendenza crescente tra le nazioni, la facilità degli scambi e delle comunicazioni, la permeabilità delle frontiere, la mondializzazione delle reti finanziarie. La fine della guerra fredda e il trionfo del capitalismo e della democrazia liberale hanno facilitato l’introduzione del capitalismo imprenditoriale nell’Europa dell’Est e nell’ex Unione Sovietica che non hanno attivato i meccanismi più rudimentali per regolamentare le imprese. La confusione, il declino delle strutture di autorità e legittimità, il risorgere di conflitti etnici hanno offerto nuove possibilità alle attività criminali che spesso servono a finanziare l’acquisto di armi. La crescita dell’emigrazione favorisce l’espansione delle attività criminali.
L’estensione del sistema finanziario mondiale consente alle organizzazioni criminali di trasferire i proventi delle attività illegali rapidamente, facilmente e con una relativa impunità. Il riciclaggio dei capitali è solo un aspetto di un problema più ampio: il sistema funziona secondo la logica del mercato e si evolve così rapidamente che le regole appena emanate sono già superate.

Riassumendo: la criminalità organizzata è un’impresa che imita quella legale, differendo da essa per il ricorso normale a pratiche violente e illegali. Le ragioni del suo successo vanno ricercate in alcune distorsioni del sistema mondiale in questa fase, particolarmente corpose in alcune aree solo recentemente affacciatesi al capitalismo e nel sistema finanziario.


1.4 Criminalità mondiale e “giungla”

Il segretario delle Nazioni Unite Boutros Ghali nella relazione introduttiva alla conferenza di Napoli, riprendendo le linee dei documenti preparatori, ne esplicitava l’idea di fondo: quando l’economia capitalistica era limitata ai paesi più evoluti e democratici, il liberalismo si reggeva su due pilastri: il mercato e il diritto. Oggi, con la mondializzazione dell’economia, in molte regioni si è sviluppato un mercato senza Stato e senza regole, qualcosa di assimilabile alla giungla.
E il dilagare della criminalità organizzata si spiega con la debolezza delle istituzioni. L’esempio più significativo viene dai paesi dell’Est e da quelli “in via di sviluppo”. La giungla, cioè le periferie senza Stato e con un mercato ai primi passi, è lo spazio privilegiato dello sviluppo della criminalità organizzata.

A questa analisi si potrebbe obiettare che i paesi ultimi arrivati nel contesto capitalistico, ricorrendo all’accumulazione illegale e popolandosi di mafie, non fanno altro che seguire una pista già tracciata proprio da quei paesi “democratici” che invece vengono indicati come esempi di sano liberismo, a cominciare dagli Stati Uniti, dove il crimine si è configurato come “american vay of life”, cioè come strada al capitalismo per i soggetti etnici svantaggiati (irlandesi, ebrei, italiani etc.)(1). Ma il discorso sullo sviluppo della criminalità organizzata e transnazionale va in primo luogo affrontato nei suoi presupposti teorici.

 

2. Il paradigma della complessità e l’estensione del modello mafioso su scala mondiale

La definizione delle Nazioni Unite accoglie la visione imprenditoriale del crimine organizzato, che è di per sé una visione riduttiva, all’insegna dell’economicismo, ignorando o non tenendo nel dovuto conto altri aspetti che concorrono a configurare i modelli storici e attuali più significativi. La concezione del crimine come impresa nasce negli Stati Uniti alla fine degli anni ’60 ad opera di criminologi legati all’establishment. Schelling, Cressey, Buchanam, Becker hanno avuto il merito di applicare metodologie scientifiche allo studio del crimine, dando di esso una rappresentazione diversa da quella impressionistica della mafiologia giornalistica, più o meno venata di razzismo, ma i loro contributi colgono soltanto un aspetto della criminalità organizzata nella forma mafia, nella versione metropolitana allignata negli Stati Uniti(2).


2.1. Mafia tradizionale e imprenditrice: una distinzione gratuita

Nei primi anni ’80 la concezione della mafia-impresa è stata importata in Italia e il sociologo Arlacchi ha introdotto una gratuita distinzione tra una “mafia tradizionale” in competizione per l’onore e il potere e una “mafia imprenditrice” in competizione per la ricchezza, che sarebbe nata negli anni ’70, con l’inserimento nel traffico di droghe.
Per di più tale teorizzazione presentava vistose oscillazioni tra parassitismo e produttività, tra informale e formale. La cosiddetta mafia imprenditrice è stata presentata in un primo tempo come produttiva, in quanto innovatrice (con un’utilizzazione del linguaggio di Schumpeter che dimostrava la scarsa conoscenza dell’analisi schumpeteriana, per cui ho ironicamente parlato di “Schumpeter col kalashnikov”(3)), ma poi sarebbe diventata ostacolo allo sviluppo. Con altrettanta disinvoltura l’autore che prima sosteneva la tesi della mafia informale, destrutturata, raccogliendo le dichiarazioni di un pentito, si è convertito alla tesi della società segreta formalmente costituita e rigidamente strutturata(4).


2.2. La mafia come fenomeno complesso

La mafia siciliana, che costituisce ancora oggi l’esempio più noto di criminalità organizzata, non è riducibile a impresa ma è qualcosa di più complesso; l’aspetto economico è certamente rilevante ma esso si inserisce in un insieme più ampio, ricco di implicazioni politico-istituzionali, culturali etc.
Per cogliere la complessità del fenomeno mafioso, l’interazione dei vari aspetti che esso presenta e il rapporto tra crimine e contesto socio-istituzionale, ho formulato un’ipotesi definitoria articolata ed elaborato quello che ho chiamato “paradigma della complessità”. A mio avviso, «mafia è un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l’unica è Cosa nostra, che agiscono all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale»(5).

Secondo questa visione la mafia non è solo impresa ma è un soggetto politico-istituzionale, essendo una sua caratteristica costitutiva la signoria del territorio; il fenomeno mafioso è la risultante della simbiosi tra crimine, accumulazione, potere, codice culturale e consenso, non si esaurisce nell’associazionismo criminale ma coinvolge un “blocco sociale” interclassista, cementato da interessi e da modelli comportamentali, al cui interno la funzione dominante è svolta da quella che ho chiamato “borghesia mafiosa”, formata dai soggetti illegali (capimafia) e legali (politici, imprenditori, professionisti etc.) più ricchi e potenti(6).

L’evoluzione storica del fenomeno mafioso al di là di stereotipi tradizionali e incolti, come quello tra mafia vecchia e mafia nuova, o verniciati di linguaggio scientifico, come quello tra mafia tradizionale e imprenditrice, è un intreccio di “continuità e innovazione”; l’onore dei vecchi mafiosi era solo una maschera di rispettabilità che copriva pratiche di violenza e di sopruso miranti al dominio e all’arricchimento; la finalità economica è una costante dei gruppi mafiosi, che hanno saputo adattarsi sia a forme di accumulazione primitiva come l’abigeato che “postmoderne” come il traffico di droghe e il riciclaggio del denaro sporco. Anche la presunta funzione di “protezione” va demistificata: i mafiosi non sono i protettori privati in una società dominata dalla sfiducia e dall’insicurezza, ma producono insicurezza con le loro minacce e si astengono dal metterle in atto se le loro richieste estorsive vengono soddisfatte(7).

L’estensione del modello mafioso su scala mondiale non significa né che Cosa nostra è il “Number One” alla conquista del pianeta nè che ci sia una piovra universale con la testa nei paraggi di Corleone. Vuol dire che tanto Cosa nostra che gli altri soggetti criminali storici, come le triadi cinesi e la yakusa giapponese, si sono sempre più proiettati sulla scena internazionale, senza abbandonare le loro radici; che si sono formati nuovi gruppi criminali, come i cartelli colombiani, la mafia russa e nigeriana, e che tutti questi gruppi presentano le linee fondamentali della mafia siciliana, cioè l’interazione crimine-ricchezza-potere, assieme ad aspetti culturali specifici legati alla loro storia e al territorio in cui si sono formati.


2.3. Deprivazione e ipertrofia delle opportunità

Per quanto riguarda le spiegazioni del processo di causazione del crimine organizzato, ha prevalso finora il paradigma eziologico della deprivazione relativa, per cui il crimine nascerebbe da un deficit di opportunità nel perseguimento di fini generalmente accettati, come l’arricchimento e il successo. I soggetti svantaggiati raggiungono tali fini con mezzi illegali, essendo preclusi quelli legali. Si tratterebbe quindi di una patologia sociale originata da carenze di vario tipo, di opportunità, di socializzazione etc.
Le analisi delle Nazioni Unite sopra richiamate si rifanno allo stesso paradigma, proiettandolo su scala mondiale, individuando come causa fondamentale il deficit di Stato e di mercato nei paesi ultimi arrivati e marginali.

Per spiegare l’attuale espansione del crimine organizzato, si è proposto un capovolgimento delle categorie che stanno alla base del paradigma eziologico, considerando il crimine come «l’esito non di un deficit, ma di una ipertrofia delle opportunità»(8).

A mio avviso, il dilemma deficit-ipertrofia si può sciogliere nel senso che, respingendo nettamente la visione del crimine come patologia, per di più confinabile nel novero delle “malattie tropicali”, deprivazione e ipertrofia non sono in contrapposizione, operano entrambe come matrici criminogene, tanto a livello individuale-sociale che territoriale-planetario. «Le opportunità per i criminali organizzati nascono tanto sul terreno delle economie periferiche in crisi e destinate a ulteriore sottosviluppo, che su quello delle aree centrali pienamente sviluppate»(9).


2.4. Capitalismo e mafie

Queste riflessioni rimandano al problema di fondo, cioè al rapporto tra capitalismo e mafie. Sarebbe certamente scorretto identificarli, per la semplice ragione che fenomeni di tipo mafioso non si sono formati dovunque si è imposto il modo di produzione capitalistico. La mafia siciliana nei suoi prodromi e nei primi sviluppi è assimilabile alle forme di accumulazione primitiva ma non tutte le forme di accumulazione originaria hanno prodotto mafie. «Il capitale viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro»(10), ma le vicende ben poco edificanti che hanno contrassegnato la nascita del capitalismo non hanno originato mafie in tutte le aree in cui il feudalesimo cedeva il passo al nuovo modo di produzione. Sotto questo profilo decisiva è l’affermazione della forma Stato come monopolista della forza. In Sicilia l’oligopolio della violenza, fondato sul con-dominio di autorità centrale e signori locali, ha avuto una parte fondamentale nell’evoluzione in mafia di quelli che ho chiamato “fenomeni premafiosi”, identificabili nelle forme di delinquenza garantita, cioè di criminalità impunita, e nei crimini con finalità economica: estorsioni, abigeati etc.
Schematicamente, possiamo dire che nel processo di transizione dal feudalesimo al capitalismo nascono organizzazioni di tipo mafioso in aree circoscritte (mafia in Sicilia occidentale, triadi in Cina, la yakusa in Giappone); che il capitalismo maturo ha sviluppato tali fenomeni in presenza di determinate condizioni (immigrazione, mercati neri originati dal proibizionismo), mentre il capitalismo globale acuisce contraddizioni sistemiche e presenta convenienze che comportano l’estensione dell’accumulazione illegale e il proliferare di gruppi di tipo mafioso.

 

3. L’economia mondiale nella fase di globalizzazione: gli aspetti criminogeni

Il “capitalismo globale” non nasce improvvisamente, come un fungo, un attimo dopo la caduta del muro di Berlino. La diffusione del modo di produzione capitalistico su tutto il pianeta, l’affermarsi delle grandi imprese transnazionali, la finanziarizzazione, sono il frutto di processi avviati da tempo, per cui il dilemma: nuova fase o continuità, non mi pare che costituisca un grande problema. La novità della globalizzazione, dopo l’implosione del socialismo reale, è il “capitalismo senza alternativa”. La vera forza del capitalismo nella fase di globalizzazione non sta tanto nella sua capacità di valorizzazione attraverso l’innovazione tecnologica, che crea più, o almeno altrettanti, problemi di quanto ne risolva, incrementando contestualmente produttività e disoccupazione, quanto nell’eclisse di un antagonismo capace di elaborare e realizzare un progetto alternativo. La versione apologetica della globalizzazione mira a far passare l’idea di un capitalismo che distribuisce dappertutto benessere; le cose non stanno così, le contraddizioni si ripropongono in forma aggravata, ma non riusciremo a costruire una nuova alternativa se non sapremo guardare in faccia la realtà e renderci conto delle ragioni che hanno portato alla sconfitta dell’antagonismo così come storicamente si è configurato.
Possiamo indicare come aspetti più spiccatamente criminogeni del capitalismo nella fase di globalizzazione l’aggravamento degli squilibri territoriali e dei divari sociali, risultato del neoliberismo e delle politiche di aggiustamento strutturale; la liberalizzazione della circolazione dei capitali e l’ulteriore finanziarizzazione e opacizzazione del sistema finanziario.


3.1. La crescita del sottosviluppo

Secondo il Rapporto sullo sviluppo umano dell’Undp del 1996 negli ultimi anni la tendenza alla concentrazione della ricchezza si è accentuata, per cui mentre in quindici paesi il reddito è rapidamente aumentato, in cento paesi è altrettanto rapidamente diminuito, per cui il divario tra ricchi e poveri si è aggravato, e ciò è avvenuto anche all’interno dei paesi più ricchi. La crescita complessiva del Pil non ha comportato sviluppo ma aumento del sottosviluppo. Quindi la crescita non è un mezzo che ha per fine lo sviluppo, ma è funzionale agli interessi che determinano le politiche internazionali. La stampa ha colto del rapporto gli aspetti più appariscenti, per esempio che 358 miliardari, da Bill Gates a Berlusconi, da soli posseggono quanto due miliardi e trecento milioni di persone, cioè il 45% della popolazione mondiale, e qualcuno si è limitato a constatare che la politica degli aiuti al Terzo mondo è fallita.
A fronte di questa realtà che anche organismi ufficiali come l’Undp descrivono nelle suemanifestazioni più eclatanti, non ci vuol molto a capire, se non ci si autoacceca con l’ideologismo neoliberista, che abbiamo a che fare con qualcosa che non si può mettere nel conto delle patologie e delle disfunzioni. Tutta la vicenda del debito estero, le politiche di aggiustamento imposte dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale sono la prova inconfutabile che la marcia trionfale del capitalismo è più disastrosa della “grande depressione” del ’29.

Per cui può considerarsi una mera constatazione di fatto l’affermazione che le linee fondamentali delle politiche di aggiustamento (lo smantellamento dello Stato sociale, la liquidazione di gran parte dell’economia legale, le facilitazioni di ogni tipo offerte al capitalismo privato) configurano tali politiche come grandi fattori criminogeni che stimolano il ricorso all’accumulazione illegale e la formazione di mafie.


3.2. Liberalizzazione della circolazione del capitale e misure anti-riciclaggio

La liberalizzazione della circolazione del capitale e la creazione di grandi mercati regionali (Unione Europea, Nafta nel Nord America, Apec per l’area del Pacifico) favoriscono la simbiosi tra capitale legale e illegale e l’impiego delle tecnologie elettroniche rende sempre più difficile distinguere la natura dei capitali in trasferimento.
Le misure antiriciclaggio, già adottate almeno formalmente o in programma, sono delle misure-tampone inadeguate a fronteggiare la portata di tali fenomeni. Per di più esse spesso rimangono sulla carta, o per la scarsa collaborazione delle banche e delle istituzioni finanziarie o per la natura delle convenzioni internazionali, che anche quando sono state firmate e ratificate stentano a trovare applicazione.

Non può non farsi un confronto: i parametri di convergenza finanziaria per arrivare alla moneta unica, previsti dal trattato di Maastricht, sono molto rigidi (con tutto quello che comportano in costi sociali) e vengono considerati come delle leggi inviolabili, pena la caduta negli inferi extracomunitari, mentre le misure antiriciclaggio non solo sono inadeguate per contrapporsi efficacemente alle politiche di liberalizzazione ma possono rimanere nei cassetti, tanto nessuno ha nulla da ridire.

L’economia valica le frontiere e impone il suo ruolino di marcia, mentre il diritto penale internazionale, anche limitato al quadro comunitario, trova continui intoppi. E ciò si spiega con il fatto che le politiche di liberalizzazione della circolazione del capitale e di creazione dei grandi mercati regionali corrispondono agli interessi dei grandi gruppi finanziario-industriali, nel caso europeo in primo luogo di quelli tedeschi, protagonisti effettivi del nuovo imperialismo nella fase del capitalismo senza alternativa.

Quando si parla di riciclaggio l’attenzione va soprattutto ai cosiddetti paradisi fiscali, ma essi non sono isole sperse negli oceani, se non dal punto geografico, ma stazioni di servizio dei grandi centri del capitale. Non per caso molti di essi proliferano nelle vicinanze dell’Europa e degli Stati Uniti. Qualche esempio: il 30% delle 500 più importanti companies europee hanno società controllate nelle isole britanniche del Canale, notori tax havens, e solo nell’isola Guernsey i depositi sono dell’ordine di 64 miliardi di dollari(11).


3.3. I due aspetti della finanziarizzazione

La finanziarizzazione attuale presenta due aspetti: l’evoluzione del rapporto finanza-impresa e il boom del capitale finanziario-speculativo. Già nel corso degli anni ’70 si è cominciato a parlare di mondializzazione dell’economia e del modo di produzione capitalistico e si sono avviati studi sui processi di multinazionalizzazione dei gruppi finanziari e delle imprese industriali, che hanno analizzato soprattutto gli aspetti della compenetrazione tra finanza e impresa, della diversificazione produttiva, delle alleanze tra i vari gruppi e dei rapporti con il potere politico. Gli esempi più significativi riguardavano il Giappone, gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e l’Italia. Da tali studi emergeva un sempre maggiore governo finanziario dell’economia, attraverso la forma holding, e sulla scorta di essi ho parlato di “complesso finanziario-industriale”(12), presentando un progetto di ricerca che richiedeva la costituzione di un gruppo di studio pluridisciplinare internazionale, che non si è potuto costituire, certamente per ragioni finanziarie (per rimanere in tema) ma anche per la scarsa propensione di gran parte degli studiosi alla ricerca d’équipe.
Come si pone il rapporto finanza-impresa oggi? Per rispondere adeguatamente a tale domanda è necessario studiare i principali gruppi transnazionali, la composizione e provenienza del capitale, i meccanismi decisionali, le strategie di occupazione dei mercati, i collegamenti politico-istituzionali, l’incidenza delle privatizzazioni, il ricorso a pratiche illegali, i legami con gruppi criminali, il ruolo delle fondazioni culturali come produttrici del “pensiero unico”, etc.

Quello che è certo è che il rapporto tra investitore finanziario e management non porta a un “capitalismo popolare”, democraticamente gestito dai piccoli investitori, come vorrebbero i sostenitori della public company(13). Tale illusione s’infrange contro lo strapotere dei grandi soggetti finanziari che gestiscono i fondi pensione e d’investimenti, cioè i grandi bacini di raccolta che riforniscono di capitale le corporations transnazionali. Il caso Olivetti ha posto in luce le difficoltà del rapporto finanza-impresa in presenza di un calo di profitti e in un contesto in cui le concorrenze tra i grandi gruppi diventano sempre più difficilmente sostenibili per i soggetti meno attrezzati.


3.4. La bolla speculativa: patologia o dato strutturale?

Il capitale finanziario-speculativo è solo una bolla, un fatto congiunturale e patologico o un dato strutturale? L’imponenza del fenomeno (più di 1.000 miliardi di dollari quotidianamente in circuitazione, alla ricerca di uno sbocco speculativo) ci invita a riflettere sulla sua natura, più verosimilmente collegata con la struttura profonda del capitalismo, resa ancor più manifesta in questa fase. C’è una sovraccumulazione dei capitali che non trovano sbocco in investimenti produttivi, e ciò richiede una riflessione adeguata che faccia i conti con la tenuta della teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto e con i cambiamenti in atto nell’organizzazione del lavoro(14).
Le speculazioni sui tassi di cambio a breve termine, verso cui fluisce gran parte del capitale finanziario, sono il frutto di perturbazioni monetarie che si spiegano con la cronicità e l’aggravamento della crisi economica mondiale. Il problema è che questa crisi non è il preludio della catastrofe né tanto meno è la gestazione dell’alternativa. Condivido l’affermazione secondo cui «le crisi sono inerenti al sistema capitalistico. Ogni tentativo di abolirle (o addirittura di cambiarle) può solo cambiare la forma in cui si manifestano»(15), ma non vorrei che questa visione della crisi come fisiologia del sistema, dopo decenni di attesa, più o meno esplicitata, del crollo, segnasse il passaggio a una fase più o meno etichettabile come “fine della storia”, o del capitalismo perennemente in crisi e perennemente sopravvivente, cioè come unica storia.

Persiste nell’area della sinistra marxista una visione economicistica, della crisi e non solo di essa, che non ci aiuta a capire i processi in atto. Per spiegare la tenuta del capitalismo fino ad oggi e ancora per chissà quanto tempo, a mio avviso, occorre «una teoria integrata che tenga conto di fattori sociali e politici (la disgregazione dei soggetti potenzialmente antagonistici, le nuove strategie militari, la morte o la crisi della democrazia, la riproposizione di razzismo e fascismo etc.) e che non si attardi in considerazioni sugli sfruttati vecchi e nuovi come soggetti che scalpitano in attesa della rivoluzione»(16). Non possiamo nè attendere il crollo del capitalismo nè tanto meno pensare che l’esito disastroso delle esperienze socialiste sia il frutto di qualche disfunzione marginale che dimostra la bontà della strategia del movimento operaio nel suo complesso.


3.5. L’innovazione finanziaria come fuga dal controllo e l’opacità del sistema economico

Il contesto in cui opera il complesso finanziario-industriale, si formano i grandi mercati e cresce a dismisura il carosello speculativo è caratterizzato da un’incessante innovazione finanziaria, che altro non è che una continua e sempre rinnovata fuga dal controllo, in cui la regolamentazione è sempre parecchi passi indietro rispetto all’invenzione di nuovi canali e nuovi prodotti.
Dai fondi comuni ai derivati, con tutte le loro incarnazioni, la nuova finanza è la storia esemplare del capitale alla ricerca degli sbocchi più convenienti, con scarsa considerazione della loro classificazione come legali o illegali.

Rappresentare l’economia mondiale come un grande casinò, gestito dai “vandali”, cioè dai tecnici delle speculazioni valutarie e dagli inventori di nuove forme speculative, può sembrare una trovata da romanziere e in realtà il libro di Millman è un romanzone agiografico sulle avventure delle primule rosse finanziarie, ma non si discosta dalla realtà quando rappresenta la fenomenologia della speculazione contemporanea e la mette in relazione con il capitalismo nella fase attuale(17). Le speculazioni valutarie e di ogni genere non sono l’hobby di qualcuno pronto a sfruttare di tanto in tanto le occasioni di cui viene a conoscenza ma un’attività scientificamente condotta all’interno di società o di uffici appositamente costituiti che coinvolge anche i grandi gruppi finanziario-industriali.

La liberalizzazione della circuitazione dei capitali, la creazione dei grandi mercati regionali, la finanziarizzazione, le varie forme d’innovazione, comportano un aumento del tasso di opacità del sistema economico nel suo complesso e una reciproca convenienza a collegarsi e fondersi tra economia lecita e illecita. Ci troviamo di fronte a una duplice e convergente dinamica: la criminalizzazione dell’economia legale e la legalizzazione dell’economia criminale.

Il segreto bancario continua ad essere la regola e non può sorprendere il fatto che alla conferenza di Napoli e in altre occasioni i rappresentanti dei piccoli stati che operano come tax havens si siano opposti all’approvazione di misure restrittive. In realtà ci troviamo di fronte a un gioco delle parti: mentre gli Stati Uniti e altri grandi stati nazionali tuonano contro gli staterelli-paradisi fiscali, pur sapendo che essi svolgono funzioni a servizio del capitale, di tutto il capitale, questi ultimi si ergono a difesa delle loro prerogative, sapendo altrettanto bene di essere in mille modi legati alle grandi centrali finanziarie.

 

4. L’accumulazione illegale: risposta alla crisi e frutto delle contraddizioni sistemiche del capitalismo globale

I 500-700 miliardi di dollari annui a cui ammonterebbe il giro d’affari criminale, secondo le stime più caute, mentre altre stime danno cifre più elevate, sono il frutto di un’accumulazione che si espande sia nelle aree periferiche che centrali, cavalca le occasioni e le convenienze offerte tanto dall’aggravarsi del sottosviluppo che dalle contraddizioni sistemiche dello sviluppo capitalistico nella fase di globalizzazione. Cioè: lo sviluppo del crimine transnazionale non rispecchia tanto il caos della “giungla” quanto il capitale nel suo complesso.
Certamente la crescita dell’accumulazione illegale e il proliferare di gruppi criminali di tipo mafioso costituiscono una risposta alla crisi dell’economia legale in tutte quelle aree in cui le politiche delle agenzie internazionali e le dinamiche del capitalismo globale smantellano gli apparati produttivi esistenti e impongono l’azzeramento dello Stato imprenditore e dello Stato sociale. Ciò avviene in interi continenti come l’America latina e l’Africa, in buona parte dell’Asia come pure nei Sud presenti anche all’interno dei Nord del pianeta.

Mentre nelle aree di crisi l’attività illegale è l’unica forma di accumulazione in buona salute e offre redditi di sussistenza a chi non ne ha altri, il grosso dei capitali illegali fluisce nelle roccaforti del capitalismo e nel circuito finanziario mondiale per le maggiori convenienze offerte dall’investimento in attività legali e dagli sbocchi speculativi. Più in generale tali fenomeni sono una risposta alla crisi dell’accumulazione capitalistica nel suo complesso e l’incremento del capitale mafioso, assieme a quello del capitale speculativo, è insieme manifestazione di tale crisi e forma del capitalismo reale. Cioè, l’economia illegale non è solo la stampella di un’accumulazione legale in crisi ma opera un’interazione tra legale e illegale dovuta alla fisiologia della crisi capitalistica, così come si manifesta in questa fase. Il mercato mondiale è una realtà polimorfa e pluridimensionale, ed economia legale, sommersa e illegale più che corpi estranei appaiono come scomparti in relazione funzionale tra loro. In linea di ipotesi possiamo dire che «il modo di produzione capitalistico, nella fase di globalizzazione, attiva tutte le forme di accumulazione e l’accumulazione illegale presenta insieme i caratteri di accumulazione originaria (o di “via criminale al capitalismo”) nei luoghi periferici e per i soggetti sociali “ultimi arrivati” e di accumulazione deregolata (“via criminale del capitalismo”) che sfrutta le convenienze offerte dal capitalismo per le contraddizioni sistemiche che esso presenta»(18).

Abbiamo già parlato delle contraddizioni tra crescita e sviluppo e tra opacità crescente e lotta contro il riciclaggio; ad esse va aggiunta quella tra legalità e realtà, di cui il proibizionismo delle droghe è la prova più eclatante. Dopo 90 anni di proibizionismo ci troviamo con un consumo di sostanze psicoattive enormemente cresciuto, con grave rischio per la vita dei consumatori, e con i criminali che gestiscono il traffico di droghe ai primi posti nelle graduatorie mondiali della ricchezza. Le contraddizioni sopra richiamate si intrecciano tra loro: si pensi alle crociate antidroga degli Stati Uniti, mentre il Fondo monetario internazionale, di cui gli Stati Uniti sono il principale azionista, impone la liberalizzazione dei cambi ai paesi indebitati e ciò favorisce in America latina il riciclaggio legale dei cocadollari.


4.1. Lotta alle mafie e nuovo antagonismo

Storicamente la lotta alla mafia si è sviluppata come forma specifica della lotta di classe nella Sicilia occidentale. L’attuale movimento antimafia si configura come forma di impegno civile, legato più che altro all’indignazione dopo i grandi delitti, e ciò spiega le grandi mareggiate come pure i periodi di magra. Non si può certo ripristinare il passato, ma la lotta alle mafie non può essere soltanto la risposta emotiva alle sfide mafiose. Se si vuole che essa assuma continuità e spessore, deve diventare una delle strade attraverso cui si ridefinisce l’antagonismo e prende corpo un progetto alternativo.
Cadute le vecchie certezze, ci troviamo di fronte a problemi epocali senza una capacità di analisi adeguata né tanto meno di proposta e di progetto che rappresentino un’alternativa reale. Tale capacità può essere solo il frutto di un impegno corale dei soggetti che condividono un’analisi critica dell’esistente e si muovono in una prospettiva non astrattamente antagonista ma legata alle conflittualità attuali.

La rivista ha già cominciato a svolgere un ruolo significativo in questa direzione e costituisce un utile spazio di analisi, di documentazione e di confronto. Occorre potenziare questo strumento, anche collegandolo con altre testate, avviando iniziative comuni. Un passo ulteriore può essere la creazione di un osservatorio sui processi in corso che sia anche un laboratorio di proposte e di progetti, collegando strutture già esistenti.

Ci sono tanti soggetti che svolgono un lavoro prezioso ma rischiano di sfibrarsi nell’isolamento se non si riesce a creare un sistema di comunicazione permanente, precondizione di un lavoro a più voci a un progetto comune.

 

Note

(1)  La tesi del crimine come “american way of life” fu sostenuta da Daniel Bell in un articolo del 1953.
(2) Per una rassegna delle tesi sulla mafia rimando al mio La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995.

(3) Cfr. U. Santino – G. La Fiura, L’impresa mafiosa. Dall’Italia agli Stati Uniti, F. Angeli, Milano 1990, pp. 49 ss.

(4) Per avere un’idea di tale percorso contraddittorio, si vedano i seguenti testi di P. Arlacchi: La mafia imprenditrice, il Mulino, Bologna 1983 (dove si parla di una mafia innovatrice e destrutturata); I costi economici della grande criminalità, in Confesercenti, L’impresa mafiosa entra nel mercato, F. Angeli, Milano 1985 (dove la mafia diventa “ostacolo allo sviluppo”); Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Mondadori, Milano 1992 (dove si scopre la mafia come società segreta, rigidamente organizzata).

(5) U. Santino, La mafia interpretata, cit., p. 130. Il termine “Cosa nostra” compare per la prima volta negli Stati Uniti dopo le rivelazioni di Joe Valachi, utilizzate nel rapporto McClellan del 1963. In Italia compare nel 1984 dopo le rivelazioni di Buscetta. Nell’uso corrente la mafia viene identificata con Cosa nostra; questa identificazione vale per una parte della Sicilia, Palermo in particolare, ma ci sono organizzazioni di tipo mafioso (come la Stidda nelle province di Agrigento e Caltanissetta e i clan catanesi) al di fuori di Cosa nostra.

(6) La teorizzazione della “borghesia mafiosa” ha alle spalle l’analisi di Franchetti, che nella sua inchiesta sulla Sicilia del 1876 parlava di “facinorosi della classe media”, ed è stata sviluppata da chi scrive sulla base di un’intuizione di Mario Mineo, una delle figure più significative della sinistra siciliana. Un’esposizione sintetica di tale tesi è contenuta nel mio La mafia interpretata, cit., pp. 133 ss.

(7) Per una critica della tesi della mafia come “industria della protezione privata”, rimando al mio La mafia interpretata, cit., pp. 30 ss.

(8) V. Ruggiero, Crimine organizzato: una proposta di aggiornamento delle definizioni, in “Dei delitti e delle pene”, n. 3, 1992, p. 14. Sulle impostazioni della “criminologia critica” cfr. U. Santino, La mafia interpretata, pp. 92 ss.

(9) U. Santino, La mafia interpretata, p. 132.

(10) K. Marx, Il capitale, Libro primo, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 833.

(11) M. Chossudovsky, Global Debt and the Criminalisation of Economic Activity, dattiloscritto.

(12) U. Santino, La mafia finanziaria. Accumulazione illegale e complesso finanziario-industriale, in “Segno”, n. 69-70, aprile-maggio 1986, ripubblicato in La borghesia mafiosa, quaderno del Centro Impastato, Palermo 1994; trad. inglese The financial mafia, in “Contemporary Crises”, vol. 12, n. 3, settembre 1988.

(13) Cfr. N. Colajanni, No, non ha vinto la public company, “Il Sole – 24 ore”, 13 settembre 1996.

(14) M. Sylvers, Evviva i barbari, in “AltrEuropa”, n. 3, aprile-giugno 1996.

(15) Cfr. G. Carchedi, Crisi monetarie: il caso del Messico, in “AltrEuropa”, n. 2, gennaio-marzo 1996.

(16) U. Santino, Economia mondiale e accumulazione illegale, in “Guerre & Pace”, n. 13-14, luglio-agosto 1994.

(17) Cfr. G. J. Millman, Finanza barbara. Il nuovo mercato mondiale dei capitali, Garzanti, Milano 1996.

(18) U. Santino, Economia mondiale e accumulazione illegale, cit.

Pubblicato in “AltrEuropa”, n. 7, aprile-giugno 1997.