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Documenti e scritti vari – Cosa nostra a Wall Street, ovvero: una goccia nell’oceano

Umberto Santino

Cosa nostra a Wall Street, ovvero: una goccia nell’oceano

A sentire Mary Jo White, procuratrice generale di New York, si tratta della più vasta operazione di polizia contro la criminalità finanziaria americana, ma se si guarda alla cifra (50 milioni di dollari, equivalenti a 100 miliardi di lire) siamo in presenza di un affare di piccolissimo cabotaggio paragonato al fatturato di Wall Street: una somma del genere si guadagna o si perde in qualche minuto. Il dato più interessante dell’inchiesta sulla borsa di New York è che finalmente si comincia a puntare l’attenzione sugli aspetti più significativi dell’evoluzione dei fenomeni mafiosi. Di riciclaggio del denaro sporco, di penetrazione dei gruppi di criminalità organizzata nei mercati finanziari si parla ormai da tempo, ma senza il dovuto approfondimento in sede scientifica, tolte pochissime eccezioni, e senza risultati apprezzabili sul piano giudiziario.
Nel nostro paese era già chiaro fin dagli anni ’70 che i mafiosi, mantenendo salde le loro radici, cioè continuando ad esercitare la signoria territoriale nelle forme storiche, a cominciare dalle estorsioni, avevano imboccato la strada della grande accumulazione, con i traffici internazionali di droghe, e della finanziarizzazione, in parallelo con processi che riguardavano l’economia legale. Ma parlare di “mafia finanziaria”, negli anni ’80, quando il verbo ufficiale era dominato dalla scoperta della “mafia imprenditrice”, significava votarsi all’isolamento se non alla derisione.
Negli Stati Uniti invece si dava per scontata la morte di Cosa nostra, sotto i colpi micidiali di Rudolf Giuliani, che da procuratore aveva sperimentato la “tolleranza zero” nei confronti dei vecchi capimafia prima di esercitarla come sindaco sui microcriminali, soprattutto se di colore. Ora riappaiono le famose cinque famiglie newyorkesi (i Gambino, i Lucchese, i Colombo, i Bonanno e i Genovese) come se fossero miracolosamente risorte e trasformate in postmoderne incarnazioni della New Mafia.
Bisognerebbe avere l’onestà di riconoscere che le idee di mafia che continuano a circolare sono inadeguate, che troppo spesso si dà credito a stereotipi infondati e fuorvianti come il proclamare “capi dei capi” contadini semianalfabeti, che al massimo possono capitanare l’ala militare, come se fosse difficile capire che una serie di operazioni di vitale importanza per l’esistenza delle organizzazioni criminali, quando non si dispone di esperti “fatti in casa”, come nel caso della famiglia Cuntrera-Caruana, non può che essere affidata a tecnici reperibili sui mercati nazionali e internazionali e che entrano a pieno titolo a far parte di quelle categorie benemerite che non per vezzo ideologico si possono definire “borghesie mafiose”. Senza questi collegamenti, che attraversano il mondo economico e istituzionale, le mafie sarebbero anticaglie da musei di folklore locale.
Cosa ci dice l’operazione antifrode americana? Che tra i 120 arrestati ci sono 57 brokers, 12 consulenti, 30 manager di società quotate in borsa, 2 dipendenti di società di contabilità, un gestore di hedge funds (un tipo di fondo comune d’investimento) i quali operavano in nome e per conto di mafiosi che all’occorrenza usavano le cattive maniere, fino alle minacce di morte, in piena continuità con lo stile dei padri. Qualcuno ha parlato di “fine del padrino”, forse avendo come riferimento quella sorta di Bibbia della mafiologia corrente che fu il romanzo di Puzo, mentre mi pare più rispondente alla realtà parlare di una mafia che sa adeguarsi ai mutamenti del contesto, sperimentando le opportunità offerte dalla new economy e utilizzando la collaborazione di soggetti che sanno come si opera in borsa e come si maneggiano gli strumenti della speculazione finanziaria.
Infiltrarsi nelle banche d’investimento, fondarne di nuove, organizzare società fantasma, costruire bilanci falsi e certificati di bilancio contraffatti per collocare aziende inesistenti in borsa: non sono arnesi del mestiere del mafioso, il quale sa benissimo come si fanno le estorsioni e quali metodi intimidatori sono più efficaci. Da questo incontro tra modalità dell’agire mafioso e prestidigitazioni finanziarie nasce una mafia in grado di marciare con il passo dei tempi.
Il metodo usato nella frode di Wall Street è quello che in gergo si chiama pump and dump (pompa e getta): gonfiare i valori di alcuni titoli (in questo caso quelli della Ranch 1, una società che gestisce una catena di ristoranti), indurre, o costringere, gli investitori (e molti di essi erano fondi pensione di sindacati più o meno legati ai mafiosi, come dire che in parte la frode è stata giocata in famiglia) a comprare. Dopo qualche tempo i mafiosi liquidavano le loro posizioni e incassavano gli utili. Conclusione: i titoli ben presto crollavano e i compratori restavano a bocca asciutta. Un trucco che veniva proficuamente sperimentato già negli anni ’20.
Al di là del trionfalismo della procuratrice di New York e del battage dei media, l’inchiesta sta a dimostrare che dei legami tra crimine e finanza si sa, o si vuol sapere, molto poco e si riesce a scoprire ancora meno. E ciò non è dovuto soltanto ai ritardi della legislazione, all’inefficienza degli apparati investigativi, ma soprattutto alla complessità, che non vuol dire inconoscibilità, dei processi in atto. Le misure antiriciclaggio, anche quando ci sono sulla carta, non solo vengono regolarmente boicottate dalle banche e restano inapplicate perché mancano o sono carenti gli strumenti necessari, ma sono inadeguate a fronteggiare fenomeni che si inscrivono nelle dinamiche del mercato capitalistico nella fase attuale. Non ci sono solo i paradisi fiscali, che secondo i dati del Fondo monetario internazionale gestirebbero duemila miliardi di dollari. Ci sono processi fisiologici che accrescono il tasso di opacità del sistema finanziario, il cui comandamento principale continua ad essere il segreto bancario, e fanno lievitare la massa di capitale speculativo in circuitazione permanente alla ricerca degli sbocchi più redditizi. Qualche anno fa si parlava di mille miliardi di dollari quotidianamente in circolazione, oggi l’ammontare sarebbe lievitato ulteriormente (1.500-1.800 miliardi). Non tutto il capitale speculativo è di provenienza illegale ma esso indubbiamente è il grande calderone in cui si mescolano capitali legali e illegali, accomunati dalla volontà di sfuggire al controllo fiscale e dall’intento speculativo. E per avere un’idea del potere del capitale finanziario basti pensare che la Tobin tax, che prevede un prelievo dell’uno per cento sui redditi provenienti dal commercio di valute (le fluttuazioni valutarie sono uno dei terreni più fruttuosi della speculazione), fu proposta dall’economista americano nel 1972 e non è stata ancora introdotta. Siamo in presenza di una vera e propria dittatura dell’economia finanziaria (che va dalle operazioni di borsa tradizionali, come le azioni, alle incessanti creazioni dell’innovazione finanziaria: futures, derivati ecc.) sull’economia reale, produttrice di beni e servizi, ridotta ormai a poco più dell’1 per cento del totale degli scambi.
A completamento del quadro c’è da aggiungere che le politiche delle agenzie internazionali (la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione per il commercio mondiale) sono criminogene, perché, in nome della globalizzazione e della competitività, dogmi indiscutibili del “pensiero unico”, rafforzano l’economia dei paesi ricchi e smantellano quella dei paesi più deboli, aggravando gli squilibri territoriali e i divari sociali. In questo contesto si spiegano il ricorso all’accumulazione illegale e il proliferare di gruppi criminali di tipo mafioso, che non sono residui intramontabili del passato ma l’altra faccia dei processi di modernizzazione.
Per dare un’occhiata a ciò che accade a casa nostra, si è posto il problema se anche le mafie nazionali operino in borsa, in particolare nella milanese Piazza Affari. Nel 1991 venne arrestato a Milano Giuseppe Lottusi, amministratore unico della società Interpart Finanziaria, che riciclava per conto dei Madonia di Palermo impiegando varie tecniche e operando nelle borse di Londra e di Francoforte. L’idea più diffusa è che le mafie nostrane siano ancora legate all’investimento immobiliare, si limitino a gestire subappalti e ad accatastare mattoni, ma da tempo esse sono andate più in là. L’uso della moneta elettronica, via Internet, ormai è alla portata di tutti e nel febbraio del 1995 a Catania è stato arrestato un certo Giuseppe Cannizzo che aveva a disposizione un miliardo di dollari, appartenente alla famiglia Santapaola-Ercolano, da riciclare attraverso le reti telematiche. Allora il denaro fu bloccato in Svizzera ma non si sa che fine abbia fatto l’inchiesta. Finora in Italia l’azione antimafia ha cavalcato emergenze e si è configurata come risposta ai grandi delitti e alle stragi, accumulando ritardi dell’ordine di una decina d’anni rispetto all’evoluzione del fenomeno mafioso.
L’inchiesta sulla borsa di New York certamente ha sottratto una goccia all’oceano, ma contiene un’indicazione valida, anche se parziale: i mercati finanziari sono particolarmente permeabili e il futuro, già cominciato, delle organizzazioni criminali passa per quei paraggi. Ma il problema di fondo riguarda la formazione dei flussi di capitale illegale. E di una strategia preventiva, capace di incidere sui terreni, vecchi e nuovi, dell’accumulazione mafiosa, fino ad oggi non si vede traccia.


Alcune indicazioni bibliografiche

U. Santino, La mafia finanziaria. Accumulazione illegale del capitale e complesso finanziario-industriale, in “Segno” n. 69-70, aprile-maggio 1986, ora in Idem, La borghesia mafiosa, Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”, Palermo 1994; Crimine transnazionale e capitalismo globale, in S. Vaccaro (a cura di), Il pianeta unico. Processi di globalizzazione, Elèuthera, Milano 1999.
G. Colombo, Il riciclaggio, Giuffrè, Milano 1990.
AA. VV., Criminalità e finanza, il Mulino, Bologna 1992.
G.J. Millman, Finanza barbara. Il nuovo mercato mondiale dei capitali, Garzanti, Milano 1996.
L. Donato – D. Masciandaro, Criminalità e intermediazione finanziaria. Economia e diritto, Edibank, Milano 1997.
M. Chossudovsky, La globalizzazione della povertà. L’impatto delle riforme del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998.


Schede sulle famiglie mafiose di New York

Genovese. Circa 300 affiliati. Il capo è Vincent Gigante, 68 anni, condannato a 20 anni di carcere. Attività: estorsioni, appalti, traffico di droga, gioco d’azzardo.
Gambino. Circa 200 affiliati. Il capo John Gotti Sr., 55 anni, è in carcere con una condanna all’ergastolo. Il figlio, John Gotti Jr, 32 anni, sarebbe in lotta per il comando con Frank Corallo. Attività: gioco d’azzardo, traffico di droga, usura.
Bonanno. Circa 100 affiliati. Il nuovo capo, in sostituzione di Joe Bonanno, 95 anni, sarebbe Joseph C. Massino, 53 anni. Attività: gioco d’azzardo, usura, traffico di droga, videopoker. Sarebbe la famiglia emergente.
Lucchese. 50-60 affiliati. Il capo è Vittorio Arnuso, 61 anni, in carcere con una condanna all’ergastolo. Attività: usura, traffico di droga, estorsioni.
Colombo. 50-60 affiliati. Il capo è Carmine Persico Jr., 63 anni, in carcere con una condanna all’ergastolo. Attività: gioco d’azzardo, usura, traffico di droga.

1982: debutto a Wall Street

New York, 24 marzo 1982. Due distinti signori si presentano negli uffici della Merril Lynch, la società di brokeraggio più grande del mondo. Hanno un milione di dollari, in contanti, e vogliono investirli in borsa. Uno dei due signori è Franco Della Torre, svizzero di Lugano, già direttore della sede elvetica della finanziaria milanese Finagest, ora dirigente della PGK Holding; l’altro signore è Philip Salamone. Gli agenti della FBI hanno seguito le mosse dei due dopo aver pedinato mafiosi notori, come Joseph Gangi, Philip Matassa e Onofrio Catalano, e dopo aver intercettato incontri e telefonate fra Italia, Usa e Svizzera. Dalla Torre era stato fotografato in un bar di New York, seduto con due persone: Salamone, il suo gorilla, e Vito Palazzolo, di Terrasini, in provincia di Palermo, di casa in Svizzera e negli Stati Uniti. Salamone è il portaordini del gruppo Bono-Salamone-Catalano; Palazzolo in Italia è il rappresentante del boss di Detroit Joseph Tocco, in Svizzera cura gli interessi della famiglia Salamone attraverso operazioni di compravendita di merci con la Traex Company, una società con sede a Lugano, diretta da Enrico Rossini.
I soldi di Dalla Torre vengono accettati e investiti. Garantisce la società di Rossini. Nel mese di aprile Dalla Torre investirà altre somme: in tutto 4 milioni e 900 mila dollari.
Dopo la scoperta della presenza mafiosa negli investimenti in borsa la Merril Lynch liquida tutte le operazioni in corso e rifiuta ogni contatto con Della Torre, che si rivolge a un’altra società, la E. F. Hutton. Presso questa società lavorava come rappresentante legale un certo Thomas Kavallier, che altri non era che il Vito Palazzolo originario di Terrasini. Dall’ordinanza di rinvio a giudizio di Della Torre risulta che egli ha versato in tutto, prima alla Merril Lynch e poi alla Hutton, 18 milioni e 300 mila dollari. E questo nell’ormai lontano 1982.

Da A. Cipriani, Mafia. Il riciclaggio del denaro sporco, Casa Editrice Napoleone, Roma 1989, pp. 37 sgg.

Pubblicato su “Avvenimenti”, 25 giugno 2000, con il titolo: Le vie della “new mafia” , pp.16-18.